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Levyan - Zero Kills -1: Da Vinci

 
 
Capitolo -1: Da Vinci


E tutto era rimasto immobile. Il corpo di Ellie giaceva senza vita nel caminetto, piangendo sangue dalle ferite a piccolissime dosi, in mancanza della pressione dovuta alla circolazione. Zack era ancora inginocchiato davanti a lei, piangente, con la matita rotta stretta ancora tra le dita. Quella matita aveva lasciato il disegno di un Sentret incompleto sulla parete della stanza accanto.
Non sapeva cosa fare, Zack. Non aveva idea di che cosa avrebbe fatto da quel momento in poi. Si sarebbe ucciso? Probabile. Avrebbe provato a fuggire? Probabile allo stesso modo.
Ma poi un’idea piccola ma intensa balenò nella sua mente. La rabbia che aveva in corpo aveva uno scopo, il suo rancore sarebbe servito a qualcosa. La sua unica ragione di vita era morta, tutto questo non poteva non avere conseguenze. Avrebbe ucciso suo padre, avrebbe ammazzato quell’uomo come meritava. Non era un’idea, era la prima cosa che qualsiasi essere senziente capace di provare buone e cattive emozioni avrebbe fatto.
‒ Ellie… mi dispiace… ‒ mormorò nel breve momento in cui il pianto tornò ad affacciarsi sulle sue guance.
Ripreso il vigore, Zack si alzò in piedi, si diresse verso la cucina, aprì il cassetto delle posate e, mettendo giù la sua matita, si armò di un coltello.
Suo padre era tornato al piano di sopra dopo aver sfogato il suo fastidio su Ellie. Si era chiuso la porta alle spalle come nulla fosse. Come quando lasciava suo figlio dolorante dopo avergli assestato un paio di cazzotti nello stomaco. L’assassino era tornato nelle sue stanze e lì era rimasto. Zack nascose il coltello nei pantaloni, prima avrebbe fatto una cosa.
Aprì la credenza dove erano riposte tutte le stoviglie, ne prese sette e le impilò in equilibrio incredibilmente precario appena prima del bordo del tavolo della cucina. Individuando subito un punto in cui nascondersi, si preparò a correre.
Diede una piccola spintarella alla pila di stoviglie e scattò verso l’angolino del sottoscala. Il suo cervello non udì quel terribile fracasso prodotto dalle pentole, era focalizzato su altri suoni.
‒ Ancora?! ‒ tuonò il genitore dal suo antro.
La porta si spalancò, l’uomo si accinse a scendere le scale, senza degnare di uno sguardo il corpo di Ellie ancora afflosciato sugli alari del caminetto. Non notò il piccolo Zack che, dietro di lui, teneva in mano una delle posate con cui di sicuro almeno una volta aveva tagliato una bistecca a cena. Era proprio alle sue spalle, l’uomo era troppo furente e confuso per rendersene conto.
Nessuna paura, nessun ripensamento.
Quali erano le botte che più facevano male? Quelle sul costato.
E la punta del coltello affondò nel fianco dell’uomo fino all’impugnatura. Come quella volta che lui l’aveva conficcata nel tavolo, quando era iniziato tutto. Zack non temeva nulla, non mollò la presa e tenne stretta l’arma con la mano che l’aveva guidata fino alla carne per tutto il tempo. Il corpo dell’uomo ebbe un sussulto, cedette sul ginocchio sinistro, il suo collo si girò meccanicamente per vedere in faccia la persona che lo aveva colpito, tossì un paio di volte.
E poi il silenzio.
Zack mollò la presa. La sua mano destra era completamente imbrattata di sangue. Poco importava, la pulì passandosela sulla maglietta già inzaccherata del sangue di Ellie. Il suo lavoro era svolto. Non aveva nient’altro da fare.
E poi, forse per scaricare la tensione che non aveva avvertito prima, forse per zittire quella sensazione di vuoto che con la vendetta non se n’era andata, si trascinò stancamente fino al divano e si addormentò in un brevissimo lasso di tempo, stringendo un cuscino come fosse sua sorella.
Finalmente, la quiete più totale era scesa nella casa.
Certo, durò molto poco.
Un colpo di tosse. Due colpi di tosse. Un grugnito.
L’uomo era rinsavito appena. Il suo corpo aveva deciso che ancora non era il momento di spegnersi. Leonard, questo era il nome del padre di Zack, constatò di avere dieci centimetri di metallo conficcati appena sotto la cassa toracica. Era una ferita dolorosissima, bastevole a farlo svenire, ma non sufficiente per ucciderlo sul colpo. Con immensa fatica, tornò in piedi poggiando la spalla sinistra al muro. Non poteva muovere l’emisfero destro del suo corpo, era troppo doloroso.
Dopo alcune decine di secondi, seppur con fatica, era in piedi e capace di camminare.
L’unica cosa che la sua mente poté formulare, fu eseguita. In quel momento estremo, quando ormai si era reso conto di essere giunto al limite, il suo senso del dovere ebbe il sopravvento. Il bisogno di portare a termine ciò che con fatica aveva iniziato vinse.
Salì le scale che aveva sceso prima di essere pugnalato, tornò alla sua stanza, vide il suo pc acceso col monitor illuminato.
La corrente ancora c’era, a casa sua, nonostante il cumulo di lettere mai aperte che sicuramente nascondevano anni di arretrati con le bollette. Era l’organizzazione per cui lavorava che continuava a fornirgli energia elettrica, loro avevano bisogno del suo lavoro, delle sue ricerche.
‒ Ho quasi finito… ‒ mormorò sedendosi alla scrivania.
Il movimento gli fece veder le stelle. Avvertì la lama del coltello toccare qualche suo viscero all’interno del busto. Dovette portare la mano destra sulla ferita per non svenire di nuovo. Con l’altra, invece, premette un tasto particolare posto sotto la sua scrivania.
Era pronto a morire, aveva lanciato alla sua organizzazione il codice rosso che li avrebbe allertati nel caso in cui gli fosse successo qualcosa. Leonard rilassò i muscoli del collo abbandonando la testa sullo schienale della sedia. Di lì a poco gli agenti sarebbero arrivati, lo avrebbero aiutato. Forse. Forse sarebbe morto prima. Ma comunque, e questo era l’importante, avrebbero recuperato tutto ciò che aveva ottenuto con la sua ricerca. Era felice, aveva portato a termine il suo compito. Il suo lavoro non sarebbe andato a vuoto. Estrasse le chiavi della cantina dalla tasca e le pose in bella vista sulla scrivania. Ciò avrebbe facilitato il lavoro agli addetti al recupero dei materiali.
Ma poi, un debole pensiero giunse al suo cervello. Zachary. Il ragazzino era ancora al piano di sotto. Forse neanche si era reso conto che suo padre era ancora vivo, anche se per poco. Forse dormiva. Forse con lo stesso coltello con cui lo aveva infilzato si era tagliato le vene. No, impossibile, quel coltello ce lo aveva ancora Leonard, bello, conficcato dentro la carne. In ogni caso, se fosse stato ancora vivo, che cosa ne avrebbero fatto di lui gli agenti inviati dalla sua organizzazione?
Il suo corpo ebbe un sussulto.
La sua vista cambiò di colpo, stropicciò gli occhi e cercò di rialzare il capo. Un'altra scintilla si era accesa nella sua mente. Un qualcosa che avrebbe dovuto fare molto tempo prima. Impiegò qualche minuto per rendersi conto nuovamente del fatto che stava per morire. Ebbe quasi voglia di piangere.
Si maledisse per essere entrato in un momento di lucidità proprio in quell’istante.
Compiendo uno sforzo immane portò la mano al mouse. La sua casella postale era già aperta, caricò come allegato di una mail un file video che aveva sul desktop da mesi; inserì l’indirizzo del destinatario. Infine, si prese anche la briga di scrivere l’oggetto.
Scrisse una parola sola, anche questa col caps lock attivo:

KALUT

Cliccò su invia.
Cancellò il messaggio dalla casella della posta inviata, cancellò il file video dal suo pc. Adagiò nuovamente la testa sullo schienale, pianse alcuni minuti pensando ai suoi figli.
Non aveva il coraggio di pentirsi delle sue azioni, sarebbe morto con l’amaro in bocca. Pensò solamente di aver fatto ciò che chiunque altro avrebbe fatto al suo posto. Semplicemente mentendo a se stesso.
E fu semplice, per Leonard, spegnersi lentamente e morire nella sua stanza.

Trascorsero alcune ore, ormai era notte inoltrata e Zack dormiva ancora come un sasso sul divano, due omoni giunsero a casa sua forzando la serratura della porta. Non intendevano far rumore, due marcantoni vestiti di nero non entravano nelle case delle persone con buone intenzioni, solitamente, la cosa migliore era evitare di allertare chiunque.
Erano giunti sul posto molto prima, ma avevano dovuto attendere che gli hacker della loro organizzazione disattivassero le eventuali telecamere locali e che tutti i residenti di quella via fossero andati a dormire, poi, facendo ricorso alle loro competenze nell’ambito elettrico, avevano mandato in cortocircuito la centralina che alimentava l’intera zona, spegnendo le luci di tutti i lampioni.
Avrebbero agito con il buio.
I due uomini ispezionarono la prima stanza in cui poterono entrare: il salone. Videro il cadavere di Ellie buttato nel camino come un peluche da gettar via, il primo dei due fece una smorfia quasi compassionevole, quindi trovarono pure il corpo di Zack tutto intriso di sangue, sicuramente era morto anche lui. Quello più avanti fece un cenno con la mano “area sicura” significava. Sapevano cosa aspettarsi, avevano studiato tutte le informazioni sull’obbiettivo, la piantina della casa, i membri di cui era composta la sua famiglia, le stanze dalle quali avrebbero dovuto raccogliere ciò di cui avevano bisogno. Non ebbero problemi, salirono al piano di sopra e penetrarono nella stanza di Leonard. I loro nasi furono uccisi dall’odore che vi aleggiava all’interno.
‒ È qui ‒ mormorò uno dei due.
Avevano trovato il cadavere dell’uomo il cui lavoro era tanto importante da spingerli lì a recuperare persino i suoi appunti incompleti. Passarono oltre senza verificare le condizioni dell’uomo, salvarlo, se in fin di vita, non era mai stato parte dei piani: erano in due, avrebbero dovuto portare con loro tante cose, amavano lavorare con calma e di macchina ce n’era una sola. Cominciarono a raccogliere documenti, macchinari, Poké Ball e qualsiasi altro oggetto di interesse. Portarono via persino l’intero computer dell’uomo, se la cavarono con un paio di viaggi, per lo studio del piano di sopra. Per fortuna era stato ordinato allo scienziato di non nascondere nessun oggetto del suo lavoro, in modo da facilitare il recupero agli agenti.
Portarono via anche tutti i fogli sparsi nel salotto e nella cucina, anche quelli intrisi del sangue di Ellie. Infine, con le chiavi lasciate in bella vista sulla scrivania, scesero nel sotterraneo e ispezionarono anche quello. E lì cominciarono col lavoro duro. Caricarono quanti più oggetti poterono e li portarono nell’auto, e così continuarono per altri tre viaggi di andata e ritorno. Il loro lavoro era concluso, uscirono per l’ultimo carico facendo attenzione a lasciare la porta aperta.

Nel frattempo, nel salone, Zack aprì gli occhi.
Si guardò attorno, tutto era così diverso. In pochi secondi riacquisì la capacità di comprendere la realtà, non degnò Ellie di uno sguardo, ma percepì ancora una volta il bruciore degli occhi. Cercò invece, per conferma, il cadavere di suo padre che doveva essere rimasto al suo posto in fondo alle scale.
Spalancò gli occhi, Leonard era sparito.
E insieme con questa constatazione, seguì una seconda: la porta della cantina era spalancata. Fece una rapida deduzione. Prese un secondo coltello dalla cucina e si avviò verso il seminterrato. Doveva essere o già morto o in fin di vita, il papà non lasciava mai quella porta aperta. Raggiunse il seminterrato che per anni era sempre stato una zona oltre le sue colonne d’Ercole, vi entrò di soppiatto.

Contemporaneamente, i due agenti rientrarono, la macchina era completamente carica e i materiali erano stati recuperati, mancava solo la pulizia finale. Quello davanti si avvicinò alla caldaia che era in cucina, girò una manopola e provò ad accendere i fornelli. Nessuna fiamma.
‒ No ‒ constatò ‒ sono senza gas.
‒ Dobbiamo farlo noi, quindi?
‒ A quanto pare.
Uscirono. Il secondo prese due Ball dalla sua cintura, da una fuoriuscì un Marmortar e dall’altra un Gallade. I due uomini salirono in macchina, misero in moto e partirono. Nel frattempo, su loro ordine, i due Pokémon si erano messi a distanza di sicurezza e Gallade aveva posato la sua mano sulla spalla del compagno, pronto a teletrasportarlo assieme a lui dentro la vettura. Magmortar aveva alzato il braccio, caricando il colpo.

Zack si rese conto del fatto che non ci fosse nessuno in quella cantina. Scrutandolo nella penombra, rimase catturato dalla vista di un oggetto particolare: suo padre teneva nel seminterrato una sorta di capsula cilindrica delle dimensioni di un armadio. Sembrava una pila, aveva un piedistallo metallico, quindi un corpo fatto di vetro e infine un ultimo pannello metallico in alto. Era vuota, ma il portello della capsula vitrea era stato aperto precedentemente. Lesse la sigletta che compariva sul fianco del piedistallo:

F.A.C.E.S.

Ricordò di aver letto quel nome su una miriade di fogli e documenti. Stando a ciò che era riuscito a comprendere, la F.A.C.E.S. era l’organizzazione per cui suo padre lavorava, rifletteva Zack.
Poi, la terra tremò.
Un devastante boato lo fece saltare di colpo sfondandogli quasi i timpani. Un’esplosione, solo un’esplosione poteva aver prodotto un rumore tanto potente. Zack era terrorizzato, ma la sua paura salì portentosamente quando si rese conto che era caldo, troppo caldo.
Istintivamente, si avventurò per la via tramite la quale era entrato, ma si accorse che la scalinata era coperta di pannelli di legno e pezzi di muro completamente avvolti dalle fiamme. Sul momento si vide spacciato, comprese di essere destinato a morire pure lui, quel giorno.
Ma poi si ricordò della seconda uscita. La cantina aveva una piccola botola apribile solo dall’interno che conduceva al giardino sul retro, quando c’era ancora la mamma l’aveva usata per giocare a nascondino con lei. Intanto l’aria si faceva consumata e la temperatura sempre più alta. Zack sentiva i muscoli e i tendini fremere per l’adrenalina. Raggiunse la porticina, provò ad aprirla, la manopola seguì il suo movimento ed emise un rassicurante scatto. Zack fu fuori, di nuovo all’aria aperta. Trovò la notte fonda e la luna che riempiva una piccola porzione di cielo proprio davanti a lui, guardandolo come un immenso occhio divino.
Era uscito appena in tempo per correre via, più lontano possibile, oltrepassando la staccionata e andando a finire in mezzo al fitto fogliame. Il ragazzino si voltò.
Casa sua, o meglio, la casa in cui era stato costretto a vivere per tutta la sua vita, stava andando a fuoco. Cadeva pezzo su pezzo, comprimendosi su se stessa come se un gigantesco incendio fosse scoppiato dentro di lei in meno di un secondo.
Pensò al cadavere di Ellie, pensò ai suoi giochi, pensò al loro amato salotto e ai disegni sul muro. Pensò che forse era stato suo padre ad appiccare l’incendio, ancora vivo, quel bastardo.
Zack guardava casa sua perdere vita e decadere in fretta sotto la morsa del fuoco.
Alcune persone, tutti suoi vicini, cominciarono a riversarsi nella strada buia. La sirena di un camion dei pompieri cominciò a suonare in lontananza, però lui non poteva sentirla, la sue orecchie fischiavano ancora per via del forte scoppio che aveva travolto il suo udito. In poco tempo, iniziarono a giungere pure i giornalisti.
Per fortuna, Zack era nascosto, nascosto nel bosco. Troppo lontano perché riuscissero a intercettarlo. Aveva voltato le spalle alla sua dimora, alla sua prigione.
Aveva voltato le spalle a tutto.
Stava piangendo, non nervosamente come quando aveva visto morire Ellie, ma in modo sommesso, cercando di mantenere la sua voce salda e il suo singhiozzo quasi inudibile.
E intanto correva, cadde un paio di volte per via degli occhi lucidi, ma correva senza pensare a dove fosse diretto.
Negli occhi, una sola immagine: suo padre che spezzava la vita di sua sorella.
Nelle orecchie, un solo suono: il boato dell’esplosione.
In mente, una sola parola: F.A.C.E.S.

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