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TSR - 26 - Come Un Fiammifero In Una Stanza Buia



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10. Come un Fiammifero in una stanza buia

- Adamanta, Timea, Stabilimenti della Omecorp -



Le tempie ormai rimbombavano da tre, quattro ore. O forse cinque.
Forse ancora di più.
Lionell aveva ancora indosso la camicia sporca del sangue di sua famiglia e nel suo sguardo vi era ancora l’espressione di Rachel che moriva, della sua anima che abbandonava il corpo.
Non gli sovvenne neppure per un’istante quel senso di colpa logico, conseguenza diretta di un gesto insensato e fin troppo impulsivo.
Si perse nei suoi ricordi, dove il volto di Irya appariva a intermittenza, lasciandolo per qualche secondo spaesato Di tanto in tanto si ricordava quello che era, la persona che voleva diventare nel mondo che voleva costruire, prima che quell’uomo biondo dagli occhi rossi fosse apparso dal nulla a rovinare tutto, come un moccioso dispettoso e sadico.
Quel sangue, quello che aveva macchiato la sua barba, i suoi capelli, il suo volto, ormai era diventato freddo.
E Rachel era morta.
Ci ripensò per qualche secondo, sempre distante dal rimorso e dalle notti della mente, dove il pensiero si alzava e i sensi di colpa costruivano castelli che al mattino sparivano.
Rachel era morta, sì, e lui l’aveva uccisa, sventrata. S’era bagnato del suo sangue, inutilmente peraltro, senza trovare ciò che cercava.
Una rabbia matta lo assalì quando ripensò al corpo senza vita di sua figlia, di quella che sarebbe potuta essere la gioia della sua esistenza se non fosse stato così matto d’aver paura della morte. E non perché aveva perso l’occasione d’essere un buon padre, ora un buon nonno, no; ma perché quel cristallo, quel dannatissimo cristallo, nel corpo di sua figlia, non c’era.
E quella rabbia, quell’ira funesta che saliva dalla pancia verso l’alto, soffocandolo assieme alle sue emozioni, cominciò a intorpidirgli le mani.
Persino il cristallo che Xavier gli aveva incastonato dietro le spalle cominciava a diventare incandescente, e i bordi cicatrizzati della sua pelle attorno al quale quello spuntava cominciarono a sanguinare.
Bruciava tutto, la vista sparì d’improvviso e la rabbia esplose in un urlo immane.
Il suo pugno partì e si schiantò sulla scrivania che aveva davanti, spaccandola a metà e allarmando immediatamente Linda, che attendeva silenziosamente degli ordini, seduta davanti a lei.
“Lionell!”.
“Trovala!” ordinò, prendendo poi a urlare come se fosse posseduto; stringeva le mani e spalancava la bocca più che poteva.
I suoi occhi erano ormai diventati spenti e l’iride vuota, proprio come quella d’un cieco.
Linda si alzò, percependo quasi sulla sua pelle il dolore che quello stava sopportando, e accorse in suo aiuto.
“Linda! Trova la figlia di Rachel! Trovala!” sbraitò, impossibilitato a vedere la giovane dagli occhi verdi voltarsi repentina e col cuore in gola.
Aveva avuto paura.
Non s’aspettava che quella forza disumana esplodesse proprio davanti ai suoi occhi smeraldini, come del resto non s’aspettava di trovarsi mani e piedi in quella situazione.
Quasi dubitava del gesto fatto da Lionell, qualche ora prima, non lo riteneva umanamente possibile di tale massacro.
Lo ricordava, qualche anno prima che tutto quel casino esplodesse, e non era lontanamente paragonabile all’animale che Solomon aveva recuperato dal passato.
Forse si stava convincendo che quell’uomo non fosse più la stessa persona.
Forse era soltanto schiavo di quegli obiettivi non suoi, della rabbia e di quel cristallo che aveva incastonato dietro la schiena.
Forse, quello che aveva davanti, era soltanto lo spettro smagrito e iracondo dell’uomo da cui era profondamente attratta.
Percorse i corridoio dei sotterranei della Omecorp in velocità, coi tacchi degli stivali che battevano sul pavimento lucido. I neon sbiancavano ulteriormente la sua pelle, già diafana; i lunghi capelli erano legati in una coda elegante, che lasciava il ciuffo castano a scendere delicato sulla parte destra del volto. Entrò nella Camerata B, dove vi erano gli uomini e le donne scelti per le missioni più importanti.
La sala centrale era divisa in due da una grande cancellata, e ripartiva da una parte i maschi e da un’altra le femmine, in modo che non si vedessero se non per gli addestramenti.
E quando entrava Linda, solitamente, quella cancellata si sollevava, facendo accorrere tutti i membri di quella camerata.
“Primaluce, le abitazioni le conoscete. Dovete trovare la figlia di Zackary Recket e Rachel Weaves. Dovete trovarla viva e portarla qui. Non importa chi ucciderete, cosa distruggerete, quanti di voi moriranno. Voglio quella bambina qui e voi ce la porterete, intesi?”.
Il vociare, come un’onda, accarezzò le pareti di quella grossa stanza, prima che Linda voltasse i tacchi e sparì dalla loro vista.
 
- Adamanta, Primaluce, Casa di Ryan e Marianne –

“Spiegami meglio, scusa…” aveva detto Thomas, corrucciando la fronte. Portò le mani ai fianchi, stretto nel suo giubbino di pelle marrone. I suoi occhi scuri fissarono quelli di Marianne, che intanto era seduta accanto ad Alma, sul divano.
“Lionell, il padre di Rachel, è tornato. Tutti i grossi crimini avvenuti in questi giorni sono stati commessi dall’Omega Group” aveva risposto la padrona di casa, col volto stanco e sconvolto. Si voltò a guardare Alma, che intanto allattava il piccolo Manuel.
“E ha rapito Rachel?!” strabuzzò gli occhi, l’uomo.
La donna dai capelli ricci e neri abbassò lo sguardo e sospirò, stringendo le mani con vigore.
“Ha fatto di peggio”.
Alma sobbalzò, facendo piangere il bambino.
“Cosa c’è di peggio?! Zack sarà sicuramente corso a salvarla e…”.
“Non ce l’ha fatta, Alma… Rachel è morta, davanti agli occhi di Zack. Si è presentato questa mattina, all’alba, per prendere Allegra e andare via. Ora Lionell sta cercando la bambina”.
Alma guardò Thomas impallidire. L’uomo si voltò un paio di volte, guardandosi attorno e sperando che Ryan uscisse dietro qualche porta a gridare che fosse tutto uno scherzo, ma sapeva bene che Ryan non era in casa.
Marianne non riuscì a trattenere le lacrime, affondando il volto tra le mani.
“Lui è venuto qui, in lacrime! E ha tranquillizzato Lenny, col cuore sconvolto! Ha avuto una forza incredibile a non perdersi d’animo e a continuare a lottare!”.
Alma staccò Manuel dal seno e s’accorse di star piangendo a sua volta. Guardò di nuovo Thomas, sconvolto, e stentò a crederci.
“Rachel è… Rachel è morta?” domandò la Professoressa di Edesea, utilizzando un tono delicato e quasi scomposto, dove ogni parola era seguita da un sospiro, da un gemito e da una lacrima.
“Davanti ai suoi occhi!” continuava a piangere. “E Zack è scappato via per salvare Allegra!”.
“Ora dov’è andato?” chiese Thomas, avvicinandosi alla moglie e prendendo il bambino tra le sue braccia. Cominciò a cullarlo.
“Non lo so, è fuggito via. Ma ha detto che adesso L’Omega Group verrà alla ricerca di Allegra e saremo noi i bersagli predefiniti dato che, una volta che capiranno che casa sua ormai è vuota, ci prenderanno di mira… e…” sospirò, asciugando le lacrime con la manica del maglioncino. “… e non voglio che facciano del male a Manuel o a Lenny”.
“Ryan?” chiese poi Alma.
“Non risponde, è ancora a Timea... Hanno organizzato questa rapina alla banca per tenere lontani i Superquattro e il Campione da Zack”.
“Perché l’obiettivo era Rachel” osservò l’uomo. “Andrei personalmente sul posto se solo non dovessi lasciarvi da sole”.
“Potremmo andare tutti” replicò Alma, che aveva appena finito di sistemarsi. Scontrò il proprio sguardo con quello di Marianne, che si limitò a sospirare e a fare cenno di no con la testa.
“Andremo proprio da loro, Alma. Inoltre non è sicuro, per Manuel…”.
“E se non andassi anche io potrebbero pensare che sia io a mantenere Allegra” ragionò la bella Professoressa dalla lunga treccia nera.
“E diventeresti il nuovo bersaglio. Non ci tengo a fare la fine di Zack”.
Fu Marianne, poi, a rendersi conto del fumo che stava entrando in casa sotto l’uscio.
“Sono qui!” urlò quella, sobbalzando e correndo al piano di sopra.
Spostò i lunghi capelli ricci dal volto, con gli occhi spalancati e il cuore che batteva come una grancassa nel suo petto.
Spalancò la porta della stanza di Leonard e lo vide intento a giocare, seduto sul tappeto di ciniglia beige.
Quello si voltò rapido, quasi impaurito per via della sorpresa e dello sguardo della madre.
La vide accovacciarsi rapida su di lui e sollevarlo, stringendolo tra le proprie braccia.
“Mamma! Sto giocando!” aveva protestato l’altro, inutilmente.
“Giocheremo dopo! Ora abbracciami e stai attento a tutto”.
“Marianne!” sentì urlare poi, dal piano di sotto. Era Thomas.
Un rumore di vetri infranti seguì poi la voce dell’uomo, che cercava di dirigere Alma nel migliore dei modi mentre il fumo s’impossessava del salotto.
Guardò gli occhi di suo figlio riempirsi di terrore. Cosa avrebbe dovuto fare in quella situazione?
Decise che salire più in alto fosse saggio e quindi premette la testa di Lenny sul petto morbido e percorse rapidamente la scalinata che dava nella mansarda.
Si chiuse egoisticamente la porta alle spalle, cercando di capire il da farsi, e intanto altri vetri esplosero ai piani inferiori.
“Alma e Thomas…” sussurrò, sentendo Leonard divincolarsi dalle sue braccia.
“Che succede?” chiese lui. “Dov’è papà?”.
Marianne girò la chiave nella serratura e scivolò lentamente per terra, deglutendo un groppone stopposo e difficile da mandare giù. Si ritrovò seduta, con la maglietta alzata dietro la schiena e i capelli spettinati davanti al volto.
“Non lo so, Lenny”.
“Dobbiamo andare a salvare la zia Alma e lo zio Thomas! Non possiamo lasciarli lì”.
“Vedi troppi cartoni animati. Con me sono riuscita a prendere soltanto le sfere di Octillery e Seviper… Non so in quanti siano”.
Il piccolo bimbo mulatto portò le mani ai fianchi, cercando di trovare una soluzione.
“Potremmo scappare dal tetto e…”.
E poi le grida di Alma lo interruppero. Un brivido dietro la schiena di Marianne corse velocemente, fino a raggiungere il collo e le spalle.
“No, Leonard. Dobbiamo pregare e aspettare” rispose.
Guardò negli occhi di suo figlio e ci vide la grande determinazione e quell’incoscienza assolutamente normale per un bambino di quell’età. Lui voleva salvare le persone a cui voleva bene.
E anche Marianne.
Ma Leonard era più importante.
Leonard era più importante di tutto.

“Stai bene?” sussurrò Thomas nelle orecchie di Alma. Durante la fuga verso il tavolo da pranzo che l’uomo aveva ribaltato velocemente, da usare come barriera, la donna era inciampata e si era tagliata leggermente la fronte.
“Non è nulla” aveva ripetuto più volte, mentre stringeva tra le braccia suo figlio, che gridava come un ossesso.
“Vi porterò fuori da questa situazione” ribatté l’uomo.
A stento gli occhi dei due sposi s’incrociavano in quel marasma, dove il fumo aleggiava denso e grigio.
“Stai attento”.
Thomas portò le mani alla cintura, prendendo entrambe le Pokéball che portava in vita e liberando un Serperior e un Pangoro dalle dimensioni abnormi.
“Alma, dammi la sfera di Gardevoir” disse poi, vedendola immediatamente porgere nelle sue mani ciò che le era stato richiesta.
“Serperior alle spalle. Pangoro starà con me… Dobbiamo uscire da questa situazione e provare a proteggere Marianne e Leonard. Intesi? E poi Gardevoir… tu devi proteggere Alma e Manuel.”.
“Sono troppi” aveva ribattuto Alma, che aveva sentito i passi di molteplici persone accedere all’abitazione. “Se solo ci fosse Ryan!”.
“Già…” sospirò Thomas, che era un ricercatore e non il Campione della Lega. “Ma per ora dobbiamo riuscirci. Quindi forza!”.
Pangoro indietreggiò, con la pelliccia più scura del fumo che li avvolgeva. I suoi occhi rifrangevano la debole luce e gli permettevano di vedere anche in brutte situazioni come quelle.
Serperior invece sgattaiolò silenzioso sulle ampie pareti del salotto di Ryan e Marianne, strisciando nel fumo e ritrovandosi sopra decine di teste dai caschetti grigi.
“Pangoro, usa Corposcontro!” urlò.
Qualcuno aveva cominciato a gridare degli ordini ma Pangoro si gettò nel fumo con tutta la sua forza, colpendo di fatto qualcuno, che ruzzolò indietro di qualche metro.
“Serperior, Gastroacido!”.
Da sopra l’uscio, il grande Pokémon Regale rilasciò dalle proprie ghiandole del liquido velenifero talmente acido da riuscire a sciogliere gli elmetti di quelli.
Qualcuno urlò e si fiondò fuori dall’abitazione, qualcun altro reagì con forza, impartendo ordini ai propri Pokémon.
Iperzanna!” aveva sentito.
“Pangoro! Forza!”.
Il fumo si stava diradando leggermente quando gli occhi dell’uomo videro diversi individui muoversi verso i piani superiori.

E Marianne li sentiva.
Sentiva i passi mossi da quegli uomini che rapidi si spostavano di stanza in stanza, al piano sottostante, entrando nella sua camera, in quella di Leonard, nel bagno e successivamente nello studio di Ryan.
Guardò gli occhi di suo figlio, sentì il rumore di vetri infranti e ancora quell’angoscia che aveva nel petto s’espanse, rendendole impossibile stare ferma. Doveva fare qualcosa.
“Io uscirò, Leonard. Mi devi promettere che appena sarò fuori chiuderai la porta a chiave e che ti metterai buono in un angolo, senza provare a seguirmi o a scappare salendo sul tetto. Dovrai rimanere qui”.
“Non voglio che vai fuori!” urlò l’altro.
“Devo andare, piccolo. La zia Alma ha bisogno di me”.
Il volto di Leonard mutò la propria espressione, gli occhi si spalancarono e poi le sopracciglia s’incurvarono verso il basso. Si mordeva il labbro inferiore quando grosse lacrime presero a scendere sulle guance paffute.
“Mamma…” la sua voce, tremula come una foglia, tagliò di netto il cuore di Marianne, che lo strinse forte al petto. “So che devi salvare la zia Alma e il bambino e pure lo zio Thomas… ma ho paura che ti uccidano. Voglio venire con te! Voglio proteggerti!”.
E fu lì che le lacrime del bambino incontrarono quelle della donna.
Ancora seduta per terra, la donna baciò la testa di suo figlio, piena di cortissimi capelli. Quello s’avvinghiò al suo corpo, affondando il volto nell’incavo del collo di quella e cominciando a piangere.
La donna singhiozzò e gli alzò il viso con le mani, sorridendogli.
“Lenny…” disse, quando un’altra grossa lacrima gli baciò il viso. “Quando il papà non c’è sei tu l’uomo di casa... e… e questo significa che devi avere il coraggio di un leone”.
“Ma se uscirai ti faranno del male!”.
“Non voglio che tu abbia paura” sorrise poi, gioviale e in totale controtendenza con quello che il pianto di cui era preda esprimeva. “Voglio che tu aspetti qui. Il tuo compito è tenere al sicuro la mansarda! Questa è la nostra base!” esclamò lei, prendendola come un gioco. “Non devono conquistarla per nessun motivo al mondo!”.
Lui rimase coi grossi occhioni azzurri a fissarla, il labbro inferiore tremulo e le mani ancora strette al collo.
Annuì.
“Bravissimo, il mio guerriero” sorrise Marianne. Lo baciò nuovamente in viso, catturando con le labbra una sapidissima lacrima, quindi si alzò in piedi. Il piccolo la guardava attento, in attesa di disposizioni.
“Ora uscirò e tu ti chiuderai subito la porta alle spalle, girando la chiave nella toppa. E non la aprirai più fino a quando non verrò io. Intesi?”.
Lui annuì lentamente.
“Mi prometti che non uscirai da qui? Che proteggerai il nostro fortino?”.
Quello annuì debolmente e la vide stringere tra le mani le sfere dei suoi Pokémon.
“Sii il re di questo castello, piccolo mio” fece, aprendo la porta e sparendovi oltre.
Il bambino obbedì agli ordini di sua madre e rapidamente rigirò la chiave nella serratura.
E rimase da solo, fermo immobile nella piccola mansarda di casa sua.
Nel loro fortino, mentre il castello era sotto assedio.
La paura lo costringeva lì, come incatenato a quel pavimento di fuoco sotto il quale decine di squali ruotavano in cerchio, cercando sua madre.
Avrebbe voluto il suo papà lì.
Il suo papà, il Campione.
Invece era solo, e il suo respiro era l’unico a muovere quell’aria polverosa e stantia, poggiata per mesi su vecchie mensole di legno e un materasso senza coperte.
Solo il suo respiro, come l’unica luce nel mondo, ma più in piccolo.
Come un fiammifero in una stanza buia.

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