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Capitolo ventisei - 26 pt 2

Previously, on Hoenn's Crysis
Blaziken alzò un grosso masso quindi emise il proprio verso nel tentativo di attirare l’attenzione verso di sé.
“Girati e non guardare” fece Fiammetta.
Il Pokémon Vampe alzò il corpo morto e sfregiato di Tell, grondante di sangue.
“Non guardare. È tuo fratello”.






Attica pt 2



Martino e Marina erano nella piazza principale di Verdeazzupoli. Piovevano lacrime lì, quel giorno.
La ragazza era indaffarata; cercava di aiutare quante più persone potesse, ma quel calore non aiutava per nulla. Levò il gilet, infilandolo nel piccolo zaino che indossava, quindi corse immediatamente da una donna urlante.
“Signora... Che succede?!” chiese lei, allarmata. Gli occhi color nocciola della donna erano lucidi, le lacrime risplendevano sulle rime degli occhi e sulle ciglia, si abbandonavano poi sulle guance paffute. Marina sospirò, analizzando la persona che aveva davanti: una donna grande, sulla cinquantina, con i capelli biondi e spettinati, acconciati in quello che qualche minuto prima doveva essere un caschetto. Il naso era aquilino e nel complesso non era una bella donna, anche se al Ranger non interessava nulla.
“Signora!” la prese per le spalle, scuotendola. “Che succede?!”.
Quella guardò la ragazza, non riuscendo a capire, già confusa per via delle urla e del caos che aveva attorno.
“Mi chiamo Marina, sono un Ranger e voglio aiutarla”.
“Mia... mia figlia! Mia figlia è in cantina! Mia figlia Sofia è in cantina!”.
“Dove?!” esclamò celere la più giovane.
“Nella cantina di quel palazzo! È crollato e lei era giù in cantina!”.
“Sa dirmi se è viva o morta?”.
“No! Non so niente! Non sento la sua voce!”.
Marina si voltò, e vide il palazzo: la metà superiore era totalmente crollata e tutt'intorno giacevano inermi le macerie. Scavalcò grossi pezzi d'intonaco e calcestruzzo, facendo attenzione a non inciampare sui grandi calcinacci sparsi per
terra quindi, senza toccare la porta, entrò nell'androne.
La polvere era posata sugli scalini di marmo del palazzo. Un po' di pulviscolo si sollevava, passandole davanti al naso.
Analizzò la situazione: le scale che portavano verso l'alto, le inutili scale che portavano verso l'alto, erano bloccate dalle macerie. Qualcuno sotto quelle macerie ci era morto dato che una mano insanguinata pendeva esanime; il resto del corpo di quella persona era totalmente sotterrata dalle mura crollate.
Doveva stare attenta. Doveva stare terribilmente attenta. Avrebbe potuto sfruttare qualsiasi cosa avesse trovato per strada, compreso i Pokémon.
"Non ho lo Styler..." ricordò poi. Aveva soltanto Vulpix, quel cucciolo.
"Me lo farò bastare..." sussurrò poi, prendendo lentamente le scale che andavano verso il piano di sotto.
Quanto più scendeva tanto più diventava buio. Si avvicinò all'interruttore della luce e provò ad abbassarlo, sperando realmente di vedere illuminato il suo volto dai vecchi bulbi a filamento di quell'antico palazzone.
"Niente..." sospirò. La luce che la seguiva alle spalle, proveniente dall'androne del palazzo, era poca.
Plic.
Camminava lentamente, sempre più lentamente. Poi toccò qualcosa con il piede, percependo di averlo fatto rotolare alcuni metri più in avanti.
Plic.
Era una mazza. Una mazza di legno. Cercò a tentoni con il piede prima di scivolare su qualcosa di viscido, riuscendo tuttavia a non cadere per terra.
"Dannazione!" esclamò.
Trovò con il piede la mazza e l'afferrò.
Plic. Plic. Plic.
Era tutto nero; non vedeva, i suoi occhi brancolavano nel buio nel lontano tentativo di percepire qualcosa. Malgrado questo però, gli altri quattro sensi si acuirono.
Plic.
Sentiva un lontano sgocciolio, come se fossero in una grotta e l'acqua, filtrata dalle stalagtiti scendesse in un lago sotterraneo.
Plic.
C'era uno strano odore lì. Odore pungente, che non aveva sentito spesso.
Plic.
"Devo vederci chiaro... Vulpix, aiutami" fece. Il Pokémon guaì.
"Sono qui" fece lei, sentendolo strusciarsi contro la sua gamba. "Ora... ora, se fossi così gentile da... da accendermi questo bastone... Ecco, te lo porgo".
Plic.
Vulpix guaì ancora.
"Scusami! Non volevo colpirti! Per favore, usa una mossa di fuoco per accendere una fiammella su questo bastone".
Una scintilla, illuminò per poco quel posto.
Plic.
"Meglio. Forza".
Vulpix riaccese il fuoco, attaccando con un bel flusso incandescente, rendendo luminoso lo spazio per qualche secondo in più.
Alla fine riuscì ad accendere l'estremità anteriore di quel bastone, creandosi una torcia.
E scoprendosi in una vera e propria trappola.
Un’automobile era incastrata a metà nel solaio.
Plic.
Il serbatoio era con ogni probabilità bucato.
Plic.
“Santo cielo...” disse Marina, guardando Vulpix e la torcia che aveva in mano: piccole gocce di benzina defluivano fuori dall’automobile. Avevano creato un rivoletto che si estendeva in lungo verso l’uscita del palazzo; proprio dov’era entrata il Ranger.
“Qui c’è benzina. E con ogni probabilità salteremo in aria se non stiamo attenti”.
E sì, in quel momento rimpianse Oblivia e la sua relativa calma, dove gli allenatori erano pochi e venivano denigrati e dove i terroristi ambientali non erano così...
“Stronzi”.
Plic.
Quella goccia che cadeva, così ritmicamente, le fracassava i timpani; stava diventando insostenibile e l’adrenalina e la paura di commettere un errore grave, un errore grave e divampante.
Plic.
Lei avanzò, guardandosi attorno. A destra e a sinistra c'erano tante saracinesca chiuse, tanti garage che la guardavano, riempiendola ulteriormente d'ansia.
Vulpix avanzava al passo, impaurita. Evitava agilmente le chiazze di benzina che ristagnavano sul pavimento polveroso e poi alzò la testa quando si trovò sotto la macchina.
"Non aspettare lì sotto, che se la macchina cade siamo rovinati... Sofia!" la chiamò poi.
Allungò le orecchie, nel vano tentativo di ascoltare una risposta.
Vano: inutile.
Non rispondeva, Sofia.
Plic.
"Andiamo!" fece lei. Accelerò il passo, sempre attenta a non inciampare. Doveva fare presto, il fragile palazzo non avrebbe sorretto un'ulteriore scossa d'assestamento.
Avanzò ancora, la torcia dorava il suo volto. Le zampette di Vulpix, con quelle unghiette, ticchettavano ad ognuno degli elegantissimi passi che quella faceva.
Il corridoio si snodava a destra e a sinistra, in un bivio.
Marina analizzò la situazione, quindi abbassò la testa e vide un piccolo berretto rosa.
Spalancò gli occhi, si chinò sulle ginocchia e raccolse il piccolo copricapo di lana.
Vulpix guaì ancora e Marina la guardò. "E tu? Tu sapresti dirmi se la proprietaria di questo cappello è a destra o a sinistra?".
Un ultimo guaito anticipò l'ennesimo plic. Marina la vide muovere le orecchie mentre aguzzava l'udito, quindi le avvicinò al naso il cappello.
Il Pokémon emise il suo verso e scappò verso sinistra, incurante della benzina sparsa per terra; Marina la seguì, correndole dietro.
"Forza! Potrebbe essere tardi!".
Le saracinesche continuavano a susseguirsi monotone quando Vulpix si fermò davanti all'ultima. Era chiusa.
"Vulpix, sei sicura?" chiese il Ranger, scettico. "Insomma, la saracinesca è chiusa... Come avrebbe potuto fare Sofia ad entrare qui dentro?".
Vulpix guaì nuovamente e batté la zampetta sul ferro dipinto della porta del garage.
"Sei sicura davvero?"
Vulpix attaccò con Azione la saracinesca e Marina la sentì vibrare nei suoi binari.
"Non è chiusa..." ragionò ad alta voce. Abbassò lo sguardo, notando che non ci fosse alcun catenaccio a tener chiusa la serranda.
Si abbassò sulle ginocchia e la sollevò di poco, con enorme stupore. "Si alza!".
Alla fine la alzò tutta, venendo poi investita da una grande quantità di polvere. Una parte delle pareti era crollata, rovinando sul pavimento di cemento.
Vulpix scattò subito in avanti, sporcando ulteriormente le zampe imbrattate di benzina. Saltò su di un grosso pezzo di cemento staccato dalla parete e poi vi scese, scavalcandolo. Quindi prese a guaire, cercando di richiamare l'attenzione di Marina.
"Cosa?! Che succede?!" chiese. Balzò poi oltre gli ostacoli ed i calcinacci per ritrovarsi alle spalle del Pokémon Volpe.
Vi era un Linoone, con i denti stretti e lo sguardo sofferente, mentre cercava di sorreggere il grosso peso sulla schiena.
Sotto il suo corpo c'era una bambina di quattro anni. Era sicura che si trattasse di Sofia.
"Eccola!" urlò lei.
Linoone dapprima ruggì nei confronti di Marina, poi sembrò comunicare con Vulpix e subito cercò di farsi da parte per permettere al Ranger di tirare via la ragazzina, svenuta. Poi urlò dolorante, cercando di farsi da parte.
Inutilmente.
Il grande pezzo di muro lo schiacciò; le sue zampe non erano riuscite a sopportare il peso continuato che lo premeva verso il pavimento. Lui però doveva salvare Sofia, quella piccola bambina che si trovava nel posto sbagliato al momento più sbagliato che ci potesse essere.
Ed è questo l'incredibile. Niente succede per caso e forse è vero. Ma quanto più è complicata una cosa tanto più ti succederà.
Guardò il Pokémon con le lacrime agli occhi, con ancora la fiaccola che le dorava il volto; il suo viso pareva una di quelle maschere dei faraoni egizi.
Un rivoletto di sangue andò a tuffarsi nell'orma di polvere e benzina delle zampe di Vulpix e delle scarpe di Marina, imbastardendosi, impastando ancor di più quel miscuglio brunastro.
"Ciao, Pokémon coraggioso" sussurrò lei, avviandosi fuori. Era pur sempre una bambina di quattro anni, tuttavia portarla in braccio senza farla bruciare dall'enorme torcia che portava nella mano destra e soprattutto senza far cadere nessuno delle due cose; naturalmente Sofia si sarebbe fatta male cadendo.
E poi, beh... Se fosse caduta la torcia sarebbero totalmente saltati per aria, con tutta la benzina che c'era per terra.
Camminò a fatica. Non poteva nemmeno poggiare la torcia da qualche parte; se fosse caduta avrebbe velocemente raggiunto le migliaia di morti, strappate alla vita come da un braccio forte e violento.
Plic.
Quel dannato rumore continuava ad espandersi, a rimbombare lungo le pareti umide e talvolta piene di muschio e muffa di quella cantina. La torcia illuminava tutt’attorno e Marina doveva stare attenta. La piccola bimba respirava lentamente, ancora viva; la cosa diede un minimo di speranza al Ranger.
“Almeno il sacrificio di quel Linoone non è stato vano”.
Vulpix zampettava velocemente in avanti, calpestando noncurante le chiazze di benzina che, mano a mano ci si avvicinava all’automobile incastrata nel soffitto, diventavano sempre più larghe. L’odore che ne derivava era nauseabondo. A qualcuno l’odore della benzina piaceva, non a lei.
Troppo forte come odore; troppo forte per quel naso così delicato.
Marina doveva stare ancora più attenta, perché la benzina era viscida. Scivolare con la torcia in mano e la piccola Sofia in braccio le sarebbe costata la vita ed un peso enorme sulla coscienza.
Secondaria come cosa, l’ultima; da morta non avrebbe avuto alcun peso sulla coscienza dato che non avrebbe avuto più coscienza.
Plic.
Non ci doveva pensare, a quel maledettissimo rumore. Non doveva dar peso all’ansia che, con l’incedere di ogni passo, aumentava nel suo corpo, lungi dall’essere maturo e ricolmo d’esperienze.
Un metro ancora, ancora un futile e misero metro, dopodiché sarebbe stata sotto l’automobile pericolante.
Doveva pensare.
Plic. Plic. Plic.
“Uff...”.
Ci riprovò.
Plic.
Plic. Plic.
Gneeee.
Marina alzò gli occhi di poco, vedendo la macchina dondolare.
“Cazzo!” esclamò.
Gneeee.
Aumentò il passo, cercando di allontanarsi quanto più velocemente possibile da lì. Affondò il piede nell’ennesima chiazza di benzina ma perse l’equilibrio.
“Cavolo!” strillò. La sua voce apparve deformata, quasi mostruosa, nel momento in cui rimbalzò sulle pareti della cantina, perdendosi chissà dove e risultando trascinata.
Si ritrovava distesa per terra, con la torcia alzata verso l’alto e la piccola Sofia stretta sul petto.
Gneeee.
Plic. Plic.
La macchina adesso traballava vistosamente nel suo piccolo binario che le consentiva di non precipitare giù. Polvere e piccoli pezzi d’intonaco e cemento crollavano frettolosi sul volto della giovane.
Vulpix le si avvicinò e prese per il collo della maglietta la piccola Sofia, cominciando a tirarla via. Marina avrebbe anche sorriso se solo non fosse stato per il fatto che adesso la macchina che aveva a pochi metri dalla testa non si fosse mossa più forte, con uno scatto pauroso.
“Cazzo!” urlò Marina. Lo sapeva quand’era il momento. E quello era proprio ciò che temeva.
La macchina stava per crollare, per rovinarle addosso.
“No!” urlò lei, spingendo forte la ragazzina verso Vulpix, facendola finire un paio di metri più lontana; appoggiò il ginocchio per terra e con il piede destro si diede slancio, tuffandosi via.
Plic.

Boom.

Marina era ancora in volo, in attesa di atterrare sul cemento duro e freddo di quella cantinola quando, rumorosamente, la macchina si schiantò dal soffitto.
Marina ruzzolò qualche metro più avanti.
E la torcia le sfuggì di mano.

Il calore aumentò in maniera esponenziale, da buio che era quel posto d’improvviso s’illuminò a giorno.
Strisce di fuoco dividevano il pavimento in sezioni bollenti e strette; Marina fu costretta a prendere la piccola bimba bionda in braccio e a stringerla ancora più forte. Era ancora incosciente.
“Tranquilla piccolina” fece lei, con le lacrime agli occhi. “Tranquilla. Riusciremo a cavarcela”.
Vulpix guardava affascinato le fiamme che si alzavano dal pavimento: blu alla radice, rosso all’apice.
Rosso come il sangue.
Rosso come il fuoco. Fumo nero e tossico si alzava in alto e toccava il soffitto, cercando invano di spingerlo in alto e defluendo per forza di cose nel grande buco da cui la macchina era caduta.
Marina si abbassò. Non sentiva più alcun plic, nessun altro rumore che non fosse quello del fuoco che divampava.
Il fuoco si avvicinava minaccioso, sempre di più, bramando i vestiti di Marina, inzaccherati di carburante.
Doveva ragionare, adesso doveva farlo davvero.
Senza il plic era più semplice. Era il fuoco, effettivamente, a complicare un po’ la situazione.
Quel fuoco, sinuoso nei suoi movimenti, lenti, quasi stanchi, proiettava la sua luce sulle mura. Ebbe persino il pensiero di vedere dove Vulpix si fosse cacciato, concludendo con la cocente delusione sul fatto che, a differenza sua, il volpino avrebbe vissuto in un ambiente così caldo.
Così tanto caldo.
Tuttavia non lo vedeva più, mentre il fuoco si muoveva verso di lei.
Sentì il suo guaito lontano, poi lo sentì sempre più vicino, sempre più vicino. Sempre più vicino, fino a che non vide la sua ombra distorta proiettata su quelle mura da imbiancare.
“Vulpix!” urlò lei, tossendo poco dopo per via del forte odore.
Il Pokémon guaì di nuovo ed intanto la testolina bionda di Sofia si mosse.
“No! No! Non avere paura, sono venuta a portarti dalla tua mamma!” esclamò Marina, allarmandosi quasi più per la bambina che per l’incendio.
“Chi sei tu? E perché c’è il fuoco?”. La voce della bimba era delicata, piccola. Tanto piccola.
“Stai tranquilla e non ci faremo male”.
E Vulpix continuava a guaire.

Dall’alto del promontorio ad ovest, Fiammetta e Pat avevano deciso di muoversi e di fare qualcosa.
Si affacciarono, poggiando le pance fredde e vuote sulle balaustre di ferro battuto.
Guardarono in città, Pat doveva farlo per responsabilità.
Fiammetta comprendeva il senso di protezione che quella ragazza, quella quasi donna, provava nei confronti dei suoi cittadini; era lo stesso sentimento che aveva provato quando, malgrado i suoi sforzi, Cuordilava andò distrutta.
“Metteremo tutto a posto, vedrai” cercò di incoraggiarla. Lei si stringeva nella spalle. Un sospiro gettò fuori una grande quantità d’ansia ma, proprio come il mare sul bagnasciuga, ritornò indietro, più forte di prima.
La piazza, la piazza della sua città, quella dove era cresciuta correndo per i vicoli della città. Ricordava quando, nel giorno del mercato,
I suoi occhi neri rimestavano le immagini che la memoria le sottoponeva, unendole tra di loro, facendole muovere, come una vecchia cinepresa.
Pat riusciva a vedere la sua città; riusciva a vedere la piazza principale.
Riusciva a vedere tanti uomini vestiti di nero.
“Ma che diamine succede?” chiese con una calma quasi irreale.
Fiammetta strinse lo sguardo, focalizzando, mettendo a fuoco.
“Quello è il Team Magma!”.
“Dannazione...” sospirò Pat. Si sentiva sull’orlo del baratro. Le pareva di camminare su di un sottile filo di nylon, in un giorno di tempesta.
Stava per cadere.
“Non demordere! Dobbiamo fronteggiarli!”.
“Sono troppi per noi”.
Fiammetta scosse Pat con determinazione, quindi prese ad urlare. “Reagisci, cazzo! La tua gente è sotto attacco!”.
“Ma cosa vuoi che faccia?!” rispose a tono la più giovane. “Che dovrei fare?!”.
“Senti, finisci di essere così disfattista!”
“Da sole non riusciremo mai a fermare quest’attacco!”.
Fiammetta annuì velocemente, con quegli occhi vispi che si ritrovava, quindi sorrise. “Ecco perché abbiamo bisogno di Rocco Petri”.




Anche se con forte ritardo, ciao Pino.




 

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