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Christmas Medley - by Couragers

Christmas in Courage
auguri da tutti noi a tutti voi


 Christmas Medley by  _Couragers_
(ovvero: pensa a un personaggio e noi ti diciamo a che pagina è)
Piccole prefazioni, che poi piccole non sono mai, nessuno ha mai capito perché. Ma le facciamo lo stesso perché ci va;
  1. Questo papiro che vi state apprestando a leggere è gigante, ne siamo a conoscenza. Questo perché è un progetto di gruppo, dato che il nome lì sopra ( _Couragers_ ) potrà sembrare una novità. La storia in questione è stata redatta da ben dieci MERAVIGLIOSI autori, con largo anticipo rispetto ai tempi (avevo ancora le infradito ai piedi mentre descrivevo il Natale di Ruby e Sapphire). Questi sono, in ordine di apparizione: Linnea, Blue Eich, Miz Misao (ex Johikari222), Lily di KomadoriZ71, Levyan, Lila May, Gaia Bessie, herr, John Hancock e infine Andy Black.
  2. Non è stato semplice. Abbiamo orchestrato tutti assieme questa grande opera, dovendo adattare stili e idee per non reprimere nessuno. Il risultato, a mio parere abbastanza piacevole, è quello di una storia dove oltre a una molteplicità di stili, spesso davvero molto differenti tra di loro, vi è anche continuità in quella che abbiamo definito una pseudotrama, in cui ogni capitolo è l'anello di una catena fatta di tante polaroid, cioè d'istantanee atte a descrivere un momento preciso della vita dei personaggi descritti. Oltre alla complessità nella stesura, però, che comunque non intacca la piacevolezza della lettura, è stato parecchio divertente; siamo tutti partiti con la volontà ben precisa di voler creare qualcosa insieme, senza spiriti di protagonismi vari né voglia di splendere sugli altri per mostrarsi autori o personalità superiori. Ci siamo mossi come una vera squadra e abbiamo prodotto insieme una storia omogenea in cui l'intento era la collaborazione, cosa che spesso tra i fan writer non è mai presa in considerazione.
  3. Potrebbe essere questa la prima pagina di una serie di collaborazioni assai proficue tra di noi. Chi segue il blog da tempo sa che chi è nel circuito predilige, soprattutto durante eventi e festività (Halloween e Natale su tutti), la collaborazione, per mettersi in condizione di confrontarsi e migliorare. In ogni caso, speriamo che la cosa vada avanti per molto tempo, sempre nel segno del piacere di scrivere dei personaggi che più amiamo.
  4. I disegni sono stati fatti tutti dalla bravissima Effedi-F, che fa parte del collettivo come disegnatrice ufficiale.
  5. Questo è soltanto un modo per augurare a tutti i lettori che ci hanno seguito nel tempo, e a chi lo sta cominciando a fare adesso, un felice Natale. Buona lettura.


Ovunque si posassero i suoi occhi era bianco. Nemmeno il suono del vento gli faceva compagnia, solo i piccoli cristalli di ghiaccio e neve distrutti dai suoi stivali umidi avevano voce in quella parte del Monte Argento. A Silver non dispiaceva; la temperatura era di qualche grado sotto lo zero, ma lui amava i Pokémon di tipo Acqua e Ghiaccio, il freddo era un po’ il suo elemento. Era nel suo DNA, dipinto sul volto nordico, sulle ciglia pallide e sugli specchi dei suoi occhi; per questo non era intimorito dal bianco accecante della distesa di neve, sapeva come muoversi e come proteggersi; non sarebbe rimasto accecato dal riverbero e l’aria non gli avrebbe gelato le ossa. La sua ansia non era dovuta a quello. Silver non sapeva davvero muoversi attraverso quelle convenzioni sociali; l’anno scorso, però, aveva quasi perso suo padre, e dopo non averlo visto per un anno intero aveva iniziato a sentire qualcosa sfuggirgli dalle mani. Non era stato difficile scovare Giovanni, d’altronde era suo figlio.
L’entrata dell’Hideout n.7 era una porta di ferro incastonata nella pietra viva del Monte Argento, sul lato sinistro di una grotta. Silver sapeva che all’entrata dell’incavo naturale vi fosse un sensore di movimento, ma la sicurezza non avrebbe comunque mandato dei Pokémon a cacciarlo, perché lo avrebbero riconosciuto. Prima ancora che raggiungesse il portone, quello iniziò a cigolare e a ritirarsi nella pietra, aprendo prima uno spiraglio e poi uno slargo abbastanza ampio da permettergli di passare.

“Silver.” Gli occhi di suo padre erano identici ai suoi, pallidi e circondati da folte ciglia, troppo grandi per il suo volto. Indossava un maglione a collo alto infilato in jeans scuri, aveva guadagnato peso, ma lo stesso il suo volto era scavato; per quanto Celebi lo avesse guarito, Silver sapeva che la malattia al cuore di Giovanni era congenita ed era stata una questione di tempo prima che si ripresentasse; le medicine lo stavano indebolendo. Eppure non mollava i suoi propositi, l’ambizione avrebbe finito per divorarlo vivo; niente di tutto ciò di cui si appropriava sarebbe venuto nella tomba con lui. Più importante, bruciava tempo prezioso che avrebbe potuto spendere con suo figlio, se solo avesse deciso di redimersi.
“Silver” ripeté, sorridendo. Scosse via la polvere ghiacciata depositatasi sulle sue spalle e gli offrì una bevanda calda. “Non mi aspettavo di vederti” fece, spingendo una tazza di cioccolata verso di lui.
“Non sono riuscito a trovarti.” Giovanni lo fissò con uno sguardo indecifrabile, uguale a quello che lui stesso spesso adottava. “Pensavo di passarti a trovare. In famiglia si fa così, no? Per le festività, intendo.”
“Non pensavo avessi questo desiderio, viste le mie… affiliazioni.”

“Quella del Natale è una bella festa. Un sacco di persone la condannano perché ne vedono solo il lato commerciale, io però non la penso così, credo bisognerebbe sfruttarla per… Per redimersi in qualche modo.”
“Ah, figlio, per alcuni non c’è redenzione.” L’uomo ghignava: era il più grande fan del suo antagonismo, Silver non aveva preso niente dalla sua indole narcisista.
“Lo stesso. Non è un motivo per cui debba fingere che tu non esista. Mi hai cercato per undici anni, e hai salvato la mia vita a discapito della tua. Non fraintendermi, non credo sia un mio dovere; è solo che… lo apprezzo. Non credevo esistesse qualcuno disposto a fare ciò, per me...” Silver era stato un bambino rumoroso e allegro, Giovanni non apprezzava più dell’aspetto di sua madre, ma quando aveva dimostrato il suo stesso temperamento Giovanni non si era mai trovato seccato. Adorava i suoi sorrisi e la sua curiosità. La mente gli diceva che se avesse potuto proteggerlo meglio Silver sarebbe potuto diventare una persona diversa, senza il peso e la percezione di doversi scusare per la sua esistenza. Ancora faticava ad associare il ragazzo di fronte a lui a Silver; nella sua testa era ancora il bambino di due anni che sporgeva le mani paffute verso di lui per farsi prendere in braccio, e che rideva fino alle lacrime giocando con il suo Persian.
“Ah, purtroppo devo già tornare indietro, questa sera nevicherà. Volevo solo vedere come stavi, e darti un regalo.” Silver si alzò e Giovanni lo imitò; definitivamente, non era più quel bambino. Era alto quanto lui, adesso. Il ragazzo frugò un attimo nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori un piccolo guanto nero. Non riempiva neanche un quarto della mano del padre.
“Per rimediare al tempo perso” fece, semplicemente. Era un articolo di scarsa qualità, cucito malamente con la tipica stoffa speciale adatta a resistere al contatto coi Pokémon, usata nei vestiti per gli Allenatori. All’interno era ricamato un nome in modo piuttosto maldestro, Silver.
“Fu un regalo di mia sorella, io ho l’altro. Quello… Beh, il mio migliore amico una volta mi colpì con un Braciere, quindi è un po’ rovinato.” Giovanni strinse il guantino, capendo all’istante. Silver gli stava ridando un pezzettino della vita che si era perso. Faceva male, guardare quel pezzo di stoffa consunto, ma faceva anche bene all’anima.


“Ma dov’è quella donna sbagliata?!”
Gold smanettava in cucina. Crystal all’inizio si era dimostrata scettica a lasciargli in mano la responsabilità del cenone di Natale, ma Silver aveva detto che era stranamente bravo a cucinare –Gold aveva strillato, che significa stranamente, ah, testarossa?! – e Crystal si fidava di Silver, quindi aveva deciso che gli avrebbe lasciato almeno quel compito. Per il resto si era preoccupata di tutto lei, la spesa, le decorazioni, la musica… Gold aveva sbottato che fosse inutile tutto quello sbattimento per solo tre persone, ma Silver aveva guardato l’albero con le stelline negli occhi e si era divertito ad aiutarla a decorarlo – nonostante le sue capacità decorative fossero da shit tier.
“Spicciati, mostro, decora ‘sta torta, buttaci sopra degli sprinkles o che sai tu…” fece all’amica, che lo raggiunse al bancone della cucina mentre era impegnato a impanare qualcosa. Spinse verso di lei una torta col dorso della mano.
“E questa da dove esce?!” esclamò lei.
“Dal forno. È il compleanno di Silver, cretina. Sbrigati, facci qualche disegnino da femminuccia con la glassa o… o disegnaci un robottone.”
“Lo so che è il suo compleanno! Deficiente, mi hai presa per una pasticciera, come faccio a disegnarci un robot?”
“Buonasera, ragazzi” fece il festeggiato, entrando in casa. Crys frustò l’aria coi capelli, colpendo Gold con una delle sue code.
“Ah, no, la torta non è ancora finita, esci!” urlò il moro.
“Quale torta?”
“ESCI! O ti prendo a schiaffi con la costoletta.”
“Gold, IL PARQUET– Per dio!” Dell’impanatura era finita sul pavimento, così la ragazza si piegò a pulire con un panno umido e Silver vide la torta che aveva nascosto alle sue spalle.
“È al cioccolato?”
“ESCI!”


Quello era il loro primo Natale insieme, la madre di Gold aveva deciso di visitare dei parenti all’estero, lasciandogli la casa libera. Era un mistero come quel ragazzo fosse sempre senza soldi in tasca siccome quella casa era enorme, chiaramente arredata con cura da qualcuno benestante. Niente a che vedere con il piccolo appartamento disordinato che Crystal condivideva con Mirei, sua madre. Nel salotto vi era un grosso camino in pietra, e i tre amici si sedettero lì a gustare la loro cena. Crystal non aveva mai partecipato a un vero e proprio cenone, perché Mirei raramente era in casa durante le feste e quando c’era si sbrigava a mangiare qualcosa di dietetico prima di uscire per andare da qualche parte – entrambe erano due donne molto indipendenti. Per questo anche lei si sentiva un po’ bambina guardando quella casa da copertina di rivista di design d’interni, un vero, profumatissimo albero di Natale con una decente quantità di regali sotto e più pietanze di quelle che avrebbero potuto mangiare affollate sul tavolino da caffè. Era sovrappensiero, sorrideva e guardava il movimento ipnotico del fuoco, con il chiacchiericcio di Gold in sottofondo. Si riprese solo quando percepì un flash e una risata, immediatamente si ruppe il momento e Crystal non si sentiva più nostalgica.
“GOLD! Cosa hai fatto!” Lasciò cadere la costoletta nel piatto e cercò di strappare il telefono dalle mani del moro con le sue dita appiccicose.
“NIENTE!” Lanciò il telefono alle sue spalle, senti chiaramente Silver afferrarlo e digitare qualcosa – immediatamente saltò all’indietro per catturarlo – registrando un urletto poco maschile da parte di Gold che cercava di salvare il piatto che gli era rimasto in grembo. Il rosso fu più furbo: si mise in piedi, alzando le braccia fuori dalla sua portata e finendo qualunque cosa Gold avesse cominciato. Il suo stesso cellulare vibrò dal pavimento, quindi lo afferrò con ansia; il suo peggiore incubo si era avverato. Data la quantità di nuovi Dexholder con cui ci si doveva tenere in contatto era stata creata una chat di gruppo dove si comunicava maggiormente in inglese. La foto la ritraeva con uno sguardo da ebete, le spalle curve mentre mordeva una costoletta e del grasso che le colava sulle dita. La caption in inglese leggeva: “Ecco Crystal. Sarebbe capace di correggere anche le maniere della Regina d’Inghilterra, eppure eccola qui quando pensa che nessuno la stia guardando. Buon Natale a tutti (*´?`)”
L’ultima parte era palesemente di Silver, ma non le importava, perché la sua reputazione era ormai rovinata per sempre.
“Voi due! Io vi ammazzo!” Prima che potesse mantenere la sua promessa sentì un cellulare squillare, e Silver si stava alzando per allontanarsi e parlare in pace. La sorpassò con un sorriso placido e lei percepì Blue cantargli Happy Birthday to you dall’altra parte della cornetta.

Salve amici! Linnea qui. Spero che questo piccolo regalino organizzato dallo staff di Courage vi sia piaciuto, a me sicuramente sì, ho anche conosciuto gente molto simpatica. Vi auguro Buon Natale! (E buon compleanno al mio amato Silver, e a chi di voi fa gli anni lo stesso giorno)
- Linnea


Blue ridacchiò, esclamando: «Sono contenta che vi stiate divertendo, Sil!» La risposta le arrivò insieme alle urla isteriche di Crystal in sottofondo, che come le spiegò il suo fratellino stava rincorrendo Gold per tramortirlo con una costoletta.
«Anch’io ti voglio bene. Ci vediamo presto!»
In un istante la schermata sul Pokégear si chiuse, tornando a quella iniziale con la mappa di Kanto. La ragazza sbirciò l'ora in alto a destra e ripose l'aggeggio nella tasca del cappotto con la cintura in vita, che in basso si apriva a gonna come la corolla di un fiore; era nero, naturalmente, perché lo trovava il più elegante dei colori.
Perfetto: le rimaneva circa mezz'ora libera. Stette ancora un po' su quella panchina a fissare il cielo scuro, dove non splendeva neanche una stella. Riusciva a sentire il gelo penetrare attraverso il tessuto dei guanti, bianchi come quelli a cui teneva tanto ma di lana, un regalo che le aveva fatto proprio Silver anni prima.

Perché non voglio che ti ammali, le aveva detto a voce bassa.


Il ricordo della sua dolcezza la fece sorridere.
A riportarla alla realtà fu un fiocco di neve, quasi invisibile, che le atterrò sulla punta del naso. C'era qualcosa di più fresco, leggiadro e puro di un fiocco di neve a contatto con la pelle?
In un attimo si rivide da piccola, quando teneva la mano vellutata della mamma per non incespicare nel bianco che le arrivava fino alle ginocchia. E poi quando la neve non poteva toccarla più, ma solo intravederla da una finestra sbarrata…
Adesso era di nuovo libera e il suo cuore sereno. Infatti si alzò senza perdere il sorriso, mischiandosi in mezzo alla poca gente a passeggio.
Camminava adagio, lasciando che i fiocchi le s'incastrassero tra i capelli, impercettibili, o le bagnassero lievemente il cappotto. Si rifugiò nell'unico bar di Biancavilla, illuminato e dall'aria accogliente, anche per via delle ghirlande argentee che costeggiavano i muri. Chiese al barista una cioccolata calda, sedendosi su uno degli sgabelli davanti al bancone.

Nell'attesa, venne divorata dalla curiosità: quel giovane Allenatore da solo nell'angolo stava aspettando qualcuno, oppure non aveva nessuno con cui passare le feste? E quei due seduti al tavolino centrale, invece, erano semplici amici oppure fidanzati? Domande che le veniva naturale porsi, ma che non avrebbero mai avuto una risposta. Nel frattempo le era stata servita una tazza di vetro fumante, dove a galla spuntavano dei morbidissimi marshmallow. Si domandò se quell’uomo li mettesse a tutti i clienti oppure solo alle ragazze carine e dal sorriso facile. In ogni caso lo ringraziò e cominciò a bere quella piacevole bomba di zucchero e calore che le andarono dritti nello stomaco. Era stupendo concedersi un piacere del genere, senza l'amara morsa d'angoscia che l’attanagliava quando doveva sgusciare via senza pagare, come un Ekans nell'erba, ridendo per la propria furbizia mentre dentro si sentiva sporca. Per aver ingannato la fiducia di chi le aveva preparato qualcosa di buono, per la consapevolezza che non avrebbe mai più potuto mettere piede in quel posto. Perciò la riempiva di felicità prendere il portafoglio, separarsi da quelle poche Pokémonete e uscire sorridente com'era entrata, dicendo un affabile arrivederci.
Così fece anche quella volta e chiudendosi l'uscio alle spalle tornò a immergersi nel freddo dicembrino. Era pungente, ma in qualche modo la rinvigoriva.
Nel tragitto canticchiò tra sé e sé, osservando spesso di sfuggita la borsa di plastica che teneva stretta in una mano: sperava di aver scelto i regali giusti per tutti. Chissà cosa le aveva regalato Green, invece! Forse un profumo, oppure un nuovo paio di orecchini, o magari quella pelliccia che gli aveva indicato in una vetrina di Celadon City alcune settimane prima. Le piaceva viaggiare con la fantasia, ma era certa che avrebbe apprezzato qualsiasi dono lui avesse scelto, perché ormai la conosceva abbastanza. Era così bello avere un ragazzo che pensasse a lei, anche se ne aveva trovato uno allergico al romanticismo, che all'inizio cercava di ritrarsi pure se provava a prenderlo per mano per strada. Poi aveva capito quanto per lei un gesto così semplice fosse importante e ogni tanto glielo concedeva.
Prima di quanto credesse si trovò davanti alla porta di casa Oak. Si sistemò l'acconciatura con una mano, diede una ripassata veloce al rossetto – per l'occasione di un bel rosso in tinta con il vestito – e suonò il campanello nonostante i cinque minuti d'anticipo.

Perché Blue merita un po' di felicità. Mi rendo conto che non è granché come shot, ma ci tenevo lo stesso a partecipare a questo progetto carino! A voi lettori auguro tanti regali e cioccolate calde con i marshmallow. Buon Natale
- Blue Eich



“Buon Natale!”.
Margi aveva aperto la porta, ritrovandosi davanti la bella Dexholder dagli occhi blu che, sorridendo, le aveva cantilenato gli auguri. Così aveva sorriso di rimando e l'aveva fatta entrare in quella casa calda e accogliente.
Lei s’era guardata attorno, tirando fuori l’insana angoscia che la coglieva in momenti del genere e togliendo il cappotto. Mostrò il vestito bordeaux e seguì la donna in cucina.
Probabilmente nessun’altra casa le avrebbe mai potuto donare quel tepore che sentiva dentro ogni volta, mettendola a proprio agio e rilassandola lentamente.
Forse era per via del profumo dolciastro che aleggiava in ogni stanza, o forse per i colori caldi delle pareti.
Forse ancora era la sola presenza di Margi a metterle pace, perché trasmetteva tranquillità. Il loro rapporto era sempre stato buono: non troppo confidenziale, ma nemmeno troppo distaccato. Blue tendeva a comportarsi in modo più quieto quando se la trovava di fronte, nonostante entrambe sapessero che la fidanzata di suo fratello, di norma, fosse in maniera assoluta un fiume in piena all’interno di fragili argini.
“Posso offrirti qualcosa?” chiese la donna, cordialmente. Blue fu interrotta da qualcuno prima di poterle rispondere.
“No, ha detto che è a dieta” mormorò Green, alle loro spalle, con un velato sarcasmo. Era appoggiato alla porta della cucina con le braccia incrociate al petto.
Blue si voltò, sorridendo divertita a mezza bocca. Delicatamente s’inserì tra le braccia del bruno, che quasi distrattamente la lasciò avvicinare. Gli scoccò un bacio, sorridendogli.
“Buon Natale!”
“Anche a te” rispose lui, senza nemmeno guardarla negli occhi. Le accarezzò leggermente la guancia e si allontanò di un passo; era palese la sua poca voglia di effusioni romantiche in pubblico, per quanto un po' gli dispiacesse trattarla con freddezza. Eppure lei l’aveva già capito.
“E comunque la dieta si fa dopo le feste” affermò, dopo un silenzio imbarazzante della durata di qualche secondo.
Margi sorrise e si lasciò scappare una risatina. “Come se tu ne avessi bisogno, cara…” commentò, mentre automaticamente si metteva a preparare del tè caldo.
Blue si allontanò da Green, raggiungendola vicino ai fornelli mentre l’Allenatore si sedette al tavolo, puntellando i gomiti e sbadigliando. Si portò  poi una mano sulla guancia, guardando le due donne con fare indifferente.
Non parlava mai, lui.
Spesso si chiedeva come mai piacesse così tanto a Blue dato che, in fondo, non era nemmeno una relazione basata sui gesti e sulle promesse di un futuro radioso: i due si baciavano, litigavano e infine scopavano su qualsiasi superficie a disposizione. Era quando Blue si gettava sopra di lui e lo stringeva, dicendogli di amarlo, che s’accorgeva d’avere addosso un’armatura di cartone. Lui aveva sempre preferito tacere e accarezzarle la schiena nuda, piuttosto che dirle che provava i suoi stessi sentimenti.
“Per la dieta, comunque, per quello che si mangia durante il periodo natalizio sarebbe meglio farla… Anche se probabilmente la eviterò.”
Lui la scrutava un po' annoiato; non le faceva mai complimenti ad alta voce ma spesso si sorprendeva a pensare al fatto di essere fidanzato con una delle donne più belle di Kanto. A volte era pure geloso dato che la gente la guardava e, Dio, se Green era possessivo!
Se avesse proprio dovuto dire la sua, sotto costrizione, le avrebbe fatto capire che anche col minimo sforzo sarebbe rimasta la donna più bella del mondo. Ma non ci riusciva, e anche in quel momento quello sembrava un problema.
Margi posò quattro tazze sul tavolo e, sentendosi chiamare dalla stanza accanto, li lasciò soli.
Blue gli si avvicinò e si sedette sulle sue gambe, baciandolo distrattamente sulla fronte e sulle guance, mentre girava lo zucchero nel tè. Quello cercava di divincolarsi, infastidito, quando poi quella spostò le labbra sulla bocca del ragazzo, baciandolo con passione e accogliendo il suo volto tra le mani.
“Ti sento strano. Tutto bene?” gli chiese poi, accarezzandogli le guance leggermente barbute. Green la lasciò fare e sorrise lievemente.
“Sì, sì… Niente, è che preferisco stare solo quando sono con te…” ammise con voce calma e bassa.
“Sei sempre il solito, tu” sussurrò, sarcastica, ma con una punta di dolcezza.
Lo abbracciò, sentendo il suo respiro caldo salire verso il collo.
“Lo so” fece, sprofondando il viso sulla sua spalla con fare stanco.
Avrebbe voluto possedere la facilità che aveva lei nel rivelare tutti i sentimenti e le belle cose che provava quando l’aveva vicina.
Ma non ci riusciva, non era far suo. Gli sarebbe piaciuto regalarle dell'altro, oltre il cofanetto che le aveva preso e che era in camera di Bill e Margi. Magari dirle anche un semplice ti amo, lo avrebbe fatto stare meglio.

Dall'altro lato della casa, Margi aiutava Bill a raccogliere vari documenti e libri caduti a terra. Bill aveva urtato la mensola e rovesciato praticamente ogni cosa. Non che fosse una novità, in fondo. Era sempre stato fin troppo impacciato e spesso gli capitava ancora di combinare qualche disastro.
Per fortuna aveva una moglie paziente che prendeva tutto con leggerezza, con una risatina e che poi lo aiutava a non sentirsi troppo in colpa.
“Dannazione!” aveva esclamato. “Dovrei stare più attento…” bofonchiò, alzandosi con gli ultimi fogli che sistemò poi sopra la scrivania. Margi gli si avvicinò e poggiò la mano sulla sua, tranquillizzandolo.
“Va tutto bene, Bill, non è successo nulla. Andiamo di là.”
La loro relazione era una costante di romanticismo e quiete, talmente tanto che a volte Green stesso si chiedeva come fosse possibile essere così dolci l'uno con l'altro tutti i dannatissimi trecentosessantacinque giorni di ogni anno.
Ma era chiaro, sua sorella, che era da sempre stata buona come un pezzo di pane, e Bill, che aveva la testa sulle spalle, erano totalmente diversi da lui e Blue. Quella era maliziosa, ribelle e furba, mentre lui silenzioso, cinico e calcolatore.
Tra loro non sarebbe mai esistito un rapporto come quello di Margi e Bill. I due tornarono in cucina. Bill salutò educatamente Blue. Parlarono per qualche minuto, sorseggiando i tè che ormai si stavano raffreddando, quando Green si avvicinò alla sua donna.
“Aspetta qui un attimo” le sussurrò nell'orecchio, scomparendo subito dopo. Quella inarcò un sopracciglio e si risedette, sorridendo dolcemente.

Il Dexholder aprì il cassetto del comodino e afferrò la piccola scatolina coperta di carta rossa, tipicamente natalizia, e sbuffando tornò da lei. Tutti avevano cambiato stanza e si erano seduti in soggiorno. Arrivò lì, Oak, con lo sguardo basso ed esprimendo un’incertezza che mai era stata nelle sue corde. Blue lo guardava ancora con occhi maliziosi. Si alzò di scatto e gli porse per prima il suo regalo.
Green rimase stupito. Lo prese e lo scartò velocemente, ritrovandosi fra le mani un libro.
“È un classico…” fece lei, in contropiede.

“È meraviglioso” sorrise quello, di sottecchi. Gli piaceva, e la cosa sollevò parecchio Blue, che sapeva quanto fosse difficile fare un regalo a una persona come lui che, anche nei gusti personali, era di difficile interpretazione.
Il castano poggiò il regalo appena ricevuto sul tavolino e, avvicinandosi a Blue, le lasciò un bacio sulle labbra. Uno di quei baci che la giovane amava tantissimo, che sapevano di menta e di quel qualcosa di lascivo, così lontanamente lussurioso ma al contempo dolce.
Le porse la scatolina fra le mani e l'aprì, ritrovandosi degli splendidi orecchini di perla, color acqua marina. Quando li aveva comprati non ci aveva pensato molto a dire il vero; aveva cercato di mettersi nei suoi panni per trovare qualcosa che una ex ladruncola come lei potesse adorare, convenendo con se stesso che la risposta che stava cercando fosse una e una soltanto: gioielli.
Blue sorrise come una bambina e se li mise subito, felice come non era mai stata.
“Non devi dirmi qualcos'altro?” chiese, voltandosi e ghignando come sempre.
“Mh?” Green la guardò scettico, visibilmente contrariato. Poi ci ripensò; in fondo era Natale, forse un pochino di più si sarebbe potuto sforzare.
“Beh, sì, sei insopportabile e mi scivoli via dalle mani, chiedi la luna e sono più le volte in cui litighiamo, eppure credo che siano questi dettagli a legarmi a te” disse, sincero, accarezzandole una guancia.
"Aw… Avrei dovuto registrarlo!" cinguettò la brunetta, infastidendolo di proposito. Quel momento simil-romantico era durato giusto due minuti.
E forse era meglio così.

“Oh, è arrivata una cartolina!” annunciò Bill più tardi, mentre Margi e Blue si occupavano di preparare la tavola.
“Uh? E chi ce la manda?” chiese la sua sposa, interessata.
“Mhm, Samina… Samina da Alola” rispose Bill, che sorrideva leggendone gli auguri.


Buon Natale, popolo di Courage! Devo dire che bilanciare scuola e vita quotidiana con la scrittura è un po' sfibrante e questo è stato un mese di fuoco, essendo piena di interrogazioni e compiti. Eppure sono felice di aver contribuito a questo progetto, lasciandovi una mia parte, per questo 25 Dicembre. Buone feste a tutti voi, divertitevi!
- Johikari222


Era bizzarro festeggiare il Natale ad Alola, una regione famosa per il clima equatoriale che garantiva temperature alte ogni giorno dell’anno. I vari paesaggi allo stato brado affascinavano i turisti che provenivano dalle città più lontane, solo l’isola di Ula Ula era differente dal resto. Da una parte era raffreddata dalle correnti gelide che scendevano dal Monte Lanakila, dall’altra era riscaldata dal caldo torrido e dalle tempeste di sabbia che provenivano dal Deserto Haina.
Samina era affacciata alla finestra e osservava le onde marine senza emettere un fiato, la villa di lusso traboccava di decorazioni e luci colorate regalavano un tocco caloroso all’ambiente. Tutto era pronto per la cena natalizia per cui Lylia e i vari membri della fondazione si erano dati tanto da fare, l’unico compito della direttrice era stato quello di sedersi a tavola per farsi travolgere dall’atmosfera natalizia.
Ma non se la sentiva, preferiva lasciarsi avvolgere dal silenzio e dalla quiete di quell’ufficio spoglio, solo il fuoco scoppiettante del camino regalava un pizzico d’atmosfera. Samina sapeva recitare e capiva qual era il momento più adatto per mettersi a sorridere, ma non sopportava il periodo natalizio dal giorno in cui suo marito era scomparso, da allora non aveva fatto altro che vedere la sua famiglia frantumarsi in mille pezzi, anche i suoi figli avevano preferito separarsi dalle mura casalinghe piuttosto che seguire le orme della madre. Prima Iridio era fuggito come un ladro, poi era arrivato il turno di Lylia. Entrambi erano scappati per cercare avventura e libertà in un mondo pieno di imperfezioni, in cui la giustizia e la lealtà erano sconosciuti.
Nelle settimane precedenti aveva spedito una cartolina a Bill, l’unico elemento che era riuscito a rimetterla in sesto dopo i tristi avvenimenti, gli stessi che le avevano permesso di sprofondare nell’oblio più totale. Secondo i suoi calcoli avrebbe dovuto arrivare il giorno di Natale: sapeva essere impeccabile anche nelle piccole cose.
Era seduta nell’immenso salone della villa, circondata dal cibo e dai suoi due angioletti. Una serata tranquilla utile per liberarsi da ogni pensiero negativo, una sera in cui Samina aveva l’occasione di sorridere e di conversare con i suoi figli, come se gli errori del passato non fossero mai accaduti. Era bellissima nei suoi abiti bianchi sinonimo di purezza, per non parlare della cascata di capelli dorati pettinati alla perfezione.
Sorrideva e cercava di provare divertimento, anche se tutto ciò svaniva nel momento in cui lanciava uno sguardo in direzione della sedia rimasta vuota, isolata dal resto della tavola.
“Scusatemi, mi assento un attimo per andare a chiamare Bellocchio” esordì la piccola Lylia nell’attimo in cui si avvicinò il momento di aprire i regali. Era diventata energica come una molla e solare come il Pokémon a cui si era tanto affezionata. La madre le mostrò un dolce sorriso e acconsentì all’iniziativa con un leggero cenno del capo, poco prima di vederla sparire nell’altra stanza per effettuare la chiamata.

Ciao Ragazzi!
Sono Lily di KomadoriZ71 cioè l’autrice del pezzo che avete appena letto, volevo sfruttare queste poche righe per ringraziarvi di essere passati a leggere, purtroppo il tempo a mia disposizione è molto breve e non posso divagare troppo. Io e il mio collega Xavier vi auguriamo buone feste e di passare un ottimo
Natale in famiglia.
Alla prossima!
- Lily by KmoadoriZ71  


Bellocchio mise giù la cornetta del telefono. Aveva appena ricevuto gli auguri di Lylia, che lo aveva chiamato da Alola.
Si stropicciò il volto con le mani, cercando di distendere le occhiaie. Era Natale, ma lui aveva insistito per restare in ufficio fino all’ultimo momento, immerso nei suoi impegni: documenti a proposito di indagini, criminali, piste. Aveva fissato un paio di foto su una bacheca e aggiornato due o tre fascicoli a proposito di un caso, ma il tempo sembrava scorrere a rallentatore.
«Ci vediamo, buon Natale» lo salutò Mark, il solo collega rimasto fino a quell’orario improponibile, quando ormai tutte le persone normali erano andate a cenare con i propri cari.
Finalmente, rimase soltanto lui.
L’agente si ritrovò a scrutare il vuoto, attendendo la comparsa dello screen saver del suo pc. Era dura da ammettere, ma aveva paura di tornare a casa. Lui non aveva una moglie che cucinasse un succulento arrosto al forno, dei figli ai quali regalare videogiochi costosissimi, una suocera di cui lamentarsi, sorelle o fratelli da rivedere soltanto per le feste. Lui era solo.
Le poche persone che lo conoscevano, spesso, non avevano idea di quale fosse il suo vero nome. Era sposato col suo lavoro, da anni ormai. Bellocchio aveva speso troppo tempo della sua vita a combattere il crimine, per poterne dedicare un po’ a se stesso. Il bilocale in cui viveva era un disastro, non aveva mai avuto bisogno di sistemarlo un po’, tanto non aveva mai ospiti.
Aveva inventato mille scuse, tentando di arginare l’argomento. Odiava le occhiate dei suoi colleghi, odiava la loro pietà. Preferiva ricevere ordini, piuttosto che quella mielosa compassione. Lui era lì per lavorare, avrebbe fatto cena con un panino, si sarebbe scolato una birra gelida e soltanto a quel punto sarebbe tornato a casa, per dormire e tornare al lavoro il giorno dopo come se niente fosse.
Non riusciva ad ammettere, sotto sotto, di sentirsi solo.

Drin, drin.


In quell’attimo, la serata promise di diventare più interessante. Un telefono che squilla, in una centrale, alle otto di sera, in un giorno festivo… può significare soltanto guai.
Già. E che guai, che problemi.
«Pronto, polizia» rispose Bellocchio, glaciale.
Qualcuno rise dall’altra parte. «Sapevo di trovarti ancora al lavoro» disse una voce femminile.
Sentirla, cambiò completamente la sua giornata.
«Ma-Matière» mormorò l’agente, stupito.
«Anche tu mi sei mancato» lo canzonò lei.
«Come stai, va tutto bene in città?» le chiese Bellocchio, accennando un sorriso.
«Oh, sì. Il lavoro mi sta dando grosse soddisfazioni.»
Matière, una volta ereditato il vecchio ufficio della polizia di Luminopoli, lo aveva trasformato in un piccolo locale per turisti. Aveva assunto in qualità collaboratori, camerieri e cuochi i ragazzi di strada e gli orfani provenienti dai sobborghi più impoveriti. Quegli spiccioli di paga, avevano permesso loro di abbandonare i traffici illegali dei loro quartieri. Matière ricordava bene cosa significasse vivere per strada, per questo si prodigava per dare a quei trovatelli un’alternativa.
«E... tutto il resto?» domandò Bellocchio.
«Oh, c’è un bel da fare, a Luminopoli» rispose lei, cogliendo l’allusione.
Quella che di giorno era la simpatica proprietaria di un bar, di notte si trasformava in Esprit, silenziosa vigilante che vegliava sulla popolazione.
«Posso immaginare, brava ragazza» l’agente si sentì sinceramente felice di poterle parlare.
«Ti ho chiamato per farti gli auguri» la sua voce era flebile come un sospiro.
Bellocchio non poté non notarlo, forse anche lei non aveva nessuno, forse anche lei stava passando l’ennesimo Natale da sola. Qualcuno, una volta, gli aveva detto che coloro che fanno del bene agli altri, spesso, restano in solitudine. E Matière, per la sua città, faceva davvero tanto.
«Dovremmo prendere un caffè insieme, una di queste sere» le propose l’agente.
«Fatti vedere ogni tanto, qui a Kalos» lo incitò lei.
Rimasero a parlare per un tempo interminabile. Lei gli raccontò delle ultime avventure di Esprit, lui le parlò dei più strambi avvenimenti a cui aveva dovuto far fronte nei mesi precedenti. Bellocchio si rese conto di somigliare più ad un ragazzino del liceo, che ad un veterano della polizia internazionale.
«Mi ha fatto piacere parlare con te» mormorò Matière, agli sgoccioli della conversazione.
«Anche a me, grazie per aver chiamato» era sincero, stava sorridendo malinconicamente, desideroso di rivedere la sua vecchia amica, ma lei non poteva saperlo.
«Buon Natale» fece lei.
«Buon Natale, piccola» e la conversazione terminò.
Bellocchio rimise a posto la cornetta e rimase in silenzio per un lungo minuto. Poi scattò in piedi. Aveva deciso di prendersi una sera di relax.
Non mise neanche a posto la scrivania, lasciando il caos primordiale costituito da cicche di sigaretta, foto di ricercati e vecchi fascicoli del caso “Team Plasma”. Spense le luci dell’ufficio e chiuse la porta alle sue spalle.
Sarebbe uscito e si sarebbe preso una pausa dal lavoro: era Natale, maledizione.


Buonasera a tutti. Anche io ho voluto dare il mio contributo a questo piccolo progetto di gruppo. Non ho molto da dire, cari lettori, vi ringrazio per esservi concessi dieci minuti per farci visita: speriamo di aver allietato, anche se in minima parte, le vostre feste. Noi ci siamo divertiti come dei bambini a scrivere questa storia.
Buon
Natale, anche da casa Courage.
- Levyan


Neve.
Bianca, pura, cadeva soffice dall’alto e si adagiava sui terreni e sulle strade della città, coprendoli col suo manto protettivo. Gli occhi chiari di Whitley si riflettevano avidi su quel paesaggio uniforme, assorbendone ogni dettaglio, anche il più infimo e scontato.
Come la casa al di là del viale, piena di luci. O quel piccolo Lillipup che si rotolava in mezzo al bianco, scodinzolando allegro per un motivo inesistente, ma che a quanto pareva, bastava a renderlo felice.
Era la prima volta che osservava la neve scendere senza percepirsi sbagliata, una macchia nera da cancellare, un mostro.
Era la prima volta che passava un Natale da ragazza normale, vestita in abiti normali, piena di compiti da svolgere entro la fine delle vacanze.
La prima volta che aveva la sensazione di essersi innamorata di quel ragazzo alto e castano che frequentava i suoi stessi corsi, Blake.
Ma era anche il primo Natale senza medaglione. Senza N vicino al cuore. E questo, questo la teneva con l’animo spaccato e la testa pesante.
Portò una mano al petto, poi s’incastrò le dita affusolate tra le lunghe ciocche castane che si sparpagliavano sul tappeto sotto di lei. Il vivido pensiero di N le si incise nella mente, congelandole l’anima. E lì rimase per i restanti minuti. Gli mancava, tanto.
Aver smarrito quel gioiello per lei era come aver perso di vista il ragazzo, e più ci pensava, più si sentiva mancare il respiro. Chissà dove si era cacciato.
Cosa stava facendo in quel momento, con chi stava passando il Natale. Si chiese se si fosse dedicato a condurre una vita normale, come avevano scelto di fare lei e la madre, in quel momento impegnata in cucina.
Stava preparando dei biscotti a forma di Delibird, e quell’odore le ricordava tanto casa.
Non quella dove si trovava in quel momento, a fare da studente modello in mezzo a gente del tutto sconosciuta. Quella che le aveva costruito attorno N, con i suoi ideali di libertà che l’avevano affascinata e stregata sin da subito, e il suo modo di fare serio, riflessivo, ma buono. Magnanimo, una qualità che ammirava.
Quella che era andata smarrita assieme al medaglione, lasciandole un tremendo vuoto dentro al cuore. Si riportò di nuovo le mani al petto, si tastò il collo per cercarlo.
Non poter stringere la catenella tra i polpastrelli la costrinse a tirare un debole sospiro di sconfitta. Inutile continuare a fare così.
Il medaglione era andato perduto e con esso l’unico oggetto in grado di poterla riportare più vicina al suo eroe, N.
«Whitley! Hanno suonato alla porta, vai ad aprire per favore? »
La voce di sua madre le giunse ovattata alle orecchie, ma fu come non averla sentita proprio. E infatti, Whitley non rispose alla chiamata. Continuò invece a pensare a dove potesse aver perduto il medaglione.
Aveva controllato dappertutto, sotto il letto, negli angoli dimenticati della casa. Persino a scuola, e Hugh l’aveva guardata male quando si era chinata sotto i mobili, mostrando a mezza classe le natiche nascoste appena dal pantaloncino giallo. “Si vede che sei del Team Plasma” le aveva detto, ma lei l’aveva ignorato, proseguendo imperterrita la disperata ricerca.
Hugh non faceva altro che darle addosso, nell’ultimo periodo. Le bastava entrare in aula per ricevere occhiate di fuoco e sospiri pesanti a indicarle che lei, lì, vicina a lui non ci doveva stare. La odiava, senza dubbio. Perché aveva fatto parte del Team Plasma. Ma Whitley non riusciva a vedere il male di simile cosa.
N non era il male. N era la persona più grande del mondo, ed era felice di condividere con lui i medesimi ideali.
All’improvviso, dei passi sul tappeto la distrassero dal coacervo di pensieri in cui era scivolata. Voltò il capo e si ritrovò davanti chi non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi, e no, non si trattava di N. Tantomeno di Blake.
Ma di Hugh.
Whitley avrebbe voluto chiedergli che ci faceva lì, nel giorno di Natale, e proprio mentre stava per aprir bocca, il ragazzo affondò la mano nella tasca del lungo giacchetto nero. La domanda le morì in gola quando quest’ultimo, senza smettere di guardarla, estrasse un piccolo pacchetto rosso, chiuso da un fiocchetto color confetto. «Tua madre mi ha lasciato entrare.»
«Che ci fai…»
«È per te.» Hugh le lanciò il regalo, che la ragazza per poco non lasciò cadere. Lui sospirò, ma i suoi occhi color rubino sembravano meno rabbiosi del solito; la scrutavano con interesse da sotto la frangia bluastra, che gli ricadeva a ciocche sparpagliate sul naso arrossato per il freddo. «Non fare domande.»
«È da parte di Blake? Ti… ti ha mandato qualcuno? »
«Aprilo quando me ne vado, detesto le cose sdolcinate. » Si voltò per correre via, ma Whitley lo chiamò. Lo vide voltarsi accigliato e il suo corpo reagì con un brivido, quando gli occhi affilati di lui affondarono nei suoi, sconvolti. «P-Posso offrirti un biscott–»
«Non mangio i biscotti del nemico. »
«Però entri in casa sua?»
«Infatti ora esco subito.»
Per la prima volta Whitley colse nel tono di Hugh una nota quasi ironica, dolce. Forse era l’effetto terapeutico del Natale, che lo aveva sballato e trascinato fino a casa sua per consegnarle un pacco completamente a caso. Lo osservò sistemarsi meglio la sciarpa a righe verdi, poi lo seguì a passi lenti fino a quando non sparì oltre la soglia, lasciandola con mille dubbi infilati in testa.
Tornò a focalizzarsi sul pacco e, ignorando le domande delle madre, cominciò a scartarlo.
Le bastò scostare un millimetro di carta, per riconoscerlo. Il medaglione. Il suo medaglione, N. La sua vecchia vita, chiusa in un ciondolo consunto dal tempo, di nuovo tra le sue mani. Trattenendo un grido di gioia si precipitò alla finestra, ma Hugh si era già volatilizzato. E allora sorrise di felicità e si legò quel pezzo di cuore smarrito al petto, fiera.
Non aveva bisogno di magie o parole per indovinare chi fosse stato a trovarglielo e riconsegnarglielo. Lo sapeva, e quella consapevolezza le fece battere forte il cuore, le portò più luce di quanta ne avesse fatta entrare il medaglione.
«Buon Natale, Hugh. »
Strinse forte il ciondolo e il tepore di avere il suo mentore di nuovo accanto a sé le avvolse le gote pallide, in una tiepida sensazione di benessere.
« E buon Natale anche a te, N.»



Buon Natale a tutti voi, cari lettori! Che possiate passare queste feste in pace e felicità, e che possiate mangiare dei biscotti a forma di Delibird anche voi (?)
- Lila May


C’è una forza che muove il mondo e contemporaneamente vi si imprime: si chiama linguaggio, che è il mondo, o, viceversa, il mondo è linguaggio.
Linguaggio è che c’è un ragazzo che non sa cosa siano le parole e le convenzioni così che, quando deve esprimersi, sembra parlare di un altro dei mondi possibili, e nessuno capisce come sia possibile. Nemmeno lui.
Ha detto che dovrebbe esserci libertà, per i Pokémon, e amore, e gli hanno dato del folle, del pazzo, del visionario. O magari, ha detto qualcuno, è semplicemente rincantato, vive in una magia tutta sua.
Chiamiamo magia la forza con cui immaginiamo, ed è immaginazione la nostra capacità di figurarci il mondo, e quindi il linguaggio. E il suo reincanto del mondo non è altro che la capacità di creare un mondo nuovo, fatto di parole.
Ha detto che non dovrebbe esistere il controllo, o la violenza, e che il mondo ideale non contempla alcuna lotta o scontro tra Allenatori. Crede in un mondo che non è competitivo, lui, che sia placido come la fiamma di una candela, e non estenuante come i neon di Sciroccopoli.
Oh, già. Sciroccopoli.
***

C’è un punto del mondo in cui il tempo smette di scorrere, è un non-luogo che non sente la fatica di avere un tempo, è puro spazio che si estende in maniera indefinita.
Da quando lo ha scoperto, ha imparato a viverci, a respirarci dentro come in una bolla.
È come vivere in un utero di aria fredda, dove il mondo è placenta e non sei nemmeno in grado di aprire gli occhi, o muovere le dita.
Il mondo di N è l’aria. Quella che gli scombina i capelli, che lo fa rabbrividire, che gli si condensa sul cappello, è quella, la vita.
Lì, non deve spiegazioni nemmeno a se stesso, finché può volare, finché Zekrom glielo consente, il cielo e l’orizzonte sono tutto ciò che ha un senso, non c’è alcun limite del possibile.
Dicono, a terra, che sia morto.
In qualche mondo sarà anche vero, forse è morto chi non parla, ed N lo fa raramente: ciò fa di lui un quasi-morto, un morto-a-metà?
Però lui respira, vive, e ha paura di guardare in basso, verso la città fatta di luci sfarfallanti (e una ruota panoramica che finge di non vedere): crede che le luci stiano cantando una canzone, ancora, e che lei semplicemente abbia smesso di comprenderla.
Forse, pensa, è troppo tardi.
C’era un tempo predefinito, una porzione delimitata di spazio in cui poteva farsi insegnare il linguaggio degli altri: che vischio si scrive con la s, la c e la h, e scivolano tutte nella bocca come un bacio, v-i-s-c-h-i-o, e cosa sono gli ombrellini di zucchero mentolato, e perché è tutto rosso o verde. E bianco.
C’era questo tempo, e c’era Touko in piedi, dritta come un fuso e altrettanto lucida, che insegnava. E spiegava cos’è un bucaneve, chi è Babbo
Natale e come si cucina una casetta di pan di zenzero, anche se lei non è mai riuscita a farne una che non fosse un rudere di pan di zenzero.
Se fosse servito a qualcosa, forse, non si troverebbe seduta sul marciapiede, rannicchiata su se stessa, quasi inglobata dal cappotto bianco che, lentamente, ingrigisce di neve.
Sciroccopoli canta canzoni di
Natale, è vero, e chiunque la sorvoli dall’alto la vede come una gigantesca pallina di vetro, luci e neve. Finché non ci si cammina attraverso.
Lì, la neve diventa sporca, bagnata e fredda, priva di ogni tipo di valore poetico, e le luci opache non bastano per colorarla di altri mondi. E c’è, ancora, una ragazzina con i capelli bagnati fradici che, con gli occhi gonfi, fissa la ruota panoramica.
Ha un colorito strano, quasi lattescente, una pellicola troppo sottile attorno a un circuito di vene e arterie sbiadite sottopelle. Sembra che stia quasi annegando, nell’aria fredda, con quei pantaloncini troppo corti, e le mani con le nocche spaccate dal gelo.
Ha un piccolo Tepig in braccio, che la riscalda come può, rannicchiandosi sul suo petto, quasi come se volesse sincerarsi che esista ancora un lieve, quasi inudibile, battito cardiaco.
Volando a bassa quota, quasi si può immaginare il movimento lento e costante delle sue labbra, parole.
Ti prego, vieni.
Ha un biglietto da spedire in tasca, Buon
Natale, Belle, ma non ha abbastanza forza per affidarlo a un Pokémon, e al vento. Potrebbe perdere anche lei.
Volando a bassa quota, si può vedere come le tremino le mani, per chiudere la busta.
 
***

Lui non scenderà dalla groppa di Zekrom se non quando sarà in grado di parlare come gli altri, ha detto, prima di salutare il mondo che conosceva.
Forse, non lo avrebbe visto mai più.
Ha salutato Touko che ci aveva provato, ci aveva provato per davvero, a insegnargli la base di questo mondo.
Ha detto, forse promesso, che sarebbe tornato da lei.
E forse non sa che lei si aspetterebbe questo regalo di
Natale, un momento, in cui dirle io ci sono. Solo che non può succedere.
Perché N vola sopra la sua testa e non sa come fare a scendere, come si fa a chiedere perdono o tornare indietro, non conosce le parole, non è in grado.
E lei rimane seduta lì, a morire di freddo, senza potersi muovere: si consuma come una candela accesa e non ci può fare proprio nulla.
 
***

È caduto un biglietto a terra, tra l’erba, quando N è volato via (è la prima volta, ha paura di dire addio).
 
"Tanti auguri di Buon Natale,
N."

Touko sorride e stringe il biglietto al petto: è il 23 aprile.



Spiegazioni necessarie: questa storia è intrisa di filosofia del linguaggio, perché sto male e non riesco a togliermi Wittgenstein dalla testa, nemmeno fosse un mio ex ragazzo che mi ha lasciata di punto in bianco (in realtà l’ho lasciato io, sul comodino, e volontariamente).
La cosa di fondo quale vorrebbe essere: N e Touko parlano linguaggi diversi, quindi la storia parte dal flashback finale, dove lei prende il biglietto per una promessa, mentre lui proprio non ha capito cosa sia il
Natale. E da lì il resto.
E questo era un perverso modo di dirvi: buon
Natale a tutti.
- Gaia Bessie


Era sera inoltrata ad Austropoli e il buio era calato sulle strade e sui palazzi della metropoli, portandosi con sé una forte ventata di gelo che aveva steso un mantello di brina sulla città. Riposava, nella sua calma, illuminata da una fioca luce lunare.

Cara Belle, da quanto tempo? ...

La riconosceva: era la calligrafia di Touko, che copriva una facciata intera di carta ruvida e fredda al tatto. Nella mano destra stringeva la busta, che recava uno scintillante francobollo cremisi, e nella sinistra la lettera che, senza esitare, lesse tutto d’un fiato.
“Da quanto tempo...”  mormorò.
Si appoggiò sullo sportello della sua utilitaria verde smeraldo e un brivido corse lungo il suo collo: uno spesso strato di brina copriva la carrozzeria, tanto da confondere i toni della vernice con un triste grigio cinereo. Ciò che le risultava così comodo e, in qualche modo, soddisfacente d’estate, era diventata una prova di forza ora che la sua macchina era più simile a un frigo che a un caldo motore.
Alzò lo sguardo al cielo, al palazzo che si ergeva di fronte a lei, e sospirò.
«Chi te l’ha mandata?»
Una figura balenò sul ciglio della strada.
«Black?»
«Ottime capacità deduttive» sorrise.
«Scusa.» Belle scosse la testa. «È… è di Touko. Magari la chiamerò.»
Il ragazzo corrugò le ciglia e poi sorrise. «Chissà che fine abbia fatto…»
Indossava un parka che lo ricopriva da testa a piedi di un caldo beige, e in capo recava un berretto nero che, assieme alla sciarpa, rendeva quasi impossibile riconoscerlo in viso. Le sue mani sfregavano con movimenti febbrili, separate da due spessi strati di guanti, e il rumore giungeva forte alle orecchie della sua amica. «Hai visto Komor?»
«È già dentro» rispose Belle.
«Come– come mai? Non doveva–»

«Ha detto che avrebbe cominciato da solo.»
«Oh, ok. Quando aspettavi di dirmelo?»
Belle estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca e le infilò nello toppa. Ruotò il polso e lo sportello, anticipato da un fragoroso rumore meccanico, si schiuse.
«Senti, io devo tornare in macchina che mi sto gelando. Prima sali e prima finiamo.»
«Vabbè.»
La ragazza osservò Black farsi strada all’interno dell’edificio e scomparire dietro il portone d’acciaio.

«Jingle bell, jingle bell, jingle bell rock!»
«Komor?»
Una vivace musica natalizia giunse alle orecchie di Black come egli mise piede nell’ufficio. Quando guardò in basso notò delle macchie di fango e neve che serpeggiavano davanti a lui e continuavano perdendosi nel corridoio.
«Snowin' and blowin’, up bushels of fun! Now the jingle hop has begun.»
«Black? Sono qua!»
Il ragazzo evitò di chiedere spiegazioni circa la scomoda inaccuratezza del suo qua e seguì la pista, sicuro che l’avrebbe condotto dal suo amico. Qualche minuto dopo, era di fronte a lui: intento nel maneggiare un portatile che si trascinava attraverso tutta la stanza e con esso dei cavi appresso.
«Che cosa stai facendo?»
«Buonasera anche a te, Black.» Gettò il computer sul tavolo; ne seguì un tonfo. «Hai intenzione di aiutarmi?»
«Jingle bells chime in, jingle bell time.»
«Hai già fatto tutto tu, mi sembra.»
«Senti, avrei voluto aspettarti, ma–»
«Fa niente, sul serio.»
Black si levò il cappotto e i guanti, poggiandoli su una sedia che poi trascinò in un angolo per levarla dall’impiccio. Il suo sguardo corse sulle pareti, per poi concentrarsi nel tornado di documenti e strumentazioni che Komor aveva lasciato giacere sul tavolo al centro della stanza.
«It's the right time to rock the night away!»
«Ho fatto un po’ di casino.»
«Un po’.»
«Ok, molto.» Komor si trovava imbarazzato. «Devo solo finire di ricopiare questi documenti per Belle nella chiavetta e poi ho finito.»
«Quanto tempo ci vuole?»
«Is a swell time: to go glidin' in a one horse sleigh!»
«Ahem…» Il suo sguardo scivolò lungo il display, dove la dicitura “1 h” scintillava in piena vista «Pochi minuti.»
«Ok, muoviti allora. Prima mentre stavo entrando ho notato una tipa che mi fissava.»
«E quindi?»
«“E quindi”» gli fece eco lui. «È Natale e non ho voglia di passarlo in prigione.»
«Giddy-up, jingle horse, pick up your feet.»
Gli occhi di Black caddero sull’orologio che pendeva sopra il caminetto.
«Ti manca ancora tanto?»
«Te l’ho appena det–»
Sbuffò. « Ok, vado a prendere qualcosa da mangiare. E tu, muoviti.»
«Mix and mingle in a jinglin' beat! That’s the jingle bell rock!»

Black ritornò circa mezz’ora dopo, nelle mani stringeva un pacchetto di biscotti bianchi, ricolmi di un liquido rosso cremisi che scintillava alla luce fioca della lampada. Un alone di zucchero in polvere era dipinto su di lui e sulla strada che aveva disegnato con esso per il corridoio.
«Cosa sono?» Komor alzò gli occhi dal computer per un attimo. «E perché sei tutto bianco?»
«Non–mpf, lo ffo, ma–mpf, ffono buoni.»
«Glielo spieghi tu ad Aralia, poi.»
«Tanto–mpf, è colpa di Belle–mpf…»
Una melodia si levò nell’aria.
«Cos’è?» commentò atono Komor. Quando cercò lo sguardo di Black, lo notò intento a rispondere al suo cellulare.
«Pronto? Belle? Sì, siamo qua, per– COSA?»
«Cos’è successo?»
Black chiuse la chiamata nel terrore.
«Una-una tipa è scesa g-giù da Belle, e ha mina-minacciato di chiamare la po-polizia.»
«E quindi?»
Black corse ad abbassare il volume della televisione, che da musiche di Natale era passata a mandare in onda un talk show culinario. Come il suono si faceva più sottile, in sottofondo emergeva un rumore periodico e fracassante. «Le senti le sirene?»

Scesero giù correndo, Komor che stringeva il portatile in mano e Black la scatola di biscotti dell’ufficio. Si gettarono fuori dal palazzo come due razzi e videro Belle intenta a parlare, attraverso un finestrino abbassato, con una donna che le inveiva contro sbracciata.
«Quanto ci avete messo?» urlò, e mise in moto il motore della vettura. «Forza, salite!»
I due si gettarono nel sedile posteriore, sotto lo sguardo esterrefatto dell’anziana.
«Non la passerete liscia! Ladri! Sicofanti! Maledetti!»
La sua voce, lentamente, scivolava in secondo piano come si allontanavano dall’ufficio e dal fragore delle sirene.
Black inforcò un frollino nella bocca, poggiò la scatola sul sedile anteriore e si spinse oltre Belle per accendere la radio. Catlina, la Superquattro di Unima, stava augurando il buon Natale a tutti.


Ho avuto l'idea di scrivere questa shot un po' perché mi piaceva l'idea, un po' perché volevo discostarmi dal «classico» scenario natalizio di rametti di vischio e luci colorate; in ogni caso, spero che vi abbia trasmesso qualcosa di buono.
Buon
Natale!
- herr


Platinum impiegò pochi attimi per trovare la frequenza corretta sulla vecchia radio vintage di suo padre. Da sopra il piccolo tavolino di cristallo, proruppe la voce di Catlina: la Superquattro di Unima stava prestando la sua voce per gli auguri di Natale.
Rimase per un istante a osservare le fiamme guizzare nel camino con le dita ancora salde attorno alla manopola della radio.
Un debole fruscio, seguito da tre battiti sullo stipite della porta, la riportarono alla realtà. Si voltò, i suoi capelli oscillarono minacciando di spettinarle la frangetta. I tre Tyrogue di Sebastian, il suo maggiordomo, trascinarono all’interno dell’immenso salone un grosso albero di Natale.
- Grazie per averlo portato qui, Sebastian. Fallo mettere pure lì – disse, indicando il centro della sala.
Il maggiordomo adagiò per terra degli scatoloni contenenti delle decorazioni natalizie. Estrasse un coltello completamente in argento da una tasca dello smoking e lo usò per rimuovere lo scotch che ne lambiva il coperchio. Iniziò a frugare fra le varie sfere natalizie quando Platinum l’interruppe.
- Non ti preoccupare, ci penserò io quest’anno ad addobbarlo.
- È una mia mansione, Signorina, non sua.
- Ho invitato qui Diamond e Pearl per aiutarmi, poi ceneranno con noi, se possibile.
- Certamente, non sarà un problema aggiungere due posti. Anzi, sono felice per lei.
- È un peccato che mia madre e mio padre debbano lavorare…
Lo squillo del citofono, un suono limpido e acuto, squarciò l’aria, irrompendo fra di loro come un vetro infranto. Continuò imperterrito per diversi secondi, non accennando a voler smettere.
Un debole sorriso apparve inconsapevolmente sul volto di Platinum che mostrò i denti curati e perfettamente simmetrici.


- Credo che siano arrivati – disse lei.
Sebastian fece un debole segno di assenso e si incamminò verso la porta. La ragazza si allontanò dal tavolino di cristallo, diretta verso la piccola libreria e ripose la sua copia de “Il Grande Gatsby”.
Non dovette aspettare molto che i suoi due amici, Pearl e Diamond, entrarono all’interno della sala. Il rumore dei loro passi riecheggiava sempre più forte, mano a mano che i due si facevano più vicini. Pearl quasi l’assalì, stringendola in un caloroso abbraccio. Platinum si sforzò di ricambiare quanto più caldamente possibile, ancora non abituata a simili esternazioni d’affetto.
Diamond la salutò con un cenno del capo, agitando in aria una fetta di Pandoro.
- Adoro Sebastian – disse quello, in risposta alla domanda che era sorta sul viso della ragazza.
- Tutto bene, Diamond? – chiese lei, non appena si fu liberata dall’abbraccio.
- Beniffimo – disse lui, con parte di Pandoro e polvere di zucchero che gli strabordavano dalla bocca.
Pearl parve apparire dal nulla e si intromise fra i due, appoggiando una mano sulla spalla di ognuno.
Sorrise, per poi soffiare sulla fetta di Pandoro, inondando Diamond di zucchero a velo.
- Ma che diav… - iniziò a inveire lui, ma il suo amico era già fuggito via.
Platinum fissò il suo viso per un attimo, per poi iniziare a ridere. Cercò di trattenere un minimo di contegno, fallendo miseramente.
- È un vostro nuovo sketch?
- No, affatto. – Si passò una manica della felpa sul viso, ripulendoselo.
 Un debole stridio, seguito da un tonfo, attirò la loro attenzione: Pearl aveva avvicinato la scala all’albero e lasciato cadere lì di fianco uno degli scatoloni contenenti le decorazioni.
- Beh, volete aiutarmi o no? – chiese, agitando esageratamente una mano in direzione delle sfere colorate ai suoi piedi.
Platinum si avvicinò con un’eleganza e una compostezza quasi innaturale ai piedi della scala, per poi iniziare a passare le varie decorazioni a Pearl, che saliva e scendeva dai gradini in modo frenetico, quasi senza una logica nel dare una posizione agli addobbi. La ragazza sorrise nel vederlo muoversi in quel modo: saltava già dalla scala, la spostava verso un altro lato dell’albero, ci si fiondava sopra, appendeva qualche pallina, rami secchi colorati, nastri e piccole decorazioni che ritraevano vari Pokémon, per poi ripetere lo stesso procedimento.
Agli occhi di Diamond, che era beatamente seduto su di una poltrona di pelle a gustarsi gli altri dolci natalizi che erano stati portati poco prima nella sala da Sebastian, su un lungo carrello colmo di prelibatezze adagiate su vassoi d’argento, Pearl sembrava un uragano impazzito.
Dopo circa un’ora, periodo durante il quale il suo stomaco parve non riempirsi mai, fu riscosso quando il biondo lo chiamò.
- Alza il culo e vieni ad aiutarci, forza.
Diamond roteò gli occhi e, facendo appello a tutta la sua forza di volontà, abbandonò il suo posto comodo e si issò. La pelle della poltrona si stirò, producendo un suono che ben si univa alla sua lamentela interiore per tutto il trambusto creato dall’amico. Abbandonò i resti di una cassata su uno dei tanti vassoi e andò ad aiutare i suoi due amici. Platinum sorrise, rivelando la chiostra di denti perfettamente bianchi, e gli mise una ghirlanda natalizia al collo, come fosse una costosa pelliccia di visone e, insieme, finirono di addobbare l’albero.
Quando finalmente svuotarono anche l’ultimo degli scatoloni e liberato dagli incarti tutte le decorazioni natalizie per poi essere poggiate fra i rami dell’abete, il sole aveva ormai raggiunto il suo punto di zenit.
Diamond liberò il puntale dalla sua confezione: una grossa scultura fatta completamente da materiali preziosi. Un Infernape, un Empoleon e un Torterra s’innalzavano da una base di platino, intenti a sprigionare fiamme, getti d’acqua e rami nodosi e rampicanti che s’intrecciavano uno con l’altro, spingendosi a vicenda verso l’alto, dove i tre elementi si fondevano a creare la classica stella natalizia.
Il ragazzo soppesò la scultura, notandone l’eccessiva sfarzosità, pensando a quanti soldi erano stati utilizzati. Soldi che lui avrebbe speso sicuramente in ciambelle e quei deliziosi tortini che si ricavavano dalle bacche. Scoccò una fugace occhiata ai dolci abbandonati al loro destino su quel carrello, per poi passare il puntale nelle mani di Platinum. La ragazza la raccolse abbassandosi dai gradini della lunga scala, per poi issarla a forza sulla testa, cercando di toccarla il meno possibile, per paura di intaccarne la purezza.
Passò infine fra le mani di Pearl che, per la fretta, minacciò di farla cadere e crollare lui stesso, assieme alla scala. Dopo un attimo di panico e un grosso sospiro della padrona di casa, la scala smise di agitarsi, grazie anche alla salda presa di Diamond.
- Odio reggere le scale. Non capisco perché finisca sempre a essere io lo sfigato a reggerla – disse lui, più a se stesso che agli altri.
Platinum non riuscì a nascondere un timido sorriso, avvampando.
Pearl si allungò più che poté, andando infine a far combaciare la punta dell’abete con l’incavo posto sotto la scultura.
- Questo puntale è…


Voglio specificare che i miei auguri non sono affatto stati forzati da Andy Black, che ha minacciato di mangiarsi il mio orsacchiotto preferito. Quindi, tanti auguri a tutti i lettori di Courage, abbuffatevi di cibo fino a esplodere.
- Hancock


“… Perfetto. Così, il puntale è perfetto.”
Pioveva soltanto.
Nonostante fosse Natale e fuori facesse veramente, veramente freddo, a Hoenn non nevicava mai.
E la cosa a Sapphire dispiaceva tantissimo.
Non erano poche le occasioni in cui Ruby le gettava addosso i suoi ricordi d'infanzia, e lei adorava sentir parlare di Johto. Non c'era mai stata ma sapeva che, dove aveva vissuto lui, gli inverni fossero gelidi e pieni di neve.
“Spero vada bene davvero!” aveva esclamato la bella dagli occhi di zaffiro. “L'avrò spostato sedici volte!”
Ruby sorrise e si avvicinò alla sedia sulla quale l'altra era in piedi, afferrandola per la vita e sentendola avvinghiarsi a lui. Ogni volta che la prendeva in braccio lei lo stringeva al collo ed emetteva un urletto a una frequenza altissima, che costringeva l'altro a stringere gli occhi.
La mise a terra e sospirò.
“E l'avremmo spostato altre sedici volte fino a quando non sarebbe stato perfetto.”
“Certe volte ti odio così tanto che… non so che ti farei!” esclamò ancora Sapphire, divincolandosi dalla sua presa.
Il ragazzo si limitò a sorridere, poi si diresse verso il camino e gettò un altro pezzo di legno sul fuoco.
“Si sta caldi, qui.”
“È vero. Ora voglio sapere che mi hai regalato.”
Ruby sorrise ancora, spostandosi verso l'ampia finestrata che dava sulla baia di Porto Alghepoli.
Il mare era in buriana e la luce del faro faceva capolino ogni due secondi, in una piroetta lenta e infinita che come terminava così ripartiva.
“Tra qualche ora apriremo i regali e lo scoprirai” le rispose quello, fissando l'immagine dell'altra nel riflesso del vetro. Si voltò, perdendosi nel candore della pelle del suo volto, che si ravvivava sulle guance, diventando delicatamente rosea. Lui stesso le aveva acconciato i capelli, di quel castano così vivido, lasciandoli lunghi ai lati della testa e legandoli in una piccola coda dietro la nuca. Era proprio davanti al grande abete illuminato, lei, con un lungo pullover di lana pettinata rossa che terminava alla coscia. A inizio serata le gambe, coperte da un elegante paio di parigine nere, terminavano in due stivaletti di pelle nera, alla caviglia; estremamente attraente. Dopo poco, però, aveva deciso che i suoi piedi dovessero stare a contatto col pavimento del loro appartamento ed ecco che gli stivaletti erano volati al centro del salone.
Si avvicinò lentamente e, dopo averle rubato un bacio, si sedette sul divano. Lei s'era spostata davanti al camino, cercando di raccogliere un po' di calore dal fuoco che ardeva.
“Forse dovremmo cucinare qualcosa…” disse lui, sentendo la fame crescere.
Sapphire sbuffò e guardò in aria. “Non ho intenzione di avvelenarti proprio oggi.”
Lui sorrise, nascondendo lo sguardo rubino dietro le palpebre strette. “Infatti ho detto dovremmo.”
“Posso limitarmi a tagliare le verdure, se vuoi… Sono questi i momenti in cui mi manca tua madre.”
“Io so cucinare benissimo… Ma comunque hai ragione: avremmo dovuto invitarli. E anche tuo padre…”
“Il primo Natale nella nostra nuova casa volevamo passarlo da soli, no?”
Lui fece spallucce e la vide avvicinarsi, chinarsi e poggiargli un bacio sulle labbra.
“Dovrebbero arrivare dall'altra parte della regione… E se li chiamassimo adesso sono sicura che si precipiterebbero, ma poi si farebbe tardissimo e non mi sembra assolutamente il caso!” osservò Sapphire, sedendosi accanto a lui e tirando le gambe sul divano. Adagiò lentamente la testa sulla spalla del ragazzo, che allargò il braccio e la strinse.
“Petalipoli è lontana. E anche Albanova.”
Poi una breve pausa; i due si guardarono e si scambiarono un altro debole bacio, prima che il fuoco nel camino schioccasse nuovamente.
“Non li inviteremmo soltanto per cucinare, vero?” chiese poi la ragazza, suscitando il sorriso nel moro. Quella lo accarezzò in volto, raggiungendo la fronte e toccando l'increspatura della cicatrice che lo sfigurava, prima di sentirlo rispondere.
“Non siamo così perfidi. Io voglio bene a mia madre.”
Sapphire lo guardava con occhi interrogativi.
“E a mio padre!” continuò lui. “Anche a mio padre, certo!”
“In fondo quella che cucina è tua madre…” riprese la donna, sorridendo.
“E io” puntualizzò.
“Sì, anche tu, abbiamo capito! Io però ho già fame!” esclamò la bella, affondando nuovamente il viso nella camicia bianca di Ruby. Quello stirò il colletto e sbuffò.
“Abbiamo ancora un po' di tempo…” ribatté, prendendo il tablet e cercando qualche ricetta sfiziosa.
“Una pizza non arriverebbe, vero, oggi? Neppure se la ordinassimo adesso e la strapagassimo.”
“Ti tocca cucinare” rispose Ruby, rassegnato.
Sapphire si sollevò e lo guardò, con gli occhi spalancati e la paura che lentamente cominciava ad aleggiare nella stanza.
“Io?! Cu-cucinare da sola?! Sei tu quello che cucina!”
“Assieme, tranquilla. Andiamo!” sorrise lui, alzandosi e tirandola con sé verso la cucina. Quella non era molto grande, divisa dal salotto soltanto da un muretto in mattoni vivi, proprio come piaceva a Ruby. Accesero le luci e si fermarono al centro della sala.
“Che mangiate a casa, per il Natale?” domandò Sapphire, avvicinandosi, scalza, al frigorifero.
Ruby si grattò la fronte e sospirò. “Beh, la mamma generalmente prepara l'alga Konbu… e il purè con le castagne… ah! E la zuppa di pesce!”
“E la torta con la panna e le fragole” aggiunse lei. “L'anno scorso abbiamo mangiato anche la torta.”
Il ragazzo annuì. “Hai ragione.”
Lei aprì il frigorifero e sospirò, facendo cenno di no con la testa.
“Non abbiamo neppure la metà degli ingredienti che ci servono per preparare tutta questa roba! Senza contare che non abbiamo minimamente idea di come fare per cucinarla!”
Fu allora che Ruby abbassò il volto, sconfitto. Portò le mani ai fianchi e vide Sapphire chiudere il frigo.
“Ma quel ristorantino italiano accanto al centro commerciale?!” gli propose.
Lui alzò le spalle. “A questo punto va bene tutto... Ma i regali? Non riusciremo mai ad aprirli puntuali a mezzanotte se uscissimo...”
Sapphire sorrise e gli si avvicinò, aderendo sul suo corpo e cingendogli le mani dietro al collo. Lo tirò giù, per baciarlo nuovamente, chiudendo gli occhi e congiungendosi romanticamente a lui in un secondo d'infinito.
Secondo che terminò.
Lei sorrise e fece spallucce.
“Sai... ho molta più voglia di mettere qualcosa di buono sotto ai denti di quanta ne abbia di scartare quel regalo...”
Ruby seguì il sorriso e annuì.
“Sbagli. È davvero un gran bel regalo...”
“E io ho molta... molta fame, amore.”



E concludo io. Sono davvero onorato di aver potuto collaborare con questi validissimi autori, che stimo tantissimo. Ringrazio chiunque abbia utilizzato il proprio tempo per leggere fino a qui.
Ringrazio tutti i lettori che hanno seguito Courage e che continueranno a farlo e voglio augurare a tutti, ma davvero tutti, il più bel Natale che ci si possa meritare. Auguri.
  - Andy Black

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