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C'era Vento

4. C’era vento

- Universo X -


“Tempo maledetto!”
L’autunno chiamava, ormai riprendeva possesso dei giorni che aveva prestato all’estate.
E lo faceva con gli interessi.
Il cielo era una tavola d’alabastro, con le nuvole addensate ed ammassate una sull’altra, spinte da un vento prepotente.
Più distanti, cirri neri s’avvicinavano minacciosi e carichi di pioggia.
Tuttavia John, un giovanotto dalle spalle larghe e dai capelli biondi, non impiegò più di due minuti per rifugiarsi all’interno della sede della facoltà di Medicina.
Gli occhi celesti, nascosti dietro ad un paio di spesse lenti, sembravano spaesati. Era la prima volta che entrava in quell’ateneo, dato che studiava alla facoltà di storia; non aveva mai avuto né l’interesse né la possibilità di entrare lì.
L’ambiente era vasto ma più scarno e meno elegante di quello della sua facoltà. Qui e lì c’erano studenti più o meno grandi appoggiati a tavolini di alluminio leggeri e seduti su sedie dello stesso materiale. Le pareti bianche, sporcate da qualche pedata incivile, raffreddavano l’ambiente. Stesso effetto procurate dalle luci al neon.
E siccome c’era vento, c’era tanto vento, la pettinatura del giovanotto dalle spalle larghe era sconvolta.
Talmente sconvolta da far ridere una giovane donna. Giovane donna dal sorriso molto dolce.
Quello sorrise a sua volta ed arrossì, tendendo il maglioncino di filo azzurro che indossava e cercò di domare la bionda chioma con una mano.
Inutilmente.
“No, non ci riesci” sorrise ancora quella. Si alzò e prese per mano il ragazzo, fino a portarlo al tavolino dove stava studiando. Quello le guardò la mano che lo stringeva.
Piccola, delicata, le unghie ben curate ed un braccialetto con tanti ciondoli. La maggior parte erano cuori.
“Siediti qui” disse lei, offrendogli una sedia.
“Ok” sorrise timidamente il ragazzo.
“Non ti ho mai visto da queste parti” fece ancora, dopo aver preso una spazzola dalla borsa. Cominciò a pettinare i biondi capelli del ragazzo. Erano morbidi e la rilassava.
“Infatti non appartengo a quest’università. O almeno non a questa facoltà”
“Che facoltà frequenti?”. La ragazza posò la spazzola, carezzò la testa dello sconosciuto dal maglioncino blu e sorrise.
“Storia”.
“E che ci fai qui?”.
“Avevo bisogno di una pettinata da una sconosciuta. Siete tutte così, qui?”
E sorrisero entrambi.
“Comunque mi chiamo John” disse quello, offrendo la mano alla ragazza. Quella l’accolse e la strinse.
“Marta”.
“Hai davvero un bel nome”.
“Grazie” sorrise la giovane, imbarazzata. John riconobbe in lei quella peculiarità delle belle donne.
Già, il solo vederla sorridere lo faceva sorridere; e non solo per via di quelle belle labbra, che incorniciavano una griglia di denti bianchissimi, ma per via del sole che nasceva dai suoi occhi, di quell’insolito color cremisi.
“Di niente. Sei molto espansiva”.
“Beh, non tutti lo vedono come un pregio...”.
“Hanno ragione. Sarei potuto essere un maniaco”.
“Lo sei?”.
“Il peggiore”. Sorrisero ancora entrambi.
La guardava. I gomiti puntellati sul tavolino, il mento poggiato su di una mano mentre con l’altra faceva passare una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio. Aveva abbassato il volto, e guardava i suoi appunti. John non fu in grado di capire cosa trattassero. Forse era anatomia.
“Dopo che fai?” chiese lui, come la persona spavalda che sarebbe sempre voluto essere.
“Dopo vado a lezione”.
“Intendo dopo le lezioni” sorrise sardonico quello.
“Ah... beh, niente... torno a casa, preparo il pranzo a mia sorella e studio”.
“Hai una sorella?”.
“Sì, si chiama Irya”.
“È un nome fantastico”.
“Lo so. Vorrei anche io un nome così particolare”.
“Il tuo nome non ha niente che non va. È un nome perfetto. Come il tuo sorriso”.
E quella arrossì ancora più violentemente. “Grazie, gentleman”.
“Beh, dovevo lusingarti un po’ per la...” si indicò la testa “...pettinata ...allora che ne dici? Ci vediamo stasera? Alle 8 magari, nella piazza di Edesea”.
“Sì... va bene” sorrise ancora Marta, timidissima.
“Sotto la statua di Arceus?”.
“Ok” sorrise ancora. “Scusami, ma devo andare”.
“Oh, non preoccuparti... anzi... tra un po’ dovrei essere a lezione anche io... il che mi ricorda che è molto tardi! Dannazione, come passa il tempo! Allora a stasera!” sorrise ancora John, che prese la sua borsa e si alzò di corsa, per uscire dall’atrio della facoltà di medicina.

La luce di quel bagno non le rendeva abbastanza giustizia abbastanza: Marta era splendida quella sera.
Gli occhi, di quel vermiglio così particolare, venivano risaltati dalla cornice di mascara che s’era messa.
Erano il centro dell’espressione del suo viso.
Oltre alle bellissime labbra, truccate finemente.
Si era vestita con gusto: non aveva esagerato, né era rimasta troppo sui canoni che il clero aveva stabilito per la donna, più di mille anni prima; Aveva messo una giacca di pelle nera, aperta leggermente sul seno, che copriva una camicetta bianca e sotto un sobrio jeans. Poi un paio di stivali.
I capelli, indomabili come sempre, erano stati regolati da sua sorella Irya. Nonostante fosse più piccola di lei, aveva più gusto in quelle cose.
“Stai benissimo, stasera farai breccia. Hai con te Eevee? Nel caso ti debba difendere” faceva la più giovane.
“Sì, tranquilla, nella borsetta ho già preparato tutto il necessario. Ma non credo ne avrò bisogno. È un ragazzo davvero carino”.
“Mi voglio fidare di te...” fece, come una madre apprensiva e in ansia.
“Anche io. Stasera non far venire a casa il tuo ragazzo che se torno prima e vi trovo insieme vi uccido...”.
“Tranquilla. Se ti vedesse la mamma sarebbe...” Irya poi sorrise. “Fiera. Fiera di te. E di sé stessa, per come ti ha cresciuto, pace all’anima sua”.
“Già” Marta abbassò il capo. Lo faceva spontaneamente ogni volta che si parlava dei suoi genitori.
“Beh... sono quasi le venti. Non farlo aspettare troppo”.
“No... aspetterà solo il necessario”.

“Mi ha dato buca... è l’unica spiegazione” sospirò John, appoggiato al basamento della statua di Arceus, nella piazza centrale di Edesea. Il vociare era basso e lento, e qualche lampione qua e là macchiava di luce il vasto ambiente. Alti palazzi circondavano il centro, e come spettatori indiscreti guardavano tutto quello che succedeva.
“Sì... è l’unico motivo. Cioè venti minuti di ritardo sono davvero troppi...” continuava a parlare tra sé e sé.
“Beh, le donne si fanno aspettare” rispose qualcuno.
John si irrigidì e quindi si girò di scatto.
Marta era lì davanti. Ed era lo schianto degli schianti.
“Oh... eccoti. Finalmente”.
“Mi spiace averti fatto aspettare molto”.
“Figurati. Era l’ansia a parlare”.
Marta rise. “I capelli ti stanno bene”.
John sorrise, si sistemò il solito ciuffo ribelle che cadeva sempre sulla fronte e si appiattì la camicia bianca. Sopra indossava una giacca beige.
“Sei bellissima stasera”.
“Anche tu stai molto bene”.
“Ho prenotato in un ristorantino molto carino”.
“Ho molta fame in effetti”.
“Chiedi e ti sarà dato” sorrise John.


I due si frequentarono per i successivi tre anni, quando un giorno molto soleggiato di novembre lui si presentò a casa di lei.
Bussò al campanello, nello stomaco il solito nodo fastidioso. Sentiva i passi rimbombare sul pavimento oltre la porta nera di legno che aveva di fronte.
Si avvicinavano velocemente, e si accorse di essere davvero nervoso. Con la mano si deterse il sudore sulla fronte e poi la passò sui pantaloni, giusto in tempo per vedere la porta aprirsi.
Irya. La sorella di Marta.
“Oh, cognata... sei tu. Marta non c’è?”.
“Sì, è dentro, dorme”.
“Posso entrare?”.
“Certo” sorrise quella.
Irya non assomigliava per niente alla sua donna: capelli neri e pelle chiara e due occhi azzurri come il cielo incastonati in un viso delicatissimo.
John entrò in casa delle due e vide Irya sgambettare velocemente nella sua stanza. Aveva appena iniziato il secondo anno di università, e si stava dando da fare con lo studio.
Frequentava la facoltà di storia, proprio come John.
La casa delle due ragazze era sempre in ordine. Il corridoio era buio, di solito usavano tenere le porte delle stanze chiuse. Una forte luce entrava però dall’ultima stanza a sinistra.
Era la camera di Marta.
John prese a camminare lentamente nel corridoio, con il nodo in gola che si stringeva sempre più e le farfalle nello stomaco.
Non doveva pensare al fatto che stesse facendo un passo molto più lungo della gamba.
Di una gamba troppo giovane, forse.
Sentimenti ed altre cose stupide.
Entrò nella stanza di Marta e la vide subito; era lì, sul letto.
I capelli erano legati in una coda di cavallo, che reputava tanto comoda quanto antiestetica.
Gli occhi erano chiusi, quasi fosse esanime, e le labbra rigonfie. Il suo respiro era profondo. Sorrise, John, vedendola indossare una felpa di tre taglie più grande, che aveva rubato proprio a lui.
Ecco, non era un tipo che adorava agghindarsi, ma anche così conciata John non poteva fare altro che pensare a quanto bella fosse la sua donna dagli occhi rossi.
Si sedette sul letto, senza ricevere nessun segno da parte della bella addormentata, che anzi si adattò al ragazzo, andando ad incunearsi attorno alla sua schiena.
“Amore...”.
Quella emise un lamento che si avvicinava ad un muggito.
 “Devo dirti una cosa importante”.
L’occhio sinistro della ragazza si rifiutò categoricamente di aprirsi ma quello destro fu più ragionevole.
“Hmmm...”.
John riuscì ad ottenere solo quello da lei.
“Va beh... Sono di la con Irya, le do un aiuto a studiare. Quando ti svegli raggiungimi...”. Si alzò e fece per andarsene quando si bloccò.
“Oh, dimenticavo...”. S’inginocchiò accanto a lei, le prese la mano e la baciò sulla fronte, poi si alzò e se ne andò.
La stanza di Irya era praticamente di fronte.
“Hey... Serve un aiuto?” chiese.
Irya si girò velocemente. “Sì. Non sto capendo niente”.
“Che stai studiando?”.
“Battaglia del Plenilunio, John...” sbuffò Irya, spostando un ciuffo corvino dagli occhi.
“Oh... uno dei miei argomenti preferiti...”.
“Puoi darmi delle delucidazioni?” chiese la giovane.
“Solo se finisci di usare questi paroloni”.
Irya sorrise e lo fece accomodare. John la guardava sorridere e vide in lei un piccolo sprazzo di Marta, ma per il resto dovette ammettere che le due non sembrassero per niente sorelle.
“Beh... cos’è che non hai capito?” chiese lui.
“Praticamente niente. Questo cristallo dov’è che è, adesso?!”.
“Ancora oggi non lo sappiamo”.
“Bene... Quindi due eserciti si sono sfidati, mille anni fa, ma nessuno dei due è riuscito ad ottenere il cristallo”.
“Beh, non è proprio così. Prima, l’oracolo, potrebbe averlo distrutto. Ma i due eserciti non si contendevano il cristallo; infatti combattevano Ingiusti contro Templari, e gli ultimi erano, praticamente, le guardie del tempio”.
“Qui parla di due grandi guerrieri...” faceva la ragazza, con gli occhi sul libro, che non riuscì quindi a vedere John annuire.
“Beh, sì, erano generali. Adamo era il generale dell’esercito degli Ingiusti, mentre Timoteo era il capo dei templari... Un uomo valoroso, è da lui che hanno scelto il nome per Timea. La luna era piena ed alta in cielo, perciò quell’episodio viene ricordato col nome di Battaglia del Plenilunio”.
“La vinsero gli Ingiusti...” lesse Irya.
“Sì... Più o meno. Ecco, ci sono parecchie controversie, ma nessuno è in grado di dire che poi Adamo riuscì a mettere le mani sul cristallo”.
“Ma siamo sicuri che questo cristallo esista davvero?”.
“Credi in Arceus?” chiese John, di getto.
“Certo, che domande sono?!” esclamò Irya, ridendo.
“E allora devi credere anche a quel cristallo. Arceus ha sempre avuto un oracolo, una donna, vergine e dall’animo puro. Prima è l’ultima di cui ci siano pervenute le tracce”.
“Ah, allora è così che è andata...”.
“Non è poi così difficile”.
“Spiegato da te è più facile, è vero... hai riassunto velocemente trenta pagine... questi libri sono davvero troppo dispersivi!”.
“Ti consiglio lo stesso di dare un’occhiata al testo”.
“Ok. Grazie John” sorrise Irya, solare come sempre.
“Di niente”.

 Due ore dopo, Marta si svegliò. Confusa e forse ancora un po’ stanca. Sentiva Irya ridere. Sembrava che qualcuno si stesse divertendo con lei. Sperò non si fosse trattato del suo fidanzato, perché si sarebbe arrabbiata. Non voleva che i due rimanessero da soli senza nessuno che li controllasse. Inoltre non gli era molto simpatico, lo guardava sempre in malo modo, trovando negli occhi di quello una malizia cattiva.
Si alzò, infilando i calzini e poi le pantofole rosa, quelle con la pallina di peluche sulla punta.
La curiosità ed il senso di responsabilità la portarono nella stanza della sorella.
E vide il suo fidanzato.
“John! Che ci fai qui?!”.
“Beh... Dovevo dirti una cosa, a dire il vero. Due ore fa”.
“Allora non era un sogno! Avevo sognato che volevi svegliarmi!”.
“No, era vero” sorrise lui, alzandosi dalla sedia e raggiungendola. Quella felpa enorme nascondeva la sua fragilità. Lei poggiò la testa sul suo petto e lo abbracciò.
“Sei dimagrito” sentenziò poi.
“Vuol dire che mangerò di più”.
“Che dovevi dirmi?”.
Lui la lasciò dalla forte stretta ma le mantenne lo stesso le mani, che non uscivano dal maglione dalle lunghe maniche.
“Ho parlato con il mio professore. Ha bisogno di un assistente per le sue ricerche”.
“Non vorrai dirmi che...”.
“Sì, Marta. Dopo la mia tesi di laurea, comincerò a lavorare con il professor Trevor”.
“È fantastico!” sorrise lei, gettandosi di nuovo sul suo ragazzo.
“A... a questo proposito...” John fece un passo indietro, e si inginocchiò, mantenendo la mano destra di Marta. Tirò indietro la manica della felpa, andando a scoprirle la mano, delicata e ben curata.
“Il posto che ho ottenuto è ben remunerato, tesoro. E questo mi permette di mettere in pratica i miei progetti. Primo tra tutti appesantire questa mano”.
Tirò fuori un pacchetto, un piccolo cofanetto per anelli.
Lei spalancò occhi e bocca, la sorpresa che provava quasi la rendeva immobile.
Una lacrima scese dai suoi occhi.
“Che piangi a fare? Apri questo pacchetto, e non perder tempo!”.
Lei sorrise e prese il pacchetto, lo aprì e vide un bell’anello, semplice, sobrio, con un brillante incastonato al centro di una corona d’argento. L’anello le sorrideva. Sarebbe stato da maleducate non ricambiare.
“Marta. Vuoi diventare mia moglie?”.
“...”.
“Vuoi sposarmi?”.
“Sì” fece lei, con un filo di voce. Nella testa sentiva suoni di campane ed il battito del suo cuore, emozionato al massimo ed eccitato dalla situazione.
Andò ad immaginare in un istante quello che sarebbe stato il suo futuro più prossimo e sorrise, in lacrime.
“Ti amo!” esclamò, disperata e felice allo stesso tempo, quando John le infilò l’anello al dito.
 “Ti amo anche io, Marta”.
“Sì!” esclamò lei, gettandosi nuovamente tra le braccia del suo uomo. Irya rideva divertita ed intanto il suo sguardo si bagnava di lacrime di commozione.                                 

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