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Lev - Il Pianto Delle Stelle - Epilogo - Nostalgia

Epilogo – Nostalgia
 
Kalut scese da Arcanine, il Pokémon Leggenda tornò docile nella sua Ball. Vivalet era una città grande, almeno così gli era stata descritta, eppure non si sarebbe mai aspettato di vederla tanto movimentata. Il ragazzo sostava immobile in mezzo ad una via dell’isola pedonale trafficata e calpestata da alcune migliaia di piedi di umani e di zampe di Pokémon. Udiva voci, schiamazzi, versi, ma non ne distingueva con chiarezza nessuno. E la cosa lo infastidiva. Molto.
Decise che prima di mimetizzarsi nella città avrebbe dovuto impegnarsi a comprenderla e a capire più o meno cosa essa offrisse o contenesse.
Camminò per alcuni minuti prima di fermarsi accanto ai tavolini esterni di un bar: una coppia di ragazze, loro erano il suo obbiettivo. Finse di iniziare ad allacciarsi le scarpe, intanto origliò la loro conversazione.
‒ Tra un anno, non ricordo in che periodo preciso, ma vogliono organizzarlo a Vivalet ‒ la sua voce era entusiasta.
‒ Proprio le Internazionali? Era da un po’ che non organizzavano un nuovo torneo… ‒ mormorò la seconda, prima sorpresa, quindi titubante.
‒ Lo sai, con tutti gli eventi degli ultimi anni, hanno saltato qualche occasione.
‒ Dimmi un po’, ci sarà anche Ruby? ‒ chiese poi una delle due con fare più malizioso.
‒ Solitamente, più per tradizione che per altro, tutti i Capipalestra dovrebbero partecipare alle Internazionali.
‒ Mhhh… non vedo l’ora di vederlo in azione, dicono che anche quando è in lotta riesca a far brillare i suoi Pokémon come in una gara ‒ proseguì quella persa del suo idolo.
‒ Sì, e sai qual è un’altra cosa interessante? Ci sarà anche Green di Smeraldopoli!
‒ Oddio, io adoro anche…
Conversazione terminata, scarpe allacciate, Kalut scollegò la sua attenzione. Cercò nella folla qualcuno che parlasse dello stesso argomento delle due ragazze, non trovò nessuno. Secondo obbiettivo, si accostò a due signori di età avanzata che sembravano conversare amabilmente durante un passeggio rilassante. Uno dei due aveva una barba che piacque molto a Kalut, bianca e morbida.
‒ È giovanissimo, ha qualcosa come vent’anni.
‒ E perché si fa chiamare Zero?
Kalut affinò l’udito.
‒ Dicono che sia un soprannome che ha fin da ragazzo, altri ipotizzano che serva solo a completare l’immagine misteriosa che dà di lui, altri pensano che intimorisca gli avversari.
‒ D’altronde abbiamo visto tutti il suo scontro con l’ex Campione, è fortissimo, il suo mestiere sa di sicuro farlo…
‒ Sì, e poi effettivamente è merito suo se abbiamo la Holon di oggi, alla fine è stato lui a creare la Lega per come l’abbiamo allo stato attuale.
‒ Hai ragione, ha rialzato parecchio il livello, prendi il Capopalestra Fosco ad esempio, lui a Hoenn faceva il Superquattro…
‒ Sì, infatti… ma poi alla fine come hai risolto con quel Sawsbuck?
Di nuovo, chiusa conversazione. Kalut cambiò strada.
Gli sembrava qualcosa, decise che avrebbe continuato con l’ascolto per tutto il resto della giornata, uno come lui si trovava a suo agio solo con quel metodo di informazione e dato che riusciva tanto bene, perché non utilizzarlo?
Terminò ore dopo. Il ragazzo si infilò nel primo vicoletto mezzo nascosto e invisibile che incontrò. Valigia in spalla, muscoli rilassati, fece un balzo. Si appese al cornicione della finestra del piano terra del palazzo, si dette lo slanciò con le braccia e le spalle: ancora più su. Proseguì giungendo in cima a quell’edificio di quattro piani senza problemi. Lasciò la valigia sul tetto, da quel momento gli era solo d’intralcio. Aveva già localizzato la sua metà da quando era a terra, non gli restava che scalare un altro po’. Si avvicinò alla torre del palazzo adiacente a quello su cui era salito. Salì su di essa senza grosse complicanze, giunse in cima e si appostò sul muretto a riprendere fiato. Dopo un minuto era già fresco come una rosa. Si alzò in piedi e si mise in bilico proprio sul bordo della torre. Davanti a sé aveva Vivalet, città gigante ma che riusciva a farsi apprezzare in certi momenti e in lontananza riusciva a scorgere il Monte Roccianera.
‒ Vedi quello, Xatu?
Il Pokémon Magico, fuoriuscito in totale autonomia dalla Ball che Kalut aveva lasciato in valigia, quindi una ventina di metri sotto, lo aveva raggiunto e gli era comparso alle spalle. Kalut lo aveva percepito, ovviamente.
“Kalut, come ti senti?” domandò Xatu.
­­‒ Non è un po’ presto? Non sono ancora caduto… ‒ ironizzò il ragazzo.
“Che cosa devo guardare?” domandò Xatu comprendendo che non era il momento di essere seri con il suo Allenatore.
‒ Su quel monte… ‒ si corresse. ‒ Su una vetta di quella catena montuosa che attraversa Holon in tutta la sua lunghezza c’è la sede principale della Lega, luogo in cui io sono diretto ora.
Il sole era già alto nel cielo, la brezza calda e soffice dell’estate di Holon che si accingeva a terminare. C’era silenzio in cima a quella torre su cui era salito il ragazzo. Solo un sottile brusio di fondo proveniente dalle strade sottostanti lo raggiungeva.
Kalut osservava in lontananza, mentre Xatu sorvegliava.
C’era silenzio. E senza accorgersene, era giunta la sera. Tra il pranzo, il viaggio, l’arrivo e lo spostamento, l’operazione di ascolto delle persone e infine la cena, tutto il tempo se n’era andato e anche quel sei settembre giungeva al termine. Si sentiva vivo e pronto a correre di nuovo.
Non sapeva perché lo stesse facendo, ma supponeva di volerlo fare per un qualche istinto primordiale all’azione che lo spingeva ad agire e non rimanere immobile. Irrequietezza dell’animo. Per un momento fece mente locale e verificò la cifra di passi che aveva mosso sul suolo urbano fin dalla sua nascita, più o meno era quella. Anzi, di sicuro, bel numero, tante cifre, avrebbe continuato a contare.
Kalut sorrise, sentiva le voci di quello che avrebbe vissuto, i rumori che avrebbe udito, i pianti che avrebbe ascoltato.
Eppure c’era silenzio. Ma lui non se ne rendeva conto.
 
Lo sguardo congelato di Celia, le sue pupille immobili stampate sulla carta dei suoi occhi, le sue lacrime asciutte lungo le guance e lungo tutto il collo. Era accucciata, seduta addosso ad un albero che fissava il vuoto davanti a sé e il bosco immobile nella sua brulicante vitalità.
Sidera sembrava spenta per lei. Il sole sembrava spento.
Ad un certo punto prese il suo fidato diario, compagno di mille momenti e di mille sfoghi e di mille problemi. Vi scrisse sopra solo quattro parole.
Fissò Antares. Lui ricambiò lo sguardo.
Tornò al diario, elencò gli avvenimenti della giornata nella più totale asetticità e infine scrisse le sue sensazioni riguardo ad essi. Aggiunse poche righe alla fine, che scrisse sull’ultima pagina del suo diario a forma di barretta di cioccolato morsicata, dove diceva quanto fosse il momento di reagire e fortificarsi. Tutte frasi fatte ovviamente, ma le stava riportando solo per darsi la carica.
Era stanca, voleva riposare e allo stesso tempo avrebbe voluto gettare giù il mondo per la rabbia che aveva dentro. Purtroppo, l’unico compromesso possibile era gettare quante più parole poteva sul foglio.
Pensava a Marcos, pensava ai suoi genitori allo stesso tempo che ricordava poco e male, ma che aveva sempre identificato come mamma e papà che sono morti in un incidente e mi hanno lasciato orfana.
Non se ne era mai curata particolarmente, era piccola, era ingenua, avrà pianto parecchie volte, ma non le era mai mancato l’affetto di una famiglia reale. Non con Marcos e Xavier accanto.
Inconsciamente stava parlando pure con Avril.
Quattro parole, soltanto quattro parole le aveva veramente dedicato, in mezzo a racconti schematici e frasi inutili:
“Avril, sono diventata grande”
E un semplice no venne fuori dalla sua coscienza. Una piccola negazione che doveva farle rivalutare la sua frase.
“No, Celia, un brutto avvenimento come la morte di uno o più parenti non ti fa diventare grande…” mormorò Avril sincera.
“Ah no?” domandò lei poco presente.
“No” rispose marmorea.
Celia versò un ultima lacrima.
“Un grande dolore non ti rende una persona matura, ma ti dà un ostacolo da superare per diventarla” concluse Avril.
Celia si risvegliò dal suo torpore. E per un momento la ragazzina tornò con la mente a tutto ciò che aveva fatto negli ultimi giorni. La sua vita che era mutata completamente e tutto ciò che stava attorno a lei che era cambiato e diventato tutt’altro. Catapultata in una realtà completamente diversa da quella a cui era abituata, poteva lasciarsi travolgere o no, poteva lasciare tutto o no.
Silenzio per un istante.
Guardò Antares, suo mentore, lei era sua allieva, guardò se stessa e quello che era, quindi guardò Avril e quello che sarebbe voluta essere. O che sarebbe potuta diventare.
Aveva trovato un modo per avere una rivincita con se stessa. Sapeva come gettare tutto quel marcio che aveva dentro in un serbatoio per renderlo un potente combustibile.
Tornò indietro, doveva superare un ostacolo per diventare una persona matura. Era pronta. O almeno si sentiva tale. E forse non erano due cose poi così diverse.
Girò pagina dietro pagina, finché non ricomparve davanti a lei la frase che aveva calcato a caratteri cubitali, quelle quattro parole che per lei valevano tanto ma che aveva capito non essere vere.
Rigo sopra, le riscrisse, modificando qualcosa:
“Avril, sto diventando grande”
 
“Non sono stelle…”
E Xavier rifletteva su quanto tutti avessero dato contro di lui. Si stava facendo schifo da solo, prima Cassandra, poi Julie e infine Celia stessa, sua sorella osava pure nascondergli la morte di papà.
Non ne poteva più, sentiva il sangue che pulsava sulle tempie e il formicolio dei suoi nervi sulla punta delle dita. Aveva dato, nulla gli era tornato indietro e qualcuno aveva osato anche prendersi di più.
‒ Accetto ‒ disse soltanto a Willow. ‒ Qualsiasi cosa vogliate farmi fare, accetto…
Era più una questione di principio. Era quasi solamente una questione di principio. Decise che sarebbe tornato a Delfisia, a casa sua, di nascosto e avrebbe preso la roba che gli serviva scomparendo dalla circolazione. Era la cosa più dignitosa, d’altronde.
“Non sono stelle…” intanto pensava. “Sono ammassi di detriti e ghiaccio, il pianto delle stelle è in realtà una buffonata…”
Sentiva il bisogno di agire, di sfogarsi contro qualcosa e di litigare con suo padre per essersene andato in maniera così grigia e triste durante la sua assenza. Non intendeva piangere, sapeva bene che il suo vecchio lo avrebbe preso in giro.
E allora, si chiese, neanche suo padre aveva pianto la separazione con sua moglie? Probabilmente sì, ma forse aveva desiderato in quel momento un figlio più forte di lui. Migliore di lui.
Suo padre, Marcos, non era mai stato una cima in nulla. Brava persona, bravo cuoco, ma non molto di più. Aveva sempre lavorato sodo, dall’alba al tramonto, per riportare a casa un pasto a quei due ragazzini che cresceva.
Eppure, non era mai stato un eroe moderno, di quelli che si ammazzano di fatica rinunciando alle ferie e alle vacanze senza farne sentire il peso a chi gli sta vicino. Lui lo rinfacciava spesso, quando era arrabbiato o nervoso, e a volte esagerava anche nelle sue reazioni. Comunque rimaneva una brava persona, gli aveva dato le sue libertà, non aveva mai cercato di cambiargli la vita, né nel male né nel bene, non aveva mai voluto strafare. Una persona semplice, con i suoi pregi e i suoi difetti.
E uno di questi difetti era, appunto, la sua labilità. Se n’era andato.
E Xavier senza accorgersene iniziò a piangere un po’ sommessamente, con dignità. Il suo subconscio aveva deciso che anche la morte di una persona normale andava pianta. Persona normale.
Quanto normale possa essere considerato un aggettivo utilizzabile nella lingua parlata a livello assoluto è veramente ignoto. Anche lui, tecnicamente, era una persona normale. D’altronde era una cosa tipica dei tre quarti delle persone, partire per un viaggio in cui affinare le proprie abilità di Allenatore. E si rese conto, Xavier, che in mezzo a quelle persone lui non era mai stato il più forte, il migliore o il più intelligente.
Lui era, come tutti sono, una persona normale.
Come suo padre, come sua sorella, come tutti quanti.
Nessuno è migliore degli altri veramente… nessuno emerge… alla fine sei sempre tu, tu in mezzo ad un mare di altri tu.
Eppure, in tutto quel marasma di pensieri, Xavier, non riusciva ancora a trovare il suo filo di ottimismo. Ma sapeva di essere sulla buona strada.
“Non sono stelle…”
 
 
Il Pianto Delle Stelle
Fine
 
Angolo dell’autore
Mi fa un certo effetto leggere quella parola che inizia con la F lì sopra.
E sì, so che sono un sentimentalista, ma poco ci fai, è così…
Alla fine abbiamo concluso, cioè, abbiamo concluso più o meno quello che possiamo dire il “prologo” della serie One Soul, ma siamo già a buon punto dai, ho iniziato con il pezzone pesante – IPDS – e spero di andare avanti in discesa, anche perché ho roba grossa in serbatoio.
Per il resto, sono contento, soddisfatto di tutto, di Courage, di questo, di quello che sta per arrivare e più o meno anche di me.
Ringrazio tutti coloro che hanno seguito fin dall’inizio o che seguiranno in un secondo tempo, mi commuove sempre sapere che qualcuno apprezza ciò che combino…
E avrei potuto utilizzare tutti i concetti che ho infilato in IPDS e infilerò in tutte le storie che seguiranno in delle serie originali… non legate ai Pokémon… magari avrei potuto pure venderle e non pubblicarle su internet… ma boh, alla fine non sarebbe stata la stessa cosa, non sarebbe stato come fare una Fan Fiction. Per vari motivi, per questioni di cuore e questioni di gusto. Ho scelto questo e lo porterò a termine.
Grazie ancora. Davvero. Soprattutto a te, bro.
 
Levyan aka Luca, per gli amici

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