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Levyan - Nubian - 15 - La nottola di Minerva

XV
La nottola di Minerva


 
Il bar in cui Kalut aveva chiesto a Green e Blue di farsi vivi era un piccolo e discreto chioschetto all’angolo tra la via principale di Rupepoli e la strada che andava verso il mare, a nord. Quando entrarono nel locale, nessuno li riconobbe, imbacuccati com’erano nelle loro sciarpe. Una campanella segnò il loro ingresso e attirò verso di loro l’attenzione dell’uomo che era dietro al bancone, che sfoderò un luminoso sorriso.
«Salve, viaggiatori, accomodatevi pure» pronunciò quello, agitando sinuosamente i suoi folti baffi grigiastri.
Green e Blue si sentirono a disagio. Si erano abituati ai gelidi approcci della gente del nord, Sinnoh non era certo famosa per il suo calore umano. Tuttavia non disdegnarono l’idea di sedersi ad un tavolo e ordinare qualcosa di caldo e rinvigorente. Green prese un tè nero, Kalut una tisana allo zenzero e Blue un vin brule’ con una fetta di crostata. I primi due si scambiarono un’occhiata di disapprovazione per commentare l’ordinazione della loro compagna.
«Come sta Ruby?» chiese dopo alcuni minuti Blue, per rompere il silenzio.
«Le sue condizioni migliorano rapidamente» rispose Kalut.
«Riuscirà a venire con noi sul Monte Corona?»
«Probabilmente no, ma non escludo di potermi far venire in mente qualcosa».
«Ad ogni modo, andiamo al sodo, cosa vuoi dirci, di tanto urgente?» tagliò corto Green.
«Stasera io non sarò qui» introdusse Kalut «ragion per cui, voi dovrete sorvegliare l’ospedale, tenendo d’occhio gli agenti Faces che sono nei paraggi, preferirei liberarmene, ma sarebbe inutile, tanto non potremo muoverci da lì per un po’».
«Dove sarai?» gli chiese Blue.
«Sto andando a parlare con Yellow, intendo ritrovare Red».
Quel nome fece scendere il gelo tra i tre ragazzi, paralizzando la conversazione. Il loro amico se ne era andato senza dir niente a nessuno, giorni prima, abbandonandoli nel bel mezzo del casino di Holon, senza alcuna ragione. Poi, convocando una conferenza stampa, aveva dato le proprie dimissioni dalla carica di Campione dell’Altopiano Blu, scomparendo anche agli occhi dei giornalisti. Si era persa di lui qualsiasi traccia, fino al misterioso ritorno di Yellow.
«Non ha detto niente a noi, dubito che vorrà anche solo parlarti» sottolineò Blue, con velata frustrazione.
«Non ne sono così sicuro» ribatté Kalut.
«Come mai ti interessa Red, improvvisamente?» domandò Green.
«Sarebbe inutile fingere che io sia interessato alla coesione del gruppo?» postulò il ragazzo dai capelli bianchi. Green e Blue annuirono.
«Credo che lui sappia qualcosa più di noi» spiegò.
«Sulla Faces?»
«No, non avrebbe avuto una reazione tanto drastica da abbandonare i suoi amici» rispose Kalut.
«E su che cosa, allora?» chiese Blue.
«Su coloro che stanno giocando a farci lottare con la Faces» pronunciò.
Per la seconda volta, la temperatura scese drasticamente, nei pressi del loro tavolo.
«Di che cosa stai parlando?» il tono di Green era greve e cavernoso.
«Credo di aver iniziato a vedere il grande disegno di ciò che stiamo attraversando» cominciò Kalut «credo che il nostro principale nemico non sia la Faces in sé, quanto qualcuno che la sta manovrando... utilizzando come specchietto per le allodole».
Blue e Green continuavano a non capire, fissandolo con la bocca semi aperta e lasciando freddare le loro bevande, delle quali si erano del tutto dimenticati.
«Ciò che sta accadendo è fin troppo strano, la strage di Vivalet, l’attacco alla sede di Porto Alghepoli» elencò.
«Quelle vicende erano legate a Zero, lo abbiamo già appurato» lo confutò Green.
«E’ come se qualcuno lo avesse lasciato agire, non sono pienamente convinto del fatto che la Faces abbia davvero tentato di ostacolarlo...»
«La Faces lo ha ingannato, lo hai detto tu» riprovò Green.
«Appunto, che motivo avrebbe avuto di lasciare che succedessero tutti quegli incidenti, oltre alla propaganda del terrore? Non avrebbero rischiato e speso meno energie se avessero tentato di fermare Zack in gran segreto?»
«Effettivamente, alla fine Zero è riuscito ad attirare le indagini e i sospetti su di loro, abbattendo il palazzo Faces, era questa la sua strategia» confermò Blue.
«Non è solo questo, comunque: la glaciazione a Sinnoh è iniziata in perfetta sincronia con la fine degli eventi di Holon, l’attacco terroristico di Austropoli ha bloccato la città nel giorno stesso in cui Gold, Celia e Platinum vi hanno messo piede... per indagare sulla Faces».
Nei ben oliati meccanismi del ragionamento di Kalut, tutto sembrava combaciare, la sua logica asimmetrica e la sua intuizione laterale erano il filtro perfetto da cui osservare il complesso disegno della realtà.
«Pensi che qualcuno ci stia... mettendo nei guai di proposito?» chiese Blue, senza riuscire a trovare un’espressione migliore.
«Esatto, per questo, ipoteticamente, Red avrebbe abbandonato questa crociata del buon senso, che porta il vostro gruppo a risolvere qualsiasi problema si presenti sulla strada».
«Per non sottostare al giogo di questa operazione di depistaggio» continuò Green.
«A questo punto ho iniziato a chiedermi che cosa lo avesse spinto ad andarsene senza dirvi niente» continuò Kalut. «Se avesse conseguito una tale realizzazione, l’avrebbe di certo condivisa con voi. E invece se n’è andato, nel silenzio totale».
«Conoscendo bene Red, ci sono due possibilità» aggiunse Blue.
Kalut, conscio di poter apprendere qualcosa in più per la sua indagine, si mostro interessato e attento.
«O qualcosa ha suscitato il suo entusiasmo per le Lotte Pokémon» propose Blue, ricordando la volta in cui il loro amico si era ritirato in solitudine sul monte Argento con il solo scopo di allenarsi. «Ma la vedo difficile, vista la situazione critica».
«Oppure?» chiese Kalut, scartando quasi a prescindere questa prima opzione.
«Oppure è venuto a conoscenza di qualcosa... tanto orribile da non volerlo condividere con noi».
«In che senso?» chiese il ragazzo, cercando anche il contributo di Green.
«Sarebbe tipico delle persone come lui, trovarsi davanti ad un problema talmente grande non poterlo scaricare sulle spalle degli altri, portandolo solo sulle proprie» aggiunse il Capopalestra.
«Quindi i miei sospetti erano giusti, Red potrebbe aver trovato la chiave di volta di questa crisi?»
I due annuirono simultaneamente.
«E deve trattarsi di qualcosa di veramente grande, che intende risolvere da solo» continuò.
«Più che altro» lo corresse Blue «qualcosa che deve averlo toccato nel profondo, scoprendo il suo lato vulnerabile».

Sapphire girava da quasi mezz’ora per i corridoi del reparto maternità. Peregrinando, seguiva le urla più fastidiose e gli odori più nauseabondi come una falena attratta dalla luce. Sperava di rimanere traumatizzata da qualche scena turpe e terrificante, alla fine i bambini fanno abbastanza schifo, c’è da dirlo. Quel suo inquietante tour l’aveva portata a vedere cose che non si sarebbe mai aspettata esistessero. Aveva realizzato, appuntandoselo mentalmente, che la cosa che trovava più rivoltante era il pezzetto di cordone ombelicale che veniva lasciato attaccato all’ombelico anche dopo il taglio, le sembrava un parassita che stava entrando o uscendo da quei viscidi corpi ospitanti. In seconda posizione c’erano ovviamente i bambini appena nati per parto naturale, grinzosi e deformi da sembrare cuccioli di carlino. In terza, le agghiaccianti e demoniache grida delle mamme in travaglio. Avrebbe accettato di non potersi arrampicare sugli alberi per nove mesi, ma avrebbe preferito la morte a tutte quelle ore di tortura in attesa che un coso uscisse fuori da quella che lei reputava la sua zona più delicata e intoccabile. Aveva già fatto tanta fatica per prendere confidenza col sesso, le prime imbarazzanti volte con Ruby l’avevano segnata nel profondo, tanto da portarla a invidiare quella sicurezza sfacciata che avevano le modelle con cui il ragazzo aveva iniziato a lavorare, una volta divenuto stilista.
Si rese conto che il suo piano stava funzionando: lentamente, stava sempre più convincendosi che ciò che le era accaduto non era poi tanto negativo. Sarebbe riuscita a condurre una vita dignitosa sebbene priva di gravidanze. E questa realizzazione era arrivata appena in tempo, i medici avevano iniziata a guardarla strano, dopo averla vista passare per la quindicesima volta. Forse iniziavano a sospettare che non fosse lì per assistere una qualche parente, era troppo interessata a sbirciare nelle sale altrui.
Fece ritorno in modo discreto verso la stanza di Ruby, cercando di non dare ulteriori fastidi. Entrò e vide immediatamente il letto vuoto, con le lenzuola in disordine. Si guardò attorno, senza individuare il ragazzo. Mosse due passi verso la porta del bagno, a quel punto certa di trovarlo lì, e udì uno strano suono provenire dall’interno. Sembrava un lamento, ma sarebbe potuto essere anche una sorta di gemito. Con un misto di vergogna e paura, spalancò la porta, irrompendo nella toilette. Tirò un sospiro di sollievo, trovando Ruby in mutande e canottiera, in una situazione non sconveniente. Il ragazzo aveva una gamba tesa verso l’alto, con il tallone poggiato sul lavabo, come se stesse facendo uno strambo esercizio di stretching.
«Ruby, che succede?» chiese lei, positivamente stupita per averlo trovato in piedi e capace di camminare.
«Sei arrivata nel momento peggiore» disse lui, con la voce un po’ spezzata dalla fatica.
«Che stai facendo?»
«E una cosa che sapeva fare bene papà» Ruby sembrava alla ricerca di qualcosa, lungo la sua gamba sinistra, quella sollevata. Tastava dei punti precisi, lungo delle linee che il suo cervello sembrava cercare di ricordare. Uno alla volta, li oltrepassava, non soddisfatto. Quando il suo indice e il suo medio si trovarono alla latitudine che cercava, più o meno nei pressi dell’incavo del ginocchio, tra il tendine e la rotula, bloccò la prima mano, fissandola lì. Con l’altra, ricominciò a cercare, ripartendo dal quadricipite. Stavolta sembrò trovare subito il luogo esatto, poco sotto il gluteo, nella parte alta della coscia.
«Ok, zitta un momento» intimò a Sapphire, che non stava parlando.
Ruby fece un movimento, Sapphire udì uno schioccare di ossa talmente inquietante da farle dubitare che provenisse dal corpo del ragazzo. Portò una mano alla bocca, raggelata da quel suono. Ma Ruby non sembrava sentir dolore, anzi, le sue dita erano rimaste al loro posto, forse non era quella l’operazione che intendeva farsi.
«Aspetta, ho solo sistemato l’articolazione, adesso arriva il peggio» annunciò.
Sapphire credette di vomitare. Il suono delle ossa che si disarticolavano era stato terribile, ma mai avrebbe pensato che l’autolesionismo potesse arrivare a tanto. Ruby tese le proprie fasce muscolari, applicando una particolare pressione orientata nei punti di corrispondenza che aveva individuato. I suoi muscoli emisero un suono a metà tra una cima da attracco che viene tesa e un pezzo di cuoio che viene lacerato. Lui serrò le labbra, grugnendo di dolore, nella situazione più lontana dall’eleganza in cui Sapphire lo avesse mai visto calarsi. Ruby impiegò un po’ a riprendersi, respirava a fatica, si reggeva al bracciolo per i disabili, mostrava le arterie sul collo che pulsavano, gonfiava il petto per mandare più aria nei polmoni.
«Porca puttana... Ruby...» mugolò Sapphire.
«Come dicevo, me lo ha insegnato papà» diede segno di vita lui, minuti dopo «in quel dojo ha sviluppato varie tecniche di combattimento: attacco, difesa, ok... ma anche cura e trattamento del corpo. E’ roba orientale, lui credeva nell’energia, i flussi e altre cazzate del genere, era un esperto» spiegò.
«Mi pare ci creda anche tu» commentò lei, guardandolo scrollare la gamba e riportarla a terra, nel tentativo di normalizzarne la circolazione. Aveva riacquisito la capacità di camminare, anche se andava a passo insicuro, per via della disabitudine.
«Non posso dargli questa soddisfazione» ribatté lui, con un velo di malinconica ironia.

Il giorno passò in fretta. I medici sottoposero Ruby ad altri esami, senza riuscire a capire come avesse fatto quel ragazzo magro e innocuo a riprendersi tanto in fretta, Sapphire passò del tempo con Green e Blue, riuscendo anche a convincerli a pranzare tutti insieme, come un normale gruppo di amici. I due Dexholder di Kanto fecero anche un paio di giri di ricognizione, attorno all’ospedale, giusto per verificare che gli agenti Faces che li sorvegliavano ventiquattro ore su ventiquattro fossero ancora lì. Era assurdo, sembrava fossero lì appositamente per farli sentire pedinati e non per tenerli d’occhio. Blue fece finta di non curarsi di loro, percependo i loro sguardi affilati da rapaci. Green, al contrario, si appoggiò ad un muro e, fissandone uno come il peggiore degli stalker, si accese una sigaretta. Poi un’altra. Poi un’altra. Senza mai togliergli gli occhi di dosso. Lui non poté reagire, giustamente, si limitava a distogliere lo sguardo, apparire discreto, disinteressato. Sembrava una sfida, ma era solo un gioco. Inconsciamente, il ragazzo sperava solo che accadesse qualcosa, qualsiasi cosa, pur di rompere con quella frustrante monotonia.
Kalut, sul tetto dell’ospedale, era in procinto di partire, avrebbe raggiunto Hoenn entro l’ora di cena. Aveva dei tempi veramente restrittivi, ma alcune volte poteva concedersi di “barare”, ricorrendo a metodi che agli altri umani non erano permessi.
«Andiamo, Xatu» ordinò, sistemandosi la tuta da viaggio troppo leggera per il clima di Sinnoh.
“Sei sicuro di volerlo rifare?” chiese telepaticamente il pennuto.
«Ma sì, alla fine è divertente» rise lui, sarcastico.
“Ok, non sporcarmi le piume”.
Kalut mise la mano sul corpo del Pokémon, traendo un lungo respiro. Poi ci fu il silenzio. In un secondo, tutto il mondo scomparve, trasformandosi improvvisamente in qualcos’altro. L’aria cambiò, la luce cambiò, i suoni cambiarono, gli odori cambiarono.
Kalut stramazzò a terra, trattenendo a stento il vomito.
“La prossima volta andiamo in aereo” commentò Xatu, osservando i drammatici effetti collaterali che il teletrasporto sortiva su un essere come Kalut.
Alla maggior parte degli Allenatori era concesso teletrasportarsi, ma solamente per brevissime distanze, anche perché i loro Pokémon non erano in grado di arrivare tanto lontano. Kalut, invece, aveva imparato che la sua struttura genetica improntata su quella di un Pokémon riusciva a sopportare i teletrasporti chilometrici permessi dalle incredibili abilità psichiche di Xatu. L’unico prezzo era costituito dai numerosi disagi causati dal repentino cambio delle condizioni ambientali. Quindi il suo corpo doveva prendersi qualche minuto per adattarsi: era appena passato da una zona gelida e prossima alla montagna ad una dal clima tropicale e sul livello del mare, la pressione atmosferica appena moltiplicatasi stava per farlo implodere e il caldo atroce gli fece quasi venire la febbre.
“Tutto ok? Non voglio essere io ad ucciderti” gli comunicò Xatu.
Kalut alzò il pollice in segno di assenso, ansimando difficoltosamente. Aveva fatto la stessa cosa prima del combattimento con Zero, teletrasporandosi da Kanto a Hoenn, ma aveva avuto solo pochissime altre esperienze e non si era mai abituato.
Il ragazzo, riuscendo lentamente a riaprire gli occhi, si guardò attorno. Si alzò in piedi, soffiando con il naso chiuso tra le dita, per stapparsi le orecchie.
«Dove siamo?»
“E’ il tetto del Centro Commerciale di Porto Alghepoli” rispose Xatu.
«Vogliamo passare a fare acquisti?»
“Qualche rimedio contro il gelo potrebbe tornare utile, sul Monte Corona...”
«Magari poi ci ripassiamo, ora raggiungiamo Yellow».
Kalut mosse alcuni passi verso il bordo del palazzo, affacciandosi per guardare il panorama. Ne rimase colpito, poco distante dal quartiere residenziale costellato di palme in stile Beverly Hills, c’era l’ampio cantiere che aveva preso il posto del grattacielo Faces demolito da Zack. Era ormai scesa la sera, quindi le ruspe e gli scavatori erano abbandonati, ma si vedeva che in quei giorni erano stati subito affrettati i lavori per la rimozione delle macerie. Sembrava passato un secolo da quando quella torre di vetro e cemento era crollata nella notte di quel due luglio, invece il tutto era avvenuto soltanto una settimana prima. In ogni caso, nel silenzio di una mediocre sera estiva, la città sembrava calma. Nel porto non c’era alcun movimento, le vie erano poco trafficate, le luci erano soffuse e persino le zone turistiche sembravano abbandonate. Con tutto ciò che stava succedendo, la gente aveva iniziato ad avere paura di uscire di casa.
«Andiamo» fece Kalut, gettandosi, senza neanche accertarsi che Xatu lo afferrasse per un braccio, evitandogli di sfracellarsi sull’asfalto sottostante. Il Pokémon agì senza la necessità di richiesta, era ormai in completa simbiosi con il suo compagno di avventure.
Kalut fu nei pressi dell’ospedale dopo pochi minuti di camminata a passo svelto. Lentamente, percepì il sangue tornare a fluire normalmente, dopo la traumatica esperienza del teletrasporto che, tuttavia, sapeva che avrebbe dovuto ripetere.
Quando davanti all’entrata, cominciò a guardarsi intorno. La situazione era calma, non sembravano esserci o esserci state emergenze e altri imprevisti, quindi ben poche persone orbitavano attorno allo stabile. Yellow saltò immediatamente ai suoi occhi: era difficile non notare i suoi capelli biondi in mezzo alle teste scure tipiche dei nativi di Hoenn. Inoltre, la ragazza lo stava aspettando piazzata proprio davanti alla porta scorrevole principale, come se evitare di dare nell’occhio non fosse importante, per delle persone tranquille come loro.
«Sul tetto» le intimò con un filo di voce, non appena lei gli posò gli occhi addosso, da lontano.
Kalut era abbastanza certo che ci fossero degli agenti anche in quella zona, dopotutto, in quell’ospedale c’erano altri tre Dexholder, per quanto due di questi fossero abbastanza innocui.
Due minuti dopo, la porticina di servizio per la manutenzione, si aprì, lasciando passare la ragazza del Bosco Smeraldo. Kalut era poggiato ad un muretto, contava i pannelli solari che quell’ospedale avesse a disposizione e faceva un rapido calcolo di quale fosse l’energia fornita ogni giorno.
«Ciao» lo salutò la bionda.
«Come stai?» chiese Kalut, come fossero stati amici da sempre.
Che poi, ripensandoci, i due avevano parlato sì e no tre volte e soltanto dopo il ritorno di lei, quando Zero era stato già fermato.
«Tutto normale».
«Crystal e Silver?»
Era risaputo che la situazione dei due non avesse conosciuto alcuna evoluzione, la domanda di Kalut era scaturita dalla cortesia. Yellow scosse la testa, per tagliare corto.
«Che cosa volevi chiedermi?» fece, cercando di evitare la conversazione.
«Ho bisogno di ritrovare Red» rivelò Kalut.
«Non ci riuscirai».
«Tu sai dove si trova, puoi aiutarmi».
«Senti» la ragazza abbassava gli occhi spesso, quando parlava, il che impediva a Kalut di tentare di persuaderla «so che è inutile parlare con te, perché sei una specie di robot o non so cosa, esattamente... ma prova a capire, Red mi ha chiesto di non rivelare a nessuno dove sarebbe andato» i suoi occhi erano gonfi, ma la sua forza le impediva di farsi possedere troppo dalle emozioni.
«Io ti capisco, Yellow» Kalut tentò di mostrarsi umano e comprensivo.
«Da quando sono tornata, ho perso del tutto ogni tipo di contatto con i miei amici, perché sono sparita senza dir loro perché e sono tornata continuando a nascondere ogni cosa» si lamentò lei.
«Appunto» il ragazzo fece una pausa di qualche secondo «puoi fare di più, puoi aiutarmi, io ho bisogno di parlare con Red, io...» un’altra pausa «credo di sapere cosa gli è successo».
Yellow alzò gli occhi.
«Red era già a conoscenza di molte cose, prima ancora degli eventi di Vivalet, vero?»
La ragazza tentava di cercare qualcosa da osservare il più lontano possibile, ma lo sguardo magnetico di Kalut riusciva a vincere ogni sua resistenza.
«Lui ha sentito la necessità di agire in fretta...» continuava il ragazzo, sciorinando le teorie che aveva elaborato nei giorni precedenti «significa che ha visto qualcosa che potrebbe rappresentare un guaio più grande di tutti quelli che stiamo già fronteggiando, oppure esserne la causa e inoltre...»
Yellow aspettava solamente che lui ci arrivasse. E Kalut ci sarebbe sicuramente arrivato, ormai sapeva di essere costretta a parlare, per fare la cosa giusta.
«...significa anche che non ha molto tempo per intervenire, Red ha le ore contate».

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