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Herr - Once Upon Another Time - I Pt. 2




I pt.2

2005 


26/09/05
Un forte vento spirava sui verdi colli della campagna settentrionale di Kanto, accompagnando con dolci carezze le spighe di grano che, sospinte dalla brezza, oscillavano fra di loro. Il cielo terso si rifletteva in ogni specchio d’acqua attorno al Laboratorio del professor Oak come piccole miniere di zaffiri, mentre a fare da sottofondo erano i rumori della natura, con i suoi gorgoglii, sibilii e percussioni.
La struttura sorgeva al centro di un piccolo rialzamento del suolo rispetto al terreno circostante, cosicché il laboratorio assomigliasse, ai passanti che si trovavano a visitare quel paesaggio, più ad un fiore di candidi petali sbocciato nel verde della campagna che ad un luogo di scienza. Eppure, così era, anche in quel momento, quando il Professore Samuel Oak tutt’altro era intanto a fare che sopravvedere alle sue creature.
All’ombra di una veranda che si affacciava ad un prato circostante Oak riposava, sorseggiando una tazza di tè, quando un trillo ruppe quell’atmosfera idilliaca.
Si voltò in direzione della porta ed attese.
Il suono continuava a rimbombare per le stanze del laboratorio.
«Qualcuno può andare a rispondere?» urlò.
Ritornò brevemente al suo tè, ma prim’ancora che potesse godere di un altro sorso il suo istinto prese il sopravvento. Si alzò improvvisamente e rientrò nello stabile.
«Pronto?» chiamò, cornetta alla mano.
«Buongiorno prof».
Oak si compose. Era la voce di Red.
«Ciao Red! Che bello sentirti! Avevi bisogno di qualcosa?».
«In… in realtà sì» titubò. «Blue è là con lei?».
«Blue?». Lanciò un’occhiata alla stanza, come se la sua scrivania o le finestre potessero rispondere a quella domanda. «No, no, come mai?».
«Niente. Sa se è già tornato a Pallet?».
«Tornato?».
Red attese.
«È da un mese che non lo vedo più… circa da quando si è trasferito a Saffron City!».
«Saffron?» sobbalzò Red.
«Sì, come mai?».
«N—niente. Sa—sa darmi il suo indirizzo?».
«Certamente! Aspetta che lo cerco».

28/09/05
«Sì, infatti, non so cosa gli fosse passato per la testa… in ogni caso, Nancy, ho paura che—». Blue smise di respirare per qualche secondo. Dall’altra parte, una voce femminile che lo sollecitava a rispondere. «Ti—ti richiamo dopo, ok?».
Chiuse la chiamata e rimise il telefono in tasca.
«Red» commentò.
«Blue».
«Noto con piacere che sai il mio nome». Strinse i denti. «Cosa c’è?».
«Volevo… volevo scusarmi per come mi sono comportato l’altra volta. Credo».
«Scusarti?». rise. « Non devi scusarti, Red».
Il suo viso si illuminò. «Oh, davvero?».
«Sì, davvero» lo incalzò «Mi hai fatto perdere tempo. Capita».
«Io—».
«Chi ti ha lasciato entrare, poi? La porta non si apre senza chiavi».
«Ho aspettato che qualcuno entrasse».
«Sono le due di sera, nessuno in questo condominio rientra dopo le dieci».
«Ho aspettato un po’».
Blue rise.
Fece per allungare la mano alla maniglia della porta, ma Red si frappose fra lui e l’entrata.
«Cosa c’è?» commentò stizzito.
«Senti… questo per me è nuovo. È tutto nuovo…». Inghiottì. «Tu, io…».
«Sono content—».
«Voglio provarci».
A quelle parole, Blue si immobilizzò.
«Voglio provarci… anche se non porterà da nessuna parte. Almeno ci provo, no?».
«Provare a far cosa?».
Red spostò il peso in avanti e raccolse con la mano destra il capo di Blue a lui, dopodiché lo portò a sé in un bacio.
Blue, in risposta, si lasciò andare, facendo cadere il telefonino che serbava ancora nelle mani.

2008
03/11/08
Pioveva quel tre novembre. Il cielo era dipinto di bianco sporco, come la parete di una casa abbandonata il cui candido colore iniziale era stato rovinato e spinto verso il grigio dal tempo e dalle intemperie. Delle striscie violacee correvano sull’orizzonte in direzione di Vermilion City, mentre dall’altra parte, verso Cerulean, le nuvole andavano rischiarandosi, lasciando entrare di tanto in tanto dei brevi sprazzi di luce che si districavano tra il grigiore celeste come lame dorate.
La pioggia era leggera e Red, dall’altra parte del finestrino, si chiedeva se arrivato a Saffron il tempo sarebbe migliorato. Il suo capo poggiava direttamente sul freddo vetro della macchina, il suo sguardo proiettato sui grattacieli della metropoli, mentre delle striscie sottili d’acqua rigavano lo schermo del finestrino.
Di tanto in tanto la vettura sussultava per via di dossi nel terreno, ed il viso del ragazzo sobbalzava anch’esso. Più volte aveva pensato di riferirlo all’uomo che guidava, ma dalla remotezza del suo antro, sprofondato nel sedile posteriore, preferiva il silenzio.

Il taxi lo lasciò di fronte all’Hotel “The Prince”. La pioggia, che aveva smesso di cadere sulla città, aveva lasciato nell’aria una sensazione di umidità mista all’acre sapore di smog e quel retrogusto di cattivo tempo che Red non aveva mai imparato a decifrare.
Il ragazzo impugnò le due valigie e si trascinò distrattamente all’interno della hall, dove fu accolto da una donna in abito nero.
Sorrideva.
«Buonasera!».
«Buonasera».
La donna fece cenno ad un altro uomo di raccogliere la valigia di Red.
«Ha avuto un buon viaggio da Hoenn?».
Red accennò ad un sì, mentre il suo sguardo vagava in direzione dei bagagli, che stavano venendo escortati da un uomo all’interno di un ascensore, per poi sparire nei meandri dell’edificio seguito da un bip.
«Purtroppo negli ultimi giorni non ha smesso di piovere… è un peccato, perché Saffron di solito è così bell—».
«Lo so». Il suo sguardo era chino sull’apertura dell’ascensore, anche se in realtà non stava realmente osservando. Era perso in un punto imprecisato. «Ho abitato a Saffron per qualche tempo».
«Oh, be’, allora la conosce bene. La sua stanza, comunque, è la numero 1204».
Poteva leggere nella sua voce il disappunto per esser stata interrotta.

Quando mise piede dentro la stanza, si ricordò perché aveva amato, un tempo, Saffron City.
Anche se sullo sfondo di un tetro cielo monocromatico, lo skyline della città non mancava nel lasciare a bocca aperta chiunque fosse spettatore della sua meraviglia. Torri di vetro ed acciaio che si susseguivano, l’una dopo l’altra, a disegnare un sinusoide sopra la metropoli.

«Pronto?».
Red attese.
«Red! È da un po’ che cerco di chiamarti, va tutto bene?».
«Sì, sì, scusa, è che sono appena arrivato a Saffron, e tra una roba e l’altra…».
«Figurati, non preoccuparti. Piuttosto, ti dispiace se domani ti passo a prendere? Non vorrei che tu ci andassi da solo».
«Per me va bene» commentò atono.
«Ottimo allora. Ti aspetto davanti all’hotel per le 10. Sei al The Prince, no?».
Red accennò di sì con la testa, ma la mancata risposta della ragazza gli ricordò che non poteva vederlo.
«Sì, sono qua. A domani, allora».
«Ciao Red!».
«Ciao Leaf».

04/11/08
Red si sistemò il bavero della camicia e lanciò un’occhiata poco convinta allo specchio che si trovava di fronte a lui.
Mormorava una confusa melodia dalla bocca, mentre le mani correvano freneticamente sulla superficie dell’abito. Stiravano le bocche della camicia, le raccoglievano dentro i pantaloni e poi spazzavano via la polvere con delle brevi manate, che alla decima volta avevano perso il senso iniziale. E così ancora, finché non si vide pronto.
Tornò al trolley e prese una cravatta blu elettrico, che lanciò sul suo collo a mo’ di lazo per poi tornare di fronte allo specchio.
La strinse con entrambe le mani, fece un nodo e lo fece correre fino al collo, dopodiché fece scivolare il tessuto dietro il nodo, poi ancora davanti ed infine srotolò la coda con la massima cura.
La mano destra tirava a vuoto la punta della cravatta, mentre la sinistra spostava di movimenti millimetrici il nodo ora un po’ più a destra, ora più a sinistra, ora più in alto.

Leaf indossava un lungo abito nero, che fasciava il suo corpo dalle spalle a poco sopra le ginocchia. Fu quanto notò appena salito sul sedile anteriore.
«Grazie mille ancora per il passaggio».
«Non c’è problema» sorrise la ragazza, «in qualche modo saresti dovuto arrivare al funerale».
«Suppongo di sì» mormorò.
Red fissava la strada davanti a lui. Era quasi rapito dallo snodarsi della città di Saffron, di quella che aveva tutta l’aria d’essere una giungla di vetro, asfalto e cemento. E colori, un arcobaleno di colori che, quel giorno, venivano stemperati dal pallore del plumbeo cielo.
«Ci sarà anche Blue».
Non rispose.
Alla radio era uscita una nuova canzone.
«Headmaster sir, didn’t mean to strike a cord…».
«Da quanto non vi sentite?».
«Tre anni, credo».
«Ti mancava?».
«… nobody still thinks of you that way…».
«Uh?». Red si voltò in direzione della ragazza. «Cosa intendi?».
«Blue mi ha detto, Red».
Riportò il volto dall’altra parte, e si sentì sprofondare nella fodera in pelle del sedile.
«Non c’è niente da dire» bofonchiò.
«… so everything is wrong».
«Ok…».

La bara era color rosso rame e brillava sotto il pallore della giornata. Come la facevano calare all’interno della buca, Red poteva osservare la superficie oltremodo lisciata del legno riflettere mano a mano oggetti diversi e, tanto cambiò l’angolazione, che poté vedere sé stesso. Si trattenne dalla tentazione di allontanare lo sguardo e lasciò che lo schermo riflettesse la sua persona nella sua interezza.
Gli passò davanti un uomo che prima d’allora non aveva mai visto e gli strinse la mano.
«Condoglianze».
«Condoglianze» rispose distratto.
Fissò l’uomo avvicinarsi a Blue ed ad una donna in parte a lui, fare lo stesso e poi allontanarsi dal gruppo che si era formato attorno la bara, perdendosi dietro il bosco di cipressi.
Arrivò qualcun altro e rifece lo stesso.
Dopodiché un altro, ed un altro ancora.
Red era confuso sul perché tutte queste persone si fossero fermate a fargli le condoglianze, ma la sua testa era occupata a pensare ad altro. Ogni persona che lo intratteneva lo aiutava a rimandare quello che, lo sapeva, sarebbe dovuto accadere, e pur in questa sua sicurezza voleva rimandare il fatidico momento.
Quando la folla si sfoltì e rimase solo un pugno di persone, tuttavia, dovette farsi coraggio.
Il suo sguardo cercò Leaf, ma neanche lei sembrava nei paraggi.
Deglutì e si avvicinò a Blue.
«Ahem…».
«Red». Blue riconobbe la sua presenza con un’alzata di sopracciglia.
«Volevo… volevo farti le condoglianze». Raccolse la sua mano e la strinse di una stretta incerta. «Condoglianze».
Le labbra di Blue si inarcarono a formare un sorriso, ma le costrinse giù all’espressione di serietà che aveva mantenuto per tutto il tempo.
«Grazie, anche a te».
«So—so quanto ci tenessi ad Oak» continuò. «Sì, insomma, tuo zio».
«Grazie, Red».
Lasciò la presa prima che se l’aspettasse e si girò in direzione della donna che lo circondava prima.
Red mormorò un saluto che si perse nel silenzio.
«Ehi, Red, tutto bene?».
«Uh?».
Leaf era apparsa davanti a lui.
«Sì, sì, tutto bene».
«Io pensavo di tornare a casa, farmi una doccia e in caso uscire con degli amici. Vuoi venire con me?».
«Ahem… sì, perché no? Va bene».
«Ottimo!». Lo squadrò. «Non mi sembri convintissimo. Sei sicuro?».
Red la fissò. Più che guardare lei, stava osservando come le pieghe del suo vestito scendessero sull’erba, e le sinuose curve che cadevano come una cascata di velluto sulla distesa verde. «In… in realtà no. Scusa».
«Non c’è problema! Posso riportar—».
«Tranquilla, torno a cas— in hotel da solo».
«Sei sicuro? È lunga».
Red asserì.
«Ok, allora. Ci sentiamo!».
Sorrise. «Ci sentiamo».

Rimase per un po’ a guardarsi attorno, scandendo i minuti con un breve controllo dello schermo del telefono. Il tempo passava, e con esso la testa di Red girava persa in un mare di idee. Quando si trovava indeciso se fare qualcosa o meno, il suo cervello si bloccava, e finiva per scegliere come opzione il non fare niente. Che non era una scelta, ma al contempo l’unica disponibile.
Erano passati 10 minuti quando guardò il telefono per l’undicesima volta.
«Merda».
Infilò il telefono in tasca e corse trafilato verso il bosco di cipressi.

«Red?».
Red si era lanciato trafilato sul parcheggio del cimitero, spostando lo sguardo ora a destra, ora a sinistra nella vana speranza di incontrare Blue nel tragitto. Stringeva la giacca in mano, e la camicia bianca era madida di sudore. Anche la fronte, sulla quale cadeva qualche ciuffo castano, era imperlata di gocce di sudore, assieme al resto del viso.
«Red?».
Si girò alle sue spalle, da dove era entrato, e vide Blu avvicinarsi stringendo il telefono in mano.
«Cosa stai facendo?».
«Stavo… cercando un passaggio».
Blue corrugò la fronte.
«Leaf se n’è andata e non è riuscita a portarmi all’hotel, ed ero venuto qua per vedere se ci fosse stato qualcun altro disponibile».
«Oh… mi dispiace, ma se ne sono già tutti andati».
«Tu no».
Se prima la discussione era stata irrilevante, quelle parole riaccesero l’interesse nel rossiccio.
«Anche io ho un impegno».
«Non… non te lo chiederei se non fosse urgente, ma è che ho già prenotato l’aereo e tutto. Ho veramente bisogno di un passaggio».
Blue bofonchiò, per poi fare cenno alla sua macchina, una utilitaria grigio metalizzato che giaceva a qualche metro da loro.

«All I needed was a medicine…».
«Quindi… cos’hai fatto in questi tre anni?».
«Il solito».
Blue sorrise.
«Significa?».
«Mi sono allenato, ho combattuto, ho girato un po’ il mondo…».
«… you stuck a needle right into the vein…».
«Tutto questo con il premio della Lega?».
Red asserì.
«Wow. Io ce l’ho ancora tutto a casa, credo».
«E non c’hai fatto niente?».
«… my hands are tied behind my back…».
«Una vacanza, credo, nulla di più».
La macchina attraversò un sottopassaggio, e per qualche attimo, durante la discesa, Red ebbe la sensazione di essere sospeso in aria. Quella situazione era talmente surreale che ogni risposta che dava, o a cui pensava, gli sembrava risultasse forzata o premeditata.
«… it seemed to me you were the one the one, turns out you shut me up for fun».
«Beì, significa che l’userai in futuro».
«Suppongo di sì».
«E invece…» deglutì «per quanto… riguarda il resto…».
«La mia situazione romantica?» rise Blue.
Red asserì. «Sì, cioè, non necessariamente…».
«… yeah, but you thought you got away with murder…».
«Ho una ragazza».
«Oh». Red si rabbuiò. «Come si chiama?».
«Karen».
«Bello. È simpatica?».
«… waiting ’til I catch my breath».
«Mh, sì, dai».

«… am I having a seizure? Cause I’m shaking up with fear…».
Red guardava fuori dal finestrino. Si sentiva uno stupido, anche per solo aver pensato di combinare qualcosa. Il suo piano malefico, aver mentito a Leaf, l’intera situazione assumeva un tono ridicolo se pensava al tragicomico epilogo.
«Non ho veramente una ragazza comunque».
«Cosa?».
Red si voltò verso di lui.
«Ti stavo prendendo in giro». Un sorriso inarcava le labbra di Blue. «È da un po’ che non ho avuto una ragazza a dire il vero».
«… hit me on my blind side, left me on the floor…».
«Oh… be’, in ogni caso, va bene uguale, no?».
«E tu?».
«Come va la mia vita?».
«Ragazzi».
«… casanova fucked me over, left me dying on the floor…».
«Ah». Rimase a pensare per qualche secondo. «Anche per me è da un po’ che non ho un ragazzo».
«Da quanto esattamente?».
«Non saprei. Un po’, comunq—».
«… casanova, casanova, now you’re all I’m thinking of…».
«Arrivati».
«Oh». Red si sporse, e vide oltre il parabrezza l’enorme “The Prince” che si stagliava, con i suoi quindici piani di altezza, nel cuore di Saffron City.
«Grazie mille per il passaggio».
«Di niente. Ciao, Re—».
«… casanova fucked me over, left me dying for your love…».
«Ti va di salire un attimo?».
«Cosa?».
«Salire con me un attimo. Ho un appartamento al dodicesimo piano con un terrazzo fantastico, il frigo bar, e al tredicesimo c’è una piscina fighi—».
«Devo andare, Red».
«Tre secondi. E poi scendi, dai. È la tua ultima possibilità di vedere il The Prince da dentro!».
«… casanova, casanova, now you’re all I’m thinking of».

La stanza 1204 dell’hotel The Prince si sviluppava circolarmente attorno alla porta d’entrata, davanti alla quale, dopo qualche metro di entrata, si sbucava sulla camera da letto. Il letto, un matrimoniale, era al centro del muro, mentre ai lati si aprivano due porte finestre che portavano alla terrazza, dalla quale si intravedeva l’intera città di Saffron City e le montagne alle sue spalle. La stanza era spoglia, fatta eccezione per una televisione, un piccolo armadio ed un frigobar incassato sottovi sotto.
A destra si apriva il bagno, mentre a sinistra una piccola cucina.
«Però… ti sei scelto un bell’hotel».
Red rise.
«Non scherzavo quando dicevo che meritava».
Si buttò sul letto e per qualche secondo stirò le sue braccia verso l’esterno, osservando Blue che proiettava lo sguardo oltre la finestra, rapito dalla bellezza di quel paesaggio esterno.
Red rotolò sopra le coperte e cadde esattamente davanti il frigobar. «Cosa vuoi?».
«Oh, non serve. Non rim—».
«Tranquillo, giusto un bicchiere».
Blue borbottò un «Sì» molto confuso, lanciò la sua giacca sul letto ed uscì all’aperto, mentre Red versava un liquido color ambra in due bicchieri tozzi e squadrati. In uno vi versò anche del ghiaccio.
«Eccomi» disse, come si prestava a varcare la soglia della porta-finestra. Davanti a lui uno spiazzio rettangolare che si aggettava sullo skyline di Saffron.
«Grazie mille».
Come il vetro scivolava lungo il tavolino di ferro battutto, emise uno stridio.

«Stai ancora studiando per diventare Professore?».
Blue asserì.
«Ti manca tanto?».
«Sono circa a metà percorso. Non so ancora se e quando farò la specializzazione, per ora mi limito a fare il modulo di base».
«Oh, ok. Interessante».
«Davvero?». Un sorriso corse lungo il suo viso.
«Sì, be’, cioè… più di quanto faccio io, sicuramente».
«Sarà». Bevve l’ultimo sorso, che riecheggiò nel metallico rumore di impatto tra il vetro ed il tavolino. «E tu? Mi sembrava… sì, insomma, che anche tu volessi fare qualcosa. Della tua vita, intendo».
Un sorriso illuminò il volto di Red. Era più in virtù di un imbarazzo nel rispondere che di un’effettiva sensazione di contentezza in lui. «Non ho mai saputo bene cosa fare, in realtà».
«Questo lo so» rise Blue. La sua risata riecheggiò sulle labbra di Red. «Non è una risposta, però».
«Ok, ok». Red posò il bicchiere. «C’è qualcosa, ma non so se andrà effettivamente in porto».
«Come mai?».
Riprese il bicchiere in mano, e lo mosse con movimenti rotatori, mentre osservava ipnotizzato il movimento sinusoidale che il limite dell’alcolico tracciava sul vetro. «Mah… non so».
Blue si alzò.
«Vai già via?».
«No, devo solo andare in bagno un attimo. Mi riempi un altro bicchiere, già che ci sei?».
Prima che potesse rispondere, Blue era già scomparso dentro l’edificio.

Il ritorno del ragazzo fu anticipato da un rumore metallico.
Quando lo vide, era intento a sistemarsi la cintura come metteva piedi fuori nella terrazza.
«Suoni ancora?».
«Più o meno».
«Suonavi bene».
Red sorrise. «Grazie».
Si osservarono a vicenda mentre Blue prendeva posto in parte a lui. Qualcosa impediva loro, a vicenda, di rompere quel ghiaccio che cristallizzava i loro pensieri in banale più e meno.

«Vuoi vedere una cosa figa?» esclamò Red poco dopo.
Il sole era già calato e, lentamente, le ultime linee porpora tracciavano stanchi cerchi sulla parete bianca della terrazza. La stella era scomparsa dietro le montagne di Kanto e il suo rosso ricordo aleggiava nell’aria.
«Di cosa si tratta?».
«Eh no!». Si alzò di scatto. «Se te lo dicessi, si rovinerebbe tutto il divertimento».
«Ok». Deglutì. « Ma in cosa consiste?».
«Ti voglio mostrare un posto. Ti va bene?».
Blue acconsentì, e prima che se ne potesse render conto attorno alla sua faccia correva un nastro blu scuro ad impedirgli la vista.
«Ok, seguimi e andrà tutto bene».
Gli prese la mano, che Blue respinse prontamente. Allungò il palmo al suo bacino e  lo seguì aggrappato al suo busto.

«Bene, bene così… eccoci».
Blue aveva sentito un rumore metallico, di ciò che credette essere una porta, seguito da un repentino cambio nella temperatura esterna. L’aria era umida, come dopo una forte pioggia, ma non necessariamente fredda. Anzi, poteva dire che fosse quasi come acqua tiepida: in un certo senso, confortevole.
Sentì il calore delle mani di Red su di sé, dopodiché una luce bianca investì i suoi occhi.
«Ta-dan!».
Di fronte a lui, si apriva una piscina di medie dimensioni aggettata sulla città di Saffron. Un arco di luce, sopra di lui, illuminava l’acqua.
«Una piscina?».
«Sì! Figo, vero? A Novembre non c’è mai nessuno, ma finché non fa freddo perché no, no?». Come disse ciò, prese a sbottonarsi la camicia.
«Cosa fai?».
«Cosa ti sembra che stia facendo? Un tuffo». Aprì la camicia e scoprì, dietro di essa, una canottiera bianca. Si levò anche quella, e la lanciò per terra.
«Non… non penso sia una grande idea».
Sfoderò la cintursa dalla sua vita e fece scivolare via i suoi pantaloni, rivelando un paio di boxer neri dietro di essi.
«Ti sei dimenticato le scarpe…».
«Oh, giusto». Si chinò e slacciò le scarpe. «Ora?».
«Non… non so. Non ho voglia».
«Dai!».
«No. Ho detto di no».
«Ok…».
Red era nudo, fatta eccezione per le mutande nere, che costituivano un notevole stacco rispetto alla sua pelle leggermente abbronzata, in piedi di fronte alla piscina.
«Va bene, allora entrerò solo io».
Si girò e fece per entrare, ma poi si voltò indietro ed avanzò un lungo passo verso Blue. Lo afferrò per le spalle e, confuso, riuscì a spingerlo dentro l’acqua assieme. a lui. Quando si rese conto di quello che era successo, era troppo tardi.
«Merda! Red, che cazzo f—».
«Shh».
Come faticavano a stare a galla, Red afferrò con foga il capo di Blue e lo spinse contro il suo.
«Ehi!». Blue si staccò dal bacio. «Che cazzo fai?».
«Cosa ti sembra?».
«Non mi rivolgi la parola per tre anni e poi—» sputò dell’acqua che gli era entrata nella gola «e poi mi tratti così?».
«Ti bacio, vuoi dire?».
«Smetti—».
«Senti, lo so quello che è successo. Ma puoi darmi un’altra chance?».
«No! Ti sembra il modo?».
«Mi sono mai comportato secondo il modo?» ribatté Red. «Se non lo vuoi, puoi andartene via. Ma c’è un motivo se sei rimasto».
Riprese a baciarlo, e questa volta Blue si lasciò andare.

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