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TSR - 21 - Volume



21. Volume


Johto, Azalina

Azalina era come sempre tagliata da una brezza fredda, che lasciava ondeggiare le fronde degli alberi.
Prima verso destra, poi verso sinistra.
Del resto il mare non era lontano, e la presenza del grosso massiccio nel quale si snodava la Grotta di Mezzo creava un corridoio che il vento poteva percorrere con tranquillità.
E in estate era parecchio piacevole lasciarsi accarezzare dalla brezza fresca.
Tuttavia era inverno, e ad Azalina aveva da poco smesso di nevicare. I passi di Demetra, al contrario di quelli di Koga, impercettibili, crepitavano nella neve fredda e spettinata. Nonostante quello la donna non sembrava essere in difficoltà.
“Mi ricorda tanto Sinnoh. Mi sembra un buon benvenuto, questo” sorrise la bella, con le mani stese lungo i fianchi.
Koga non parlava, si limitava semplicemente a camminare in avanti. Avevano appena superato il Centro Pokémon, dal quale fuoriuscivano luci e dolci musiche di pianoforte.
“Dovrò andare a presentarmi con gl’infermieri della città” ragionò ad alta voce la donna. Il viale centrale di Azalina si prestava perfettamente a passeggiate tranquille e riflessive, dato che la vasta presenza della natura aveva reso quella umana davvero fuoriluogo.
Sulla sinistra, poco prima del grande Bosco di Lecci che avvolgeva tutto ciò che la montagna non toccava, vi era un poco ampio complesso residenziale, fatto di piccole villette a schiera dai tetti a spiovente. Ognuna aveva il proprio giardino, recintato da steccati di legno perfettamente dritti e in cui ogni listarella era della stessa medesima dimensione di quella che aveva accanto.
Ordine, ad Azalina. Demetra aveva notato questo, e di tanto in tanto qualche Slowpoke che sonnecchiava sulla neve.
“Ce ne sono molti...” sorrise.
“...”.
“Che problemi ci sono, Koga? Perché non parli?” domandò ancora lei, gioviale, con quel tono di voce che avrebbe calmato chiunque. L’uomo si voltò per un attimo, rapidamente, scontrando quella velocità calcolata, quella fretta metodica con la calma floreale della donna dai lunghi capelli verdi. I suoi occhi smeraldini gli sorrisero.
“Muoviamoci” tuonò lui, quasi ringhiando.
Poggiò ancora i suoi passi sul viale, dandole le spalle e lasciandola nei suoi dubbi.
“Questa è casa di Franz. Devi passarci, è il più anziano del paese” fece il Superquattro, indicando con la mano una vecchia abitazione di mattoni, dal lato opposto delle piccole villette a schiera.
“Lo conosco, Koga” sorrise ancora quella. “Franz è famoso ovunque per essere l’ultimo degli artigiani a creare sfere tramite le ghicocche”.
“Mhm...”  sospirò quello. Imboccò un piccolo vialetto, tra le azalee bruciate dal freddo, ma Demetra era ferma ad ammirare il grande arco in legno cinto dai lecci, poco prima dell’ingresso al sentiero boschivo che portava a Fiordoropoli.
Le piaceva il modo in cui era stato intarsiato, e adorava come la natura se ne stesse riappropriando lentamente, con piante rampicanti destinate a fiorire in primavera.
Koga era fermo, qualche passo più indietro, e aspettava che la donna si sbrigasse. Un soffio di vento fece in modo che il suo foulard si librasse nel vento.
Schioccò le dita, richiamando lo sguardo della donna.
“Entriamo” tuonò infine.
Demetra annuì e lo seguì lungo tutto il viale. La Palestra di Azalina era proprio davanti a lei, con ampie mura sorrette da bastioni e il tetto composto interamente da lucernari.
Era una grande serra, quella.
“Ci sarà un bel calduccio, in quell’edificio” sorrise la donna dai lunghi capelli verdi.
“Il sistema di vetrate che compone il lucernario è dotato di una speciale funzione d’ombreggiamento, per evitare l’inquinamento luminoso durante le ore notturne e per combattere, appunto, la calura estiva”.
“Sembra una serra ma non lo è”.
“È la Palestra di Azalina” continuò quello. Demetra scrutò meglio il suo volto, con quegli occhi minuscoli e scuri e, più giù, il grosso naso con quella gobba prominente. Passò poi in rassegna le labbra, sottili, fino a quando Koga non si voltò, infastidito dal suo sguardo inquisitore. Avanzò di qualche metro e spalancò le porte dell’edificio alla nuova Capopalestra, che rimase letteralmente a bocca aperta, mentre muoveva i primi passi in un quello che pareva essere una sorta di boschetto con le mura attorno, dove la natura cresceva rigogliosa e il profumo d’erba umida sovrastava quello della città alle sue spalle. Koga chiuse le porte, fermo poi ad ammirare curiosamente il modo in cui la donna si metteva a proprio agio: la vide smontare le ballerine e lasciarle davanti a lui, quindi affondare i piedi nudi nel prato che aveva davanti.
“È meraviglioso”.
“Ogni notte vi è la manutenzione dei giardini. Il prato viene regolato ogni trentasei ore”.
Demetra annuì, avvicinandosi a un cespuglio di azalee; inalò il profumo dei fiori rosa e si voltò nuovamente verso l’uomo.
“Questo posto è davvero meraviglioso”.
“Raffaello soleva stare sotto quella grande quercia” disse, abbassando poi il capo.
Lei si avvicinò al tronco, lentamente, e ne carezzò le venature rugose. Sapeva che il vecchio Capopalestra avesse cominciato con quella mansione quando era poco più che un bambino ed era morto senza aver conosciuto l’amore di una donna. Quel posto era la sua reliquia, l’unica donna che avesse mai amato, l’unico uomo che lo avesse mai difeso.
“Lui è ancora qui. La sua anima vivrà per sempre in questa grande quercia” disse, lisciando i capelli che poggiavano sul seno. “E io difenderò questa città, in suo onore”.
Smontò il giacchetto verde, rimanendo con un’aderentissima canottiera nera. Si sedette, sorridente, incrociando le gambe e facendo attenzione che la lunga gonna non salisse.
“Accetti quindi? Diventerai la nuova Capopalestra di Azalina?” domandò Koga, con la stessa maschera di granitica inespressività autoimposta.
La pelle diafana della donna riluceva sotto i neon e i faretti che illuminavano la struttura. I suoi occhi erano spalancati, i suoi polmoni si riempivano d’aria pulita e gettavano fuori quel pizzico d’ansia che naturalmente covava in petto.
“Onorerò il ricordo di Raffaello” fece, tornando a guardare la grande quercia. Si alzò in piedi e si voltò, tendendo la mano al Superquattro, ma quando sollevò lo sguardo lui non c’era più.


Adamanta, Primaluce, Casa Recket

“Questo tempo non mi piace...” brontolò Allegra, con le braccia incrociate e il muso pronunciato, a mo’ di broncio.
Pioveva.
Allegra odiava la pioggia.
“Cos’è quella faccia arrabbiata, principessina?” domandò Zack, sul divano. Le gambe erano stese sul tavolino e la televisione trasmetteva il telegiornale. Parlavano delle Rovine D’Alfa, Lance stava dando la notizia della dipartita di vari Capipalestra, dietro a quattro grandi microfoni.
“Mi scoccio!” esclamò lei, vedendo poi suo padre spalancare gli occhi alla notizia e poggiare i talloni per terra. Cercò il telecomando e alzò il volume.
“Un attimo, piccola”.
“... Non è stato per nulla facile prendere atto della morte di Raffaello, Chiara e Furio e...” diceva il Campione, intervistato da TeleHoenn.
“È morto Furio?” chiese Zack, più a se stesso che ad Allegra, unica interlocutrice. Grattò la barba sul mento e mise la mani tra i capelli, ormai troppo lunghi per i suoi gusti.
“Papà!” lo chiamò autoritaria Allegra, puntando i grossi occhi azzurri sull’uomo che intanto continuava a dare attenzione alla televisione.
“... Il provvidenziale intervento dei Dexholder di Kanto, in particolar modo di Red, ex Campione della Lega Unificata di Kanto e Johto, ha permesso a Jasmine, Valerio, Sandra e Angelo di non perire, tuttavia i primi due hanno deciso di lasciare la sedia di Capopalestra nelle rispettive città. Stiamo già lavorando per sostituirli”.
“Green era lì...” fece, alzandosi in piedi e cercando il cellulare. Ricordava di averlo lasciato sul camino ma quando andò a vedere non lo trovò. Si voltò poi rapidamente, sospirando e controllando sul divano.
“Hai visto il mio cellulare?” domandò alla piccola.
“È scarico, ho giocato a Candy Crush Soda Saga e si è spento” rispose Allegra, quasi meccanicamente.
“Non so come tu faccia a pronunciare il nome di quel gioco così bene senza conoscere tutto l’alfabeto”.
“Arrivo alla effe!” protestò lei.
“Devo usare quello della mamma, allora” disse, saltando agilmente il divano e cominciando a salire le scale.
“Ma io mi scoccio!”.
“Gioca con Arcanine e non fare danni” rispose lui, salendo gli scalini rapidamente. Poi però rallentò davanti alla porta dello studio.
Rachel soleva passare molto tempo in quella camera, in quel periodo.
Bussò delicatamente, mentre il cuore pompava sangue nelle arterie. Pensava a Green, a quanto potesse star male, e al fatto che lui fosse davvero troppo lontano da lui.
“Avanti” sentì poi. Aprì la porta e vide sua moglie di spalle, coi capelli corvini legati alti sulla testa. Lui entrò e le si avvicinò. Attorno aveva quattro tavole raffiguranti la visuale che aveva dalla finestra stanza.
Le baciò il collo.
“Zack...” sorrise poi quella, voltandosi verso di lui.
“Come sapevi che fossi io?” disse, ignorando il forte odore di vernice.
“Allegra avrebbe sfondato la porta a calci, amore. Che succede?”.
“Problemi a Johto. Devo chiamare Green Oak e mi serve il cellulare”.
La donna dai grandi occhi azzurri si voltò e lo fissò, preoccupata. “Che problemi? Devi andare lì?”.
“No...” fece, grattandosi la tempia e fissandola in volto, sporco di vernice arancione sulle guance e sulla fronte. “Non penso... È che è morto il suo maestro. Immagino che ora sia un tantino scosso...”.
“È sulla scrivania”.
“Grazie mille”.
“Allegra che fa?” domandò poi, voltandosi nuovamente e carezzando la tavolozza col pennello.
“Gioca coi Pokémon”.
Rachel si voltò nuovamente, rapida. “Mica è con Luxray?!” chiese, malcelando l’ansia nella sua voce.
“No” fece, portando il cellulare all’orecchio. “Arcanine”.
“Sai che non mi piace che resti con Luxray”.
“È Arcanine. Pronto? Green... Ho saputo dal telegiornale di Furio... Mi spiace molto. Se c’è qualcosa che possa fare... Sì, Adamanta è tranquilla, Ryan e i suoi non hanno molto da fare se non lottare contro gli sfidanti... Sì...” sorrise poi “La piccola è indistruttibile” fece, suscitando ilarità anche in Rachel. “Oh certo... Scusami se ti ho disturbato per così poco ma volevo sapere se fosse tutto a posto... A presto”.


Johto, Fiorlisopoli

A Chicco era toccata la poco stimolante presenza di Bruno.
Del resto il Superquattro era molto pratico della città di Fiorlisopoli, andandovi in parecchie occasioni per i suoi allenamenti.
“Quindi è un ottimo luogo per il training all’aria aperta?” chiese conferma Chicco, spostando i lunghi capelli dietro le orecchie. Guardò il volto di Bruno, con quegli occhi totalmente neri a fissare davanti a sé il paesaggio. Attese, ma non ricevette risposta. Scesero dal traghetto pochi secondi dopo e Chicco si ritrovò a fissare col sorriso l’antico splendore di quell’insediamento.
Bruno sospirò e annuì, mentre la fiumana cominciava a dirigersi verso l’uscita dell’imbarcazione, al piano inferiore.
“Fiorlisopoli è un’isola, Chicco. E in quanto tale le persone che la abitano sono schive rispetto agli stranieri. I primi insediamenti si sono manifestati un paio di secoli fa, quando questa enorme montagna al centro del mare fu utilizzata come base per gli spostamenti verso le Isole Spumarine”.
“Che sono praticamente di fronte”.
“È un luogo che ha conservato la sua aura, leggendaria e mistica, in cui l’uomo ha avuto prevalenza soltanto in minima parte sulla natura. La zona portuale è l’unica praticamente abitata. Potrai trovare piccole abitazione sulla montagna, baite di vecchi eremiti, talune disabitate. La Grotta Falesia porta verso ovest, dove si trova la Zona Safari”.
“Ce l’abbiamo anche a Sinnoh, una cosa del genere: la Grande Palude”.
“Qui non ci sono paludi, questa è Johto e nevica solo d’inverno” rispose, duro.
Chicco inarcò un sopracciglio e sospirò. “Sì, ma stai calmo”.
“Il turismo e il viavai di Allenatori è aumentato” disse, ignorando totalmente l’affermazione dell’uomo e mettendosi in fila per uscire. Un minuto dopo erano fuori, sulla banchina. Chicco si guardava attorno col volto meravigliato; adorava il fatto che i boschi e le pareti rocciose parevano spingere le case e l’uomo lontani, mantenendoli a distanza, proteggendo la verginità di quelle montagne e gli alberi che vi erano radicati.
“La scogliera è meravigliosa”.
“Questo posto è un gioiello della natura. L’uomo qui ha pochissimo da dire e da fare. Non consentire mai a nessuno di deturpare questo luogo e sii tu il primo a dare buon esempio”.
“Sì... assolutamente”.
“La Palestra è quella” ribatté l’altro, puntando il dito verso l’edificio costruito sotto una grande cascata. Bruno anticipò il più minuto forestiero, che lo seguì silenzioso. Il Superquattro si fermò, costringendo l’altro ad affiancarlo. La Palestra era davanti a lui, quasi incastonata all’interno della parete della montagna, dove la cascata crollava verso il basso, accedendo all’interno dell’edificio.
“La cascata entra... dentro?” domandò Chicco, dubbioso.
“Questa struttura è un gioiello dell’architettura. Accedivi, prego”.
 Il nuovo Capopalestra annuì e spalancò la porta in vetro satinato, che dava all’interno di una non troppo vasta sala d’aspetto. Le luci erano tenute al minimo e di fronte la cascata, come intuito precedentemente, accedeva all’edificio direttamente dal tetto. Era tuttavia contenuta da un pilastro di vetro, che ne consentiva la visione estetica e la contemporanea sicurezza.
“Incredibile” sorrise.
“Buongiorno” sentì poi, voltandosi verso sinistra. Una donna dai lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri si alzò all’in piedi, gioviale. Chicco non gli avrebbe dato più di trentasette o trentotto anni.
Si grattò la barba sulle guance e inchinò leggermente il capo.
“Buongiorno, Ottavia. Lui è Chicco e viene da Sinnoh. Lei...” continuò poi Bruno, rivolgendosi al nuovo arrivato. “Lei è Ottavia, la tua segretaria e assistente. Prenderà le tue telefonate e segnerà i tuoi appuntamenti in Palestra. Aprici il passaggio, per cortesia”.
La donna annuì, senza accorgersi dello sguardo insistente dell’ultimo arrivato, che le scrutava le lunghe gambe. Pochi secondi dopo una cancellata nella roccia si aprì, e si presentò davanti a loro il principio d’una lunga scala a chiocciola, totalmente buia. Bruno vi si tuffò, Chicco lo seguì lentamente, col sorriso sulle labbra. Ascoltava i loro passi risuonare sulla lamiera bugnata dei gradini. Scendeva, quella spirale, proprio accanto alla cascata, per una decina di metri, fino a quando raggiunsero una debole luce. Il forestiero poggiò i piedi sul pavimento di marmo, e avanzò alle spalle di Bruno. Più avanti, poteva scorgere le figure degli Allenatori che stazionavano lì mentre si facevano da parte alla vista del Superquattro.
“Loro lavorano per te. Tu sei l’avversario finale, se gli sfidanti non battono questi Allenatori non saranno minimamente degni di sfidare te”.
“Comprensibile” ribatté Chicco.
E continuarono ancora a camminare, costeggiando la cascata e incontrando numerosi Allenatori pronti a fronteggiare gli sfidanti, fino a quando una curva non li condusse al termine della passerella. Fu Bruno ad avanzare, come sempre, avvicinandosi alla zona dove l’acqua terminava la propria caduta, scrosciando rumorosamente.
“Qui è dove starai tu. Qui è dove stava Furio. Aspettava la gente temprando il fisico sotto il pesante getto della cascata; così…” disse, assumendo la posizione del loto proprio in corrispondenza della forte colonna d’acqua, davanti gli occhi estasiati di Chicco. I suoi occhi erano totalmente riempiti dalla figura di quella meraviglia della natura e dalla monumentalità della montagna che aveva scavato.
“Questo posto è meraviglioso”.
“Temprerai quindi corpo e anima qui, a Fiorlisopoli?”.
L’altro annuì. Levò quindi la maglietta, e si sedette accanto a lui, sotto il peso della cascata.

Johto, Amarantopoli, Rainbow Hotel

Yellow non aveva dormito molto, quella notte.
Red le aveva chiesto più e più volte cosa le stesse accadendo e lei lo aveva liquidato imputando il tutto allo stress eccessivo. Il più delle volte si limitava ad annuire, a baciarle la fronte e a tornare a fare quello che faceva, ma non appena la sveglia suonò, e i suoi occhi si poggiarono su quelli della sua donna, già aperti, percepì l’effettivo disagio che quella provasse.
Sospirò, poi la vide sospirare.
“Buongiorno...” fece lei. Sorrise con un lembo della bocca, molto rapidamente, per poi tornare a indossare quella maschera di preoccupazione che stentava ad abbandonarle il volto.
Red si limitò a baciarle le labbra e a poggiare la fronte contro la sua.
“Amore... Andrà tutto bene. I buoni vincono sempre...”.
“Lo so...”.
“Che vuoi fare, stamattina?”.
Lei distolse lo sguardo; avrebbe voluto rispondergli che sarebbe andata a Ebanopoli a parlare con sua cugina, per quello che era la scoperta che con ogni probabilità aveva mandato a puttane tutta la sua debole concezione dell’esistenza.
No, non avrebbe detto mandato a puttane.
E non gli avrebbe parlato neppure di quel pensiero insano, instillatole dall’illusione di cui era stata vittima; c’erano troppi interrogativi che vagavano galeotti nella mente del suo uomo, in quel momento, e non sarebbe stato particolarmente saggio dargli ragione di tentennare.
“Vorrei andare a Ebanopoli. Sandra doveva dirmi alcune cose...” faceva, passando da stesa a seduta. Prese il pettine e cominciò a passarlo nella lunga chioma bionda. Red le prese la spazzola dalle mani e la sostituì.
“Siete diventate amiche? Non pensavo foste... compatibili” sorrise.
“Lo siamo...” rispose, ma sapeva di mentire, data la matrice troppo aggressiva della Domadraghi; era un vento troppo forte per quel girasole delicato.
“Che stana coppia...” sorrise, continuando col pettine. Yellow lo sentiva carezzarle i capelli; si rendeva conto di quanto fosse amata dal suo uomo, di come l’espiazione di quel peccato si fosse così tanto radicata in lui da esser stata messa al centro della sua vita.
“Credo passerò da lei”.
“Verrò con te”.
“In realtà...” disse la bionda, voltandosi e fissando dritto negli occhi il fidanzato. “... è lei che mi ha chiesto di andare lì. Credo voglia parlarmi di... parlarmi di...”.
Stava per dire una bugia. Un’altra.
“Si?” domandò poi l’uomo, sospirando. “Parlarti di?”.
“Parlarmi di... di fatti suoi...” concluse, allontanando subito lo sguardo dagli occhi di Red, che continuarono a fissare il retro della sua testa.
“Va bene...” sussurrò, continuando a spazzolare per qualche altro minuto.
Rimasero in silenzio, poi lui terminò.
“I capelli sono a posto, credo che vadano bene. Se non volevi che venissi bastava dirmelo”.
“No!” sorrise Yellow, colpevole. “Mi... mi farà piacere un po’ di compagnia durante il viaggio”.
Lui annuì e sospirò, alzandosi. Si avvicinò alla finestra dell’hotel, affacciandosi e avendo una meravigliosa visuale dei boschi che costeggiavano Amarantopoli. Nel cortile dell’hotel vi era Green, in piedi, col lungo soprabito nero e i guanti in pelle. Era al telefono.
“Hai visto Blue?” domandò poi.
“No...” rispose prontamente la bionda.
“Green è lì da solo”.
Yellow fece spallucce ma Red, voltato, non poté vederlo.


Johto, Fiordoropoli

“Questo posto mi piace un casino!” urlava entusiasta Matilde, perdendo lo sguardo tra gli altissimi palazzi del centro di Fiordoropoli. La grande città era ancora scossa dalla perdita della Capopalestra Chiara e tutti erano leggermente straniti dalla presenza di Pino, ad accompagnare la giovane verso la Palestra.
“Tutti mi guardano male...” sospirò lei, vedendo come il Superquattro fissasse dritto a oltranza, col sorriso sul volto e la maschera fissa a nascondergli lo sguardo.
“È naturale. Erano parecchio affezionati alla vecchia Capopalestra e hanno appreso la notizia della sua morte solo pochi giorni fa...”.
“Mi piacciono i tuoi capelli” disse poi la ragazza, guardando il caschetto lilla del ragazzo.
“Anche i tuoi non sono male. Il centro è questo”.
“Questo qui?” domandò la ragazza, vedendo la piazza principale della città gremita di gente.
“Esattamente. Le manifestazioni verranno organizzate qui, assieme agli eventi di maggiore interesse”.
“Aspetta” disse, poi quella.
Prese a correre verso il centro della piazza, in direzione della grande statua centrale, sulla quale la ragazza si arrampicò. Stringeva le mani attorno al braccio della vecchia statua che raffigurava il fondatore della città, e rimaneva in bilico coi piedi sul bordo del basamento, a due metri d’altezza.
Tutti la guardavano straniti, mentre quella prendeva aria nei polmoni.
Poi prese a urlare.
“GENTE DI FIORDOROPOLI!”.
Chiunque non la stesse già guardando, si voltò in sua direzione. Qualcuno invece proseguì, allontanandosi nelle varie vie che sfociavano nella Main Square.
“IO MI CHIAMO MATILDE E SARÒ LA NUOVA CAPOPALESTRA DELLA CITTÀ!”.
 Dopo quella frase la gente cominciò ad avvicinarsi. La presenza di Pino, qualche passo accanto alla statua, donò enorme credibilità a quell’energica ragazza poco più che maggiorenne.
“NON CONOSCEVO CHIARA MA S CHE VOI LE VOLEVATE TANTO BENE! BEH! CERCHERÒ DI CONQUISTARMI IL VOSTRO AFFETTO E DI DIVENTARE MIGLIORE DI LEI! FIORDOROPOLI È LA PIÙ GRANDE CITTÀ DI TUTTA JOHTO E SI MERITA LA PIÙ GRANDE CAPOPALESTRA DI TUTTA JOHTO! TRA QUALCHE GIORNO POTRETE VENIRE A SFIDARMI PER CONQUISTARE LA MEDAGLIA... LA... LA MEDAGLIA...”
Poi si voltò verso Pino.
“Come diamine si chiama la medaglia?!”.
“Piana” sorrise divertito il Superquattro.
“LA MEDAGLIA PIANA!” urlò poi, tornando a guardare la folla. “IO MI CHIAMO MATILDE, E SARÒ LA VSTRA NUOVA CAPOPALESTRA!” ripeté. La gente, dopo un iniziale silenzio, cominciò a mormorare, fissando la ragazza che si era voluta elevare su tutti.
La videro saltare giù e raggiungere rapidamente Pino, che annuì lentamente.
“Non hai paura di parlare in pubblico, eh?”.
“Chi, io? Sono nata per il pubblico, cocco”.
“Pino. Mi chiamo Pino”.
“Sì, lo so. Era per dire.”.
“Non sono sicuro che sia tanto sbagliata, la tua mossa. La gente parla di te e stai creando sensazionalismo” fece il Superquattro, con quelle movenze da gatto di cui generalmente abusava. Sembrava che ogni suo movimento lasciasse una scia vellutata alle sue spalle.
“Non ho mai pensato che fosse sbagliata! La gente di Fiordoropoli deve conoscere la nuova Capopalestra della città!” fece, con Pino che sorrideva ancora.
“Se fossi un pochino più grande... giuro che m’innamorerei di te con una facilità sorprendente” le disse.
Matilde avvampò violentemente.
“Ora che ho finalmente un po’ della tua attenzione, voglio mostrarti, alla tua sinistra, la grande Torre Radio”. La giovane dai capelli fucsia si voltò, rimirando la grossa struttura in ferro che terminava con tre grandi parabole.
“Le sue frequenze arrivano in tutta Johto”.
“A Sinnoh ci sono stazioni televisive” rispose subito.
“Sì, lo so... Giubilo TV è sul canale sette. Accanto abbiamo il casinò”.
“Non mi piace il gioco d’azzardo...” disse poi, disegnando una smorfia sul volto. Gli occhi, di quel colore così simile ai suoi capelli, si strinsero in una feritoia dove solo il suo sguardo riusciva a passare.
“Delle volte, nella vita, bisogna saper giocare. Proseguendo...” fece, allungando il passo e superando una coppia di anziani. “... abbiamo la stazione del Supertreno. Questo collega Johto a Kanto. E di fronte abbiamo la tua Palestra”.
Matilde allungò il collo, per vedere la grande costruzione che si trovava al di là della strada, dopo un ampio spiazzale accerchiato da palazzine e vicoletti. Una grossa tabella con la faccia di Chiara stava per essere smontata, secondo ordine di Lance. La nuova non aveva il volto di Matilde e la cosa non le piaceva. Col tempo avrebbe provvisto a tappezzare tutta quella città con la sua figura.
Entrarono, Pino le fece educatamente strada. Sulla sinistra vi era una donna di mezz’età, dai capelli castani, raccolti, con una spruzzata di efelidi sul naso. Gli occhi, di un rosa innaturale, si spalancarono non appena il Superquattro e la neo Capopalestra fecero il proprio ingresso nella sala.
“S-salve!” sobbalzò, alzandosi in piedi.
“Matilde, lei è Laura, la tua segretaria. È anche la madre della compianta Chiara”.
“Ouw...” sbuffò la ragazza, calando il capo. “Mi spiace molto per sua figlia, signora. Cercherò di non sfigurare”. Alzò gli occhi e guardò la Palestra, dalla grande passerella d’alluminio, vedendo un complesso labirinto fatto di ponti e archi.
“Ma lei non può lavorare qui dentro” continuò, diventando seria all’improvviso.
Pino rimase stupito.
“Co-come? Vuole licenziarmi?” domandò la donna, con un’ansia crescente che le trapanava lo stomaco.
“Mi dia del tu, lei è un’adulta e io non sono che una ragazza appena uscita dall’adolescenza con improvvisi picchi di maturità, ma molto, molto rari. Il problema è che lei, essendo la madre di Chiara, vivrà per sempre con il ricordo di sua figlia e la sua morte sarà una ricorrenza quotidiana nei suoi pensieri...”.
“Dove vuoi arrivare?” chiese il Superquattro, incrociando le braccia.
“O lei se ne va o qui buttiamo tutto per terra. E sarei orientata per la seconda scelta”.
La donna abbassò lo sguardo.
“Matilde è un tipo piuttosto particolare, Laura, lo hai capito. Io, personalmente, non mi sentirei a mio agio a stare a casa senza fare nulla. Lance non darà problemi a operare un piccolo... ammodernamento” disse Pino.
“E voglio subito un’insegna col mio volto!” esclamò.
Pino fece cenno di sì con la testa, fissandola con attenzione. Sorrise e sospirò.
“Che dolce guaio, che sarai...”.


Johto, Ebanopoli, Palestra di Ebanopoli

“Yellow... Che ci fai qui? Sono successe altre cose?” domandava Sandra, in piedi davanti a un grosso sacco da kick-box. La bionda osservò le cosce toniche della Capopalestra fasciate da un paio di pantaloncini arancioni. La donna s’avvicinò alla Dexholder, prendendo un asciugamano e passandoselo attorno al collo.
Yellow si guardò attorno, poi, con la gente che si allenava duramente.
“Sei a disagio?” domandò Sandra, fissandola in volto.
“Devo parlarti di una cosa”.
“Quella cosa?”.
“Sì... quella cosa di Lance”.
Sandra annuì e le fece strada attraverso la Palestra, passando nel lungo e buio corridoio, illuminato qui e lì da qualche lampadina volutamente fioca. Intersecarono un secondo corridoio, sulla destra, e lo percorsero interamente. Yellow vedeva la donna ancheggiare sinuosamente al centro del corridoio, calpestando con delicatezza il pavimento in resina azzurro, che donava colore e leggera luminosità a quel luogo buio come una caverna. Sulla sinistra poté vedere, giusto per qualche secondo, il campo di battaglia dove Sandra veniva sfidata.
Non erano in molti a riuscire a giungere a lei, in quanto ultima Capopalestra di Johto.
E chi ci riusciva aveva filo da torcere.
Alla fine del corridoio entrarono nella camera sulla destra, ovvero il suo ufficio.
Era ordinato. La scrivania era proprio al centro della parete lunga, ed era posta davanti a una grossa finestra che lasciava entrare la luce del giorno dall’esterno.
“Perdonami” disse Sandra “Lascia che mi cambi un momento...”.
Prese dei vestiti da un attaccapanni e si voltò di spalle, alzando il top e il reggiseno sportivo, lasciando la schiena nuda agli occhi della bionda, che si voltò dall’altra parte, imbarazzatissima.
Pochi secondi dopo era lì, nella sua tenuta ufficiale.
“Allora... Che dicevi?”.
Yellow deglutì qualcosa di denso e quasi doloroso, sentendo le gambe tremare. Le mani si cercavano l’un l’altra, trovandosi davanti allo stomaco in subbuglio. Si morse il labbro e poi si decise a confessare.
“C’è una probabilità che Lance possa essere il mio fratellastro”.
Sandra spalancò gli occhi, rimanendo immobile. Batté le palpebre un paio di volte ed espirò, buttando con lentezza l’aria fuori dai polmoni.
“Mi stai prendendo in giro, vero?”.
“Purtroppo no. Purtroppo c’è davvero una probabilità che suo padre sia pure il mio”.
“Ma tu non sai chi è tuo padre... Hai vissuto nel Bosco Smeraldo per una dozzina d’anni, da sola... Cioè... com’è possibile?”.
“Beh...” sorrise la bionda. “È ovvio che in quel bosco io sia stata abbandonata da qualcuno. Sono comunque il frutto del rapporto di qualcuno”.
Sandra abbassò gli occhi. L’aveva sempre etichettata come figlia del bosco ma si era appena resa conto che non fosse sbocciata dal nulla. Pensò al fatto che Yellow fosse cresciuta da sola, in balia dei pericoli, da quando era nata.
“E come mai pensi che mio zio Dorian sia tuo padre?”.
“Io... nelle Rovine D’Alfa, l’altro giorno... Sono stata vittima di un’illusione”.
Sandra spalancò gli occhi, nuovamente. “Continua...” fece.
“Ho visto mia madre e mio padre che mi lasciavano nel bosco. E mio padre era il padre di Lance...”.
La Capopalestra vide l’altra abbassare lo sguardo e sospirare. Doveva proteggere i Domadraghi, e lasciare che suo zio non ne uscisse con le mani sporche, in quanto era il capo dell’intera federazione.
“Sarà stata sicuramente l’illusione a farti credere che mio zio fosse tuo padre”.
“Ma era tutto così vivido!” ribatté. “E ho visto mia madre...” sorrise poi Yellow, con dolcezza, e Sandra non poté non abbassare lo sguardo. Si stava mettendo contro una ragazza totalmente innocente, vittima di una situazione barbara e meschina.
E lo stava facendo da vigliacca, gettandole polvere negli agli occhi.
“Com’era?” domandò poi. “Tua madre... com’era?”.
Il sorriso della bionda s’allargò e il suo volto assunse l’espressione di chi ricordava un bel sogno.
“Bellissima” rispose. “Dai capelli ramati e corti... e belle labbra! Ed è dolcissima! Si chiama Diana”.
Sandra cercò di fare mente locale per capire se conoscesse quella donna. Ma nulla. “No... questo nome non mi dice nulla”.
“Lance mi ha detto di chiederti di controllare nei registri della Palestra se questa donna vive in questa città. Dovresti conoscere tutti i nomi degli abitanti di Ebanopoli”.
“Beh, conosco tanta gente ma non proprio tutti...” sorrise quella, cercando di trovare una finestra d’ilarità nel panico crescente che provava.
“No, intendevo a livello cartaceo...” seguì il sorriso la Dexholder. “Puoi controllare se vive qualche Diana, qui?”.
“Beh... sì, posso. Ma non ora. Purtroppo gli archivi non sono accessibili in ogni orario e il responsabile oggi è in ferie”.
“Oh...” sospirò lei. “Ma tu sei la Capopalestra... insomma... potresti entrare, sono i tuoi uffici questi...”.
Sandra sospirò, pensando alla possibile reazione di Lance; e avrebbe mentito a se stessa se non avesse ammesso che il disappunto di suo cugino un po’ non le creava piacere.
Tuttavia non era più una ragazzina. Non poteva creare disordine nell’intero ordine dei Domadraghi soltanto per l’invidia che provava per Lance.
Doveva riuscire a svincolarsi.
“Beh... mi metti in difficoltà, così, Yellow...”.
“Ti supplico!” esclamò, con gli occhi spalancati, afferrando le mani e congiungendole nelle sue. “Mi daresti un aiuto eccezionale!”.
Si sentiva davvero troppo meschina. Quindi crollò.
“Vieni...” le disse, alzandosi. Tirò il body, stendendolo lungo il corpo tonico, e fece strada alla più minuta verso l’archivio della Palestra, la prima stanza del corridoio. Poi accese le luci, illuminando tre lunghe fila di archivi.
“Come hai detto che si chiama?” chiese poi la proprietaria. Vide il volto di Yellow rabbuiarsi.
“Non conosco il cognome... ma il nome è sicuramente Diana”.
Sandra portò le mani ai fianchi e inarcò le sopracciglia. “Non posso perdere tutto il tempo del mondo. Gli archivi sono organizzati per cognome”.
“Lo so... ma non c’è un elenco digitale, o qualcosa di simile?”.
Doveva mentire.
“Certo, ma è il nostro addetto che ha le password per entrare nel sistema. Senza di lui non posso fare nulla”.
La bionda giochicchiava con la punta della treccia quando annuì. “Beh... Allora ti chiedo scusa. Passerò prossimamente allora, se me lo concedi”.
“M-ma certo!” esclamò quella. L’accompagnò poi alla porta e la salutò, vedendola perdersi dietro l’angolo. Sospirò, sollevata, e tornò indietro, rapidamente.
Rientrò nell’archivio e si sedette alla postazione computer.
Cliccò un paio di tasti e digitò la password per accedere al server.
La schermata di ricerca s’aprì quasi subito e a lei bastò cercare il nome Diana per ottenere i risultati. Ce n’erano sette.
Due erano decedute quindici e ventitre anni prima, molto anziane.
Troppo anziane per aver avuto una bambina negli ultimi decenni.
Scorse un po’ col mouse, vedendo l’immagine di una donna dai capelli blu, molto giovane.
Troppo giovane per avere una figlia più grande.
Erano rimaste quattro donne, di cui due trasferitesi diversi anni prima lontane da Ebanopoli. Le bastò osservare il volto della prima delle due per rendersi conto di aver trovato chi cercava: quella donna di poco più di quarant’anni assomigliava a Yellow in maniera impressionante. Lesse il numero del cassetto nel quale la sua scheda fosse archiviata, il sessantasette, quindi eliminò il file e recuperò il cartaceo di riferimento, prendendolo e portandolo con sé.
Nessuno avrebbe mai dovuto vedere il volto di quella donna.


Johto, Olivinopoli

“Trovo che sia la città più bella di Johto... Certo, non la più caratteristica, ma il faro, il porto... tante belle cose...” faceva Karen. Il suo sorriso era largo sul volto ma non mostrava i denti.
Al contrario, Risetta non sorrideva mai.
Camminavano lungo la strada principale. L’aria era tirata e le persone avevano capito immediatamente che qualcosa non andasse per il verso giusto, vista la presenza della donna dai capelli turchesi sulle loro strade.
Karen, come anche gli altri componenti dei Superquattro, difficilmente si allontanava dall’Altopiano Blu, e ciò destava una giusta preoccupazione. In più, pochi giorni prima si era tenuta un’assemblea cittadina, in cui Jasmine aveva comunicato ufficialmente l’abbandono della carica di Capopalestra. Aveva anche affermato che avrebbe lasciato Olivinopoli e più probabilmente l’intera regione di Johto. Aveva lasciato la sala in lacrime, raccolto la valigia al faro ed era fuggita via.
Risetta non faceva altro che guardare diritto, con la stessa espressione sul viso, mai mutevole, mai arrabbiata, mai felice. Al contrario, Karen sorrideva maliziosa, ancheggiando a ogni passo che muoveva accanto alla scogliera meravigliosa del lungomare; quella era famosa in tutta Johto, per via di una competizione che si teneva ogni anno e che vedeva i migliori scultori e intarsiatori fronteggiarsi e scolpire un soggetto. Il migliore veniva piazzato lungo il passeggio del lungomare della città.
“Bellissima, Olivinopoli...” continuò Karen. “... con le sue casette bianche e i tetti blu, la sabbia chiara e il mare meraviglioso. Qui le persone sono sempre soddisfatte e felici”.
Difatti Risetta sembrava davvero fuori luogo, lì, con quell’espressione perennemente seriosa.
“Che ne pensi?” domandò infine la Superquattro, vedendo che dopo qualche secondo dalla precedente affermazione non vi fosse stata alcuna ribattuta.
“È una città come tante. Dov’è la Palestra?” domandò rapida quella, massaggiandosi il collo, da sola.
“Ci arriviamo subito. Prima devi sapere che il tuo compito prevede anche una mansione extra, qui a Olivinopoli”.
Risetta non si scompose, rimanendo a fissare il vuoto davanti a sé. Karen sorrise, divertita.
“Sei anche la guardiana del faro. La tua casa è quella” disse puntando il dito contro la grande costruzione conica al di sopra del promontorio.
“Almeno me ne starò per i cazzi miei... Finiamo presto questo supplizio e fammi vedere la Palestra”.
“Ma certo...” sospirò quella dai capelli turchesi, cominciando a infastidirsi dal comportamento altamente superficiale della donna.
Camminarono per un minuto circa, nel totale silenzio e nello sbigottimento generale. Non appena arrivarono alla Palestra, fu proprio la Superquattro a essere sintetica. Non aprì neppure le porte dell’edificio e le porse le chiavi.
“Se hai dei cambiamenti da fare alla struttura lo comunicherai alla segreteria della Lega. Negli uffici della Palestra troverai anche il numero di Virgil, l’uomo che t’insegnerà a manovrare i comandi del faro”.
“Va bene”.
Karen perse un secondo a fissarla, analizzando gli occhi di quel celeste scuro dalla palpebra cadente, a celarla quasi per metà. I capelli neri erano corti, ben pettinati e tenuti fermi da una molletta. Carina, per carità, ma si chiedeva come potesse, un uomo esuberante come Chicco, stare accanto a una donna che non provava emozioni.
Non erano problemi suoi, lasciò cadere le chiavi tra le sue mani e si voltò, sculettando via.


Adamanta, Primaluce, Casa Recket

La sera era scesa lentamente, e l’intero paesino si stava rintanando mano a mano nelle proprie case. Allegra aveva passato l’intero pomeriggio con Arcanine e dopo cena era caduta sfinita sul divano. Rachel e Zack avevano passato un po’ di tempo a tavola, quella sera, parlando e ricordando di alcuni episodi del passato. Poi avevano gettato entrambi un occhio sul divano e avevano guardato la bambina che dormiva.
“Ti assomiglia troppo” disse Rachel, sospirando e sorridendo bonariamente. Tuttavia la reazione di Zack fu quella d’inarcare le sopracciglia e spalancare la bocca, incredulo.
“Ma di che parli?! Tu sei il cristallo della luce! Lo eri, almeno... Tua madre, tua nonna, tutte le tue antenate... siete tutte identiche!” esclamava, urlando a bassa voce.
Rachel sorrise nuovamente e annuì.
“Sì, hai ragione... ma è un vulcano, ha i tuoi comportamenti... È esplosiva, piena di vita... Io ero una bambina assai più tranquilla”.
“Immagino. Sai che palle...” sbuffò Zack, sorridendo poi quando Rachel gli lanciò una mollica di pane addosso.
“Ma! Io ero una bambina dolcissima ed educata!”.
“Non lo metto in dubbio, i tuoi genitori saranno stati sicuramente fantastici. Ma sai che palle lo stesso...”.
“Fanculo, Recket” sbuffò la donna, aggiustando il ciuffo corvino sulla fronte.
Zack si perse negli acquitrini che quella aveva al posto degli occhi, sorridendo e riconoscendosi innamorato. Gli piaceva.
Ma tanto.
“Sei sporca di vernice” disse poi.
“Oh. Dove?”.
“Sul volto. Lì” fece, puntando l’indice contro la fronte.
“Dove, qui?” rispose quella.
“No. Più giù”.
“Qui?”.
“No. Più giù!”.
“Ma dove?”.
I loro occhi si scontrarono per qualche istante, prima che Zack sorridesse, facendo sbuffare Rachel.
“Non ho nulla, vero?”.
“No. Ma sei meravigliosa”.
“Uff... La smetterai mai?” chiese, vedendolo alzarsi. Zack circumnavigò il tavolo e le si avvicinò, dandole un bacio sulla fronte.
“Se vuoi puoi andare a rilassarti... laverò io questi piatti”.
“Sei molto dolce... Magari andrò a dipingere un altro po’…”.
“Ti sta prendendo tanto, eh, questa storia della pittura?”.
Rachel annuì, alzandosi in piedi e baciando nuovamente il suo uomo. “Alma dice che alcune mie tele avrebbero la qualità per essere esposte in qualche mostra”.
“Sei davvero brava, ha ragione”.
Zack raccolse i piatti e si avvicinò al lavello, aprendo l’acqua.
“Non sono poi così brava...”.
“Certo che lo sei. Hai questo vizio orrendo di sminuirti in continuazione”.
“Ma tu sei di parte...”.
“Sei perfetta così come sei. Forse anche più di ciò che dai a vedere. D’altronde Arceus ha scelto te, no?”.
“Beh, non è proprio così...” sorrise lei. “Ma è vero, questa cosa ti dà una bella botta d’autostima”.
“Porta Allegra a dormire e comincia a dipingere un po’. Guarderò il telegiornale, per conoscere gli ultimi sviluppi a Johto, poi salirò più tardi”.
Lei sorrise e annuì, prima di rabbuiarsi. “Ma sei sicuro che non ti spiaccia che passi molto tempo da sola a dipingere? Non vorrei che tu ti sentissi messo da parte...”.
“Stai tranquilla...” sorrise quello. “Tu fai la mamma a tempo pieno e hai bisogno di rilassarti, di tanto in tanto...”.
“Tanto Allegra preferisce sempre te, quindi...” sospirò quella, storcendo il muso.
Zack sorrise. “Questo perché sono straordinario... Ma anche tu sei una bravissima madre e sono sicuro che senza di te sarebbe perduta. Totalmente”.
“Dici?”.
Lui annuì. “Allegra si rende conto degli sforzi che fai come mamma. È una bambina intelligente”.
“Già... Qualcosa da me l’ha presa, è vero...”.


Johto, Violapoli

“Eccoti qui, Marisio. Scusami per il ritardo...”.
Violapoli era gremita di gente quella sera. Il freddo s’era calmato leggermente, lasciando spazio alla folla per festeggiare. Marisio non aveva ben capito cosa rendesse la gente tanto fiera e felice, quel giorno; si era limitato a sedersi al tavolino di un bar poco fuori il centro della città, dove Lance gli aveva dato appuntamento.
Aveva bevuto un drink, sgranocchiato qualche nocciola fresca e aspettato pazientemente che il Campione lo raggiungesse.
“Non preoccuparti, Lance. Non ero qui da molto...”.
Il Campione non indossava il mantello, quella sera. Era tuttavia avvolto nel solito giubbino di pelle bordeaux, con le mani nelle tasche e il sorriso sicuro stampato sul volto.
Marisio chiuse per un attimo gli occhi, accertandosi della grande quantità d’aura che accerchiasse la sua figura. Quello era un uomo dalla forza incomparabile.
“C’è un motivo se ho voluto accompagnarti di persona qui, a vedere la tua prossima Palestra”.
“A dire il vero non avrei ancora deciso se accettare il posto”.
“Oh, certo, tranquillo” fece, spostando una ciocca dei capelli fulvi dallo sguardo. “Ma, come dicevo, cerco di arruffianarti e di convincerti con la bellezza dell’antichità e della tradizione che Violapoli trasuda”.
“Beh...” sorrise Marisio, non riuscendo a dare torto all’interlocutore. E d’altronde, non avrebbe trovato il modo per contraddirlo. Le strade della città erano interamente mattonellate, e arrivati a un certo punto le automobili non potevano andare oltre. Solo persone, al limite biciclette e Pokémon. Anche le abitazioni, tutte, avevano quell’aria anticata, costruite interamente in mattoni di pietra viva. I tetti erano composti da tegole violacee, a creare un’atmosfera particolare, col verde dei boschi a contenere le periferie tranquille della città e il Monte Scodella a vegliare alle sue spalle.
Lance cominciò a camminare, seguito rapidamente dall’altro.
“Sai perché ci sono tutte queste persone per strada?” domandò il Campione, guardando granitico un ragazzino che lo salutava da lontano.
“A dire il vero no, Lance”.
“Oggi è un giorno di festa. La gente di Violapoli ricorda la fine della battaglia con Ebanopoli, la mia città. La guerra si tenne in cima al Monte Scodella, tra due grandi eroi. Uno era uno dei miei avi, vissuto secoli fa; un grandissimo Domadraghi. E poi vi era un uomo che aveva addestrato un grandissimo Pidgeot, velocissimo e potente, proprio come il Dragonite che aveva schierato il rappresentante della città di Ebanopoli”.
“La festa qui mi fa intuire che a vincere sia stato Pidgeot e l’eroe di Violapoli...” fece Marisio.
“Errore. I Domadraghi non si lasciano sconfiggere così facilmente. Tuttavia, dopo tre giorni e tre notti passati a lottare, gli uomini decisero di fermarsi e di riposarsi”.
“La guerra per cosa scoppiò?”.
“Per il predominio del Monte Scodella, Marisio. Dopo due giorni e due notti che gli eroi passarono dormendo, si rincontrarono sulla cima della montagna e decisero di dividere i territori, in modo che a Violapoli sarebbe appartenuta la facciata a sud, mentre a Ebanopoli quella a nord”.
“Festeggiano la fine degli scontri”.
“Di quasi mille anni fa. Ed è solo una leggenda. La tradizione è ben radicata in questo luogo”.
Il forestiero annuì, inspirando l’aria antica che pervadeva quelle vie. Percorsero la strada che si snodava sinuosa davanti al Centro Pokémon.
“Anche quest’edificio è stato costruito secoli fa. Valerio ha voluto riadattarlo, per riconsegnargli valore effettivo. E, chiaramente, è una delle strutture più utilizzate da tutti, in città”.
“Un punto di riferimento, ovviamente” sorrise a mezza bocca Marisio. “D’altronde è un Centro Pokémon”.
“Esattamente” sorrise Lance. Lasciò che passasse davanti a lui, per permettergli di guardare per primo allo spettacolo che si presentò ai loro occhi: cento bambine, fino ai dieci anni, erano vestite con abiti tradizionali di Violapoli, sfarzosi ed eleganti, variopinti, ornati da piume di Pidgeot e foglie di Bellsprout.
Marisio non riuscì a non lasciarsi scappare un sorriso, vedendo le bimbe fare un grande girotondo intorno a tutta la piazza, cantando e ballando, riempiendo di sorrisi i volti dei passanti. L’uomo alzò la tesa del cappello, guardando le donne anziane, che ancora vivevano nei borghi centrali del paese vecchio, affacciate ai balconi, battendo le mani a tempo con l’orchestra che suonava sul palco davanti al laghetto.
“Cos’è quella?” domandò poi, puntando l’indice verso la grande torre che sembrava ballare alle spalle della folla. “Si muove...” osservò.
Lance sorrise, facendo segno di no con la testa.
“Come tutte le vecchie città, anche Violapoli ha una grande quantità di leggende. Quella della Torre Sprout è forse una delle più affascinanti...”.
“La Torre Sprout...” ripeté il forestiero.
“Fu costruita per un gruppo di Monaci buddisti in un periodo in cui uno sciame di terremoti stava mettendo a ferro e fuoco la nostra nazione. Guardala...” suggerì il Campione.
“È costruita interamente in legno...”.
“Sarebbe crollata alla prima scossa. Ecco perché il pilastro centrale attorno al quale è stata concepita l’intera struttura è flessibile, e lascia danzare leggermente la torre. Si chiama Torre Sprout proprio perché, si racconta, fosse stata costruita attorno al corpo di un gigantesco Bellsprout, alto più di trenta metri...”.
“Incredibile...” sorrideva Marisio, osservando i due ponti consecutivi che servivano a raggiungerla, al di là del lago.
Superarono la festa nella piazza, attraversando il borgo più antico e dirigendosi verso una zona più residenziale, dove spiccava una grande costruzione.
“Quella è la Palestra” fece, avvicinandolo. Lo afferrò per il braccio, tirandolo dentro.
L’edificio era al buio ma a Lance bastò allungare la mano lungo il muro per farsi strada verso il bancone della segreteria. Prese la torcia e illuminò il quadro elettrico, annuendo soddisfatto, saltando poi con un agile balzo il tavolo e alzando poi tutti gl’interruttori, illuminando a giorno l’edificio.
Marisio sorrise ancora, vedendo una grande voliera, con esemplari selvatici di Pokémon di molteplici regioni che volavano liberi e spaventati dall’improvvisa accensione dei riflettori. Tuttavia l’occhio non poté che cadere sulla grande impalcatura in legno mantenuta da quattro grossi pilastri. Un ascensore, mosso da un sistema di carrucole, li portò entrambi sulla sommità, dove poterono ammirare da quasi sei metri l’intero edificio e i suoi volatili.
“Insomma...” sorrise il candidato Capopalestra. “La vera Palestra è su questa passerella”.
“Già. Valerio lo aveva fatto per limitare gli avversari e favorire incontri volanti spettacolari”.
“È veramente fenomenale...”.
“E sarà tutto tuo, se accetterai il posto da Capopalestra”.
Gli occhi dei due s’incontrarono, incrociandosi in un pericolosissimo confronto. Marisio vedeva lo spettro della sua aura continuare ad aumentare, donandogli sempre maggiore forza spirituale. Pensò che Lucario sarebbe stato molto attratto da una persona del genere.
“Non lo so, Lance” rispose poi.
Quello spalancò gli occhi dorati, poi li batté un paio di volte.
“Come, scusa?”.
“Non fraintendermi, Violapoli è una città meravigliosa e tu sei stato gentilissimo a offrirmi questo posto, qui, in una località così importante per l’intera Johto... È tutto fantastico, tutto caratteristico...”.
“Ma?” interruppe il Campione.
“Ma ho degli affari in ballo, a Sinnoh. Ho una donna, lì”.
“Avresti a disposizione un ingaggio che ti permetterebbe tranquillamente di poter sostenere l’affitto o l’acquisto a breve termine delle abitazioni più lussuose del posto. E la tua donna potrebbe venire qui con te”.
Marisio sorrise. “La mia donna ha il suo lavoro lì. La sua vita è a Evopoli”.
E fu lì che Lance capì. “Gardenia?”.
“Esattamente...” allargò il sorriso quello. “Non voglio separarmi da lei né squilibrare il nostro rapporto. La distanza...” continuò. “Beh... è una di quelle cose che se non tenuta a bada, se non gestita... ci ammazzerebbe”.
“Potresti indire un giorno settimanale di pausa... o cercare un sostituto, e raggiungere Gardenia ogni sette giorni. Non sarebbe male, no? E potrebbe fare lei lo stesso”.
Marisio fece cenno di no con la testa, abbassando il volto. “No, è complicato...”.
“I tuoi compagni hanno tutti accettato. Resti solo tu. Non ti alletta l’idea?”.
Rialzò subito il viso, fissando negli occhi Lance. “Certo, non è come pensi... Vorrei tanto rimanere qui. Ma vorrei farlo a cuor leggero”.
“Dimmi che ci penserai”.
“Lo farò. Domani tornerò a Sinnoh e ne parlerò con lei... dopodiché c’incontreremo e ti darò la mia risposta”.
“Violapoli è una Palestra di vitale importanza, Marisio. Non potrà rimanere scoperta per molto”.
“Già”.

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