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Andy Black - Unravel Me - 12: Dodici (XII)

UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
 

“Rimango spesso a pensare a quando ti ho lanciato quelle parole contro, ignara di essere stata la causa di tutto questo. Rimango a ricordare i tuoi occhi, il tuo dolore.
Che stronza che sono stata.
Ma sapevi pure che io sono così. E che è stata la rabbia a muovere il mio corpo e la mia bocca.
Com’era stato l’amore a muovermi poco prima, quando sotto la doccia siamo stati in paradiso.”

 
Hoenn, Albanova, 10 Marzo 20XX

Lasciò che il sole di Albanova gli baciasse le guance.
Era da parecchio tempo che Ruby non calpestava il selciato che si snodava tra i prati e le casette in legno d'abete del piccolo paesino.
Erano ormai mesi che mancava da lì ma sembrava che l'intero paese, abitanti compresi, fossero stati immersi in un'enorme goccia d'ambra.
Uguali gli ampi giardini in fiore, uguali i tetti  marroni delle villette, ognuna delimitata nell'abbraccio degli steccati bianchi. Ogni cancelletto era aperto, ogni cassetta della posta piena di pubblicità inutile che sarebbe stata cestinata poco dopo.
Tutto tranquillo, tutto statico.
“Ciao, Ruby” salutò il vecchio signor Hershel, agitando la mano col sorriso stampato sul volto.
Lo stilista gli fece un cenno col capo e proseguì, mentre un leggero soffio di vento spostò le fronde degli alberi che circondavano quel luogo dimenticato da dio.
Non vi erano auto, ad Albanova, ma soltanto biciclette. L'unica vettura presente nell'intero paese era proprio del vecchio Bob Hershel, che da giovane attraversava verticalmente l'intera regione per andare a raccogliere la cenere del Monte Camino, a Brunifoglia.
La casa di sua madre era quella più vicina ai boschi, infatti non era raro che qualche Pokémon insetto, più coraggioso che furbo, s'infilasse nelle finestre delle camere superiori. Passò a salutarla, lei sorrise gioviale come sempre e gli offrì una tazza di tè, ammonendolo sul suo eccessivo dimagrimento.
“Hai ragione”.
“Quanti chili hai perso?!”.
“Sette”.
“Sei pelle e ossa!”.
Era dovuto al fatto che saltasse tre pasti alla settimana, forse, più tutte le colazioni.
Si dileguò, promettendole di rimediare al fatto e di passare in Palestra a salutare suo padre, più tardi, ma in cuor suo Ruby sperava di non dover arrivare fino a Petalipoli.
Almeno non prima di aver salutato Sapphire che, a quell'ora, non era ancora rincasata.
La loro villetta era quella più a sud di tutta Albanova ed era rivolta verso l'interno del paese. La loro vicina di casa era la vecchia signora Markle, che di tanto in tanto bussava alla loro porta offrendo buon cibo fatto in casa in cambio di qualche minuto di compagnia.
Era sola, lei. Vedova da più di vent'anni, quattro figli di cui tre volati in giro per il mondo. Il quarto era il padre di Lino.
Poppy Markle era una grande Allenatrice. Raccontava spesso dei suoi viaggi a Kanto quando, da giovane, aveva partecipato alla prima edizione della Lega Pokémon.
Ruby trainò il trolley fino alla porta di casa sua, che aprì poco dopo.
Odore di Sapphire.
Odore di Sapphire ovunque.
Odore di casa.
Passò una mano tra i capelli e sospirò, guardando la valigia. Al suo interno vi era quel vestito, che sapeva di futuro.
Aveva programmato le cose per bene, lui, e di conseguenza sapeva che ci fosse parecchio da fare per rendere tutto perfetto, prima che Sapphire terminasse il suo turno di lavoro.
Mise il cofanetto di velluto rosso che conteneva l'anello sul tavolino davanti alla televisione, cercando di organizzarsi mentalmente. Sapeva tutto ciò che doveva fare e sapeva da dove cominciare.

Era un'opinione, il meteo a Hoenn.
Il sole s'era riparato dietro una coperta di nuvole in tempesta che arrivava da nord-est, e Albanova era finita sotto la pioggia.
Spilli d'acqua freddi, ancor di più perché si poggiavano sulle carni di Sapphire, bollenti di natura  ma riscaldate dai primi calori di maggio, si conficcavano rigidi su tutta la parte meridionale della regione.
Le sue scarpe da corsa affondavano nell'erba bagnata, alzando schizzi che terminavano sugli ampi vialetti.
Correva, lei, stringendo la tracolla al fianco destro e utilizzando una cartellina di pelle nera per ripararsi dalla pioggia.
“Dannatissimo clima tropicale!” fece, voltando l'angolo e percorrendo l'intera via secondaria fino a raggiungere il laboratorio di suo padre.
“Aprite!” urlava, dando dei calci più che nervosi alla porta dello studio. “Aprite, cavolo! Sta diluviando!”.
Pochi secondi dopo i cardini cigolarono e Melvin Stratos, uno degli addetti all'osservazione delle aree marine, gli si parò davanti.
Alto lui, perennemente abbronzato e in muta da surf, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi verdi; un adone con le labbra ricoperte di salsedine.
“Oh, la figlia del padrone di casa...”.
Le sorrise gentilmente, spalancando la porta, poggiandosi con le spalle sul montante di sinistra e incrociando le braccia.
“Levati dalle palle, Stratos...” lo spintonò quella, cercando di passare, ma invano.
Melvin non cedeva.
“Cos'è un po' d'acqua, suvvia...”.
Gli occhi blu della donna si poggiarono su quelli color giada dell'interlocutore, assumendo un'espressione di sufficienza.
“Fin quando la pioggia è un po' potrebbe anche andare bene... Credo di avere un acquario, nel reggiseno. Ora levati davanti” rispose, spingendolo ancora e creando un varco, nel quale s'inserì.
Lo sorpassò, lasciandolo sull'uscio.
Sapeva che la stava squadrando, da dietro. E sapeva anche che, nell'acquario, Melvin avrebbe voluto farsi un giro.
“Aspetta” fece poi l'altro, correndole dietro. Le afferrò una spalla ma Sapphire si liberò subito.
“Che diamine vuoi?” gli domandò scocciata, proseguendo lungo il corridoio. Salutò con la mano alcuni colleghi che visionavano la macchina climatica e affidò la borsa con gli studi prodotti quel giorno a Flyss, l'assistente di suo padre dai lunghi capelli rossi.
“Che zona hai visionato, oggi?”.
“Limitrofa Ciclamipoli...”.
“E?”.
La ragazza si bloccò immediatamente, voltandosi e sbattendo contro il petto prestante dell'altro. Alzò gli occhi e lo vide sorridere.
“Mi sembrava di esser stata chiara, Stratos!”. Puntò il dito affilato contro di lui, minacciosa.
“Sto solo facendo conversazione” rispose l'altro, tirando i capelli indietro. “Non c'è nulla di male”.
I loro occhi si fissarono ancora per qualche secondo, prima che la ragazza gli afferrasse il colletto della muta.
“Ti ho già detto che non mi interessi. Non m'interessano i tuoi muscoli dorati né il pacco che cerchi di imbottire, mi sembri soltanto uno di quei tizi che cercano di passare per etero in tutti i modi. Inoltre sono fidanzata e non mi sembra rispettoso nei...”.
“... confronti di Ruby, sì, lo so, Sapphire, ma lasciami...” diceva quello, che mai era stato vicino a lei in quel modo, se si levava l'episodio di sette giorni prima, quando lui aveva provato a baciarla e aveva ricevuto un pugno sul naso. “Volevo solo parlare”.
Il suo sorriso si allargò, mostrando una dentatura perfetta.
“L'ultima volta non sembravi così interessato alla conversazione”.
Abbassò la testa, portando entrambe le braccia dietro la testa. Si massaggiò il collo e poi annuì. “È vero, è vero... ma questo perché mi piaci tanto, Sapph...”.
“Dottoressa Birch, per te, Stratos. E ora lasciami andare”.
Riprese la borsa, poi si voltò e lo lasciò lì, dirigendosi verso il piano superiore. Le scale erano in legno levigato e l'ultimo gradino era di qualche millimetro più alto degli altri, cosa che portava molti a inciampare.

Click – click.

Suo padre era dietro la sua enorme scrivania. Mucchi di fogli erano sparsi sul piano senza un ordine preciso, e due grossi tomi finemente rilegati in pelle, uno verde e uno blu, erano impilati proprio accanto al monitor.
L'uomo, ormai leggermente stempiato e con la classica capigliatura sale e pepe di chi si era avviato da diversi anni nel secondo step degli -anta, stava premendo con determinazione le dita sui tasti del mouse.
“Hai intenzione di romperlo?” chiese sua figlia, gettando le sue cose sulla poltroncina in pelle azzurra posta proprio accanto alla grande cartina di Hoenn, in stile anticato, che aveva acquistato al centro commerciale di Verdeazzupoli più di venticinque anni prima. Era stata incorniciata e appesa.
“Questo dannatissimo affare non funziona...” rispose l'altro, con una calma quasi glaciale.
Sapphire gli si avvicinò, circumnavigando la scrivania e abbassandosi.
“Cosa, non funziona?”.
“Il mouse. Sto cercando di andare...”. Mentre parlava, però, suo padre si voltò a guardarla. “Sei bagnata fradicia, tesoro. Non è il caso che tu vada a cambiarti?”.
“Ovviamente, papà...”.
“Perché perdi acqua sulla mia moquette”.
La ragazza sbuffò.
“E questo sarebbe il ringraziamento per aver cercato di aiutarti?!”.
“Dopo passa a casa da tua madre e prendi qualcosa da mangiare...”.
Quella storse il muso.
“Non ho molta fame, a dire il vero...”.
“La verità è che ti scocci di andare...”.
“Ma piove troppo!”.
“E allora prendi il mio ombrello”.
“Papà...” sospirò l'altra, voltandosi e tornando a prendere la tracolla e la cartellina. “Prenderò il tuo ombrello, ma soltanto per tornare a casa mia. Ho bisogno di una doccia...”.
“Infatti...”.
“E smettila!”.

Uscì dal Laboratorio, Melvin Stratos si era dileguato e lei era più che decisa a fare altrettanto. Con l'ombrello col manico in mogano, Sapphire camminò tranquilla verso casa sua.
Ma qualcosa non andava.
Le luci erano accese.
“Oh diamine... Ladri ad Albanova? Questa è bella...” sorrise a mezza bocca.
Sbuffò, chiudendo l'ombrello e gettandolo nel cespuglio davanti alla porta. Prese poi la sfera del suo Blaziken e girò rapidamente attorno alla casa, bassa sulle ginocchia, diretta verso la finestra della cucina. Lì alzò leggermente la testa, mentre la pioggia ancora la investiva, e vide la tavola, la sua tavola, imbandita con diverse leccornie, fiori e una bellissima torta.
“Che ladro strano...” fece. Tornò a guardare, cercando chi fosse l'autore di quel banchetto ma non vide nessuno. Allora si alzò e raggiunse la porta sul retro, dove alla fine entrò.
Le luci erano state accese con intelligenza. Come se l'autore di quella trovata volesse concentrare l'attenzione su diversi punti.
E il primo era l'ingresso. Sapphire pensò che sarebbe dovuta entrare dalla porta.
Una luce era accesa sul salotto, un'altra sul banchetto e una terza sul corridoio che portava al piano superiore. Il rumore dell'acqua la incuriosì; non proveniva dall'esterno, non era la pioggia.
No, era la doccia.
La sua inquietudine si calmò e si trasformò in speranza quando vide le scale cosparse di petali rosa.
Sentiva quel profumo, inconfondibile, più forte e rinnovato.
Il cuore cominciò a battere a ritmi irregolari e il sorriso fu un sintomo quasi automatico di quella felicità che stava nascendo.
Avrebbe potuto evitare ogni gesto, ogni parola, ma l'unica cosa che le venne spontanea fu lasciar cadere tutto per terra e correre sopra, mantenendosi ai due corrimano in ferro battuto per evitare di scivolare, dato che aveva le scarpe bagnate.
Quando anche l'ultimo gradino fu storia, si gettò verso la prima porta del corridoio, quella sulla sinistra con i pannelli in vetro satinato che lasciavano filtrare la luce.
Ed entrò nel bagno.
Ad aspettarla c'era l'acqua calda, che fluiva invitante dal miscelatore della doccia. Poi alle sue spalle cominciò a cantare in sottofondo D'Angelo, con la sua Send it on.
E fu con un sorriso che nacque spontaneo che la speranza divenne certezza.
Fece dietrofront e spalancò la porta della sua camera da letto e Ruby era lì, in piedi, ad accendere le candele.
“Amore!” esclamò lei, correndo da lui e impattando forte contro il suo petto.
Non le interessava di essere sporca e bagnata, né di chiazzare il parquet che aveva lucidato pochi giorni prima.
Non c'erano più priorità se Ruby era lì con lei.
Cercò a fatica di trattenere le lacrime ma quando lui le sorrise dolcemente, nel silenzio più che totale, alla fine di quell'abbraccio inesauribile, piangere fu naturale. I suoi occhi vermigli erano puntati su di lei, e la sua bocca era tesa in uno dei suoi bellissimi sorrisi.
Lo baciò.
Il suo sapore era rimasto lo stesso.

Il resto divenne una logica conseguenza di tutti i suoi gesti preparatori.
Lei lo aveva tirato nel bagno, dove il vapore aleggiava statico e il calore rinfrancava le carni della bella, raffreddata dalla pioggia che, all'esterno, non accennava a terminare.
Lo baciava, intanto lo spogliava e gli carezzava l'addome, poi il petto, poi le braccia e poi più giù.
“Sei tornato” fece, mentre lui le levava i vestiti bagnati. “Sei tornato”.
“Sono qui”.
La baciò ancora, aprì la cabina e si gettarono sotto la cascata calda.
“Sei qui...”.
Le parole rimbombavano sui vetri della doccia, rimbalzavano, tornavano indietro, si univano ai sospiri, si mischiavano al getto d'acqua e al sapone e scivolavano giù sulle loro carni, prima fredde e poi bollenti.
Carezzavano il petto di lui e la schiena di lei, che aderirono per poi separarsi e aderire di nuovo. Le loro labbra s’incontravano fameliche e i baci acquistavano il sapore dell’altro, che mancava da troppo.
Le mani di Ruby carezzavano l’addome della donna, salivano verso il seno e il collo, e quelle di Sapphire cercavano il sesso del suo uomo e lo indirizzavano dentro di lei.
Lui era il suo centro, lei il suo universo, pioveva calma calda che portava giù tutta la frustrazione di quei mesi quando, allungando la mano dall’altra parte del letto, non trovavano altro che il lenzuolo.
E fu liberatorio.

I capelli erano ancora bagnati ma la pioggia s’era calmata. Entrambi erano seduti al tavolo che Ruby aveva apparecchiato, uno accanto all’altra, e mangiavano.
Lui lo faceva in maniera composta ed educata mentre lei sembrava non aver mai messo nulla del genere sotto i denti.
Si guardarono, sorrisero morbidi e Sapphire si poggiò su di lui, che le era seduto accanto.
“Sono contenta che sei tornato”.
Gli occhi del ragazzo si chiusero dolcemente, accompagnati da un sorriso.
“E io sono contento di essere qui…”.
Prese un temaki con le dita e lo inzuppò nella salsa, versò un po’ di birra nei bicchieri di entrambi.
“Non hai perso il tuo tocco, in cucina…” osservò la bella dagli occhi blu, divorando letteralmente un piatto di zuppa di miso. Il ragazzo sorrise ancora e si fermò a riflettere su come fosse possibile che due persone tanto differenti come loro si amassero alla follia.
Del resto non credeva al cliché che gli opposti si attraessero; erano i simili a cercarsi, e prima di trovarsi avrebbero perso dignità e speranza, e probabilmente sarebbe stato già troppo tardi quando i loro occhi si fossero incontrati.
Tuttavia lui e Sapphire, nonostante le differenze, erano accomunati dalla strada che avevano intrapreso, e che terminava nello stesso punto.
Cosa costava tenersi per mano durante il tragitto?
“Dopo ti asciugo i capelli, selvaggia”.
“Ti ho fatto un complimento, prima” ribatté quella, seccata.
“Lo so, grazie. Ma rischi di prenderti qualcosa”.
Quella sbuffava, alzando i capelli dalle spalle e cercando con lo sguardo in giro.
“Mi dai un codino?” chiese.
Lui sorrise. “Perché dovrei avere un codino?”.
“Ti ronzano così tante donne attorno…” disse Sapphire, facendo partire un missile e assumendo un’espressione di malcelato fastidio. “Specie quella Yvonne… Se ti chiedesse un codino non glielo daresti?”.
Ruby sorrise ancora e annuì. Stette al gioco.
“Farei carte false per darle il mio codino”.
“Lo so…” s’incupì lei, facendo una smorfia col lato basso della bocca.
Il ragazzo la osservò meglio, mentre quella si alzava e sculettava verso il bagno. Ne uscì poco dopo coi corti capelli legati in una coda. Gli occhi caddero poi sulle cosce, scoperte, e più su, sulla pancia lasciata scoperta dalla canottiera piegata.
“Inutile che guardi. Sono bassa e grassa se mi confronti con Miss Luminopoli…”.
Ruby sorrise per la terza volta ma quella situazione aveva cominciato a stufarlo.
“Smettila”.
Quella ruotò gli occhi e sbuffò, tirando i piedi sulla sedia. “A te, quella piace”.
Il ragazzo si alzò e cominciò a sparecchiare.
“Con quella ci lavoro e basta, Yvonne, finiscila…”.
Gli occhi di Sapphire si spalancarono.
“Come mi hai chiamata, scusa?!”.
Si mosse di scatto, afferrando il piatto e lanciandoglielo contro. Fu soltanto l'agilità a consentire a Ruby di evitare di venire colpito. Una grossa macchia di salsa di soia insozzava le pareti.
Il ragazzo la guardò, esterrefatto dal gesto.
“M-ma... m-ma sei matta?!” disse, tentennando, incredulo.
“Come cazzo hai osato chiamarmi?!” urlò lei, prendendo anche il bicchiere con la birra e svuotandoglielo totalmente contro. Si alzò poi in piedi, circumnavigando il tavolo e affrontandolo muso a muso.
Quello la vedeva iraconda, a pochi centimetri dal suo volto. Il suo profumo era il più buono.
“Ho sbagliato, okay! Ma è stato un lapsus, non volevo chiamarti col suo nome!”
Passò qualche secondo, in cui Sapphire stava raggiungendo rapidamente la temperatura d’ebollizione e Ruby si era reso conto di aver commesso un autogol clamoroso. Sospirò e abbassò la testa, stropicciandosi gli occhi.
“Sapph… Sapph, non Yvonne… È stato semplicemente un lapsus…”. Si alzò in piedi, cominciando a sbottonarsi la camicia, intrisa di birra, per poi sbuffare. Gli occhi si spostarono infine sulla parete. “Guarda qui che guaio hai combinato… Non capisco perché tu sia gelosa di Yvonne”.
La ragazza gli diede un colpo al braccio.
“Non vorrai farmi credere che tu non abbia visto quell’appendiabiti con le tette e la parrucca bionda senza vestiti, vero?!” ribatté, agitandogli l’indice davanti al viso. “L’hai vestita e spogliata migliaia di volte! Perché non dovrei essere gelosa di lei?!”.
“Perché è il mio lavoro!” rispose a tono lui, allargando le braccia. Il petto del ragazzo si mostrò agli occhi di Sapphire quando anche l’ultimo bottone si liberò dall’asola. “Vedo lei e altre decine di modelle, in quel modo!”.
“Lei non ti guarda come le altre!”.
Ruby si bloccò. Riconobbe che la sua donna avesse ragione da vendere. Ciononostante mentì lo stesso.
“Per me è come tutte le altre modelle”.
Sapphire spalancava gli occhi a ogni parola del fidanzato, come se volesse vederne ogni sfumatura. “Non vivono accanto alla tua porta, loro! E non ti accompagnano all’ospedale e non passano tutto il loro tempo a fare le zoccole con te!”.
Ruby sorrise, ma amaramente.
“Stiamo davvero facendo questa discussione?” domandò, con calma recuperata. Al contrario, Sapphire non riusciva minimamente a celare il proprio nervosismo.
“A te che pare?!”.
“A me pare che tu stia urlando immotivatamente…”.
“Immotivatamente?!”.
E poi la castana colpì con un ceffone il braccio di Ruby. “Tu che scambi il mio nome con quello di una troia non è immotivatamente!”.
Aveva dimenticato, il ragazzo, quanta violenza repressa celasse il piccolo corpo di quella.
“È inutile che ti scaldi in questo modo” fece poi, cercando di ventilare la situazione. Andò verso la cucina e prese uno straccio, col quale cominciò a tamponare il muro.
Ma fare finta che Sapphire non esistesse non estingueva minimamente il problema.
“Allora?!” urlò poi. “Perché mi hai chiamata così?!”.
“Ma che ne so?!” perse le staffe lui, lanciandole lo straccio sul volto.
Quella lo evitò rapida e aggrottò ancor di più le sopracciglia. “Certo che lo sai!”.
“Non litighiamo per queste stronzate! Yvonne non ha alcuna valenza per me!”.
“E io che certezza potrei averne?!” urlò ancora.
Il ragazzo si bloccò, nuovamente. La situazione gli era decisamente sfuggita di mano e ora manteneva tra le dita una granata senza sicura, con gli occhi blu e i piedi nudi che battevano sul pavimento. “In che senso?” domandò, dopo una lieve pausa.
“Sei lontano, Ruby! Io come posso fare per stare un po’ più tranquilla, sapendoti a tre metri da una che vuole saltarti addosso?!”.
La guardò negli occhi, in quegli acquitrini blu da cui colavano lacrime salate, che le baciavano le guance e che scendevano lente verso il mento.
“Yvonne non… non vuole saltarmi addosso…”.
“Ma hai visto come ti guarda?! Tu le piaci!”.
Le braccia gli caddero lungo i fianchi. Doveva trovare il coraggio di smentire con convinzione, cercando di non tradire l’effettiva realtà dei fatti.
Abbassò lo sguardo. Odiava mentire.
“Non è così, Sapph… E non dovresti neppure farmi questi discorsi… dovresti fidarti di me a prescindere da ogni cosa”.
Gli occhi della donna si spalancarono e il fuoco che divampava in lei fu ben visibile dalle sue iridi; gli si gettò contro, colpendolo con un pugno leggero al petto.
“Io dovrei fidarmi di te a prescindere ma tu non dovresti farti vedere una volta ogni sei mesi! Da quando sei arrivato lì è la prima volta che torni a casa!”.
Lo afferrò poi per la camicia e aderì a lui, mostrando i canini.
“Tu non sai che cosa cazzo significhi amare una persona che ha improvvisamente cambiato vita!”.
“Io non ho cambiato te!” ribatté Ruby, dandole una manata per liberarsi dalla presa.
“Ma io non ne sono più certa!”.
Ruby posò le cose che aveva tra le mani e raccolse quelle di Sapphire. Le sue dita erano fredde.
“Io amo te e non potrei mai farti del male…”.
Non passò neppure un attimo che lei lo interruppe.
“Torna qui”.
I loro occhi erano collegati da un filo dorato, che partiva blu e terminava rosso.
“Ho delle responsabilità, lo sai… Appena finiranno le sfilate ci faremo una grossa vacanza e avrò più tempo per stare con te e pensare ai nuovi modelli e…”.
Fu lì che Sapphire non riuscì più a trattenersi. “Nuovi modelli?! Non credi di averne avuto abbastanza, con Unima?!”. Urlava con gli occhi spalancati, gesticolando vistosamente. Era furiosa.
“Sapph…”.
“Non ne hai avuto abbastanza coi tuoi giochetti e le tue stronzate?! Sono mesi che vivo col peso nel cuore perché non sei qui!”.
Li ha chiamati giochetti, pensò il ragazzo. La cosa lo fece innervosire e si unì all’altra, alzando la voce. “Perché diamine pensi che siano giochetti e stronzate?! Quello è il mio lavoro!”.
“Gli abiti li puoi fare anche qui a Hoenn!”.
“Ma lì ho un atelier! Ho un contratto! Ci sono troppe cose da fare!”.
“Beh, qui anche hai lasciato parecchie cose!” esclamò quella, col sorriso di sfida.
“Non posso lasciare Austropoli soltanto perché ti manco!”. Allargò le braccia e si voltò, raccogliendo la posata che era caduta. “Odio quando estremizzi ogni cosa…”.
“Io sono stanca! È questo il fatto! Devi scegliere tra me e l’atelier!”.


Ruby si voltò solo per un attimo, giusto per guardare i suoi occhi, prima che Sapphire lo afferrasse per la spalla e lo facesse voltare nuovamente. Era predisposta naturalmente al litigio, lei, con quel carattere forte e sempre pronto a polemizzare per ciò che non le sembrava giusto.
“Non darmi le spalle!” aveva detto.
“Lasciami in pace!”.
“Perché non prendi minimamente in considerazione l’idea di poter trasferire il tuo lavoro qui?!” domandava la donna, allargando le braccia coi pugni stretti.
“Te l’ho già detto! Tu! Tu, piuttosto! Perché non vieni tu, a Unima?!”.
Vide gli occhi di Sapphire mutare; si mitigarono.
Ruby continuò, più calmo. “White ha parecchi agganci nel campo della ricerca… era una Dexholder… Lavoreresti con la Professoressa Aralia”.
Il fuoco divampò nuovamente. “Io non voglio andare lì! Sei tu che devi tornare a casa! E devi mettere quella fottuta testa a posto! Trovati un lavoro vero, per la prima volta nella tua vita!” urlò ancora, spintonandolo.
Ruby aggrottò la fronte. Fece nuovamente un passo avanti e strinse denti e le puntò il dito contro.
“Questo è un lavoro! E anche prima! Ho sempre lavorato!”.
Dopo quelle parole Sapphire rise di gusto. Si voltò verso la finestra, dove la pioggia aveva cominciato nuovamente a battere, forte. “Credi che vincere contest e cazzeggiare nelle tv locali fosse un lavoro?”.
Quelle parole gli facevano male. Si sentiva giudicato, per di più dalla persona che non avrebbe mai voluto vedere pararglisi contro.
Abbassò lo sguardo. Aveva perso lo scontro, come ogni volta che i due imbracciavano le armi con differenti vessilli.
“Io…”.
Era in evidente difficoltà.
Sapphire però non sembrava ancora sazia; aveva aperto quella scatola piena di risentimento ed emozioni nere e collose, che si era promessa di non prendere mai dalla soffitta dell’esistenza.
Quindi continuò a infierire sul corpo morente.
“Adesso invece fai lo stilista a Austropoli! Che divertimento!”.
“Sapph…”.
“Cielo! E poi ti chiedi perché non riesci a ottenere l’approvazione di tuo padre?! Perché sei sempre stato un coglione!”.

Un tuono aprì la volta in due. Il cielo s’era spaccato e tutto, bene e male, si stava riversando su di loro. Nonostante il tetto sulla testa, però, Ruby si sentiva in mezzo alla tempesta.
Solo il rumore della pioggia, e quello del lavandino aperto. I loro respiri non esistevano più.

Mio padre… si è permessa di mettere in mezzo mio padre…
Come ha potuto?

Ruby si era sempre sentito sbagliato. Aveva rovinato la vita dei suoi genitori, era bambino, ma li aveva costretti a vivere una vita che non meritavano, e portava i segni di quell’errore sulla pelle.
Era troppo esuberante. Cambiò.
Si diede una regolata.
Ma negli occhi di suo padre vedeva sempre l’insoddisfazione, e quell’aria di chi sapeva che non sarebbe mai potuto trovare fierezza.
Com’era stato possibile che Sapphire avesse strumentalizzato il più grande dramma della sua vita per poter avere ragione in una discussione?
Amore, odio. L’anello su quel tavolino, il cibo e quei succhiotti sul collo. Il vestito ancora nella valigia.
Tutto insieme, tutto mischiato.

Ma alla fine ogni cosa aveva il sapore della rabbia.

“Sparisci per sempre” sussurrò, spintonandola e facendola ricadere sulla sedia. Si mosse velocemente e salì al piano superiore. Sentì Sapphire alzarsi di colpo e cominciare a inseguirlo nel corridoio.
“Fuggi ancora?!” urlava, mentre lo vedeva divorare gli scalini due a due, lasciandoseli alle spalle.
“Vaffanculo” rispondeva quello.
“Sei appena arrivato! Già vai via!”.
Alzò lo sguardo, lui, voltandosi d’improvviso. La tempesta, quella che aveva dentro, stava per uscire.
Erano gli occhi della donna a infastidirlo di più: nonostante la reazione che lui stava avendo, nonostante la palese voglia di porre migliaia di chilometri tra loro, quella continuava a guardarlo con l’aria di chi non avrebbe lasciato feriti.
Tutta la voglia che aveva di urlarle contro morì lì. Non si meritava neppure le sue parole.
Entrò in camera e prese la valigia, con quel contenuto così prezioso, quindi si voltò e se la ritrovò davanti.
“Hai intenzione di andare via così?!”. La sua voce rimbombò nel silenzio della casa.
“Levati davanti, Sapphire...”.
“Affronta le situazioni! Non fuggire!”.
“Non ne vale più la pena...”.
A quelle parole fu la ragazza a sentirsi mancare il terreno sotto i piedi; tuttavia la sua reazione non differì molto dalle precedenti. Fu la violenza che fluiva nelle sue vene a spingerla a dargli un grosso schiaffo in viso.
Ruby non riusciva a credere a ciò che succedeva.
“Levati davanti!” disse, tirandola nella stanza e facendola letteralmente volare sul letto. Ebbe lo spazio necessario per correre giù, scendendo le scale, e sbattersi la porta alle spalle.
Non fu minimamente intimorito dal temporale, anzi: vi si gettò come se dovesse essere la pioggia a purificare la sua anima.
Abbandonò il vialetto di casa sua, prima di prendere il cellulare e gettarlo nello stagno lì accanto.
Quello non gli serviva più. E neppure l’anello, che aveva lasciato in bella vista sul tavolino del salotto, che Sapphire guardava distante ma sconvolta.

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Brunifoglia “ Comunità rurale ricca di orticelli ” Brunifoglia era una modesta cittadina nata tra le montagne, situata a Nord-Est di Hoenn. Attraversata da un'unica via principale che collegava il Percorso 113 al Percorso 114, era caratterizzata da paesaggi rurali che la rendevano differente e particolare rispetto alle altre città della regione. Il territorio era fertile e argilloso grazie alle acque del lago, l'unico ecosistema in grado di ospitare Pokémon come Barboach, Whiscash e Lombre. Anche il Monte Camino era in grado di caratterizzare l'ambiente circostante, il Percorso 113 era rinomato per la cenere vulcanica che scendeva dal cielo e ricopriva il suolo con un leggero manto grigiastro. I bambini che non avevano il timore di affrontare gli Skarmory selvatici, erano abituati a inoltrarsi nella vegetazione per dedicarsi alla raccolta della cenere e portarla del vetraio che abitava nelle vicinanze. Brunifoglia era abitata esclusivamente da fami

Quindicesimo Capitolo - 15

Salve ragassuoli, mi dispiaccio ogni volta per il ritardo nella pubblicazione, e mi rendo conto che sta diventando un disagio. Ecco perchè, dalla settimana prossima, per problemi di lavoro, la fan fiction sarà pubblicata il MARTEDì. Chiedo ancora scusa, e spero di non aver recato disagio. Ringrazio tutti quelli che hanno messo mi piace alla pagina   Pokémon Adventures ITA . Vedere il seguito crescere ogni giorno di più è una grande soddisfazione. Sei su EFP? Vieni a recensirci anche lì!  Andy Black, autore su EFP Ricordo sempre che il nostro progetto, Pokémon Courage ha bisogno di sostegno da parte vostra...niente soldi, tranquilli, basta solamente un po' di partecipazione. Siamo davvero così pochi a leggere questa bellissima storia? Entrate anche voi a far parte della famiglia di Pokémon Courage . Ho finito con le raccomandazioni. Cominciamo. Stay Ready...Go! Andy $   “Rachel...sei davvero tu?” chiese sgomento Ryan, quasi commosso. Zorua fece un