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Lila May - Star Power - II★

 II





«Scept, Fendifoglia!».
Prima che Herdier potesse morderlo, Sceptile ruotò repentino e lo colpì alla bocca con un brusco ma raffinato colpo della coda, una meravigliosa frusta verde scoccata contro il cielo terso di un soleggiato mattino estivo. L’avversario mollò la presa e venne scaraventato a diversi metri di distanza, incapace di ringhiare di dolore a causa delle numerose foglie che, durante lo stacco, aveva strappato dal muscolo posteriore del Pokémon Foresta. Prima che potesse anche solo liberarsene, la grande lucertola gli fu addosso, lo afferrò con la bocca e lo lanciò in aria. Dopodiché, sempre sotto comando dell’allenatore, fece un balzo e lo avvolse con la coda. Qualche secondo di esitazione, l’ansia tormentata della folla e il cane venne violentemente scaraventato al suolo, causando lo stupore dei presenti. Ciottoli e terra si sollevarono dal campo lotta, e i due allenatori si coprirono il volto con l’avambraccio. Quando questa si dissolse, il vincitore fu chiaro a tutti gli spettatori. «E il vincitore è…
» echeggiò una voce in lontananza, probabilmente quella di un cronista improvvisato. «Brendan! Complimenti, ragazzo, sei arrivato da poco, ma ti sei già fatto valere!».
Orthilla, che aveva osservato il tutto dalla finestra, si sporse appena, curiosa di vedere il volto del vincitore. Occhi chiari, capelli castani, sorriso serafico di chi sa sempre cavarsela con limpidezza, senza bisogno di inganno o menzogne. Un viso ordinario come un altro, insomma, niente di particolare. Eppure, nonostante lo scontro si fosse rivelato un po’ troppo violento per i suoi gusti, era rimasta sinceramente affascinata, anzi, stregata dalle eleganti movenze di Sceptile. Il movimento aggraziato della coda, lo sguardo vanesio e accattivante, i gesti coordinati. Ma non solo. Il manto fresco e pulito, la mira precisa, il collo snello. Un Pokémon davvero succulento, per una cacciatrice di talenti come lei. O almeno, ex cacciatrice. Evidentemente, l’allenatore doveva aver curato nei minimi dettagli anche quell’aspetto della lotta. La sceneggiatura del resto faceva sempre molto più impatto di semplici mosse contro l’avversario, e il ragazzo lo aveva capito in fretta. Apprezzò molto quel piccolo spettacolo, e per un momento le sembrò che la curiosità potesse distrarla da tutto il male che, anche quel giorno, l’aveva tenuta dentro casa, a ripararsi da insulti, sguardi crudeli e frecciatine. Ma quando la folla si ritirò e cominciò a sentir volare nell’aria frasi come «Orthilla dovrebbe solo prendere esempio da questi allenatori; alla fine sono solo loro che si fanno un mazzo tanto per arrivare in cima, l’unico aiuto che ricevono è quello del centro Pokémon.” si rabbuiò e il dolore calò su di lei spietato come una falce nera. Tirò le tende e il buio la investì, ombreggiandole il volto sconfitto dal dispiacere. Faceva male sentire quelle cose. Troppo male. Tornò in camera da letto, dove Altaria riposava tranquilla, e si lasciò cadere sul materasso, che emise un flebile cigolio. L’uccello sollevò gli occhietti neri e, percependo l’immenso dolore della ragazza, l’accolse sotto la sua ala candida. «Altaria…
» mormorò, cercando di controllare la voce tremante. «Quando capiranno?».
Il Pokémon non le rispose, ma per sollevarle l’umore cominciò a giocare con i suoi capelli, tirandoli col becco bianco.
Orthilla chiuse gli occhi, debole.
Anche lei, proprio come un allenatore, era partita da zero. Anche lei aveva lottato, anche lei si era fatta valere, anche lei aveva imparato dagli errori, raccogliendone i cocci taglienti per costruire armi più forti. La differenza, però, stava nel fatto che la strada per il successo era, è e sarà sempre molto più difficile di una qualsiasi Via Vittoria. Ma la gente questo non lo sapeva comprendere. E lei non era sufficientemente forte per fronteggiare tanto odio in una sola volta.



Orthilla si svegliò di soprassalto, disturbata da rumori indistinti. Rimase in silenzio ad ascoltare, in attesa che si facessero risentire, e proprio mentre stava per affondare nuovamente la faccia nel cuscino umido di lacrime accadde ancora.
Al terzo ringhio, seguito da un sibilo piuttosto agitato, cominciò a pensare ci fosse qualcuno dentro casa sua. Al solo pensiero di un ladro, o peggio, un assassino venuto lì per porre finalmente fine al suo mito caduto, si sentì gelare il sangue nelle mani. Spaventata, svegliò Altaria.
«C’è qualcuno in casa… lo sento…
» gemette piano, specchiandosi negli occhi del suo Pokémon. La tristezza di qualche minuto prima lasciò spazio ad un opprimente senso di paura. Non erano sole, in quella casa. E sicuramente, la persona intrufolata non aveva intenzione di fare la sua conoscenza. La gola le si chiuse, soffocandola nell’ansia mentre, con mano inesperta e sudata, correva ad afferrare una scopa dal ripostiglio vicino alla camera. Non era normale avere così tanta paura, lo sapeva bene; un tempo era stata l’allegoria del coraggio e l’intraprendenza. Ma le persone nei suoi confronti non stavano facendo nulla di buono per lei, non nell’ultimo periodo, almeno, non dopo la scioccante menzogna messa in giro dai media. Dunque, morta o meno, a loro cosa importava? Era un soggetto da eliminare, un ripugnante straccio da gettare nella spazzatura.
Una vergogna.
Con passo cauto si diresse in sala. Trovò il divano in disordine come lo aveva lasciato, ammennicoli sparsi ovunque, cucina nel caos più totale. Ogni cosa sembrava al suo disordinato posto, non vi era la presenza di nessuno. E infatti era così.
Un altro rumore, un altro sibilo e Orthilla si rese immediatamente conto che il caos non proveniva da dentro, bensì da fuori. Cercando di mantenere il panico che l’aveva investita, uscì dalla porta sul retro, Altaria a proteggerle le spalle con le grandi ali cotonate. Si era dimenticata del fatto che casa sua possedesse anche quell’entrata posteriore. La aprì, e la luce del sole le investì le iridi, asciugandole la pelle seccata dalle lacrime. La porta dava ad un immenso giardino circondato da fitti alberi, con l’erba incolta che stendeva i lunghi fili verdi alla luce del crepuscolo. Nonostante fosse tutto di sua proprietà, si era recata lì rarissime volte, giusto per metterci qualche vaso decorativo. Lei era innamorata del palcoscenico, della modernità, della musica che sballa e delle luci artificiali. Dunque, aveva sempre trovato quel posto inadeguato al suo stile frenetico e innamorato della vita. Prese un respiro profondo e si incamminò sulla terra, brandendo la scopa come una spada.
«Vieni a me!
» sentì sussurrare da una voce rauca. «Vieni a me!»
Fruscii indistinti, soffi, gemiti. Ansimi, addirittura.
Seguì i suoni, imbarazzata. Sembrava una voce familiare, ma non seppe dire a chi appartenesse. Che due stessero facendo l’amore nel suo giardino?
Lo scenario che le si presentò davanti, tuttavia, smentì i pensieri che le si erano andati formando in mente.
Aggrappato al ramo di un albero, il volto arrossato e il collo in tensione, l’allenatore dello Sceptile che aveva osservato quella mattina dalla finestra, stava inutilmente tentando di recuperare un Delcatty.

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