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Consigli Utili 8

9. Sulle Ali Del Coraggio

- Universo X -

La amavo. Amavo quel brivido, quando sentivo battere da lontano le sue ali, quando sentivo la sua voce. Quando la percepivo, mentre si avvicinava.
Mia madre. Amavo mia madre, ed amavo starle accanto. Amavo il fatto che amasse me, che amasse mio fratello. Amavo il fatto che amasse, ed amavo il fatto che non avrebbe mai smesso.
Amavo perfino quel posto, così pieno di vento e di rumori strani. Di tanto in tanto quelle enormi aquile di ferro volavano rumorose sopra le nostre teste.
Quella di mamma, quella di Samuel e quella mia.
Piccoli ancora noi, con le nostre piume spelacchiate, mi sono sempre chiesto il motivo per cui Samuel ed io fossimo di colori diversi.
“Tu sei speciale” mi ricordava in continuazione mamma. Io sapevo già di essere speciale, ma un po’ mi dispiaceva il fatto che Samuel avesse gli stessi colori della mamma mentre io...beh, mentre io avevo i colori del sole sulle mie piume.
Samuel no, era grigio, come la mamma. Samuel non si lamentava mai, stava sempre zitto.
Ero io quello che faceva confusione. Me ne stavo ore ed ore intere a blaterare su quanto bello sarebbe dovuto essere volare, proprio come faceva la mamma.
Librarsi nell’aria fresca, sentire il vento trapassare le mie piume, ed il becco raffreddarsi picchiando contro il muro d’aria.
Samuel mi ascoltava sempre, sorrideva quando lo faceva.
E mi diceva che un giorno sarei diventato l’aquila più forte. Mi diceva che nessun Braviary sarebbe stato alla mia altezza.

*
                                                                               
Il ticchettio dell’orologio a parete a sfondarle i timpani, rimbombare nella testa e detonarle nella mente.
Aveva bisogno di fumare, J, e bere un po’ di whiskey. Aveva la bottiglia di Jack Daniel’s proprio davanti agli occhi, accanto alla finestra che dava sul parco di Cuoripoli.
Tuttavia doveva rimanere lucida, non mancava molto e sarebbe arrivata la facoltosa cliente che quella mattina le aveva bloccato la giornata; sarebbe andata tranquillamente a fare compere, magari si sarebbe chiusa nel suo ufficio con un po’ di musica ed avrebbe degustato qualche bicchiere del buon liquore che le avevano portato da Johto.
Non sarebbe stata professionale però. I soldi prima di tutto, nulla contava di più.
La Contessina Pardieu, figlia del più facoltoso imprenditore di Kalos, era giunta in jet fin lì. Aveva parlato di caccia grossa, quella, ma J non sapeva bene a cosa si riferisse di preciso. Insomma, il suo lavoro non era così difficile, almeno non quello che succedeva in ufficio: un cliente entrava, gli diceva che Pokémon gli servisse e J glielo procurava, ad un prezzo esorbitante.
Poi tutto finiva lì.
Quella volta però era diverso: le aveva già anticipato che la meta del suo viaggio si sarebbe trovata ad Unima.
Mai stata in quella regione, lei. La regione dei ponti, sorrise pensando a quella cosa.
Leggeva le newsletter per gli attrezzi da caccia mentre tamburellava la penna sul piano della scrivania.
Nuovi stivaloni, nuovi guanti, un cappello traspirante per i periodi invernali. Buoni per la caccia all’Abomasnow.
La luce che entrava dalla finestra era fredda. Suo nonno le diceva sempre che quando i raggi del sole erano bianchi poco dopo le nuvole avrebbero fatto la propria comparsa.
Pensò che avrebbe voluto essere a casa sua, in quel momento, ma voleva assolutamente comprare quel fucile ad alta precisione con mirino laser che aveva visto su internet. Insomma, doveva chiudere quel lavoro, era sicura che sarebbero entrati tanti soldi.
Mentre pensava al cubano che aveva lasciato spegnere la sera prima, la porta del suo ufficio si aprì. Una caviglia femminile entrò in quell’ufficio cupo e così maschile, stretta da un cinturino di una decolleté assai costosa. La linea s’ammorbidiva sul polpaccio prima di celarsi dietro il tessuto rosso di un vestitino Chanel, costoso più delle scarpe, e poi oltre, alle spalle, dove una pelliccia di Abomasnow faceva ampio contrasto con i capelli corvini della bellissima donna. Indossava occhiali da sole a mosca, ed una collana di zaffiri e rubini.
Pregevole, lei, non aveva più di trent’anni.
 “Buon pomeriggio, signora J” fece lei, con voce limpida.
“Buon pomeriggio” rispose la donna, molto più anziana e segnata dalla vita della Contessina. “Si accomodi”.
La donna eseguì, sorridendo ed accavallando le gambe.
“Mi fa molto piacere conoscerla... Insomma, lei è un’istituzione tra i cacciatori. La più affidabile”.
“Mi lusinga. Come è venuta a conoscenza di quello che faccio?”.
“Il Marchese di Ceneride, quel brav’uomo”.
“Ricordo” fece J, spostando i capelli argentei dalla fronte. “Aveva bisogno di dodici Houndoom, ricordo bene”.
“Le porto i suoi saluti”.
“Meraviglioso. Lei invece?”.
“Mi chiamo Frida Pardieu, e come ben sa sono figlia dei Conti di Luminopoli. Se sono qui, naturalmente, non è per parlare del Marchese...”.
“Di che Pokémon ha bisogno?” tagliò corto impazientemente la Cacciatrice.
“L’altra sera ero ad una festa esclusiva. Ebbene, entra la principessa di un posto sperduto del centro Europa con un cappello meraviglioso, fatto con le piume di un Braviary. Come ben sa, i Braviary sono Pokémon...”
“Altamente territoriali e difficili da catturare. Ne avrà uno per ventimila Pokédollari”
La Contessina sporse le labbra ed inarcò le sopracciglia. “Beh...un po’ cara, ma immagino sia il prezzo da pagare quando assumi la migliore. Ed io voglio quel cappello”.
“Pagamento con anticipo dell’ottanta percento e saldo prima di ricevere il Pokémon, nessuna negoziazione”.
“Lei è una donna risoluta” sorrise Frida Pardieu. “Aspetto sue notizie”.
“Senz’altro” chiuse apatica, J.

Passarono poche ore e la Bracconiera si stava già preparando per quell’operazione; catturare un Braviary non era per niente facile.
I Braviary sono dei Pokémon vendicativi e territoriali, che non sopportano intrusi nel proprio territorio e che stampano nelle loro menti i fatti significativi.
Uscita dalla doccia, infilò velocemente il reggiseno sportivo, finì di vestirsi e si fermò davanti allo specchio.
Nonostante stesse per entrare in quella sezione che inizia dai cinquant’anni e che termina con la dipartita, J si sentiva fresca ed atletica. Il suo viso era disteso, ma qualche cicatrice di troppo attestava come una laurea le sue esperienze andate storte.
Quella più profonda era la firma di un Aggron, dei suoi artigli d’acciaio.
I capelli grigi erano corti, ed il viso era smunto, pulito dal trucco, mascolino.
Infilò il lungo soprabito nero ed in quella giornata di forte pioggia decise di prendere il suo speciale aeroveicolo e di uscire.
Era particolare, quello, perché volava ad una velocità altissima, ed in più era grande, e conteneva gabbie capaci di contenere enormi Pokémon, come Tyranitar e Mamoswine.
Quel giorno la sua truppa era stanca. Il sonno aveva segnato le notti senza riposo dei suoi mercenari, che avevano seguito il loro capo stakanovista alla ricerca di un Mismagius.
J si sedette al suo posto, accanto ai piloti, e velocemente si diresse verso Unima, ai piedi della vecchia Via Vittoria.
 
*

Mamma ancora deve tornare. Beh, è strano, anche se pensandoci non lo è poi così tanto. Piove moltissimo. Quando piove così è difficilissimo trovare il cibo, e lei si impegna sempre così tanto per farci crescere.
Quasi mi spavento ogni volta che vedo quelle luci nel cielo, con quei rumori forti, ma mamma mi ha spiegato che i fulmini sono cose naturali, e che fin quando sono nel mio nido, al riparo dall’acqua, non devo avere paura di nulla.
Samuel dorme. Dorme sempre, e mi chiedo spesso come faccia.
Io aspetto la mamma sveglio. Voglio vederla, ho fame, voglio stare accanto a lei, riscaldarmi tra le sue piume ed asciugare l’acqua che si è annidata tra le mie.
Le mie piume dorate.
Samuel parla poco però, e non ha le piume gialle come le mie. Ho chiesto a mamma per quale motivo io le avessi gialle e Samuel blu e mi ha risposto che già me lo aveva detto, anche se non me lo ricordavo.
Mi ha detto: “Harmony, tu sei speciale. Proprio come il tuo papà”.
E quando gli ho chiesto cosa fosse un papà, lei mi ha risposto soltanto con un sorriso, e poi è volata via.

Allora l’ho chiesto a Samuel, ma non mi sono accorto che dormiva.
E poi ho dimenticato di domandarlo. Quando la mamma tornerà a casa, gli domanderò cos’è un papà.
I rumori sono strani. Delle volte sono forti, altre volte sono piccoli, bassi e sottili, e quasi bisogna impegnarsi per sentirli. Ma io li sento. Io sento tanti rumori. Quando Samuel è sveglio, giochiamo a chi sente più rumori ed io vinco sempre. E non imbroglio, non dico di aver sentito un rumore quando invece non è così! No! Io li sento per davvero! E mamma è fiera di me per questo, ma poi Samuel si dispiace e mamma lo bacia sulla testa.
Ma anche io voglio i baci da mamma.
 
*

“Capitano J” fece uno degli uomini della Cacciatrice.
Quella mosse lentamente il capo verso lui. “Che vuoi?”.
“Siamo quasi arrivati. In questa zona montuosa è molto facile incontrare dei Braviary”.
“Bene. Cerchiamo un bell’esemplare e catturiamolo”.
“Con questa pioggia però non sarà semplice...”.
“Tranquillo. Ci penso io”.
 
*

Un rumore!
Si è proprio un rumore!
Samuel! Lo senti questo rumore?! Samuel?!
Uff...Samuel sta dormendo. Quando mamma non è nel nido dorme sempre. È davvero di pessima compagnia.
Comunque è un rumore quello che sento! E non parlo di quello della pioggia! No! Questo è il rumore che fanno le aquile di metallo!
E poi quello è il grido di mamma!
Mamma! Mamma! Siamo qui!
Ma...mamma sta volando troppo veloce...mamma! Mamma!
 
*

“Dobbiamo prenderlo! Dobbiamo catturare quel Braviary!” urlava J, alzatasi improvvisamente dalla sua sedia, innervosita. “Usate il liquido adesivo!”.
Dall’aeroveicolo di J partirono due spruzzate di un liquido rosa, viscoso, ma il volo di Braviary si modificò, in modo da non essere colpito.
Dopodiché virò, cercando di allontanarsi il più possibile dal nido. Non voleva che quei cacciatori potessero trovare Samuel ed Harmony.
“Dannata aquila! I laser!”.
Due raggi incandescenti, rossi, ruppero la tranquillità montana. Quello sparato dal cannone di destra si infranse sulla parete rocciosa. Quello sinistro pure.
Braviary volteggiava in aria, modificando la propria traiettoria di volo e cercando di non farsi beccare. Si avvitò su se stesso, urlando ai figli di stare tranquilli, di non muoversi e soprattutto non urlare, perché semmai si fossero fatti sentire, Harmony sarebbe stato in forte pericolo. Harmony era dorato.
Harmony era speciale.
Virò verso l’alto, continuando ad evitare i fendenti luminosi incandescenti lanciati dalla nave madre della disfatta, e prese a volare in verticale.
“Si vuole nascondere in una nuvola!” disse J, arrabbiata. “Ma noi ti seguiremo anche lì! Alziamo la quota usando i motori verticali!”.
La aeronave prese a salire senza modificare l’inclinazione del veicolo.
I cannoni puntavano in cielo, miravano l’aquila e colpivano le nuvole, che per tutta risposta lasciavano piovere più forte di prima.
“Non è possibile! Dobbiamo prenderlo! Usate il muro!”.
Il capitano dell’aeroveicolo sbarrò gli occhi. “Il muro?! Ma è impazzita?! Ad alta quota potremmo schiantarci tutti!”
“Non è il momento di andare contro le mie decisioni! Voi siete pagati per lavorare! Ed ora attivate il muro!”.
Al pilota parve d’ingoiare un grosso malloppo di terreno, quindi giostrò con le manopole che aveva davanti.
Il resto lo fece automaticamente l’aeronave.
La zona tra i due cannoni si aprì, creando un fossato di pochi metri al di sopra del veicolo.
“Ora!” urlò J, che vide un enorme muro di luce laser partire verso il cielo.
Il sistema della nave ne risentì. D’improvviso la navicella prese a perdere quota, e a scendere velocemente.
“Stabilizziamoci con le eliche d’emergenza!”.
“Non so se c’è abbastanza energia!” rispose il pilota.
“Disabilitate i cannoni laser allora!” fece J, afferrando un maniglione.
“Non dobbiamo più catturare Braviary?” chiese sgomento l’uomo, impaurito. Certo, non aveva voglia di morire, ma i paracadute erano già stati inventati.
J levò gli occhiali scuri dal volto, e ghignò.
Davanti alla nave stava cadendo il corpo esanime del Braviary che stavano inseguendo.
“Perfetto” fece il pilota, e cominciò la manovra di atterraggio e di recupero del “premio”.
 
*

Mamma! No! Mamma! Mamma, perché vogliono farti del male?!
Mamma, ti prego, torna qui da noi!
Perché vogliono farti male? Perché non ti fanno tornare qui da noi?!
E...e perché adesso stai cadendo giù?
Mamma...
Mamma.
 
*

“Toh...ma guarda tu...” fece Zack, camminando per quelle montagne. Era anche lui in cerca di un Braviary, ma si sarebbe accontentato anche di un Rufflet.
Aveva sempre sognato di possedere quel Pokémon; lo affascinava.
Un Pokémon regale, pieno di orgoglio e forza. Un Pokémon che voleva per la sua squadra.
Pioveva a dirotto ma lui credeva d’esser fatto di titanio, quindi non si curava delle giornate uggiose. Aveva l’impressione che quel giorno avrebbe catturato il Pokémon che voleva e quindi decise di sfruttare l’occasione, uscendo.
Rimase però assai contrariato quando vide tutta la scena, coi  bracconieri che avevano atterrato un Braviary. Si nascose dietro ad un cespuglio e ragionò: erano troppi, la sua squadra non era pronta per fronteggiare più di trenta cacciatori di Pokémon.
Da lì riusciva chiaramente a sentir pigolare i cuccioli di quel Braviary; fortunatamente i cacciatori erano in quel trabiccolo infernale pieno di bip ed attrezzature ipertecnologiche e non riuscivano a fare altrettanto.
Strinse i denti, Zack, con la voglia di lanciare una granata contro quell’aeronave che atterrava ma si costrinse a stare in silenzio per il bene dei cuccioli. Attese la cattura della madre e vide il grosso aeromezzo allontanarsi nel cielo, quindi sospirò.
“Gente di merda...” sospirò. Seguì quindi la voce dei piccoli e, sotto la pioggia che scrosciava, cominciò ad arrampicarsi sulla montagna.
Era un folle. Stava facendo una cosa rischiosissima, ma il pigolio dei Rufflet lo spingeva ad andare avanti.
Piangevano.
Puntellò i piedi su di una roccia che sembrava salda alla parete e si sollevò. Cercò appoggio con i piedi ma non lo trovò e si costrinse a sollevarsi sulle braccia; più su sicuramente sarebbe riuscito a trovare appoggio.
Proprio mentre stava per sollevarsi però la mano destra scivolò, lasciandolo penzoloni soltanto con la sinistra e lo strapiombo sotto di lui.
“Dannazione...”.
Bastava girarsi, poi sarebbe sceso e tutto sarebbe finito lì, però i Rufflet piangevano e pensò al fatto che sarebbero cresciuti in totale solitudine.
Erano sicuramente troppo piccoli, neppure potevano volare altrimenti, territoriali com’erano quei Pokémon, subito sarebbero andati in aiuto della madre.
No, sarebbero morti.
E Zack non avrebbe condannato due cuccioli.
Si voltò e riafferrò la roccia su cui faceva presa, quindi fece nuovamente forza, fino a sollevarsi completamente. Dapprima in ginocchio, poi in piedi, c’era riuscito.
Non era morto, e quello era già un gran risultato.
Aveva imparato a scalare sul Monte Argento. Non ne aveva avuto una bella esperienza, gli ospedali non erano felici di rivederlo, a Johto.
Però mancava poco, quindi piede sullo spuntone e mano nell’insenatura, preghiera ad Arceus ed un ultima bruciante trazione, che lo portò proprio dove voleva: sotto un enorme masso vi era un’insenatura abbastanza ampia. Il nido, costruito con legnetti e paglia, era protetto dalla pioggia.
“Eccovi...” sorrise Zack, con le braccia che bruciavano.

*

Mamma.
La mia mamma... La nostra mamma... Samuel dorme ancora.
Non ha visto.
Samuel non ha visto quello che è successo. Ma io si.
E non riuscirò mai a dimenticarlo. Tutto rimarrà dentro di me, quell’aquila di metallo dovrà morire. Dovrà cadere, proprio com’è caduta la mia mamma. Perché la mia mamma è sparita via con lei.
Odio l’aquila di metallo.
Odio tutto.
Ho fame. Come devo fare? Morirò, perché non so volare. E Samuel dorme e non so come fare. E mi sento perso.
E...e chi è questo qui?!

*

A Zack bastò poggiare due Pokéball sulle loro teste per catturarli. Non opposero nemmeno resistenza. Zack intascò le sfere e capì che doveva fare in modo di svezzarli.
Si presentò al centro Pokémon di Boreduopoli, e si avvicinò all’Infermiera.
“Buonasera...vorrei che visitasse questi due cuccioli”.
Quando quella fu in grado di vedere Harmony spalancò gli occhi.
“Santo cielo! Ma è rarissimo!”.
“Lo so davvero molto bene. Ma...ma non è questo che conta”.

*

Samuel si è svegliato, ed in un modo o in un altro sono riuscito a spiegargli quello che è successo.
Samuel ha pianto.
Samuel era triste. Gli ho detto che sarei stato in grado di trovare la mamma, e di vendicarla.
E poi Zack, si chiama così? Ci ha messi su un tavolo, e ci ha guardati. Carezzava Samuel, che sembrava meno spaventato di me.
Io avevo paura. Mamma diceva che le persone come lui abitano nelle aquile di metallo. Lui mi farà del male?
No. Non mi farà del male, perché adesso ci sta facendo mangiare. Samuel mangia con velocità, voracemente: ha molta fame.
Io però non riesco a mangiare. Io ho negli occhi quelle immagini, che non si staccano dalla mia mente. Non riesco ad andare avanti.
Non riesco a dimenticare.
E non riesco a capire perché Zack mi stia fissando così profondamente.
Smettila. Mi infastidisci.

*

“Che farai con due Rufflet adesso?” chiese l’Infermiera, mentre Zack guardava Harmony.
Erano passate diverse settimane e lui, che era rimasto in quelle zone, aveva fatto la sua conoscenza. Si chiamava Guenda ed aveva ventitré anni.
“Di due Rufflet non me ne faccio niente. E non costringerò uno di loro a vivere in una sfera se non lo userò”.
“Quindi?”.
“Quindi ne libererò uno”.
“Ne libererai uno?!”.
“Già...libererò questo cromatico”.
“Eh?! Ma sei completamente rincretinito?!”.
Zack sorrise e carezzò la testa di Harmony, fissandolo nei suoi piccoli occhi, vispi e contemporaneamente spenti.
“Probabilmente è così, sono rincretinito. Ma questo Rufflet...questo qui non può stare rinchiuso in una sfera. Sarebbe come tagliargli le ali. Nei suoi occhi sventola la bandiera della libertà, e la brama di qualcosa che noi non riusciamo a capire. No, Guenda... terrò questo normale e libererò quello dorato”.
“Oh...come...come vuoi...” fece la ragazza, perplessa.
“Ora devo andare... Puoi assicurarti di liberarlo nella zona adatta?”.

*

Samuel è andato. L’ho salutato con un po’ di dispiacere, e con un pizzico di gelosia. Vivrà mille avventure ora, ma apprezzo molto Zack.
Ha capito.
Ed anche io ho capito. Ho capito che finchè non diventerò più forte non potrò andare avanti.
Ho capito che dovrò volare.

*

L’incedere del tempo era lento ma inesorabile. E così le stagioni passavano, le foglie nascevano dalle piccole gemme sugli alberi, quindi crescevano, ingiallivano e cadevano, infine si spezzavano sotto la morsa del gelo.
Le ali di Harmony si allungarono, diventando più forti, le sue piume più folte ed il suo orgoglio più radicato. Ma la sua mente era tesa al raggiungimento di un solo ed unico scopo.
Capire.
Capire il motivo per cui un organismo debba volutamente fare del male ad un altro organismo. Erano esseri pensanti, in grado di prendere decisioni.
Perché quella cacciatrice aveva deciso di prendere sua madre?
Harmony sostava dove c’era il suo nido.
Delle volte gli mancava Samuel ma forse era meglio che fosse andato con Zack. Avrebbe vissuto una vita migliore.
Lui invece scrutava il cielo, aspettando che quell’aquila di metallo passasse.
Tuttavia un giorno successe qualcosa.
Sentiva qualcosa rompere il silenzio della montagna: il fogliame ed il sottobosco erano spostati dai passi di qualcuno.
Passi umili, passi innocenti, vogliosi solo di godersi lo spirito e l’aria della natura.
Un ragazzo, un giovane ragazzo, camminava con le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre l’aria pungente gli passava tra i lunghi capelli, di uno strano colore tendente al verde, coperti dal suo berretto bianco e nero.
Nella testa qualche pensiero strano, molta confusione, ed una strana ed inspiegabile felicità di essere in quel posto.
Gli alberi lo tranquillizzavano. La natura lo faceva stare bene.
Sistemò meglio i capelli quindi sospirò, continuando a camminare.
Uscì dal bosco, alla fine il tappeto di foglie, rami e terreno fece posto alla parete di una montagna.
Quello si fermò, ed alzò gli occhi. Sentiva che quella montagna fosse  il nascondiglio di una grande sofferenza.
“Vieni” disse poi. “Di me puoi fidarti”. La voce di quello era soave, gentile, ma allo stesso tempo autoritaria e sicura.

Cosa vuoi?

“Voglio solamente parlarti. Sento che stai male, avverto la tua sofferenza, e voglio curarti dai tuoi mali”.

Sono affetto da un male che non scompare.

“Come mai lo dici?”

Perché il male è capitato davanti ai miei occhi, e si è impresso nella mia mente, come se fosse stato scolpito. Il male non può andare via così.

“Fatti vedere. So che hai fame, e qui ho qualcosa per te”. Quello bastò per vedere un’aquila gettarsi dalla parete della montagna, e librarsi dolcemente fino a poggiare le zampe per terra.
Gli artigli arpionarono il terreno umido.
“Ciao. Io mi chiamo N”.

Io sono Harmony.

“Sei un Braviary bellissimo, e pieno di forza interiore. Ma anche pieno di rabbia”.

La voglia di rivalsa che mi perseguita fa di me quello che sono.

N sospirò, e sorrise dolcemente. Levò lo zaino ed affondò le mani, fino a cacciarne dei poffin.
Harmony non sapeva cosa fossero ma, diffidente, li assaggiò dalle mani gentili di N.
La fame chiamava, lui rispondeva, ed N era un buon interlocutore.
In qualche modo il Principe cercò di conquistare la fiducia di Harmony, e sembrò esserci riuscito.
Qualche ora dopo il pallido tramonto si manifestò stanco, colorando di rosso i visi di Harmony ed N.
“Vuoi parlarmi di quello che ti è capitato?”.

In realtà non vorrei. Non vorrei per niente ricordare quelle scene, ma più respiro e più ricordo che se lo faccio è grazie a mia madre.

“Tua madre ha fatto qualcosa di male?”. N voltò lo sguardo verso Harmony, quindi cercò con pazienza di attendere il verdetto, il risultato vano delle sue parole. Ma quello continuava a fissare il sole.

Mia madre non avrebbe mai potuto fare niente di male. Ha messo al mondo me e Samuel, ci ha sfamato, ha lottato con tutte le sue forze per non morire e per far sì che non ci succedesse niente, ed anche quando stava per essere sconfitta dai cacciatori, si è allontanata dal nido, per tenerci protetti e al sicuro. Il problema non è mia madre. Niente di ciò che ha detto o ciò che ha fatto, no.
Il problema sono i cacciatori.

N deglutì un boccone amaro, quindi si chiese cosa sarebbe successo se la madre di Harmony fosse andata in casa di quel cacciatore ed avesse ucciso una persona.
No, non è la stessa cosa, per niente.
Non quando si tratta di difendere i diritti degli esseri umani. Gli umani possono tutto, questa terra è stata creata soltanto ed esclusivamente per loro, e sono loro a decidere se un’altra specie animale può o non può viverci.
“Mi spiace molto...eri già grande?”.

Avevo poco più di un mese, N. Poco più di un mese. E non dimenticherò mai quelle immagini, quelle scene. Stampate, marchiate nel mio petto.

“Stai vivendo di vendetta”.

Sì, può essere. Ma anche di rivalsa, di voglia di farmi sentire.

“La vendetta non è mai la via giusta...”.

Le mie vene sono ricolme di sangue nero, per l’odio. Devo liberarmi da questo peso, e vendicarmi. Uccidere il cacciatore.

“Harmony...se fai della tua vita un mezzo per l’odio e la vendetta ti traghetterai verso l’autodistruzione. Non voglio convincerti di nulla, sei abbastanza giudizioso da poter andare avanti da solo, con le tue scelte. Ma presta bene attenzione a quello che ti dico. Ove mai tu, un giorno, arrivassi a vedere nel cielo l’aquila di metallo, e ci piombassi a capofitto sopra, attaccandola, facendola schiantare ed ammazzando tutti i cacciatori che ci sono dentro, saresti felice?”.
N guardò fisso il volto di Harmony, che indugiò guardando il sole.

Non sarei di certo felice, ma sarei libero dai pensieri.

“Ma questo non porterà di certo indietro tua madre”.

No, non lo farà. Ma io devo far capire a quel cacciatore che ha sbagliato. E se non lo fermerò io, potrà fare lo stesso con qualche altro Pokémon, che non avrebbe la fortuna di essere catturato da un Allenatore subito dopo.

“Cacciare i Pokémon è molto sbagliato. Per me è sbagliato anche catturarli, pensa te...”.

In effetti se adesso ci fosse Samuel con me mi sentirei meno solo, e potrei stare con lui. Mi manca molto.

“Parlami di lui”.

Non siamo stati molto assieme. Ma era un tipino nella norma. Dormiva quasi sempre, aveva spesso fame, ed era più serio di me. Ricordo che si impaurì molto quando vide la mamma, l’ultima volta. Io fermo immobile e lui irrequieto. Poi è venuto Zack e da lì abbiamo girato pagina.

“E perché Samuel è con Zack e tu no?”.

Che avrebbe dovuto farsene di due Rufflet?

N sorrise, carezzandolo. Sentiva di voler bene a quell’aquila.
“Sei proprio sicuro, Harmony, che non ti sentirai in colpa una volta levato a dei bambini il padre, o la madre, ove mai esso sia un Cacciatore?”.

Lui ha pensato a me?

“No. Ma tu non sei lui. Tu sei tu”.

Io sono io. E penso da me...grazie di tutto N, ma adesso devo andare. L’allenamento mi aspetta.

“Grazie della tua compagnia. Un giorno verrò a cercarti”.

Grazie a te, e scusami se sono sembrato irragionevole. Anzi, mi ha fatto molto piacere parlare con te. Se questa vicenda finirà bene io sarò qui, ad aspettarti.
 
*

J guardava il suo orologio, continuava a farlo, convinta che prima o poi l’avrebbe fatto esplodere con lo sguardo.
Alla parete alle sue spalle vi erano le teste di alcuni dei Pokémon catturati, di cui solo le pellicce erano state utilizzate. Un Tauros, uno Stantler ed un Ursaring imperavano inquietanti e guardavano con occhi smorzati la porta che avevano di fronte.
La donna guardò la casella mail ma niente di nuovo. L’ultima comunicazione risaliva ad una commissione da parte di un agricoltore arricchitosi con la vendita delle bacche che cercava un Espeon.
Pensò che i soldi non facessero bene a tutti.
A lei invece erano serviti: aveva un ufficio davvero ben arredato, con gusto minimale, che era costato davvero parecchio.
Lì dentro sentiva il suo ego smisurato trovare pace, affogato dalla luce delle lampade di cristallo satinato con luce bianca.
Per lei tutti i Pokémon che aveva catturato erano solo un buco in più da inserire nella cintura smisurata delle efferatezze di cui non le importava.
Mors tua vita mea, era questo il dettame che la portava a fare quello che faceva, e poco importava se quel “tua” era riferito alla madre di un numero indefinito di cuccioli, perché quella madre aveva potenzialità economiche assurde, e più raro era il Pokémon maggiore era il guadagno.
J fissava lo schermo del pc, leggendo d’improvvise migrazioni di Pokémon.
“Niente di interessante...”. Niente che poteva vendere al mercato nero.
Il telefono poi squillò, donando linfa a quel momento di vita spenta.
“Sì?” chiese J, cercando di smorzare il fastidio che stava subendo dal non avere il JD tra le mani.
“Parlo con J, la cacciatrice?”.
“Chi la cerca?”.
“Sono la Contessina Pardieu”.
“Ne è passato di tempo...” sorrise sorniona la più anziana.
“Sei anni, Cacciatrice. Spero che lei sia ancora in campo”.
“Sempre titolare”.
“Beh, mi fa piacere. Se non altro mi sono trovata bene la prima volta e non vedo perché cambiare. Il suo lavoro è stato impeccabile”.
“Come sta il suo piumino?”.
“Oh, bene. Di tanto in tanto lo indossavo, ma era quasi sempre mia figlia ad usarlo, giocando a fare la diva del cinema, con tanto di sigaretta tra le labbra”
J cercò di sembrare più divertita possibile, senza riuscirci. Odiava quei comportamenti forzati.
“Diceva?”.
“Dicevo che mia figlia di sei anni utilizzava il piumino fatto con le piume di quel Braviary, ma l’ha deteriorato tutto, ed io necessito di un piumino di piume di Braviary la settimana prossima, per un importante convegno. Lei conosce per sommi capi il mio mondo, quindi non le sto a spiegare, ma devo fare la mia figura, ed ho bisogno di un altro piumino, fatto proprio con le piume di un Braviary”.
“Quindi le serve un altro Braviary... Certamente”.
“Mi spiace molto averla telefonata senza aver stabilito un appuntamento... Per il disturbo arrecato ci sarà anche un piccolo incentivo, accanto alla somma che lei mi dirà”.
“Benissimo”.
“Di quanto parliamo?”.
“Cinquantamila”.
“L’altra volta me lo fece pagare la metà...” fece, con tono quasi lamentoso, la Contessina.
“Ora è così. I Braviary stanno migrando, e per raggiungerli c’è bisogno di più tempo, quindi di più denaro. Dovrò acquistare del carburante per la navetta, pagare cibo e stipendi alla ciurma. Ma entro la settimana prossima avrà il suo piumino”.
“Ne ero sicura” sorrise la donna.
“La chiamo io”.

*

Manca una parte al mio cuore, qualcosa che hanno tutti e che nessuno apprezza. I genitori sono qualcosa di prezioso. Io mio padre non l’ho mai conosciuto ma sicuramente mi ci sarei affezionato tantissimo. E poi mia madre è scomparsa, lei che era il mio cuore e stravedeva per me. Mi ha lasciato qui a vegliare il cielo in cerca di una speranza, a tentare di colmare il vuoto che la rabbia mi ha creato dentro.
Forse le parole di N vanno oltre il significato più ovvio. Forse c’è un significato più profondo.
Mi manca la voce di N.
Mi diceva di riflettere. Di essere coscienzioso, di pensare al fatto che potrei fare a qualche cucciolo di umano la stessa cosa che è successa a me.
Lui poi vivrebbe con la voglia di vendicarsi di me... ma in questo modo la cosa non finirà mai.
La vendetta non è la strada giusta, N ha ragione.
Ma proprio adesso mi sto rendendo conto che non posso rilassarmi, né chiudere gli occhi, prima di aver sporcato i miei artigli di quel sangue.
Il sangue che calmerà la mia anima, e pulirà la mia coscienza.

*

“Capitano J, signora, siamo arrivati nella zona di cattura dei Braviary. Ci mimetizziamo col territorio circostante per non farci individuare”.
“Perfetto, Coulder... Attendiamo in silenzio e pazientemente, prima o poi uscirà fuori”.
Ma niente accadeva e, dopo tre ore passate a scrutare il cielo girandosi i pollici, J si chiese se tutti i Braviary di quella zona non fossero morti sotto la neve di quei giorni.

*

Il freddo è terribile. Vorrei essere a dormire adesso, nel mio nido, tranquillo e caldo, coccolato da mamma e da Samuel, ma non posso. Devo vedere, guardare il cielo, controllare il passaggio dell’aquila di metallo.
Devo controllare l’aquila di metallo.
L’aquila...l’aquila di metallo...
L’aquila di metallo!
 
*

J non sopportava la neve. Le ricordava i momenti da bambina quando tutti fuori giocavano e si divertivano. C’era Ellie, la ricordava; Ellie Scott, la ragazzina che abitava di fronte la sua finestra da bambina. Quella correva fuori a giocare con i suoi fratelli maggiori, non appena cominciava a nevicare. J non aveva mai avuto alcun fratello.
Poi subito dopo usciva il papà di Ellie Scott, e giocava con loro, cominciando a lanciarsi palle di neve.
J non aveva avuto neppure alcun padre. O una madre, ma dal buio della sua stanzetta dell’orfanotrofio era in grado solo di vedere casa Scott, e casa Scott era come la casa delle pubblicità dove l’alito di chi si sveglia è fresco ed i capelli già pettinati.
J odiava la neve. Sì, perché le faceva ricordare del fatto che non avesse mai avuto una famiglia.
E questa cosa la stizziva perché tutti bambini avevano una famiglia.
Tranne lei, ovviamente.
Quel giorno, di neve ne stava cadendo proprio tanta. E la nave invisibile viaggiava a velocità di crociera tra le montagne, cercando di avvistare un Braviary da portare alla pretenziosa Contessina.
Quella donna le stava antipatica fin sui capelli.
D’un tratto, mentre la neve scendeva lenta e copiosa, un urlo d’aquila si espanse nella valle.
J spalancò gli occhi, quando poi sentì un tonfo sordo provenire dal soffitto dell’aeronave.
“Cosa succede?!” urlò a Coulder.
“Non lo so, Capitano!” rispose quello, allarmato
“Ho sentito il grido di un Braviary!”.
“È un Braviary, signora” disse uno dei macchinisti, indicando uno schermo che trasmetteva le immagini di una telecamera.
“È un Braviary cromatico! Salirò sopra, disattiva la mimetizzazione!”.

*

Non so il motivo per cui l’aquila di metallo sia prima apparsa e poi sparita, ma non ho potuto lasciar perdere l’occasione. Devo riuscire a sconfiggerla! E non saranno questi raggi di luce a fermarmi!
Il cacciatore non sa che io ho vissuto con questo ricordo nella testa per tutta la mia vita!
Non sa che ho benissimo a mente le capacità dell’aquila di metallo!
Non sa che so tutto!

*


J mise piedi sulla superficie fredda e colma di neve del tetto dell’aeronave, salendo attraverso una botola. Il Braviary cromatico era lì davanti, a schivare i raggi laser, e quando la macchina andava in sovraccarico Braviary usava Troppoforte su uno dei motori.
Come se sapesse già tutte le cose da fare, tutte le debolezze ed i punti nevralgici dell’aeronave.
“Fermati! Uccellaccio che non sei altro!” urlò J.
 
Fermarmi?! Tu non hai idea di quanto io sia lontano dal fermarmi!

I raggi laser continuavano a non andare a segno, mentre Harmony volava valorosamente, riuscendo ad evitare i fendenti di luce. Quella luce che scottava.
J lo vedeva, mentre si librava nell’aria, con quella grazia inarrivabile, con l’eleganza e la forza d’animo di cui erano dotati. A lei piaceva; aveva voglia di guardarlo.
Quasi non avrebbe voluto catturarlo. Quasi avrebbe voluto tenerlo per sé, tra i suoi beneamati Pokémon cacciatori.
“Galvantula! Vai!”

Ora che hai mandato il ragnetto pensi che mi riuscirai a sconfiggere? Io i ragnetti li mangio!

“Galvantula, usa la tua ragnatela e cerchiamo di immobilizzarlo!”

Prova a prendermi!

E così Galvantula spruzzò la sua ragnatela sull’avversario, non riuscendo a prenderlo: Harmony riusciva a schivare i laser con grazia, passare ad attaccare i motori dell’aquila di ferro, ed intanto lottare contro l’avversario.
“Galvantula! Vai con Fulmine!”
E dalle nuvole di neve partì un enorme fascio d’energia, che però non andò a segno. Almeno non per J. Intelligentemente, il Pokémon Volante s’era nascosto sotto l’ala destra dell’aeronave. Proprio sotto al motore. Il Fulmine infatti lo colpì mettendo immediatamente il sistema di equilibratura dell’aeronave fuori gioco. Il veicolo perse bilanciamento, cominciando a girare sul proprio asse.
J si allarmò. “Dannazione!” urlò.
In quel modo sarebbe caduta dal tetto della nave. Avrebbe dovuto volare con un suo Pokémon, ma aveva un Salamence, e non poteva utilizzarlo sotto la neve. Ipoteticamente, anche quel Braviary avrebbe dovuto risentire dello sforzo e del gelo, ma pareva non curarsene. Continuava ad attaccare con furia il motore di destra, che sembrava stare per cedere.
“Coulder! Fai qualcosa!” urlò J, più arrabbiata di sempre. “E tu Galvantula! Vai e catturalo nella tua ragnatela!”.

È fredda la neve. La neve è troppo fredda ma io devo continuare. Devo attaccarti, devo sconfiggerti, devo distruggerti. Devo fare in modo che tu veda la morte e che essa ti abbracci.
Devo eliminarti, perché sei un fantasma del mio passato.
E sono stanco di sentirti ridere nella mia testa.
Odio la neve. Si è incastrata tra le piume.
E mi fanno male le ali, il becco e gli artigli, per via degli attacchi sul motore, ma devo continuare! Non posso perdere quest’occasione!

 Galvantula camminava senza alcun problema sulla superficie della nave resa gelida dal freddo e molto agilmente arrivò verso Braviary.
Autonomamente, senza il bisogno dei comandi di J, prese ad attaccare Harmony, utilizzando Fulmine e Tuono, ma ciò non faceva altro che rallentare la fine di quella vicenda. Harmony era troppo veloce per lui, e tutti gli attacchi andavano a finire sul motore danneggiato.
Galvantula capì che avrebbe dovuto cambiare approccio, altrimenti non sarebbe riuscito a catturarlo.
Allora si avvicinò velocemente, cercando di immobilizzarlo con la ragnatela, ma Braviary si allontanò, arrivando a distanza di sicurezza.
La navetta continuava a ruotare lentamente sul proprio asse, raggiungendo una rotazione di novanta gradi. Harmony si era alzato in volo, ed un grosso tuono gli riempì le orecchie. La neve scendeva impetuosa, e Galvantula sembrava risentirne.

.. Attaccarlo...devo attaccarlo...

Prese a sbattere le ali nel modo più forte che poteva, fino a formare del vento. Era un attacco Raffica.
Galvantula si sforzava di rimanere saldo su quell’acciaio scivoloso, mentre il vento e la neve lo investivano massicciamente.

Cadi! Dannazione, cadi!

Fendette l’aria con l’ala destra, ed una lama tagliente si abbattè su Galvantula.
Eterelama.
Quello perse la presa, sbatté contro l’aeronave quindi cadde giù, nel vuoto, ma lanciò un filo vischioso che andò ad attaccarsi sulla superficie inferiore del grosso mezzo di trasporto.
Galvantula cominciò a risalire il filo ma Harmony lo stava puntando.

Pensi di esserti salvato...non oggi...
 
Il Braviary partì veloce, indurendo al massimo le ali; le ritrasse e scese in picchiata. Harmony vedeva la neve scendere lentamente, e quindi Galvantula cominciare a preparare un attacco elettrico dalla bocca. Allargò l’ala destra e recise il filo viscoso che lo teneva ancorato alla nave.
Quello lasciò partire l’Energisfera, che colpì l’ignaro Harmony proprio sull’ala.
Gridò, l’aquila, ma sopportò il dolore, con la neve che si poggiava sulle piume a mitigare il bruciore esteso che lo stava possedendo. Vide però cadere nel baratro il Pokémon che l’aveva lanciato, perdendosi oltre le cime degli alti alberi spogli.
Galvantula era morto.
Alzò poi il volto, guardando il motore di destra quasi distrutto. Non mancava molto e allora si rituffò con foga.

Voi...dovete...morire...e i vostri figli soffriranno...come ho sofferto io!

Si gettò a capofitto, con tutta la rabbia che aveva in corpo, e partì con un attacco Troppoforte. Tuttavia il motore sembrava resistere. Gridò nuovamente, gli artigli gelidi affondarono nella carcassa metallica del rotore di destra e cominciarono a dilaniare tutto ciò che si muovesse.
Era però così distratto che non si accorse di ciò che stava per succedere: J, alle sue spalle, lanciò una rete con un fucile enorme, che lo catturò.
Harmony urlava, con la rabbia che lo assaliva, e mentre veniva issato su da Coulder sentiva la voce di J, che rideva malignamente.
“L’abbiamo preso! L’abbiamo preso!”.

Che tu sia maledetta! Io ti fermerò! Non farai più del male a nessuno!

Coulder lo aveva sollevato e gli occhi di J e di Harmony si erano incontrati. Quelli dell’aquila parevano bruciare.
“Sei mio!” urlò la donna, leggermente sudata, impaurita e fiera.
Harmony continuava a gridare, e l’odio l’assalì così tanto che prese ad agitarsi, a muoversi con ferocia, per liberarsi da quella rete. L’aquila blu non demordeva: afferrò le maglie della rete con gli artigli e col becco, e sbattendo le ali, in una danza di piume che volavano via stanche, aprì uno squarcio in quella prigione metallica ed altamente resistente. Si avventò quindi subito su Coulder, che inciampò perdendo l’equilibrio, cadendo giù nel vuoto.

Cacciatrice... ora sei solo mia!

Harmony si gettò con foga sulla donna. J aveva gli occhi sbarrati. Il cuore le batteva forte nel petto e sembrava essersi paralizzata alla vista del Braviary.
Ingoiò un groppone enorme e guardò giù: era un bel salto.
La giornata era stata pesante, pensò, come anche l’ultimo periodo. Che vita aveva condotto?
Non riusciva a pensare a nulla di positivo, non aveva prodotto niente di buono durante la sua tragica esistenza. Tornò a guardare l’aquila, poi vide giù, osservando la macchia di sangue che usciva dal corpo di Coulder.
Pensò al fatto che in ogni caso non si sarebbe potuta salvare: non avrebbe mai avuto il tempo di chiamare fuori uno dei suoi Pokémon, né di prendere una delle armi che aveva vicino alle caviglie.
Era spacciata.
Sarebbe stata uccisa proprio da un Pokémon? La vita sembrava davvero ironica.
No, decise di non voler darle quella soddisfazione. Non voleva che gli artigli di quel Braviary si prendessero la sua vita come lei aveva preso quella di migliaia di Pokémon che ormai non esistevano più.
Allargò le braccia, in lacrime, e, prima che l’aquila avesse potuto raggiungerla, si lasciò cadere giù dall’aeronave, in cerca di una nuova morte, stavolta definitiva.

Sta cadendo. E morirà...

Ma poi ad Harmony sovvennero le parole di N. L’uomo aveva detto che se avesse fatto della sua vita un mezzo per l’odio, questo non avrebbe fatto altro che portarlo all’autodistruzione.
Harmony si ravvide per un momento, capendo che quella che cadeva giù non era solo una persona cattiva, bensì anche qualcuno che aveva vissuto male la sua vita. Nessuno però le impediva di cambiare.
Si gettò quindi in picchiata, a capofitto, raggiungendo velocemente il corpo di J, che spalancò gli occhi quando sentì arpionare la propria tuta dagli artigli del Pokémon.
Lentamente Harmony la adagiò per terra, quindi dispiegò le ali e guardò J negli occhi.
Quella piangeva.
“Tu...tu mi hai salvata...”.
E all’improvviso un lento battito di mani le riempì le orecchie. Era N, che sorrideva.
“Bravissimo Harmony”.
“Harmony?!” esclamò J.
“Si. È il nome di quel Braviary”.
“Questo Braviary è tuo?!”.
“No. Questo Braviary non è di nessuno. La sua vita appartiene solo a lui”.
J si alzò lentamente.
“E mi ha salvata...dopo che ho tentato di catturarlo...”.
“Già...lui ti ha perdonata. Ma io non potrei mai. Ecco perché la polizia sarà qui a momenti, e ti arresterà”.
J sospirò, ma in fondo sapeva che fosse giusto così.

*


Ciao mamma. Sono io, Harmony. Sono sicuro che mi senti, mentre ti parlo. Ora sono qui, nel nostro piccolo nido, che ho allargato e fatto diventare più grande. Sai, ti penso sempre. Penso anche a Samuel e spero che con Zack stia bene. Spero che viva la sua vita da campione.
Io l’ho fatto con la mia. Ho lottato contro i miei fantasmi, i nostri fantasmi, e li ho sconfitti.
Ed ora ho incontrato l’amore. Ho anche dei cuccioli: due Rufflet graziosissimi, ed uno di questi ha le penne dorate, proprio come me.
Ma io non li lascerò. Io starò con loro.
Proprio come te, quando stavi con me.


Ciao mamma, ti amo.


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