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Levyan - Nubian - 16 - Un solo, unico amico


XVI
Un solo, unico amico
 

«E’ malato. Ha il cancro. È terminale» sussurrò Yellow.
Kalut non reagì. Inspirò profondamente, aspettando che il calore dell’empatia sciogliesse quello strato di ghiaccio appena formatosi tra loro. Yellow non sembrava essere stata messa alla prova, nel pronunciare quelle parole, ma Kalut sapeva che stesse fingendo. Non perché la conoscesse, sia ben chiaro. Lui non conosceva le persone, lui conosceva gli uomini.
«Mi dispiace» provò a dire.
Yellow strinse le labbra. Non era un suo amico, la sua partecipazione era pura etichetta. Oppure no. A dir la verità, non le importava. Lei era bloccata ad Hoenn per stare accanto ai suoi amici in ospedale, tentando di accettare il fatto che il suo ragazzo fosse ormai condannato e lei avesse davanti una vita di solitudine. O almeno, tale era la sua percezione.
«Dimmi dove posso trovarlo» riprovò Kalut.
«Mi ha chiesto di non farlo» fece lo stesso Yellow.
«Che cosa teme che faccia, esattamente?»
Yellow ci rimuginò un po’ sopra: «probabilmente niente, si aspettava che fossero i suoi amici a cercarlo, voleva impedir loro di seguirlo in questa sua ultima crociata, non immaginava certo che saresti stato tu il primo a seguire le sue tracce».
«Per favore, Yellow» insistette a quel punto Kalut, avvicinandosi a lei.
La Dexholder era gelida, distaccata, assente. Non riusciva a prendere una decisione, poiché tutto ciò che stava accadendo le scorreva addosso come foglie secche sull’asfalto.
Kalut cercava di ragionare. Aveva iniziato a far lavorare il cervello nel momento esatto in cui Yellow gli aveva rifilato il primo rifiuto. Purtroppo, la sua mente pragmatica lo obbligava a cercare una via di fuga attraverso le armi a sua disposizione, nel caso specifico: persuasione e manipolazione. Tutto il resto, non importava, Yellow sarebbe stata, per qualche riga di dialogo, solamente un ostacolo posto tra lui e il suo obiettivo.
«Scusami, Kalut, ma devo tornare a casa...» fece lei, voltando le spalle.
Che cosa avrebbe potuto rappresentare un punto debole su cui far leva? Che cosa gli avrebbe portato ciò di cui aveva bisogno? Kalut cercava di analizzare la persona che aveva davanti, esplorandone i più reconditi angoli dell’animo.
Giungendo in quello che sembrava un vicolo cieco, riuscì invece a trovare una falla.
«Sei tornata indietro» le disse, da dietro le spalle.
«E allora?» chiese lei, voltandosi.
«Tu saresti rimasta con lui, fino all’ultimo... e lui non sarebbe stato tanto crudele da dirti di no» ragionò il ragazzo.
Yellow non capiva, ma le parole di Kalut la stavano solleticando senza che lei se ne accorgesse. Se avesse esplorato nel suo animo, avrebbe capito dove il suo interlocutore voleva arrivare.
«Che cosa mai ti avrebbe spinto ad abbandonarlo?»
La distanza tra i due diminuiva progressivamente. Lei faceva un passo, lui un altro.
«Tu sei tornata perché... sei incinta di lui» realizzò Kalut.
Yellow non rispose, bloccandosi sul posto.
«Chi altro lo sa?» domandò il ragazzo.
«Blue».
«Soltanto lei?»
«Sì».
Kalut si prese qualche secondo.
«Mi dispiace...» mormorò, dandole ancor più fastidio «non immaginavo...»
«Intendi persuadermi facendo leva sul mio buon senso di madre?» chiese lei, a muso duro.
«No, anche se credevo davvero che avresti fatto la scelta giusta» si tirò indietro Kalut.
«Mi dispiace per te» lo scaricò lei «c’è qualcos’altro che posso fare?»
«No, non adesso».
«Allora posso andarmene, buonanotte, Kalut» si congedò Yellow, avviandosi verso le scale che collegavano il tetto all’ultimo piano dell’ospedale.
Kalut rimase solo con Xatu, visibile solamente a lui, sotto il cielo stellato e sereno di Porto Alghepoli, col vento caldo che gli carezzava la pelle e il canto delle cicale in sottofondo.
“Un buco nell’acqua” commentò Xatu.
«Decisamente».
“Vuoi tornare indietro?”
«No, non mi sono pienamente ripreso dopo l’ultimo teletrasporto, il mio organismo è completamente scombussolato, andrò sulla scogliera per un po’» Kalut fece per lasciare la zona, scendendo dal tetto dell’ospedale.
Xatu lo seguiva, silenzioso e impercettibile, tenendosi in stretto collegamento con i suoi pensieri e seguendone il flusso ininterrotto. Kalut sembrava avere una meta precisa. Imboccò l’ingresso dell’ospedale, muovendosi come al suo solito, senza mettere nessuno in allarme o in condizioni di sospetto. Raggiunse il reparto di terapia intensiva, svoltando un paio di volte. Si trovò davanti alla stanza di Crystal, che poté osservare attraverso le sottili fessure delle veneziane quasi serrate. Udiva perfettamente il pianto sommesso che proveniva dall’interno della stanza, grazie ai suoi sensi sviluppati. Non ne rimase stupito, se lo aspettava, Crystal era stata lasciata da sola, non aveva poi molto altro da fare, dentro quella stanza, al buio, giorno dopo giorno. Poco lontano, c’era invece Silver. Ancora silente, inerte, collegato a dei macchinari che alimentavano la sua debole fiamma vitale. Sembrava un’ombra, un fantasma, un oggetto inanimato messo lì solo per dar colore alle lenzuola di quel letto.
«Devi sentirti davvero frustrato» gli disse Kalut, sapendo bene di non poter essere ascoltato «in un certo senso, posso capirti...»
In fretta, lasciò quel luogo. Fuggì dall’ospedale, dal quartiere, da porto Alghepoli. Raggiunse la spiaggia, nascondendosi nell’unico angolino di mare che non era stato monopolizzato da lidi e chalet. Incespicando su quella sabbia mista a sassi e frammenti di legno, raggiunse la scogliera contenitiva che affiorava tra il promontorio e la grotta poco lontana. Lì non c’era civiltà, quella zona era frequentata solo da operai impegnati in controlli sporadici. Quei sassi artificiali erano stati posti lì anni prima, durante la fondazione della città, affinché si creasse una sorta di laguna protetta che sostituisse il mare aperto, attorno alle spiagge di Porto Alghepoli. Dopo di loro, vi era la vastità dell’oceano.
Kalut si sedette sullo scoglio più comodo, incurante del vento forte e degli schizzi di acqua salmastra. Camminava da una settimana in mezzo alla neve e al ghiaccio, quella era solo una boccata d’aria per il suo organismo. Si mise ad ascoltare il rumore delle onde che si infrangevano melanconicamente sulle pareti rocciose. Ogni tanto, dal fondale buio, affiorava qualche Lanturn, anticipato dal debole bagliore della sua antenna.
Kalut sospirò. Che cosa c’era, negli uomini, che lo portava a soffrire tanto? Qual era l’errore di programmazione che più volte aveva incontrato e aggirato, ma che adesso aveva ormai chiuso ogni possibile via di fuga? Lui non riusciva a percepire alcun legame. Zack, il penultimo esperimento di Leonard, era suo fratello. Così come quello precedente, Luna. Eppure, lui percepiva solamente ciò che il loro collegamento significava sul piano pragmatico e razionale. Che cosa avrebbero fatto, al suo posto, delle persone normali. Li avrebbero trattati da fratelli? Avrebbero condiviso con loro la gioia, il dolore, i progetti, i momenti quotidiani? Kalut non aveva amici, esclusa l’entità Eterna con cui aveva stretto un legame psichico. Da quando era capace di parlare in modo articolato, aveva solamente agito per conto della Resistenza, da quando Antares e Cassandra lo avevano reclutato come arma segreta contro la Faces. Non aveva fatto altro. Non aveva scoperto quali fossero i suoi interessi, le sue passioni, i suoi gusti. E non lo aveva fatto, perché non aveva nulla di tutto ciò. Kalut era una pagina bianca su cui era stata scritta soltanto una parola. Kalut non era una persona, era un insieme di abilità e poteri. Kalut non viveva, Kalut funzionava.
Si era posto quella domanda fin dal primo giorno: valeva davvero la pena di vivere per un obiettivo, senza indugiare in nulla che non fosse utile alla realizzazione del suo scopo?
“Non hai ancora trovato una risposta?” chiese Xatu, comparendo come tipico delle entità astratte come lui.
«E’ questo il problema» rispose Kalut, con le ginocchia strette tra le braccia «potrei averla trovata».
“Vuoi comunicarmela?”
Kalut non staccava gli occhi dal mare. Quella massa d’acqua agitata e scura che sembrava agitarsi costantemente su se stessa. Quando parlava con Xatu, non rispondeva mai telepaticamente, a meno che la situazione non lo richiedesse, preferiva parlare a voce alta. Era una delle poche volte in cui gli era permesso fare conversazione, senza doversi per forza concentrare sulla Faces.
«Credo di aver capito che l’umanità che ho sempre sognato di possedere... porti solamente dolore...» rispose il ragazzo, completamente privo di espressione.
Xatu non rispose, non ribatté, non fece alcun movimento. Rimase lì, fermo, più reale che mai, col vento tra le piume la luna riflessa nei grandi occhi sereni.

Centinaia di chilometri più a nord, il resto del gruppo si era riunito per l’ennesima volta nella stanza di Ruby. Stavolta, i medici avevano preferito tenerlo sotto osservazione per puro e semplice puntiglio scientifico.
«Quindi stai meglio?» chiese Blue.
«Decisamente, potrei affrontare la scalata nel giro di pochi giorni» rispose Ruby.
«Dobbiamo prima aspettare il ritorno di Kalut» puntualizzò Green.
Ruby storse il naso. Sapeva che quei problemi e quel continuo procrastinare dessero fastidio al Capopalestra di Smeraldopoli, ma non poteva fare molto altro per evitare di pizzicare la sua suscettibile pazienza. Green era molto maturo, forse il più maturo tra tutti i Dexholder, ma gli altri avevano sempre avuto difficoltà nel vederlo come una sorta di mentore, proprio a causa di quella sua indole scontrosa e poco accondiscendente.
«Vi ha detto che cosa avrebbe cercato, da Yellow?» domando Sapphire.
«Sembra che abbia intenzione di mettersi sulle tracce di Red...» accennò Blue.
Sapphire perse qualche grammo di entusiasmo, lasciando cadere l’argomento.
Il gruppo faceva ancora fatica a parlarne, anche dopo settimane. E forse era giusto così.
«Secondo voi che cosa troveremo nella base della Faces sul Monte Corona?» chiese Ruby. Non era ansioso, solamente incuriosito.
«Kalut ha parlato di questo macchinario...» fece Blue.
«No, intendo... dovremo combattere di nuovo» precisò lui.
«Beh, magari stavolta sarà un combattimento normale, ho visto agenti Faces utilizzare solamente pistole e bombe a mano» esclamò Sapphire, mettendosi una mano sul grembo.
«Ti aspetti che tentino di affrontarti con una squadra di Zubat?» domandò Green, scettico.
«Beh, no, ma...»
«Se è vero che hanno scoperto un luogo come il Nodo di Regigigas e ci hanno piazzato un macchinario così costoso, stai sicura che lo difenderanno con armi molto più pericolose di un Pokémon» affermò, pragmatico.
«Green, basta...» si lamentò Blue.
«Ad ogni modo, dovremmo cercare di vincere senza danneggiare niente, il macchinario che congela in Nodo potrebbe essere l’unica prova in nostro possesso per distruggere completamente questa organizzazione» sottolineò Ruby.
«Per evitare un altro buco nell’acqua come qualsiasi altra operazione fino a questo momento?» chiese Green.
«No, per fare in modo di portare a casa una vittoria, ci siamo sempre difesi, contro la Faces, questa sarebbe la prima volta che attacchiamo» ribatté il ragazzo di Hoenn.
«Spero soltanto che tu abbia ragione, altrimenti saremo di nuovo punto e a capo» chiuse l’altro.
«Green...» si rivolse a lui Blue, stupefatta.
«Che c’è?»
Solo in quel momento, il ragazzo si rese conto di quanto fossero state demolenti le sue parole. Nella sua testa, una vocina continuava a gridare di mantenere il gruppo saldamente unito, mentre tutto il mondo sembrava cadere a pezzi. Eppure, lui non era riuscito a contenere la sua frustrazione.
Ad ogni modo, non era una persona in grado di chiedere scusa tanto facilmente.
«Fanculo...» sbuffò, lasciando la stanza.
Ci furono alcuni secondi di imbarazzante silenzio.
«Che diavolo gli prende?» chiese Sapphire, infastidita.
«Non ne ho idea» rispose Blue.
La ragazza di Kanto ragionava, facendo incessantemente girare i meccanismi del suo cervello per trovare una spiegazione al comportamento di Green. Riuscì a giungere ad una sorta di conclusione solo dopo alcuni minuti, non sapendo poi bene se accogliere tale idea con un sorriso malinconico o una smorfia di ribrezzo.
Raggiunse il corridoio, guardandosi a destra e a sinistra. Trovò la prima uscita di servizio poco distante dal reparto di radiologia, vi si diresse, sicura di trovare Green lì fuori, con gli occhi fissi sul nulla sconfinato, insieme a un paio di specializzandi che fumavano. E lo trovò. Le stava inconsapevolmente dando le spalle, attraverso la porta trasparente con il maniglione antipanico. Aveva le mani nascoste nel suo giubbotto di pelle da aviatore. I capelli erano mossi dal vento e le gambe erano incrociate, seguendo l’annoiata inclinazione del suo corpo verso il muro d’angolo.
Avrebbe voluto uscire per andargli a parlare, ma non era questo il suo ruolo. Gli avrebbe fatto soltanto più male, se gli avesse parlato. Quindi si limitava a fissarlo, da lontano, con gli occhi consapevoli di una donna che è già riuscita a scandagliare approfonditamente l’animo del suo uomo. In qualche modo, in un certo senso, Green si sentiva incompleto. Erano state le parole di Kalut a risvegliare tali sentimenti in lui: dopo tutte quelle disavventure, dopo tutti quei morti, dopo tutto quel disastro, Green era soltanto preoccupato per Red.

I quattro trascorsero la notte nell’ospedale, in attesa del ritorno di Kalut. Quest’ultimo si fece rivedere soltanto la mattina seguente. Ricomparve con il volto pallido e scavato di chi aveva passato la notte in piedi. Entrò nell’ospedale nel momento in cui Ruby stava per essere rilasciato, quando i medici avevano ormai rinunciato all’idea di attribuire un filo logico alla sua cartella clinica.
«Sei già in piedi» notò Kalut, entrando nella stanza del Dexholder.
Ruby aveva già recuperato i suoi vestiti, in quel momento era intento a ricomporre la borsa e gli altri bagagli per ripartire.
«Mi hai sottovalutato» ribatté lui.
«Non voglio sapere come tu sia riuscito a rimetterti in sesto, dimmi solo se credi di poter sostenere un’altra escursione sul Monte Corona»
«Certo, sono come nuovo» sottolineò Ruby.
Kalut annuì «facciamo i preparativi, allora, devo spiegarvi con esattezza cosa andremo a fare».
Il gruppo si mosse verso un Pokémon Market. Acquistarono, anche se in quantità minore, gli stessi oggetti che si erano portati per il sopralluogo che avevano effettuato alcuni giorni prima, dividendosi. Si rifornirono di abiti termici, sacchi a pelo, provviste a lunga conservazione, bevande, integratori e strumenti utili contro il congelamento.
Ovviamente, la sorveglianza Faces non costituiva un impedimento: non potevano vedere che cosa stessero acquistando e tantomeno dedurre quali fossero i loro piani. Quegli agenti che li avevano pedinati per tutto il loro soggiorno a Sinnoh, se li erano fatti sfuggire da sotto il naso per ben cinque giorni, per poi vederli riapparire in un ospedale, dall’altra parte della regione. Non potevano immaginare che, nel frattempo, Kalut avesse scoperto il nascondiglio del Monte Corona. Per questa ragione, non avrebbero potuto lanciare l’allarme per allertare i loro compagni.
«Prima di avviarci verso la montagna, dobbiamo comunque liberarci di loro» puntualizzò Kalut.
«Intendi fare come ad Evopoli?» chiese Blue.
«No, non posso più permettermi di giocare con loro, se dovessero passare all’offensiva mentre siamo disarmati, stavolta, potremmo non farcela...»
«Sei tu a dirlo?» chiese Ruby, cosciente delle grandi abilità di combattimento di Kalut.
«Sono più forti di quanto pensiate, voi non avete ancora mai visto il loro reale potere» ammise il ragazzo.
La sentenza di Kalut contagiò tutti con la stessa inquietudine. Effettivamente, i tre Dexholder si resero conto di non aver mai affrontato veramente la Faces. Avevano combattuto contro alcuni agenti in dei rari casi isolati, avevano affrontato Rayquaza, avevano combattuto con Zero, che però non proveniva davvero dalle fila dell’organizzazione. Gli unici che avevano avuto un conflitto con uno dei loro ex agenti erano Ruby e Sapphire, che ci avevano quasi rimesso la vita, dopo quello scherzetto.
«Ho un’idea per quanto riguarda i nostri amici pedinatori» esordì Kalut ad un certo punto, mentre il gruppo stava percorrendo il Percorso 215, tra i pontili crollati a causa della neve e le scarpate guazzose.
«Spiegaci» lo esortò Sapphire, che come sempre era quella più a suo agio, nelle situazioni selvagge e ostili.
«Dovremmo di nuovo separare il gruppo».
«Non è un’ottima idea, gli agenti si divideranno per seguirci e saranno in contatto, una volta che tutti loro sapranno che la frazione di gruppo pedinata dagli altri sta comunque salendo sul Monte Corona, avranno capito la nostra strategia» lo confutò Green.
«E’ questo il punto, dobbiamo separarci, ma senza che loro se ne accorgano» spiegò meglio il ragazzo «non riusciamo a seminarli, ormai lo abbiamo capito, però possiamo distanziarli per un po’. Stanotte, dovremo fermarci a dormire in un luogo e, quando saremo sicuri di non averli alle costole, partiremo per il Monte Corona per tre sentieri diversi. Se anche dovessero riuscire a rintracciare qualcuno di noi, il che è probabile, comunque non avranno rintracciato tutti. A quel punto, semmai dovessero capire la nostra strategia, sarà già troppo tardi. Ci vuole poco più di un giorno, per raggiungere il luogo della macchina».
 Kalut entrò un po’ più nel dettaglio, al fine di spiegare per benino la sua idea al gruppo. Alla fine, si misero tutti d’accordo ed elaborarono il reale piano durante la passeggiata in direzione di Memoride, la città più comoda dalla quale partire per un escursione sulla montagna.
La raggiunsero verso il tardo pomeriggio e vi si fermarono per acquistare dei GPS professionali. Decisero un luogo dove incontrarsi dopo la scissione e si annotarono tutti le coordinate. Kalut aveva stimato approssimativamente il punto più vicino che riuscisse a ricordare al buco nella roccia che portava al Nodo di Regigigas.
Entrarono in una piccola locanda che odorava di pastafrolla, dove avrebbero dormito per alcune ore, prima di ripartire nel cuore della notte. Le stanze furono spartite come al solito: le due coppiette felici a due a due e Kalut solo soletto. Qualcuno, poche decine di minuti dopo l’arrivo, bussò alla porta di quest’ultimo.
«Sono Green» disse il visitatore, dal corridoio.
«Che succede?» chiese Kalut, aprendo.
«Non sei riuscito a farti dire niente, da Yellow?» domandò il Capopalestra, guardando altrove.
«E’ stato un buco nell’acqua» confermò l’altro.
«Immaginavo».
«Se Yellow non si decide a parlare, Red resta irraggiungibile...»
«Ecco, ero venuto a parlare proprio di questo».
«In che senso?»
«In realtà esiste un modo per rintracciare Red, se proprio hai necessità di parlare con lui» spiegò Green.
«Ossia?» Kalut era sinceramente incuriosito, il che era strano per uno come lui, che sembrava sapere sempre tutto prima degli altri.
«Io e Gold, per ritrovare Ruby ad Hoenn, abbiamo scaricato un programma sviluppato di nascosto in grado di rintracciare gli altri Pokédex attivi tramite una localizzazione satellitare» spiegò Green.
«Ma è eccezionale... e così semplice. Come mai non me lo hai detto prima?»
«Il vero problema è che» Green indugiò «questo programma è installato sul Pokédex di Gold, solamente» chiarì.
«Ah, perfetto... mai che qualcosa vada come deve andare» scosse la testa Kalut, facendo per rientrare in stanza.
«Dovremmo sbrigarci con questa faccenda del progetto Nubian e fermare la Faces a Sinnoh... Austropoli è in una situazione critica e richiede il nostro intervento immediato» sottolineò Green, intercettandolo da dietro le spalle.
«Sì, infatti, fermiamo i terroristi che tengono in ostaggio la metropoli più grande dello stato per ritrovare il vostro amico sparito, è un patto equo...»
«Sei stato tu il primo ad avere bisogno di Red, noi abbiamo dato priorità alla Faces, aspettando prima di cercarlo».
«Lo so, ma ad ogni modo, io non ho bisogno di lui, ma di quello che sa» continuò Kalut.
«Come puoi essere certo che lui possieda informazioni tanto importanti?»
«Si tratta di informazioni che non conosco... questo mi basta per presuppore che siano fondamentali» concluse il ragazzo dai capelli bianchi, rientrando nella sua stanza.

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