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Painted Pictures - Capitolo 4 - E'... è lei

È... è lei                                        


Ogni passo rimbombava nella testa di Dylan come se una piccola goccia si tuffasse dall’alto del soffitto di una grotta giù per terra, incontrando un lago sotterraneo. Ed in effetti erano proprio all’interno di una grotta; con tutto quel silenzio gli pareva strano di essere nella base del nemico, gremita di Reclute pronte a fargli passare guai amari.
Solo il ronzio dei neon tagliava la linea dei suoi pensieri, con un machete ben affilato e sporco di sangue. Del sangue che Dylan non vorrebbe mai ricondurre a Dhalia.
E sì, perché era inevitabile che pensasse a Dhalia, in quel momento, abbassando la testa e fissando le punte delle sue scarpe sporche di fango.
I miei mocassini... pensò, quasi estraniandosi per un attimo da tutto quel tumulto di avvenimenti. Poi apparve di nuovo la faccia di Dhalia, i suoi occhi verdi a regalare un attimo di colore alle sue giornate, e le sue labbra ad ammorbidire la dura roccia su cui batteva ogni giorno il piccone.
Erano diventate il suo desiderio, quelle due labbra.
Avrebbe combattuto per quelle due labbra.
Avrebbe probabilmente ammazzato soltanto per vederla in buono stato.
Si girò verso sinistra, a fissare l’uomo che lo stava scortando da qualche parte; quello guardava avanti col volto stanco ma determinato, nascondendo qualche ruga nella folta barba sale e pepe, segno di esperienza.
La mano destra dell’uomo presentava una grossa cicatrice rosea sul dorso, sembrava non potesse essere mossa un granché bene.
La porta grigia si avvicinava, quella porta che probabilmente lo avrebbe condotto in mezzo a tantissime altre Reclute, magari avrebbe visto Dhalia e si sarebbe accertato che stesse bene.
Ma, anche volendo, non era in grado di varare una linea d’azione efficace.

Entra, prendi e scappa non può funzionare. Mi trovo nel loro elemento, nel loro territorio. Mi trovo anche nei loro vestiti, non vedo perché dovrei riuscire a farla franca con il loro obiettivo.
Perché vogliono Dhalia?

Lei non poteva morire. Lei non avrebbe potuto in alcun modo lasciare quel mondo senza sapere che lui avrebbe voluto donarle il suo cuore chiuso in una teca. Teca di cui solo Dhalia aveva la chiave.
L’uomo parlò, risvegliandolo da quei pensieri.
“E tu? Tu come hai detto di chiamarti?”.
Dylan lo guardò, girandosi di scatto.
“Non ho capito, scusi”.
“Ho detto, tu come hai detto di chiamarti?”.
Dylan quasi stava per far saltare la copertura, avvertendo il battito accelerato del suo cuore come se lo avesse davanti agli occhi. Prese un sospiro e rispose.
“Louis” fece, deglutendo puntine di metallo e piccole quantità di ghiaia.
“Louis come?”.
Rise Dylan. Dentro naturalmente, altrimenti quello avrebbe usato il suo corpo come uno scolapasta.
“Louis... Armstrong” rispose lentamente, girando poi il volto e sorridendo silenziosamente.
L’uomo aggrottò le sopracciglia. “Come il cantante?! Adoro quel diavolo di Satchmo!” sorrise poi.

Patetico, dannazione. Louis Armstrong?! Ma sono serio?! Non sono stato in grado di trovare un cognome migliore?! E poi questo lo chiama Satchmo, lo adora! Chi diamine è Satchmo?!

“Tutte le persone conoscono solo What a wonderful world, ma ciò che non capiscono è che Satchmo ha uno stile di base che non si può equiparare. È un evergreen, ecco. Non può passare di moda, perché sentire la sua voce graffiante non può fare altro che riportare tutti nello stesso posto, spogli di pregiudizi, di diversità. Quando ascoltiamo Satchmo siamo tutti uguali. Ma poi perché ti sto ammorbando  coi miei pensieri su Louis Armstrong?! A proposito, a te piace, vero?”.
Dylan sbatté gli occhi un paio di volte quindi esplose nel sorriso meno finto che riuscisse a fare ed annuì.
“Certo. Fin da piccolo”.
“Bene, già mi piaci”.
Dylan raddrizzò il tiro, cercando di portare il discorso su qualcosa che gli sarebbe potuto servire.
“E... E quindi stiamo andando...”.
“Nella sala grande, Xander ci deve parlare. Probabilmente possiamo cominciare con le fasi preliminari della missione”.
“Xander? Missione? Spiegati meglio”.
L’uomo sorrise, grattandosi il mento attraverso la folta barba, sale e pepe sul suo volto.
“Lo farà stesso lui. Comunque io sono il Capitano Allan Perkins, un tuo superiore. Tu sei una semplice Recluta ma credo che questo tu lo sappia.
Dylan annuì con la faccia di chi sapeva di sapere dopodiché vide Perkins mettere la mano sulla maniglia della porta grigia e spalancarla: una ventata di aria viziata lo raggiunse sul volto donandogli una smorfia sul volto; era odore di umido, come provenisse da una stanza che non veniva aperta da secoli.
Dylan, il falso Louis, si ritrovò a fissare tutto ciò che aveva a tiro, dal momento che Allan Perkins era sparito: il soffitto era fatto di roccia naturale, si notavano i solchi lasciati dalle scavatrici al momento della costruzione. Più in basso, enormi travi d’acciaio stavano a sostenere ciò che c’era sopra, ad evitare che crollasse sulle loro teste.
L’acqua filtrava nella roccia porosa, cedendo in fastidiose goccioline sulle bandane della miriade di persone riunite lì; un palco in acciaio, parecchio rialzato, vedeva all’in piedi un uomo alto, spalle larghe e bicipiti ferrei. La vita era sottile e le cosce toniche, una vera e propria statua dagli occhi azzurri.
Il volto statuario era alzato, in direzione della platea. Alle sue spalle vi era seduto un altro uomo, con muta da sub blu e bandana in testa, se possibile ancora più grosso di quello in piedi.
Dylan capì che non doveva farsi notare, quindi rimase dietro, accanto alla via di fuga principale. Poi si sentì toccare la spalla.
“Hey, hai visto Louis?” chiedeva un’altra anonima recluta. Capelli castani, ricci sulla testa e rasati tutt’intorno. Dylan si accorse con fastidio che gli occhi di quello lo stavano scrutando fin troppo.
“Louis chi? Anche io mi chiamo così...” sospirò, pensando con rammarico alla sua mansarda in legno riscaldata, ai pennelli, ed alle tavolozze.
Oltre al dipinto che stava finendo, il quale lo portò in uno stato di sconforto: avrebbe pagato oro per essere lì a finirlo.
“Ti chiami anche tu Louis? Allora dovrò trovarti un soprannome!”.

Arceus mio, dov’è Dhalia?

“Trovato!” esclamava quello, entusiasta. “Ti chiamerò Vernice, perché odori di vernice!”.
Dylan inarcò un sopracciglio.
“Comunque io sono Rod Soros, ma puoi chiamarmi Spugna, come fa Louis”.
“Perché siamo qui?”.
“Sei nuovo, vero? Beh, in pratica qualche giorno fa siamo stati incaricati di catturare una biologa marina... È stato proprio Louis ad acciuffarla! Sapevamo che lei bazzicasse intorno alla zona est della Baia e quindi abbiamo approfittato del momento giusto per rapirla”.
“Perché lo avete fatto?” chiese Dylan, non riuscendo a nascondere una nota di disappunto sul suo volto, imbevuta anche nella sua voce.
“Deve spiegare tantissime cose su Kyogre ed anche il modo per risvegliarlo. Nessuno di noi sa dove si possa essere cacciato e questa cosa ci disturba, dal momento che per noi il mare è importantissimo. Anzi direi vitale”.
“Già. Vitale”.

Per Dhalia lo era. Per Dhalia il mare era un prolungamento di se stessa. Lei nel mare viveva, scendendo nelle profondità con l’animo di un bambino che esplora per la prima volta il mondo. Dhalia era il mare ed ogni volta che le sue palpebre battevano si alzavano le onde. Ogni volta che il suo respiro diventava più pesante si alzava la brezza ed ogni volta che si addormentava il mare diventava improvvisamente tranquillo.
Ma come lei, anche io ho bisogno del mare.
E quindi ho bisogno di lei.

“Cominciamo e fate silenzio!” urlò il muscoloso Idrotenente.
“Silenzio...” sussurrò Spugna. “Sta parlando Xander”.
L’uomo s’avvicinò ad un grande microfono, capsula nera. Ci picchiettò il dito sopra, provocando un fastidiosissimo fischio e sospirò.
“Allora, Reclute, velocemente. Ivan ha da fare, quindi non facciamogli perdere tempo”. Poi si voltò verso destra. “Fatela entrare!” urlò.

È... è lei.

Anche i pensieri di Dylan erano scioccati a quella scena: una Recluta nerboruta stava tirando per i capelli la moretta. Dhalia aveva il volto squassato dalle lacrime ed un labbro spaccato. La capigliatura, solitamente sempre perfetta, era spettinata. Le profonde occhiaie e il viso profanato dalla polvere la facevano sembrare un mostro agli occhi di tutti.
Non a quelli di Dylan.
“Dhalia...” sussurrò, con lo sguardo impietrito ed il volto contrito. Cominciò ad avvicinarsi quanto più possibile al palco, protetto da una balaustra, prendendosi gli insulti di tutte le persone che spintonava.
“Ecco qui. Lei  è la biologa marina e noi l’abbiamo... gentilmente prelevata dal suo... ufficio? Possiamo chiamarlo così?!” sorrise Xander, facendosi da parte.
Lei tremava vistosamente, i grossi riflettori abbagliavano il suo volto e le spegnevano gli occhi.

Dhalia...

Dylan si fermò, schiacciato sulla transenna. La guardava, la chiamava con lo sguardo ma lei non lo sentiva.
Xander riprese parola.
“Questa tipa è una biologa marina. Ci spiegherà come risvegliare Kyogre, e che habitat preferisce”.
Il silenzio fu quasi assordante e tutti presero a fissare la donna, pendendo dalle sue labbra.
Il ronzio dei neon era fastidioso.
“Parla!” urlò con violenza omicida Xander, avvicinandosi a pochi millimetri dal suo volto. Dhalia sussultò, prendendo a singhiozzare; le lacrime non accennavano a diminuire sul suo volto, anzi, continuavano la propria discesa scavandosi una via sporca nella pelle candida della donna.
Gocce scure le pendevano dall’ovale.
“Ky-Kyogre... È un Pokémon Leggendario. Io non l’ho mai visto...” diceva lei, con la voce tremante. “Ma essendo un Pokémon simile ad un’orca possiamo stabilire una base comportamentale non troppo complicata. Ecco, diciamo che ha delle potenzialità incredibili, espresse solo raramente; proprio perché così forte, ogni sua battaglia diviene qualcosa di epico e...”

Dhalia, che stai facendo?! Stai dando informazioni a questi terroristi?!

“... e lo costringe poi a cicli di riposo molto lunghi, interrotti soltanto dal risveglio di Groudon, o da uno strumento speciale, ecco. Si ciba prevalentemente di piccoli mammiferi acquatici e pesci, ma è gigantesco per quanto ne sappiamo. Non so dove si possa trovare. Ceneride ha qualche relazione con quei due Pokémon ma sicuramente potrebbe trovarsi sui fondali marini, e bisognerebbe scandagliarli con perizia per...”.
“Quindi dovremmo scandagliare i fondali marini. Con una specie di sottomarino?” ragionò Xander.
“So io dove procurarlo” annuì Ivan, la cui voce esordì per la prima volta all’interno della grande stanza, rimbombando fredda sulle pareti di roccia.
Xander si girò ed annuì, soddisfatto.
“Ok, di lei non abbiamo più bisogno. Sbarazzatevene, e non lasciate tracce” disse alle due Reclute  presenti sul palco.

“Cosa?! No!”

Quando Dylan si rese conto di aver pensato a voce alta, fin troppo alta, si guardò attorno: tutti lo fissarono straniti, come a chiedersi come potesse una semplice Recluta  ribellarsi al volere di Xander l’Idrotenente.
“No?” domandò quello, esterrefatto.
“No” ribadì Dylan in incognito, deglutendo dolorosamente.
“Come no?”.
“Semplicemente no”.
Dylan vide gli occhi di Dhalia spalancarsi: aveva riconosciuto la sua voce.
Ivan si alzò all’in piedi, spostando di peso Xander con una manata. Sorrideva, il Tenente.
“Chi ha parlato?” chiese, con voce baritonale.
Dylan stava morendo dentro, come se un pugno colpisse ripetutamente, con forza, i suoi organi interni e li rimescolasse; le gambe a stento lo sostenevano in piedi.
“I-io. Ho parlato io...” disse, alzando la mano.
Guardava sempre Dhalia che, accecata dai riflettori abbaglianti del palcoscenico di presentazione, non vedeva altro che la punta del suo naso e gli sgherri che aveva di fianco, ove mai avesse girato la faccia verso di loro.
“Vieni qui...” lo intimò Ivan. “Sali qui sul palco, mostrati. Voglio vederti in volto”.

Mi guardano tutti.

Scavalcò goffamente le transenne e si arrampicò sul palco. Passò da inginocchiato alla posizione eretta con qualche secondo di troppo e si mise in piedi, avvicinandosi a lei. La guardò negli occhi, quegli smeraldi sporchi di polvere mista a lacrime e spalancati al limite di ogni possibilità.
“Io. Me ne occuperò io”.
Ivan guardò Xander e sorrise sommessamente.
“Uhm. E perché vorresti occupartene tu?” fece il Tenente, curioso e divertito.
Dylan sospirò poi guardò un’altra volta negli occhi la donna e chiuse gli occhi. Velocemente le afferrò una ciocca di capelli e la tirò verso di sé, ostentando violenza.
“Perché sono appena arrivato e voglio mostrare il mio valore. Sarò io ad uccidere Dhalia Coraline”.

Non ci credo. Che sceneggiata sto mettendo in piedi?

Nascosti dalla luce dei fari che abbagliavano i volti di quelli sul palco, Dylan fu in grado di riconoscere la sagoma del Capitano Perkins, quello che aveva incontrato nel corridoio, mentre comunicava qualcosa a Xander.
Intanto Ivan aveva stampato sul volto quel sorriso divertito e calmo che, per chi lo conosceva, era quasi surreale.
“Sei un assassino?” gli chiese, con quella sua voce forte e gli occhi chiari che risaltavano sulla pelle olivastra e la barba scura.
“No... Non sono un assassino. Ma posso diventarlo. Voglio diventarlo. Voglio diventare forte...” sospirava lui, con voce incerta e sguardo basso mentre cercava di non stringere troppo i capelli della donna.
“Uhm... Ok. Xander, lascia che sia lui a liberarsi della donna. Ed ora dobbiamo parlare del Sottomarino...”
“Andiamo!” urlò rude Dylan, afferrandola per il collo e sperando con tutto se stesso di non farle del male.
Scesero dal palco, la recluta che aveva portato Dhalia lì sopra li seguiva.
“Me la vedo io, rimani qui” fece Dylan, con lo sguardo fermo. Quello annuì e tornò nella platea.
Ancora, la teneva fermamente per il collo, spingendola fuori, nel corridoio, dove altre reclute lo guardavano incuriosite.

La prima… no, la seconda porta.

Mise la mano sulla maniglia mentre sentiva la donna piangere. Lui rimase fermo e convinto dei suoi movimenti. Spalancò la porta, ed accese la luce con la mano.
Spinse poi la ragazza che ricadde su di un letto, urlando e piangendo, terrorizzata: il suo volto era incredulo. All’inizio credeva davvero che Dylan fosse lì per salvarla da tutto quello che le stava accadendo.
Ma perché trattarla così. Perché farle del male quando non c’era più bisogno di una falsa identità. Perché usare quei metodi con lei, che era il suo unico viso amichevole in quel luogo. Non riusciva a capire, Dhalia, il perché di tanta violenza da parte dell’uomo che credeva suo salvatore.
“Ed ora dì le tue ultime parole!” sbraitò l’uomo, prima di sbattere violentemente la porta alle sue spalle.
La faccia di Dhalia era diventata marmorea, incredula per quegli avvenimenti: il volto di Dylan dimostrava una strana determinazione ed i suoi occhi d’improvviso si riempirono di una luce strana che non aveva mai visto prima. Gli zigomi ben definiti del ragazzo erano alti, e gli occhi la scrutavano severi; le labbra erano diventate due linee, parallele ed emaciate.
La vedeva, lui: Dhalia era inciampata e caduta su di una branda. Gli occhi splendevano dietro lo scudo del braccio che aveva alzato, come se da solo fosse bastato a proteggerla da ogni male. Sporcizia le colava assieme alle lacrime sul volto, accumulandosi sotto al mento come stalattiti pronte a rovinare sul pavimento di una grotta.
Dal labbro usciva sangue, e cadeva sul lato della bocca, poi ancora più giù, sulla maglietta che le era stata data.
Dylan e Dhalia si scambiarono uno sguardo ricco d’ansia, ricco di paura. Colmo di rabbia.
E poi lui poggiò le spalle alla porta, chiuse gli occhi ed alzò al cielo il volto. Sentiva il mostro che stava covando al suo interno fuoriuscirgli salendo verso l’alto, usando i sospiri come via di fuga, lo vide fuoriuscire dalle sue labbra come un ammasso informe di gas color pece che si diradò una volta a contatto con l’ossigeno e l’umidità.
“Dannazione, sei viva...” fece lui, andando verso di lei e tirandola in piedi. Dopodiché la strinse in un vigoroso abbraccio, colmo d’ansie e paure.
Dhalia piangeva, rilassando leggermente i nervi tra le braccia di Dylan, l’unico volto veramente amico che c’era nel raggio di chilometri.
“Ti hanno fatto qualcosa di male?” chiedeva lui, passando una mano tra i capelli della nuca della donna, spingendola contro il suo petto.
“Mi hanno colpito il volto... ma per il resto sto bene” singhiozzò lei tremante, stringendogli le braccia, incredula per quello che stava succedendo.
“Adesso ce ne andiamo, tranquilla”.

La porta alle loro spalle cigolò. Spugna li guardava interdetto.

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