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TSR - 17 - Tessere del Mosaico pt. 5

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17. Tessere del Mosaico pt. 5
- Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7 –

Quel leggero venticello aveva accompagnato le vite di entrambe.
Si parla ovviamente di quei soffi leggeri che si fanno spazio tra i tronchi degli alberi, che pettinano i campi d’erba alta e secca.
Quei soffi che spostano i ciuffi di capelli davanti agli occhi.
“Come sarebbe... come sarebbe a dire?” diceva Diana, vedendo quella donna, praticamente sua coetanea, mentre si mostrava alla luce del sole filtrata dalle foglie. “Come sarebbe a dire che sono tua madre?!”.
Yellow era totalmente immobile, ormai non si rendeva più conto della differenza tra finzione e realtà, tant’era vero che non sentiva più tra le mani la sfera di Omny, né percepiva più la presenza di Sandra, ai suoi piedi. Osservava il volto della donna, così somigliante al suo, con quei lineamenti aggraziati ed il taglio d’occhi inconfondibile.
Al posto dei raggi di sole però, tra le palpebre, quella aveva due smeraldi d’inestimabile valore.
“So che è difficile da spiegare ma è come ti dico...” diceva quella, avvicinandosi lentamente. Diana si spaventò terribilmente ed il suo primo pensiero andò alla bambina, avvolta nella copertina ed appoggiata su di un letto di foglie. S’avventò su di lei e la prese tra le braccia, stringendola con vigore.
“Aiutatemi!” urlò poi, vedendo i Pokémon del Bosco Smeraldo avventarsi contro la nuova arrivata, proprio come suggeritole dal marito.
Yellow rimase impassibile, abbassando lo sguardo e poi chiudendo definitivamente gli occhi.

Non vengo per far del male. Mi chiamo Yellow e proteggerò per sempre i Pokémon del Bosco Smeraldo; questa è casa mia”.

I suoi pensieri riverberarono nelle menti di quelle creature, che si bloccarono immediatamente sotto gli occhi stupiti di Diana.
“Io mi chiamo Yellow e sono la bambina che hai tra le braccia. Come quel Domadraghi io... io riesco a parlare con questi Pokémon”.
La donna lasciò che l’avventrice la raggiungesse.
“Non voglio farti del male” sorrideva quella, con le lacrime agli occhi ed il sorriso più dolce di cui era fornita. “Vorrei solo conoscerti”.
A quel punto anche Diana perse una lacrima, che cadde lenta sul suo viso e si tuffò oltre, affondando nella morbida copertina nella quale la piccola Yellow era avvolta. Abbassò il volto e vide la bambina che dormiva tranquilla; pensò alla sua incolumità, al fatto che in quel bosco, paradossalmente, sarebbe stata più al sicuro che al di fuori, dove i Domadraghi le avrebbero resa la vita impossibile.
Rialzò però lo sguardo e si rese conto che quella donna, sua figlia, indossasse una maschera di cera sul volto: quella bellissima ragazza aveva vissuto tutta la sua vita senza sapere minimamente chi fossero i suoi genitori e si era ritrovata in quel posto, in quel momento, senza sapere come.
Sentiva la sua sofferenza premere con forza al di fuori del suo petto, quasi la si poteva toccare con mano e infine riguardò la bambina: non voleva che sua figlia soffrisse in quel modo.
“Io non posso lasciarti qui!” esclamò, parlando alla neonata come se potesse capire le sue parole. Non riuscì più a trattenere il pianto, che si perpetuò torrenziale, per diversi minuti. “Devo portarti via!”.
“Ti darò una mano” sorrise Yellow. “Ed anche i Pokémon lo faranno. Ci aiuteranno con quel Dratini. Scenderemo per Smeraldopoli e poi da lì...”.
“È fuori discussione!” esclamò Diana, svegliando la piccola. Quella prese a piangere. “No! No, piccola mia, no! Tranquilla, non è successo nulla... Non possiamo fuggire da sud perché è quella la rotta che Donald percorrerà per tornare ad Ebanopoli. Dobbiamo andare ad est”.
“Il Bosco si estende fino ad Azzurropoli, seguendo la direzione che hai detto” ragionò Yellow.
“Da lì prenderò un bus fino ad Aranciopoli e poi cercherò un modo per pagare un traghetto che mi porti lontana da Kanto e Johto. Ma non ho con me nulla, non ho documenti, niente!”.
“Tranquilla”.
Diana alzò gli occhi verso di lei e poi li riabbassò. “Ho solo lei. Te”.
“Ed è tutto quel che ti serve. Ora però dobbiamo pensare a quel Dratini...”.
Guardò i Pokémon e si concentrò.
Ci serve l’aiuto d’un Pidgeot, amici” pensò poi. Il piccolo Pidgey che stava nel gruppo s’alzò in volo, grugando rumorosamente e scatenando una tempesta di piume, scaturita dall’enorme massa di Pokémon, uguali al primo, alzatisi in volo in quel momento.
“Dov’è andato?” domandò Diana, cullando una Yellow in lacrime.
“A chiamare rinforzi”.

 
- Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1 –

Le fiamme.
Ovunque le fiamme.
E polvere che si mischiava alla cenere. Red s’intrufolò lentamente nell’enorme camerata, priva ormai di mura centrali, ed effettuò un rapido check attraverso il fumo ed il fuoco per trovare Valerio e gli altri superstiti.
Lo fece, sentendo il pianto e la tosse di qualcuno. S’abbassò rapido e si diresse verso sinistra, dove l’ultima parete della sala era stata praticamente rasa al suolo.
Jasmine piangeva, col volto di chi aveva visto uno spettro, mentre Valerio stringeva tra le braccia Chiara. Il corpo di Raffaello era steso inerme a qualche metro di distanza; aveva assunto una piega del tutto innaturale ed il suo collo era spezzato.
Il suo sguardo era vuoto.
“Ragazzi!” esclamò Red, abbassandosi verso Jasmine. Quella pareva fosse in grado di guardargli attraverso, come se non si fosse per nulla accorta della sua presenza.
La scosse poi per le spalle. “Jasmine. Jasmine! Diamine, che cosa sta succedendo, qui?!”.
“Corrado...” sussurrò lei.
“Corrado è morto?!”.
“Corrado...” ripeté, con la voce che tremava assieme alle labbra.
Red sospirò e poi tossì; c’era troppo fumo lì, i Capipalestra dovevano uscire all’aria aperta.
“Valerio” disse poi, voltandosi verso di lui.
“Red... È stato un suicidio. Non siamo minimamente in grado di competere con Jasmine”.
“Ma lei è qui!” s’alterò l’uomo dagli occhi rossi.
“No! Non sono io!” rispose a tono quella. “Io non farei mai una cosa del genere!”.
“Mi spiegate, per cortesia?!” continuò Red.
“Devi fare in fretta!” piangeva quella di Olivinopoli, con le lacrime che ormai le avevano scavato un solco lindo sulla faccia sporca di fuliggine. “Corrado è andato a combattere contro di me!”.
“Valerio, per favore! Mi sembri il più lucido!”.
Il Capopalestra di Violapoli si voltò leggermente, e ciò scatenò il dolore di Chiara, ancora sveglia, che urlò con tutta l’energia che aveva in corpo.
“Scusami! Scusami, Chiara, scusami! Red, c’è una donna totalmente identica a Jasmine in fondo a questa sala! Con soli tre Pokémon è riuscita a sconfiggere Jasmine, far fuori Raffaello e ferire me e Chiara”.
“Che vi è successo?”.
“Io ho un braccio rotto ma il problema vero è lei... Chiara è stata coinvolta nella terza esplosione, quella più forte, che ha aperto una breccia nel soffitto. Il tetto è crollato ed è stata infilzata nell’addome da alcuni detriti appuntiti. Raffaello, che le era accanto, non ce l’ha fatta”.
Red annuì, comprendendo la situazione.
“Dovete uscire da qui. Siete poco lontani dall’ingresso”.
“Non posso portare fuori Chiara. Inoltre c’è il corpo di Raffaello”.
Gli occhi rossi di Red s’incontrarono a metà strada con quelli cerulei di Valerio e fu come se si parlassero.
“Non lo lasceremo qui. Riceverà una degna sepoltura”.
“Se non moriremo” aggiunse il poliziotto.
Red abbassò lo sguardo e raccolse l’attenzione dell’uomo. “Oggi non morirà più nessuno”.
Jasmine annuì nervosa, convinta che Red avrebbe mantenuto quella parola.
Fu poi aiutata da lui ad alzarsi, ed uscì all’esterno per respirare un po’ d’aria pulita. Le luci dell’alba non erano molto lontane.
“Stai qui” le disse. “E stai attenta”.
“Aiuta Corrado! Ti prego!”.
“Assolutamente...” mormorò, voltandosi e tornando dentro, con l’incavo del braccio davanti a bocca e naso. Accorse verso il corpo morto di Raffaello e deglutì un boccone amaro quando fu in grado di vederne il volto da vicino: metà del suo viso era totalmente coperto di sangue mentre l’altra parte era sostanzialmente ciò che rimaneva dopo l’impatto con il pesante marmo dell’antica copertura.
“Pensa a cose belle, Red. Pensa a Yellow...” sospirò, caricandosi in spalla il corpo esanime del più giovane tra i Capipalestra di Johto. Lo poggiò su di un cuscino d’erba umida, all’esterno, sul quale strofinò invano pure le mani per pulirsi dal sangue sporco del ragazzo.
Entrò nuovamente, correndo verso Chiara.
Aveva i capelli sciolti, scuriti dalla cenere. Piangeva copiosamente, non riuscendo a trattenere gemiti di dolore. Stringeva i denti però, e ciò dava rilevanza ad una cosa importantissima: era ancora viva.
Abbassò lo sguardo verso l’addome della donna, ricolmo di sangue, dov’era penetrata una scheggia affilata di marmo.
“Lì ci sono gli organi. Se leviamo questo pezzo di marmo provocheremo sicuramente  un’emorragia. In più non riesce a muoversi. La situazione è complicata”.
“Red... ferma tutto questo” continuò Valerio. “Le Rovine D’Alfa sono un bene di tutti...”.
“Devo portarvi fuori da qui, prima” disse, alzando la maglietta di Chiara fin sotto il bordo del reggiseno; il sangue era colato fin sull’ombelico e poi oltre, macchiando il bordo dei jeans.
“Ora sollevo prima te, Valerio, va bene?”.
Una forte esplosione fece sussultare Chiara, che di conseguenza urlò come una forsennata.
“Aiutatemi!” piangeva quella, stremata.
Il Dexholder strappò il polsino al proprio giubbino e lo arrotolò, infilandolo tra i denti della Capopalestra dai capelli rosati. “Lo so che fa male. Fa malissimo, Chiara, posso solo immaginarlo, e tra poco farà ancora più male. Quindi stringi i denti: otto passi e sarà tutto finito. Valerio, spero tu riesca a camminare da solo perché devi essere parecchio più rapido di me nell’aprirmi la porta” fece l’ex Campione della Lega di Kanto.
Gli occhi di Chiara erano in apprensione e quando le mani di Red, calde ancora del sangue di Raffaello, l’afferrarono sotto le braccia per sollevarla lei già sentiva quei forti spasmi che di lì a poco avrebbero squassato il suo intero corpo.
Fu breve ma intenso: Red la sollevò e Chiara emise l’urlò più forte che avrebbe potuto produrre; Lui la sosteneva, quella non riusciva a mantenersi in piedi, ed intanto Valerio rotolò con fatica verso sinistra e si mise in piedi, spalancando la porta della Sala 1 e permettendo ai due di uscire fuori.
“Cazzo!” urlava la donna. “Chiamate qualcuno!”.
“Jasmine, devi occuparti di loro” chiosò Red, voltandosi e rientrando. Il fumo nero era incanalato dalla corrente verso il fondo della sala, dove la grossa breccia nel soffitto gli permetteva di uscire. Sfera alla mano avanzò rapido, cercando di capire dove dirigersi: tutt’intorno, infatti, era soltanto un insieme sconnesso di macerie e di Pokémon esanimi.
Red riusciva a vedere i Pokémon dei Capipalestra inermi mentre, avanti di quasi trenta metri, un individuo si muoveva rapido.
“Hey tu! Fermati!”.
L’ombra si voltò. Aveva capito d’esser stata vista.

 
- Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7 -

“Cerca di capirmi, piccolina...” diceva Sandra, sorridendo a se stessa mentre s’inginocchiava, per poter guardare meglio negli occhi la sua versione del passato. “So che vuoi rendere fiero papà ma ricorda una cosa: devi stare con chi ti ama. Non voglio che tu venga condizionata dalle mie parole, tra un paio d’anni riuscirai ad entrare all’interno dell’ordine dei Domadraghi e sarai una delle prime donne a farlo. Impegnandoti diventerai anche Capopalestra di Ebanopoli”.
La piccola si grattò la fronte, spettinandosi il ciuffo azzurro che aveva ben pettinato. Tuttavia ascoltava affascinata le parole di quella donna.
La osservava in volto, notando come quei tre piccoli nei fossero disposti nella stessa e identica maniera in cui li aveva lei, sulla guancia. Aveva visto anche che i capelli fossero dello stesso colore di sua madre, e del suo, ovviamente.
E poi gli occhi. Aveva visto quegli occhi quasi ogni giorno, guardandosi allo specchio.
Forse fu per ingenuità; forse proprio per quell’inesperienza di cui era stata accusata da suo nonno quel giorno, ma non riuscì nemmeno ad avvicinarsi alla realtà dei fatti, col pensiero.
Non era riuscita a capire che quella donna, inginocchiata davanti a lei, fosse proprio lei.
“Capo... capo della Palestra di Ebanopoli? Come il mio papà?”.
Sandra non ricordava quanto fosse dolce la sua voce, da bambina. Si limitò ad annuire.
“Ma voglio avvertirti: i Domadraghi non ti prenderanno sul serio fino a quando non ti dimostrerai capace, ed avrai l’occasione di farlo tra tanti anni. E Lance diventerà velocemente uno dei più forti Allenatori di tutta Kanto e Johto”.
“Anche io posso diventare forte come lui”.
“No” ribatté secca l’adulta. “Per quanto tu ti possa impegnare non riuscirai mai ad essere al suo livello”.
“Io m’impegnerò! Diventerò la Domadraghi migliore di tutti!”.
Sandra abbassò leggermente lo sguardo alle parole della ragazzina, quindi sospirò. “Allontanati. Viaggia e dimenticati di questi posti. Ti distruggerai nel tentativo di dare a papà la soddisfazione di vederti in vetta, perché non ci riuscirai”.
La bambina fu profondamente colpita da quelle parole, tanto che una lacrima fuggì dai suoi grossi occhi azzurri, scendendo sulla morbida guancia.
“Perché dici così?”.
“Ti sto dando il consiglio migliore che avrai mai in vita tua. Allontanati da questa gente altrimenti non sarai mai soddisfatta di te stessa e della tua vita”.
Quella fissò le punte dei suoi stivali di pelle lucida, col volto sconsolato.
“Io so che diventerai una grande Allenatrice... una grande Domadraghi, Sandra. So che diventerai una grande donna, forte, bella, intelligente. Ma se proseguirai su questa strada comincerai una vera e propria lotta con te stessa che purtroppo perderai. Vorrai vedere il volto di papà fiero ma non ci riuscirai, non lo vedrai mai felice. Inoltre scoprirai col tempo le magagne che esistono in questo posto e ne sarai schifata”.
“Il mio papà non sarà mai fiero di me?” domandò, con quegli occhi enormi a fissare l’interlocutrice, che si limitò a scuotere la testa.
“Una volta che ti renderai conto che le mie parole sono vere, vai via. Sfrutta altrove il tuo potenziale. Usalo per le persone che ne hanno bisogno, e non per una stupida setta di cui sarai schiava”.

 
- Johto, Rovine D’Alfa, Sala Alfa –

Green avanzava rapidamente, facendo infiniti slalom nella serpentina di corridoi della sala dove aveva lottato con Red fino a qualche minuto prima.
Guardava i segni sulle mura, dove incisioni antiche come il tempo rappresentavano Unown ed altri stranissimi Pokémon stilizzati, presumibilmente gli uccelli e i cani leggendari, più altri che non aveva mai visto.
Mentre pensava che esistessero chissà quante specie che ancora doveva studiare fu attirato da un rumore, sordo e lontano.
Cominciò a correre, con in mano la sfera del suo Charizard, superando i corridoi rapidamente.
Quelli erano rimasti intatti, nonostante l’agguato ai mosaici.
Sapeva che alla fine di quella sala, dopo l’ennesimo corridoio, vi sarebbe stato una sorta d’altarino, assai piccolo, con il mosaico che rappresentava Kabuto alle spalle.
Tuttavia, una volta superato anche l’ultima parete, notò che l’altare era stato distrutto ed il mosaico divelto dalle pareti.
“Oh... Cazzo! Cazzo, cazzo, cazzo! Red!” urlò, portando il Pokégear all’orecchio.
Attese qualche secondo prima che la comunicazione avvenisse.
“Non è proprio il momento, Green!”.
“Hanno rubato il mosaico! Nella Sala Alfa!”.
Raffaello è morto! Chiara quasi, e non so minimamente cosa diamine stia succedendo nella Sala due!”.
Non bastiamo, dannazione! Non bastiamo! Il mosaico in quella stanza c’è ancora?!”.
Non ci sono neppure più le pareti, nella Sala 1, Green! Jasmine ha distrutto tutto!”.
“Jasmine?! Che stai dicendo?!”.
“Senti, non ho tempo, ora! Invece di raggiungere me vai nella Sala 2, dove ci sono soltanto Angelo e Furio!”.
Va bene” concluse, chiudendo la conversazione. Sospirò, cercando di non lasciarsi prendere dallo sconforto e salì sull’ara. Non s’accorse subito della grande botola apertasi proprio davanti alla parete del mosaico, anzi, guardava con attenzione il piano sul quale erano incastrate le tessere, vedendone i bordi in rilievo scheggiati; avevano utilizzato qualcosa di simile ad un piede di porco per forzarli ad uscire dal pannello principale ed erano scappati.
Abbassò poi gli occhi, guardando la botola.
“Sono fuggiti da qui?” domandò a se stesso, prendendo la torcia dallo zaino e puntandola sul fondo del fossato; non era assai profondo, quello.
Doveva seguire quella via, gli sgherri vi erano fuggiti sicuramente attraverso.
Saltò dentro.
E lo fece senz’alcuna remora, cominciando a percorrerlo in corsa, fino a quando una vecchia scala di marmo non fu l’unica soluzione per uscire dal buio che circondava il fascio di luce della sua torcia.
E quando le salì si ritrovò in un’altra sala.
Totalmente identica a quella che aveva lasciato.
Mosse quindi deboli passi verso il centro del corridoio: non sembrava di essere nello stesso posto. C’era un brusio di sottofondo molto fastidioso, come un fischio su più frequenze ma nulla indicava che i manigoldi fossero entrati in quel luogo.
Era ancora vergine.
Avanzò ancora fino a quando, dopo aver girato il millesimo muro ed aver messo piede nel millesimo corridoio, non vide delle ombre.
Quattro ombre.
Una in piedi e tre stese sul pavimento.
S’avvicinò ancor più lentamente, capendo che quelle non fossero stese per scelta; l’uomo in piedi parlava da solo, sembrava concentrato nel guardare sullo schermo d’un piccolo palmare.
Green continuava ad avanzare di soppiatto, fino a quando, a meno di sei metri, riusciva a sentire persino il suo respiro; era di spalle, quello, e a terra vi erano Blue, Sandra e Yellow.
Ma soprattutto Blue.
La sua Blue.

 È morta?! E le altre, anche! Sono morte?!

Sospirò, cercando di mozzare il collo a quella rabbia colma di paura, di panico, che cresceva nel suo petto e gli faceva tremare le gambe.
Gli faceva fremere le mani.
“Alla fine sei arrivato...” tuonò poi l’uomo di spalle.
Alto, lui, coi capelli biondi ben pettinati, almeno sulla nuca, ed un lungo soprabito di pelle nera.
Si voltò quasi subito, sorprendendo il giovane di Biancavilla.

Xavier Solomon!

Quello sorrise, quasi stupito nell’appurare la quantità di sorpresa nello sguardo dell’interlocutore, poi tornò a guardare il suo palmare.
“Tu... tu!” esclamò Green, riconoscendo gli occhi di quell’uomo. “Xavier Solomon!”.
“Sì... sono Xavier Solomon...” annuì quello, distratto dalle immagini sul suo marchingegno. Sembrava non essere per nulla nervoso.
“Che le hai fatto?! Che hai fatto a Blue?!” urlò Green, immobile.
Xavier alzò gli occhi rubini, pietrificando l’interlocutore. “Non tollero chi mi parla in questo modo. Sei solamente un moscerino, Oak. Il fatto che tu abbia un Pokédex non ti rende in grado di fronteggiarmi”.
“Devi ridarmi la pietra, Solomon!”.
“Oh, quella. Non ho più quella pietra. Almeno non ora, sarà di nuovo mia non appena avrò messo mano anche sul Cristallo della Luce. Per adesso mi limitò a... seminare...” sorrise quello, quasi genuinamente. “Come farebbe un bravo contadino, insomma”.
“Che cazzo stai dicendo?!” esclamò Green, aggiungendo alla sfera di Charizard quella di Arcanine. Pochi secondi dopo i Pokémon avevano già le fiamme sotto le potenti fauci.
“Giovane Oak... Tuo nonno è assai più saggio di te. Forse col tempo si è rincoglionito ma era di un altro spessore. Ti ritieni così superiore...” sorrise ancora, stavolta alzando gli occhi dal palmare e schernendo il ragazzo dagli occhi verdi. “In realtà giochi a fare il duro quando all’interno hai ferite che non si possono rimarginare. Ferite che non potrai rimarginare mai più”.
“Tu che cazzo ne sai di me?!”.
“Io so tutto... E potrei distruggere la tua vita con uno schiocco di dita. Potrei tornare indietro nel tempo ed uccidere la madre di Blue il giorno prima del parto...” sorrise. “Sai che divertimento...”.
“Sei uno stronzo!”.
“Non la conosceresti mai. Potrei farti soffrire ora, qui, come un cane, facendoti rivedere come quei luridi dei tuoi genitori siano morti durante un colpo in banca che avevano organizzato...”.
“Stai mentendo” urlò scagliandosi di peso contro quello. Alzò una mano ed una grossa barriera elettrica si frappose tra loro. Più in là si senti il ruggito di un grosso Pokémon dagli occhi giallastri; la corrente sembrava provenisse da lì.
“Raikou...” disse poi Green, stringendo i denti. “Fuoco!” urlò infine, ed alla sua destra, come dalla sua sinistra, forti vampate andarono a dirigersi verso l’uomo, che intanto si mosse agilmente verso il centro del corridoio, avvicinandosi a Blue ed al Raikou.
“Non vuoi veramente fare questa cosa” diceva Solomon, con la barriera elettrica che si spostava in concomitanza dei suoi passi, calmi e totalmente atarassici.
“Non permetterti mai più di parlare dei miei genitori!”.
“Erano criminali. Ma tu no. Vero?”.
Green si bloccò, mentre i due grandi Pokémon lo affiancavano pronti.

 
- Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7 –

I loro passi erano abbastanza agili, attraverso il Bosco.
Yellow faceva strada, conoscendo alla perfezione ognuna delle piccole vie segnate nel sottobosco, superando piccoli arbusti che, una volta cresciuti, sarebbero diventati esili alberelli e poi grandi querce.
“Forza, il bosco è ancora più fitto verso la parte orientale”.
Diana cercava di stare al passo, stringendo la bambina tra le braccia. “Aspetta”.
“Io sto avanzando per vedere se c’è quel Dratini, mamma”.
Alla donna fece strano sentirsi chiamare così; ormai era rassegnata a non poter ascoltare più quelle parole. Non poté far altro che sorridere, mentre l’ennesima lacrima le scendeva dagli occhi.
I piccoli Pokémon del bosco la seguivano rapidi, alcuni addirittura l’anticipavano, mentre piccole monete di sole filtravano tre le dita incrociate dei rami.
“Dopo che farai?” chiese Yellow. “Dove andrai?”.
“Non lo so. Ciò che è certo è che devo scappare da questo posto”.
Sospirò, la bionda, facendo mente locale e cercando di capire dove avrebbe potuto trovare riparo lontana da Kanto e Johto ove mai ne avesse avuto bisogno.
“Sinnoh? Cosa ne pensi?” fece, spostando una grossa fronda e lasciando che sua madre passasse.
“Lontanissima. Non ho i soldi per sostenere quel viaggio”.
“Non preoccuparti dei soldi, ho qualcosa qui con me” ribatté.
“Tu... Com’è possibile tutto questo?”.
Yellow non si voltò ma rispose lo stesso, mentre continuava a camminare.
“Non ne ho assolutamente idea. Ma dovrò trovare il modo di tornare nel mio tempo”.
Scavalcarono un grosso tronco di leccio, caduto ed ormai casa per i piccoli Pokémon, quindi continuarono.
“E... e parlami un po’ di te! Fammi capire cosa sarebbe successo se avessi lasciato qui mia figlia”.
“Sono cresciuta nel bosco. I Pokémon di questo posto sono i miei migliori amici e ad un certo punto...” tentennò, una volta che Red le sovvenne alla mente. Un soffio di vento le spostò il ciuffo dalla fronte. Lo risistemò e continuò. “Ad un certo punto conobbi un ragazzo. Mi aiutò a catturare il mio primo Pokémon con il quale difendermi, proprio perché fui attaccata da un Dratini (a questo punto credo sia quello di mio padre), e me ne innamorai. Ci ritrovammo nel tempo, lo aiutai e lui diventò il più grande Allenatore di tutti i tempi. Col tempo anche lui si scoprì innamorato di me e cominciammo una relazione...”.
“State ancora assieme?” domandò Diana, continuando a seguirla.
“Sì. Ci sono state delle difficoltà tra di noi ma ora è tutto... tutto appianato...”.
“Questo è l’importante. Vorrei tanto conoscere l’uomo che ti ha aiutata a diventare così”.
Yellow sorrise. “Ora dovrebbe avere poco più di un anno, mamma. E se andrai via probabilmente non lo conoscerai mai, e nemmeno io. Ma è più importante che stiate bene”.
A quelle parole le si annodò lo stomaco: si chiedeva come sarebbe stata la sua vita se non avesse mai incontrato Red. Tuttavia fantasticava sui cambiamenti della sua stessa esistenza se la storia fosse andata dove la stava dirigendo lei in quel momento, attraverso le strade impervie del bosco che sfociavano ad Azzurropoli oltre il massiccio del Monte Luna: probabilmente sarebbe cresciuta come una ragazza normale, avrebbe imparato a leggere e scrivere ad un’età consona e non tramite quel pescatore che ogni giorno la passava a trovare e le lasciava dei libri e qualche giocattolo.
Quello che lei aveva imparato a chiamare zio.
Avrebbe però avuto un carattere leggermente differente, cresciuta con assai più sicurezze. Forse sarebbe stata meno gentile, un po’ più pungente.
Sarebbe stata molto più femminile, sicuramente; non sarebbe stata Blue a levarle da dosso quella blusa poco elegante ed a consigliarle di rifarsi un guardaroba.
Non avrebbe imparato ad amare un uomo tramite Red, né avrebbe capito il valore dell’amicizia tramite gli altri Dexholder di Kanto.
Di certo non avrebbe assaggiato quel tradimento subìto, che ancora bruciava come un marchio a fuoco. Già, forse stando lontana avrebbe imparato a confrontarsi correttamente con le persone, magari a possedere un po’ della tanto decantata malizia che caratterizzava Blue e che, suo malgrado, lei non aveva in nessuna quantità né misura.
Magari avrebbe conosciuto un altro uomo. Forse non il più grande Allenatore della storia, forse non un grande eroe.
Ma forse non si sarebbe sporcata del fango di quel tradimento, schizzato sui suoi vestiti da bambini indisciplinati.
Sospirò, sentendo frusciare le fronde sotto i soffi leggeri del vento.
Non sapeva da quanto stessero avanzando, aveva perso totalmente il senso del tempo. Tuttavia non le dispiaceva essere in quel posto, in quel momento.
Di tanto in tanto, difatti, si voltava a guardare il viso di sua madre, così preoccupato, teso, ma al contempo bello e con quegli occhi limpidi ad impreziosirlo.
E camminarono, continuarono a farlo, senza sentire stanchezza, né fame, né sonno; senza accorgersi che il sole non scendeva ma rimaneva sempre ben fisso a mezzogiorno, ad illuminare le cime degli alberi del bosco.
Fu quando arrivarono poco dopo il Monte Luna, dove le pendici erano ancora bagnate dalle creste fogliate, che Yellow si fermò. La madre, pochi passi alle sue spalle, aderì alla sua schiena.
“Che succede?” domandò preoccupata.
La bionda si voltò rapida verso i Pokémon, e poi annuì.
“È il momento...” sospirò, stringendo i pugni. “Spero vada tutto bene”.
“Che succede?!” ripeté più impanicata Diana, vedendo i Pokémon che la seguivano avanzare, rigidi.
Poi dai cespugli fuoriuscì un lungo Dratini.

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