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The Artist - Painted Pictures - Troppi Giorni Passati - 1

        troppi giorni passati                      



I tacchi dei suoi stivali segnavano un ritmo serrato, cadenzavano all’orecchio ogni passo, infrangevano le superfici intatte delle pozzanghere formatesi dalle piogge precedenti.
In quel momento non pioveva ma il cielo era una lastra di pietra, di quel grigio scuro, e tutto prediceva che presto la tetra e nembosa tavola che aveva sulla testa s’infrangesse, crollando verso il basso in miliardi di piccole gocce.
Doveva sbrigarsi, ma le mattonelle di Porto Alghepoli, le vecchie mattonelle con le fughe profonde, non erano assai compatibili con i Chelsea che aveva ai piedi.
Tuttavia cercava di mostrare estrema grazia, con quel suo femminilissimo modo di portare la borsetta all’altezza del gomito, evitando scivoloni e stando ben attenta ovunque mettesse i piedi.
Faceva freddo.
Non era quel freddo che ti faceva lacrimare gli occhi; no, quello è il freddo del mese di gennaio, verso la metà, magari di primissimo mattino, quando una sciarpa non basta e rimpiangi il letto con così tanto rammarico che ci stai male, ma male davvero.
Comunque no, quello che Dhalia provava sulla pelle era uno dei primi freddi, quelli di inizio dicembre, quelli in cui ti sorprendi di vedere il vapore che esce dalla tua bocca.
Ondeggiava delicatamente ad ogni passo, sentiva il vociare della gente mentre stava per entrare nel centro della città; in sottofondo il rumore del mare agitato arrivava puntuale a distanza di pochi secondi: giusto il tempo che si ritirasse e si tuffasse sulle banchine di pietra di Lighthouse Street.
Proprio dove doveva arrivare.
“Eccola...” fece, non appena vide la prima goccia di pioggia infrangersi sul suo bel naso dritto.
Plic. Plic. Plic
Pioveva. Di nuovo.
Ciò le costrinse ad aumentare il passo. Il centro della città era illuminato da lampioni che emettevano calda luce arancione, doravano ogni cosa, illuminavano e donavano agli animi una strana sensazione, un senso d’adeguatezza.
“Piove!” sentì urlare, e gente d’ogni età scappava a ripararsi nei negozi e nei bar, dove, colta la palla al balzo, ne approfittavano per ordinare un tè caldo.
A Dhalia bastò aprire l’ombrello, prima di arrivare al centro di Sealegend Square. Una fontana assai grande, scolpita dalle abili mani di artisti antichi, mostrava una serie di Milotic che emettevano getti d’acqua dalle loro bocche.
Lei la superò, passando davanti al ristorante di Tonel, dove di tanto in tanto le piaceva andare: cucina vegetariana, come piaceva a lei. Sorpassò anche il ristorante, uscendo dalla piazza non appena voltò l’angolo, entrando in un vicoletto.
Non era molto largo e qualcuno ebbe anche la brillante idea di parcheggiare una macchina. Dovette stringersi al muro, evitando di toccare con la pancia lo specchietto della vecchia Citroen; per un momento vide il suo viso riflesso nel finestrino dell’auto: i truccatissimi occhi verde smeraldo risplendevano, illuminati dal lampione esattamente di fronte a lei. Il freddo le portava a formare del rossore sulle guance, che ben si accostava al rossetto messo sulle morbide labbra.
I capelli della ragazza erano neri e corti. Una pettinatura piuttosto maschile, se non fosse stato che a lei stava divinamente. La frangetta, spettinata sulla fronte, si gettava a sinistra, dove altre ciocche si univano, scendendole sul collo.
Scintillarono anche gli orecchini, grossi pendenti argentati filiformi, con un elemento a spirale che li circondava.
Superò il vicolo, attraversò Conseilor Street sulle strisce. File di macchine suonavano i loro clacson, facendole quasi pesare la scelta di attraversare quella parete di smog. Le luci dei fari illuminavano di giallo e di rosso i fumi che, galeotti, fuggivano in alto dai tubi di scappamento.
Voltò di nuovo l’angolo, abbandonando i clacson e lo smog e accogliendo il rumore del mare in tempesta e l’odore della salsedine.
Lighthouse Street era una via residenziale costruita su di un’alta banchina, alla fine della quale vi era stato costruito un grande faro, protettore dei marinai e dei pescherecci.
Le case di questa strada erano per lo più villette a schiera e palazzine, tranne che per la penultima casa, una grossa villa che apparteneva ad Ester, uno dei Superquattro della regione di Hoenn.
Camminava, mantenendo con il braccio destro la borsa e con la mano sinistra l’ombrello.
Gocce di pioggia temerarie si frammentavano in decine di piccole goccioline una volta che si infrangevano sul tessuto dell’ombrello, scivolando lentamente verso il basso.
Intanto musica Chill, nella più sporca branca jazz che c’era, si diffondeva dalla mansarda del palazzo a pochi metri da lei.
Salì tre scalini ed entrò nel portone, fischiettò Jubel nell’ascensore e, una volta arrivata all’ultimo dei sette piani del palazzo, posò l’ombrello fuori la porta. Sistemò i capelli e bussò il campanello.
Note eleganti e forti rumori di basso scapparono da sotto la porta, accompagnati dal riverbero lontano di alcuni passi, leggeri.
Dhalia batté un paio di volte il piede per terra, impaziente, quindi vide l’uscio schiudersi e sentì la musica ad alto volume.
Non sapeva il nome di quella canzone, sapeva solo che Dylan ne fosse attratto in maniera maniacale e che ogni volta che andava a trovarlo a casa doveva chiedergli cortesemente di abbassare la voce dello stereo.
“Dyl...” fece lei, spingendo con le mani delicate la superficie marrone della porta, che si aprì con un cigolio sinistro.
Mise un piede in casa, i suoi tacchi facevano uno strano rumore sul parquet.
Dietro alla porta spuntò uno Smeargle. Una volta che la ragazza fu dentro l’appartamento fu il Pokémon stesso a chiudere la porta.
“Ciao Pablo!” sorrise la ragazza, carezzando la testa del Pokémon delicatamente.  In quella casa l’odore di legno era sempre fortissimo. Mobili, rivestimenti alle pareti, pavimenti, tutto era fatto in legno.
Avanzava lentamente per la casa del ragazzo, intanto la canzone era finita e ne era cominciata un’altra.
Se c’era un aggettivo da poter affibbiare a Dylan, quello era caotico: il parquet del salone era invaso dai cuscini del divano, di vari colori, buttati ovunque.
Il divano invece ne era rimasto totalmente sguarnito; su di esso si muoveva soltanto il Ditto del ragazzo. Il tetto era provvisto di un lucernario veramente ampio, una vetrata ampia e trasparente, e vedere la pioggia cadere sulla sua testa faceva sempre sorridere Dhalia. Si avvicinò al corridoio, sorrise nel vedere la manata verde sul muro, figlia della distrazione del ragazzo, e di Cleo, il suo esemplare di Keckelon che si diverte a fare scherzi: apparve all’improvviso e lui inciampò, spaventato, finendo con la mano sporca di vernice sulla parete.
Ancora doveva levare la macchia.
Mosse ancora pochi passi, fino a raggiungere la camera dove soleva dedicarsi alle sue arti. Aveva disposto un grande foglio di carta da imballaggio marrone, pieno di macchie di pittura.
Indossava il berretto anche in casa, in inverno lo faceva spesso, per evitare che i capelli gli finissero davanti agli occhi, perché in quel caso li avrebbe spostati senza pensarci con il risultato che si sarebbe trovato fronte e capelli macchiati.
La grande tela lo nascondeva quasi per intero, ma i suoi occhi color nocciola erano applicati in quello che faceva.
Pennellate verdi, lui dava pennellate verdi, e piccoli sbuffi di vernice cadevano sulle sue scarpe.
Dhalia girò un attimo la testa. Tool, il Rhydon di Dylan, dormiva a pancia sotto, cullato dal mood particolarmente rilassante di quella musica, nonostante l’alto volume.
“Hey...” fece lei, con quella voce dolce che si ritrovava.
Dylan alzò gli occhi verso la ragazza e poi li spalancò, allarmato.
“E tu che ci fai qui?! Non puoi stare in questa stanza!”.
“Mi ha aperta Pablo. Che dipingi?”.
“Niente! Non guardare! Non ti azzardare!” faceva il pittore, cercando di schermarla con il corpo.
“Non toccarmi con quelle mani!”.
“Queste sono mani d’artista!”.
“Poco importa... Voglio vedere”.
“Non puoi. Sarà esposto nella Galleria Adriana, qui a Porto Selcepoli... E tu mi accompagnerai al vernissage. Sarà allora che lo vedrai”.
Dhalia fissò dritto Dylan, quindi sorrise e gli diede un bacio sulla guancia.
“Che ci fai qui?” chiese lui, sorpassandola ed andando in bagno per lavare via la vernice dalle mani.
“Volevo venirti a trovare...”.
“Che dolce. Novità?”.
“Certo. L’università ha sbloccato i fondi per l’attrezzatura speciale di cui necessitavo e finalmente domani potrò approfondire sul campo gli studi che porto avanti”.
“Clamperl?”.
“Sì, ma più in generale tutti i Pokémon degli abissi... nel vano tentativo di vedere il rarissimo Relicanth...”.
Dylan asciugò le mani dopo aver visto acqua verde perdersi nelle tubazioni del suo lavandino e quindi uscì dal bagno, entrando in cucina. “Vedrai che, ostinata come sei, riuscirai sicuramente a studiarlo. Toddi, scendi dal divano”.
“Lo spero davvero...”.
La cucina era così piccola che facevano fatica a starci in due. “Caffè?”.
Lei lo guardò e sorrise. “Il caffè è amaro. Voglio della cioccolata...”.
Dylan le sorrise, perdendosi nel suo sguardo. Prese il cacao e lo versò in una tazza.
“Levati questo... coso da dosso”.
Dhalia sorrise. “È un poncho, stupido... Mi tiene calda”.
“Levati ‘sto poncho, allora”.
“Ho freddo”.
“Accendiamo il camino”.
Dhalia sorrise. Sfilò il poncho, rimanendo con la maglietta a maniche lunghe, nera, aderente. Snella ed alta, nessuno si sarebbe ricordato di lei per l’abbondanza dei suoi seni.
“Posso aiutarti?” chiese poi, sorridente.
“Sì. Prepara tu la cioccolata calda, io intanto ti accendo il camino”.
“Grazie, Dyl”.
Il ragazzo si girò, toccando per sbaglio la tazza con il cacao che stava preparando, facendola cadere per terra.
“No!”.
“Dylan! Sei il solito!”.
Si abbassarono entrambi, sbattendo distrattamente le fronti tra di loro e terminando entrambi con il sedere nel cacao.
“Ma dai!” rise lei.
“Che dolore, santo cielo! Ma che hai in quella testa?!”.
“Qualcosa, a differenza tua!”.
Dylan rise poi prese la tazza e la alzò. Sparì per un attimo, tornando con la scopa in mano.
“Scusami... Non volevo farti del male”.
“Lo so... Poi figurati, sei sbadato dal primo giorno che ti ho conosciuto, non mi sorprendo più”.
“Fai tu qui, che intanto mi occupo del camino?”.
“Sì, vai e non rompere niente”.
Dylan sorrise ed andò verso il camino. “E così domani è il grande giorno?”.
“Già. Sono emozionatissima. Farò tantissime foto e te le porterò a vedere”.
“Sei sempre gentile e premurosa” sorrise lui.

Il camino scoppiettava e le tazze di cioccolata erano state svuotate e poggiate sul tavolino, davanti al divano. La pioggia ancora suonava, battendo ritmicamente sul vetro incassato nella falda del tetto ed aveva cullato il loro sonno. Era tardi, parecchio tardi.
Dylan e Dhalia si erano addormentati sul divano, con indosso un piumone bello caldo. Lei aderiva al corpo del ragazzo come se i due fossero pezzi di un puzzle, unici tra loro, corrispondenti solo l'uno con l'altro. Lui si svegliò, la testa della ragazza era proprio sotto la sua, i capelli di quella profumavano. La mano di Dhalia era poggiata sul petto del ragazzo, sul suo cuore, probabilmente lo sentiva battere, forte come un tamburo.
Stava bene in quel modo, quasi si sentiva in soggezione vicino a quella.
Già, forse era banale, era banalissimo, ma dopo tutto quel tempo Dylan aveva perso la testa per Dhalia, se n'era totalmente innamorato, affascinato da quegli occhi verdi, profondi come porte nascoste per l'interno della sua anima. Avrebbe voluto stringere le sue mani piccole e delicate, guardarla dritta in quegli smeraldi ed aprire il suo cuore.
Gli pareva di avere qualcosa nello stomaco, qualcosa di vivo che spingesse fuori, che volesse liberarsi e mostrarsi al mondo.
L'ansia e, nel contempo, la felicità di averla dormiente sul suo petto si stavano trasformando nell'opportunità di tutta la sua vita.
Dhalia era la donna giusta per lui, quella con cui avrebbe voluto passare la vita. Quella di cui non si sarebbe mai stancato di ammirarne il sorriso.
Doveva prendere coraggio, caricarsi e poi convincere Dhalia di essere la scelta per la vita.
Toddi, il suo Ditto, ondeggiava con quella faccia felice mentre vedeva Pablo dipingere su di una tela la scena.
E poi il volto di Dhalia si mosse. Il respiro della ragazza si spezzò ed i suoi occhi si aprirono.
"Che carino, Pablo..." sorrise lei. Dylan la guardò sorpreso, non si aspettava si svegliasse così velocemente.
"Guarda come eravamo belli mentre dormivamo".
"Già. Noi eravamo carini... E ti dovrei dire una cosa che...".
"Ma che ore sono?! Ci siamo addormentati sul divano senza renderci conto del tempo! Io domani mattina devo essere nella baia!".
Dhalia si alzò velocemente, infilò il poncho e prese la borsa, carezzò Toddi sulla testa, se testa avrebbe potuto definirla, andò verso Dylan, gli diede un bacio sulla guancia e si avviò alla porta.
"Te ne vai?!".
"Sì! È tardissimo!".
"Domani a che ora devi trovarti nella baia?".
"Per le otto dovrei cominciare. L'attrezzatura mi permetterà di stare sotto per almeno cinque ore, ma credo che per le dodici io sia fuori. Perchè?".
"Volevo parlarti".
"Ah, già, dovevi dirmi una cosa. Che cos'è?".
Dylan non l'aveva immaginato così, e la fretta della ragazza non gli piaceva. "Ho dimenticato...".
"Ma dai! Come fai ad essere così?!".
"Non ti piace che io sia così?".
"Lo adoro" sorrise lei. "Ora vado. A domani allora. Alle dodici e trenta al Molo 13... Adoro quel ristorante".
"Ok, Dhalia, a domani".
E poi lei chiuse la porta, lasciandolo solo con i suoi Pokémon, e la pioggia che cadeva sulla sua testa.
Ed anche se era sotto il suo tetto, si sentiva al centro della tempesta.
"A domani, Dhalia... A domani...".
 



angolo di quei due lì.
Insieme, Andy e Vespus continuano quest'avventura.
Ecco il primo capitolo effettivo, assai leggero rispetto ai prossimi. Ringraziamo tutti per aver letto il prologo, spero che il continuo non vi deluda. Un grazie anche a chi ha recensito. Sicuramente avverrà il mese prossimo, il 7 gennaio. A risentirci sulle nostre frequenze.

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