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The 25th Hour - Prologo

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- Prologo
- Universo X - 

- Adamanta, Edesea, Ospedale Civile - 
- 24 ore

“Le condizioni di Sonia sono critiche, Signor Jackson. Ciò che posso dire è che se l’operazione di trapianto al cuore non comincerà entro ventiquattr’ore da adesso, la situazione diverrà irreversibile e la bambina morirà”.
Oliver, quello che il Dottor Brown aveva chiamato Signor Jackson, si passava la testa tra le mani per capire come fare. Ricevere certe notizie, all’una del mattino, non era il migliore dei modi per cominciare la giornata. O per finirla, è tutto fin troppo relativo. Col capo basso valutò la situazione: un cuore viaggiava da Unima ad Adamanta chiuso in una scatola ermetica, su di un aereo bloccato in un aeroporto sperduto, colpito da una tempesta.
Non sarebbe finita in ventiquattr’ore, ne era certo.
E a Sonia, piccola anima gaia di soltanto sette anni, rimaneva soltanto un misero giorno di vita prima che il suo cuore, già affaticato per tutti i malanni che aveva subito, collassasse.
Il Dottor Brown si dileguò, lasciando quell’uomo davanti la finestra dell’Ospedale di Edesea, mentre deglutiva quelli che gli sembravano essere residui di limatura di ferro e brecce.
S’avvicinò al vetro gelido, le strade di gennaio erano ancora addobbate nonostante le festività fossero terminate la settimana precedente, e quella sera tutti sorridevano felici.
In particolare, Oliver vide un ragazzino della stessa età di Sonia, ben chiuso nel suo cappottino nero, con al guinzaglio un cucciolo di Growlithe che camminava dietro di lui.
Anche Sonia voleva un cane, glielo aveva chiesto migliaia di volte.
Ma i cani sono per i bambini normali, non per quelli che hanno difetti congeniti ai ventricoli.
Si chiese per quale motivo la buonanima di sua moglie avesse partorito una bambina rottamalfunzionante. Si chiese perché quella povera vocina dovesse essere squassata da attacchi di tosse violenta, conditi da macchie purpuree di sangue.
Sette anni. I bambini a sette anni corrono nei prati, giocano con gli amici, con la palla. Imparano.
No, in tutta la sua vita, da quando le era stata diagnosticata la displasia aritmogena del ventricolo destro, Sonia aveva passato più tempo in ospedale che a scuola.
E lei era una bimba vitale e sorridente, che lottava contro la sfioritura prematura della sua corona acerba. Una bimba che faceva di tutto un gioco.
Che lavorava con la fantasia per portare in alto la mente e allontanarla dai bip degli elettrocardiogrammi.
Oliver le stava vicino ogniqualvolta potesse. Lavorava come avvocato prima che le condizioni di Sonia peggiorassero. Era entrato in aspettativa ormai da due mesi e lo studio faceva enormi pressioni perché rientrasse in ufficio.
Ma insomma, era un suo dovere prima che un suo diritto stare vicino a sua figlia.
Non si scompose alla notizia, anzi, impostò l’orologio alla mezzanotte: due giri completi di lancette, quello era il tempo che aveva per procurare il cuore giusto a sua figlia.
L’uomo si ravvivò i capelli con la mano e poi sospirò.
Non era religioso, era molto pragmatico e schematico sulle cose. Aveva fatto della razionalità il suo unico vangelo.
Ammise a se stesso di aver paura e sciolse il nodo alla cravatta che portava quasi sempre ben stretta al collo.
Oliver era un uomo tutto d’un pezzo, non si doveva perder d’animo. Se il cuore che sua figlia avrebbe dovuto ricevere doveva arrivare da quell’aereo, ebbene, sarebbe arrivato da quell’aereo.

Rientrò nella stanza. La bambina leggeva un libro illustrato. Oliver la guardò sorridente, ma per finta. Intanto le lancette dell’orologio gli trapassavano l’animo da parte a parte, creando tumulto nel suo stomaco. “Piccola... sei ancora sveglia?” disse, provando a celare il nervosismo con un sorriso storto e triste.
Quella affacciò la coppia d’occhi smeraldini dalla balaustra di pagine che creava quel libro, quindi sorrise. “Papà. Il medico che ha detto?”.
“Il...” deglutì. Ancora ferro e pietre. Il medico ha detto che il tuo cuore sta per arrivare”. Le si sedette accanto, sorridendo e riconoscendo in lei lo stesso sorriso della donna che aveva amato e che aveva messo al mondo la sua meraviglia. Assomigliava a sua madre, in tutto e per tutto.
Toccò i gemelli del vestito; glieli aveva regalati proprio Roxanne. Ogni volta che la pensava, li carezzava, tanto da aver levato la patina lucida dell’oro.
“E dopo starò meglio?” domandò quella, chiudendo il libro con il dito dentro, per mantenere il segno della pagina.
Il papà annuì, carezzandole la testa ed arruffandole il ciuffo. “Certo. Dopo sarai la ragazzina più forte del mondo”.
“Bene!” esclamò lei, prima di tossire. Niente sangue, per fortuna. “Sarò fortissima!”.
Oliver annuì di nuovo, poi guardò l’orologio: erano passati sei minuti da quando i battiti del suo cuore avevano cominciato a triplicare ogni movimento delle lancette del suo Breil.
“Ora papà deve andare. Ma stai sicura che domani, a quest’ora, ti staranno operando. Avrai il tuo cuore nuovo...”.
“Mi opereranno?!” esclamò impaurita lei, spalancando gli occhi.
Oliver sorrise, divertito. “E come pensi che ti avrebbero messo, il cuore nuovo?”.
“Non faccio mica il medico! Mi lasceranno delle cicatrici, vero?”.
“Sì, ma col tempo non si vedranno poi tanto. Ora devo andare, sarà Suor Serina a tenerti compagnia fino a domani”.
“Ok. Vai a lavarti. E fatti la barba, che pungi”.
Oliver sorrise ancora, con le lacrime agli occhi. “Sicuro. Ci vediamo domani, bimbetta”.
“Ciao papà” fece, riaprendo il libro.


- Adamanta, Edesea, Università degli Studi di Storia -

Toc – toc.

Erano le diciannove da qualche minuto, e generalmente alle diciotto e trenta la facoltà chiudeva le porte d’ingresso. Sentire qualcuno che bussava alla sua porta era insolito, a quell'ora.
“Avanti” fece Alma, finendo di sistemare le carte sulla sua scrivania. Quella sera sarebbe tornata a casa e avrebbe preparato un bel piatto di fonduta. L’avrebbe steso su delle patate.
Calorico, ma con quel freddo non poteva fare altrimenti.
La porta si spalancò e un uomo dai capelli scuri e ben pettinati, occhi verdi e barba di tre giorni entrò; aveva la cravatta larga al collo e i gemelli consumati.
“Mi scusi per l’intrusione, Professoressa Ramìz, ma dovevo parlarle con estrema urgenza”.
Alma s’accigliò. “Avvocato Jackson. Che... che cosa è successo?”.
Oliver sospirò e portò le mani ai fianchi, cercando di buttare fuori tutta l’ansia che si stava accumulando.
“Si sieda pure. Vuole un po’ d’acqua?” domandò Alma.
“No, ho premura di parlarle, e la sua risposta dovrà essere concisa. Rapida”.
Alma mosse la testa per spostare la lunga treccia corvina alle sue spalle: faceva sempre a cazzotti con il colletto del camice. Poi gli fece cenno con le mani di parlare.
“Mia figlia, Sonia, ha un problema gravissimo al cuore, una malformazione congenita al ventricolo destro che la porterà a morire entro le prossime ventiquattr’ore se non si procederà ad un trapianto. Ecco, il gruppo sanguigno di Sonia è impossibile da trovare, lei sa che mia moglie non era propriamente... ecco...”.
“Sì, conosco bene la storia, ho aiutato personalmente Roxanne nel periodo della gravidanza, pace all’anima sua”.
“Già. Trovare un cuore per mia figlia è stato difficilissimo e dispendiosissimo, ma quando ci sono riuscito, beh, ero al settimo cielo. Stamattina era partito da Unima un aereo con su un box medico che conteneva il cuore destinato a mia figlia, ma una grande tempesta ha costretto l’aereo a un atterraggio inaspettato in un aeroporto poco oltre i confini di Unima. E stasera il dottore mi ha informato che, per le condizioni del cuore di mia figlia, nonostante sembrasse così pimpante, aveva soltanto ventiquattr’ore di vita. E ora...” abbassò lo sguardo sull’orologio,
“... sono soltanto ventitré ore e trentotto minuti” disse, con una freddezza che Alma non sarebbe mai riuscita ad avere. Annuì, lei, incrociando le mani e girando i pollici.
“Lei mi deve aiutare. Devo recuperare quel cuore, in ogni modo”.
“Ha a disposizione fondi sufficienti per un recupero d’emergenza?” domandò la Professoressa.
L’uomo fece spallucce. “Non sarebbe sufficiente il tempo. Andata e ritorno porterebbero via trentasei ore con un jet veloce e l’aereo ce ne impiega ventitré per arrivare qui... E ora è bloccato, e il tempo scorre...”.
Alma sbuffò; quelle cose erano così ingiuste che quasi non comprendeva come potesse davvero esistere una divinità quando succedevano cose del genere.
“C’è un modo, forse...” disse lei, abbassando lo sguardo.
Oliver spalancò gli occhi, pendendo dalle belle labbra della donna che aveva di fronte.
Alma, sospirò, aprendo il PC che aveva chiuso e digitando qualcosa.
“Beh, ci sono diverse leggende... Una che forse potrebbe interessarla è... quella... di Jirachi” disse, mentre batteva qualcosa alla tastiera. Girò il monitor e mostrò all’uomo una foto di quel Pokémon.
“È simile a una fata, e ha il potere d’esaudire tre desideri...”.
E a quelle parole Oliver s’illuminò. “E dov’è?!”.
“Avvocato, è fortunato, perché si sveglierà stanotte, assieme alla caduta della sua stella. Calcoli che non sarà semplice trovarlo ma sappia che non è impossibile. Ha ventiquattr’ore per trovarlo”.
“Ventitré ore e trentaquattro” rettificò quello. “Il tempo adesso è importantissimo”.
Alma annuì, con un mezzo sorriso sulla faccia: era felice d’averlo aiutato ma al contempo non era affatto compiaciuta delle condizioni della piccola Sonia.
“E dove lo posso trovare?” fece nuovamente.
“La pioggia di stelle che preannuncia l’arrivo di Jirachi sulla terra è avvenuta ieri sera. Stasera dovrebbe cadere anche la sua cometa. Non posso dirle con precisione dove avverrà ma sarà nei cieli di Adamanta, o di Sidera".
“Sidera?! È lontanissima! Alma, ho bisogno di trovare subito quel Pokémon!” urlò Oliver, battendo i pugni sulla scrivania. La donna spalancò gli occhi, impressionata dal gesto.
“Scusi...” aggiustò il tiro lui. “Devo fare presto ed ho paura per mia figlia...” disse l’uomo, respirando con la bocca.
“Non posso fare nulla di più per aiutarla, avvocato. Guardi il cielo e trovi Jirachi. Dopo desideri di curare sua figlia e ha risolto... so che non è così semplice ma il suo piano deve essere questo”.
Oliver abbassò lo sguardo, sospirando e digrignando i denti; nel suo stomaco si stava rimestando tutto il whiskey che aveva promesso di non bere.
“Non potrei mai desiderare di curare mia figlia, sa bene quanto complicata fosse Roxanne… Sonia è sua figlia, ed è l’incompatibilità genetica dei suoi genitori ad averle provocato questi problemi. No, Sonia deve ricevere quel cuore”.
“Non ha senso, avvocato...” sorrise Alma, quasi schernendolo.
“Lo so, ma mia figlia ha bisogno di quel cuore e sarà quel cuore a entrare nel suo petto, non la magia dei Pokémon o quant’altro...”.
“Non crede che Jirachi possa curare sua figlia?”.
“E se si sbagliasse?!” esclamò improvvisamente. “E se il mio desiderio venisse male interpretato?! Sonia morirebbe nonostante tutti i miei sforzi!” urlò accorato.
“Si calmi”.
“Certo, scusi. Anzi, la ringrazio molto” disse quello, sistemando poi il nodo alla cravatta. Strinse la mano alla donna e corse a casa.


- Adamanta, Edesea, Casa dell’Avvocato Oliver Jackson -

Mancavano ventitré ore e dodici minuti ed era ormai notte quando Oliver rincasò.
Il perfetto ordine e il silenzio gli ricordavano quanto tempo fosse passato dalla morte di sua moglie Roxanne. Era parecchio disordinata e sbadata, lei, ma a lui non importava.
Lei era speciale e ciò giustificava tutti i difetti che si portava appresso.
Indossò le scarpe da corsa e i pantaloni d’una tuta nera, abbastanza larghi. Felpa dello stesso colore e cappuccio alzato sulla testa.
L’avvocato s’era cambiato. Si sentiva Matthew Murdock guardandosi allo specchio. Salì su in terrazza e si stese a guardare il cielo immenso, mentre le lancette dell’orologio gli ricordavano che era lì a far niente, a perdere tempo. Sentiva come una grande forbice che accorciava la linea della vita di sua figlia con avidità.
Sospirò, una mano piena di spine sembrava stritolargli la pancia dall’interno; gli faceva male. Prese allora il cellulare, guardando l’immenso e l’infinito che s’incontravano nella volta e la coloravano con tanti punti luminosi, messi lì senza un motivo. Chiamò il cellulare di Sonia, nonostante fosse notte fonda.
Rispose quasi subito.
“Papà...” disse lei, con voce compressa.
“Hey, bimbetta, che vocina. Scusami se ti ho svegliata, ma volevo sentirti prima di...”.
“Dove devi andare, papà?” tossì lei.
“A… a fare un servizio importantissimo, Sonia. Ma domani io sarò affianco a te”.
“Non mi sento molto bene...”.
Gli occhi di Oliver si spalancarono. “Non preoccuparti, sei solo stanca, oggi hai letto molto”.
“Ma quando potrò uscire dall’ospedale? Ho tanta voglia di tornare a casa”.
Una lacrima scese involontaria sulla guancia dell’uomo.
“... Subito, amore. Il cuore arriva subito e tu tornerai a casa prima di quel che pensi”.
“Oh, ok. La suora voleva che mangiassi la mela cotta...” fece, con voce ancor più compressa, seguendo poi il tutto con un colpo secco di tosse. Oliver attese l’esito.
“C’è di nuovo sangue...” disse la piccola. “Mi fa male il cuore, papà”.
Oliver piangeva a dirotto ormai, mordendosi le labbra per non lasciarsi andare alle emozioni.
“Lo aggiusteremo, Sonia. Aggiusteremo tutto. Staremo bene e vivremo per sempre insieme”.
Allontanò il telefono dall’orecchio e si disperò, commiserando la propria inutile vita. Sentì Sonia chiamarlo.
“Eccomi”.
“Perché stai piangendo, papà?”.
E quello gli diede il colpo di grazia, permettendo al malessere di strappare quei lacci di speranza che aveva attaccati al polso. “Non sto piangendo... È raffreddore. Tu invece copriti bene e vai a dormire, che è tardi”.
E poi il cielo si rischiarò in parte quando, lenta e silenziosa, una scia argentata tagliò la volta, andando a puntare una zona del sud della regione.
“Ok, papà... dormi bene”.
Attaccò, mentre l’uomo guardava l’orologio che ormai segnava ventidue ore e cinquantotto minuti alla fine.

Non dormirò affatto, bimbetta. Credimi, non dormirò.

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