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John Hancock - Bloodborne - 6. Shadow Fall




6. Shadow Fall 
26 Dicembre. Nevepoli.

Quella era sicuramente una delle cose più bizzarre che avesse mai visto. E durante la sua vita ne aveva viste eccome. Soprattutto grazie al suo lavoro, che lo spingeva a viaggiare in lungo e in largo, mettendolo faccia a faccia con situazioni una più particolare dell’altra.
Se avesse avuto un quaderno, o un’agenda, su cui segnarsi tutto ciò che di strano aveva visto durante i suoi viaggi… Beh, in quel momento avrebbe avuto materiale a sufficienza per riempire almeno un paio di pagine.
Lui e Bianca avevano percorso a piedi gli ultimi duecento metri circa, tanto che gli alberi s’erano infoltiti. Mamoswine non sarebbe mai potuto passare senza prima aver distrutto metà della vita vegetale che c’era lì.
Seguendo il GPS, si erano inoltrati sempre più in profondità nel bosco, fino a che i tronchi degli alberi si erano avvicinati così tanto da non dare loro neanche la possibilità di passare fianco a fianco. Bellocchio s’era inerpicato fra enormi radici sporgenti dal terreno, contorte e nodose, completamente in antitesi con il manto di neve perfettamente depositato sul suolo. Aiutò Bianca a seguirlo, dovendo più volte tornare indietro per cercare una strada più semplice da percorrere.
L’aria iniziò a farsi sempre più calda, e Bellocchio iniziò a sentire una strana pressione sul torace. Ovunque si girasse, c’erano rami e radici a intralciargli la vista, bloccandogli i movimenti e chiudendolo lentamente in una morsa sempre più opprimente. Respirare gli divenne sempre più difficile e la vista stava iniziando a oscurarsi, mentre gli sembrava di vedere i rami prendere vita e allungarsi, scricchiolando e schioccando, nel tentativo di ghermirlo ed entrargli negli occhi e nella bocca, per poi farsi strada fino alle viscere, aprendogli la pancia in due. Prima di perdere completamente il senno in seguito all’attacco di panico che lo stava colpendo, Bellocchio ruzzolò fuori dall’intrico di rami e radici, respirando aria pulita a pieni polmoni. Il calore che sentiva si dissipò immediatamente, lasciando spazio ai venti gelidi che spiravano in inverno.
Intendeva girarsi indietro per aiutare Bianca con quell’ultimo passo, ma rimase impalato a osservare lo spettacolo che si apriva davanti ai suoi occhi.
“Ecco una cosa da poter raccontare ai miei nipoti” pensò Bellocchio, incapace di distogliere lo sguardo.
Gli alberi da cui erano fuoriusciti creavano una barriera perimetrale naturale, circondando una piccola zona di terreno pianeggiante circolare, non più grande di una trentina di metri di diametro, dentro al quale c’era qualcosa di molto strano.

- Fiori – esordì Bianca, aggiuntasi in quel momento.
E in effetti, lì la neve era assente. Al suo posto, un prato d’erba verdissima, ancora risplendente di rugiada, ricopriva il tutto, ammantando il mondo di verde. Al suo interno si trovavano tantissimi fiori che normalmente lì non avrebbero mai potuto vivere. Bellocchio riconobbe gruppi di eliconia, orchidee dai viola sgargianti, sterlizia regina che ricordava chiamarsi anche “uccello del paradiso”, margherite, girasoli, e anche stelle alpine dai grossi e lunghi steli che potevano tranquillamente superarlo, su di cui si trovavano arrampicanti mai viste da lui prima d’ora, con grossi fiori rossi traboccanti di nettare. E ancora grovigli di rose di vario colore che s’intrecciavano uno all’altro, formando spirali simili a colonne che sembravano volersi innalzare fino al cielo. La varietà e il numero di piante era impressionante, molte delle quali a lui sconosciute.
- Ma non è inverno? – chiese ad alta voce Bianca.
- Deduco tu non abbia mai visto qualcosa di simile, giusto?
- No, non è affatto normale da queste parti trovare così tanti fiori. Neanche nelle estati più calde è possibile vedere queste piante se non dentro una serra. E anche lì le possibilità di sopravvivenza della pianta sono molto basse.
Bianca s’inoltrò fra i fiori, tutti abbastanza alti da arrivargli almeno alla cintola. Camminando, sfiorò con le dita alcuni petali, sentendone la freschezza sulle dita. Accarezzò un bocciolo di una rosa selvatica, bianca e candida come la neve, e quella le lasciò scivolare sui polpastrelli alcune gocce di rugiada, gelide nel momento in cui il vento le sparse sul resto della mano.
Bellocchio la stava seguendo a una distanza modesta, troppo intimorito da quello spettacolo.
“Starà utilizzando di nuovo quei suoi occhiali strani” pensò lei.
E poi si ritrovò improvvisamente a fantasticare sul come sarebbe stato poterli provare lei stessa. A differenza di molte sue amiche, lei non aveva mai indossato degli occhiali da vista, né tantomeno andava particolarmente d’accordo con quelli da sole, quindi le occasioni in cui indossarli, per lei, erano rare. Si ritrovò a pensare a se stessa, dentro la sua Palestra, intenta a seguire gli allenamenti dei suoi allievi, con indosso degli occhiali da vista e la rosa che aveva toccato poco prima intrecciata fra i suoi capelli.
Nella sua visione Bellocchio entrava dall’ingresso principale, chiamandola per nome. A quel pensiero, Bianca avvampò e le sue guance si colorirono di rosso, stavolta non dovuto al freddo glaciale che c’era lì fuori, una volta che ritornò in sé.
- Bianca, tutto bene?
- Sì, tranquillo.
Bellocchio, nel frangente di tempo in cui lei procrastinava, aveva tagliato la distanza che li divideva e ora si trovava al suo fianco.
- Ti ho chiamata un paio di volte ma non mi hai risposto, pensavo ti fossi congelata.
- Ero con la testa altrove. Questi fiori mi hanno rapito. Riesci a sentire il profumo che emanano?
- Sì. Ma questa zona non mi piace affatto. Cerchiamo qualche traccia di Pokémon e, se non ne troviamo, andiamocene. Non sono per niente a mio agio qui.
- Sono solo fiori, non possono farci del male – Bianca avvicinò il naso al bocciolo non ancora del tutto dischiuso di una piccola rosa vermiglia. L’annusò a fondo, assaporandone ogni piccola diversa venatura del suo profumo. Un pizzico di asprezza rivelava che il fiore non era ancora al culmine della sua crescita ma questo non le fece storcere il naso.
Le vennero in mente le passeggiate con Gardenia, fra i giardini di quest’ultima e le sue serre. Adorava i Pokémon della sua amica, che vivevano in simbiosi con piante e fiori. Ricordò una notte in particolare, durante la quale lei e Gardenia avevano passato nei giardini circostanti la Palestra tanto di quel tempo che si erano ritrovate a osservare l’alba assieme. Passarono la notte in compagnia della Roserade di Gardenia, intente a chiacchierare del più e del meno, ora di quel pettegolezzo, ora di ciò che Pedro aveva intenzione di regalare a Gardenia per San Valentino. Quella notte una splendente falce di luna si stagliava nel cielo, mentre Roserade era intenta a cantare alle piante. La sua voce era il canto delle foreste, il frusciare delle foglie al vento, la linfa che scorre negli steli e nei tronchi d’albero. Bianca suonava una chitarra acustica, accompagnando il Pokémon, mentre Gardenia utilizzava il flauto traverso rintagliato nei rami del suo albero preferito.
- È stato il mio regalo di compleanno da parte di Pedro – le raccontò quella stessa sera.
- Mi ha detto di aver viaggiato fino a Hoenn per chiedere al Mago dei Quiz di insegnargli a lavorare il legno per costruire un flauto. Dopo è tornato qui e ha tagliato alcuni rami dalla mia sakura – Gardenia indicò in alto, verso l’enorme albero di ciliegio dal tronco bianco, unico per quanto Bianca ne sapesse, sotto il quale si erano fermate.
- E poi mi ha costruito questo flauto. Chissà chi gli ha detto che il mio si era rotto, dato che nessuno sapeva che io suono.
Ricordò di aver riso alla frecciatina della sua amica. Poi rimase solo il canto di Roserade, che aveva la capacità di far crescere più vigorose, e più velocemente, le piante e i fiori da cui erano circondate.
Quel ricordo l’aiutò a scaldarsi, mentre la neve ricominciava a cadere, lenta e silenziosa. Non riusciva però a raggiungere terra, in quanto in quella piccola radura la temperatura era completamente sbagliata. Faceva freddo, questo era logico, però c’era uno strano calore che sembrava venire irradiato dalle piante e dal terreno stesso. Bianca si tolse il guanto e allungò la mano, intenta a prendere una manciata di fiocchi di neve. Uno andò a finire sul suo palmo e si sciolse all’istante.
- Fa troppo caldo qui – disse Bellocchio.
- Io ho finito, possiamo anche andarcene – si tolse gli occhiali.
- Il caldo credo sia causato dalle piante. L’umidità che portano deve in qualche modo alterato la temperatura. Gardenia potrebbe darti una spiegazione migliore della mia, però.
- Siete molto amiche, voi due, vero? – Bellocchio s’inginocchiò davanti ai piedi di lei, prelevando un campione di terreno, per poi metterlo all’interno di una provetta.
- Sì, da molto tempo ormai. È la mia migliore amica, anche se non si direbbe, dato che siamo gli opposti.
Bellocchio alzò lo sguardo, puntandolo su di lei con fare indagatorio. Le parole non servirono, Bianca afferrò la domanda sottintesa.
- Beh, ghiaccio e neve contro erba e piante, freddo e caldo. Parlavo di Pokémon e delle nostre abitudini. Ma in realtà siamo molto più uguali di quanto non sembri.
- È per questo che hai una stanza per lei, quindi?
- Esatto, così quando vuole può venirmi a trovare. Ovviamente quando i nostri impegni ce lo permettono. Se questa radura continuerà a esistere, penso proprio di portarla qui. Secondo me, ne rimarrà stupita.
- Io non lo farei, se fossi in te.
Bellocchio si era rialzato e ripulito dal terreno che si era attaccato sulle sue ginocchia. Era a disagio in quel luogo. Aveva una strana sensazione e il cuoio capelluto continuava a prudergli. Più s’inoltravano fra i fiori, più la sensazione si intensificava.
- Perché? Questi fiori sono bellissimi.
- E con tutta sicurezza, saranno nati dal sangue di qualche altro Pokémon strano. Hai visto con i tuoi occhi quello che è successo con Abomasnow. Andiamo via, sento che c’è qualcosa che non va.
- Credevo fosse necessario molto coraggio per essere un poliziotto come te. Ti spaventano un po’ di fiori?
- No, mi spaventa quello che può esserci intorno a questi fiori. Non ho trovato orme, di alcun tipo. Nessuna traccia di sangue, linfa o altra roba almeno simile a quel liquido che emetteva Abomasnow. E siamo d’accordo sul fatto che questi fiori non potrebbero mai vivere qui fuori, senza qualche aiuto molto significativo.
Bianca ebbe qualche dubbio, Bellocchio glielo lesse in faccia. Parve però dimenticarsene velocemente.
- La Roserade di Gardenia è in grado di far crescere velocemente qualsiasi tipo di pianta o albero, e sono molto più grossi e resistenti di qualsiasi loro simile. Magari qualche Pokémon ha fatto lo stesso qui.
Mentre lei parlava, Bellocchio si allontanò un poco, andando verso una zona più esterna rispetto a dove si trovavano adesso, attratto da uno strano rumore secco. Seguendo il suo istinto, si diresse verso nord-est dalla loro posizione, camminando lentamente, attento a non produrre più rumore di quanto necessario. L’erba e le basse radici l’aiutarono in quello, attutendo di molto il peso dei suoi passi.
Nel frattempo Bianca volse la sua attenzione altrove, lasciando Bellocchio a ciò che stava facendo. Non aveva mai visto una cosa simile: neve e bianco all’esterno, mentre si trovava in una calda radura piena di piante e fiori impossibili da trovare lì. Si lasciò trasportare dalla curiosità, passando di fiore in fiore. Annusò quelli che stuzzicavano la sua attenzione, sfiorò i petali di quelli che gli parevano più belli. Prese fra le mani lo stelo di una primula che era nata all’ombra di uno dei grovigli di rose e, facendo attenzione alle spine, l’aiutò a liberarsi dalla morsa in cui si era ritrovata, spingendo delicatamente lo stelo del fiore al di fuori del cerchio di rami e spine che cascavano dai lati delle rose. Una volta soddisfatta della nuova posizione della primula, ritornò sui suoi passi. Provava simpatia per quei fiori, uno dei pochi che era abbastanza comune vedere spuntare negli immensi prati di Nevepoli, dopo lo scioglimento della neve o, in casi di grande ostinazione, la si poteva vedere resistere a una o due nevicate, intenta a sbucare fuori dal mare bianco candido.
La sua attenzione venne poi raccolta da un grosso tulipano che si ergeva da solo, al centro della radura. Svettava di almeno venti centimetri dal mare di fiori tutt’attorno, splendendo di un meraviglioso rosso acceso.
“Come ho fatto a non notarlo prima?” si chiese lei.
Si avvicinò al fiore, era talmente alto che Bianca dovette alzarsi sulle punte dei piedi per poterne odorare i petali. Il profumo le fece impazzire l’olfatto. Sapeva di estate, di pulito e al tempo stesso di cibo buono appena preparato. Non aveva mai sentito un odore simile. La fece quasi impazzire, mentre il suo cuore strabordava gioia. L’avrebbe estratto dal suolo in quello stesso momento, correndo poi a casa per piantarlo nel suo giardino e farlo crescere ancora di più, in modo da avere il suo “albero speciale” sotto il quale baciare il ragazzo che sognava di notte, mentre dormiva abbracciata al cuscino e immaginava di trovare il ragazzo perfetto per lei. Però gli insegnamenti di Gardenia la fermarono in tempo.
“Se una cosa è così bella, perché devi ucciderla per portarla a casa, quando puoi tornare sempre lì dove l’hai vista la prima volta e ammirarla vivere e crescere?” era solita ripetere lei.
E, a furia di ripeterlo insieme a Gardenia, Bianca ne aveva fatto anche il suo motto.
Lasciò quindi lì dove si trovava quel tulipano e, dopo essersi accertata della resistenza dello stelo, lo piegò leggermente verso di sé, prendendo poi un petalo fra le mani.
Quel fiore era incredibile: alla luce del sole, i suoi petali risplendevano come dei rubini, mentre delle piccole venature d’oro scorrevano al loro interno, facendogli cambiare colore e tonalità in base a come lo si guardava. Bianca ne rimase incantata.
Fu in quel momento che Bellocchio udì il sonoro crack che produsse uno dei suoi piedi. Abbassò lo sguardo, notando qualcosa di bianco e candido come neve, spezzato sotto il suo stivale. Si abbassò, incuriosito, allungando una mano per raccogliere l’oggetto. Gli bastò un istante per capire cosa fosse. Completamente bianco, senza una traccia di imperfezione o resto di carne, non ancora minimamente decomposto.
“Un osso… a chi è appartenuto?”.
Mentre s’indagava, rigirandosi quell’osso fra le mani, i suoi occhi si alzarono per puro caso.
- Oh mio… - le parole gli si bloccarono in gola.
Decine e decine di bianchi resti erano sparpagliati tutti d’avanti a lui, nascosti alla vista dalle enormi piante e fiori. Tutti completamente bianchi, sembravano essere stati spolpati completamente e poi bolliti, per rimuovere anche i minimi residui di carne, tanto erano perfettamente immacolati. Completamente in contrasto con il turbinio di colori che le circondava, quelle ossa erano come il lampo lanciato dalla lama di un coltello che saetta nel buio della notte.
Un’orribile sensazione gli attorcigliò le budella, mentre il cervello lanciava scariche lungo la sua colonna vertebrale, facendogli vibrare il corpo dal cranio alle piante dei piedi. Si alzò di scatto, continuando a sentire delle vibrazioni in tutto il corpo.
Si guardò le mani, quasi a volersi assicurare di non stare tremando completamente, per poi accorgersi che non c’era nulla di sbagliato in lui.
- Non sono io a tremare – sussurrò a bassa voce.
Poi capì.
E solo allora tremò di paura.
Ma ormai era troppo tardi. Si guardò intorno, alla ricerca di Bianca. Convinto che lei l’avesse seguito, aveva fatto l’errore di allontanarla troppo da lui. Mentre lui si trovava vicino la fine della radura, lei era proprio lì, al centro, vicino quell’enorme tulipano rosso. Rosso come il sangue.
L’idea del sangue gli balenò in mente e lui sperò che l’unica cosa di quel colore, nei momenti successivi, sarebbe stato quel tulipano che Bianca aveva fra le mani.
Avrebbe urlato il suo nome, l’avrebbe chiamata a squarciagola, ma per qualche strano motivo le parole gli morirono in corpo quando lei alzò gli occhi verso di lui.
- Bellocchio, c’è qualcosa che non va. Sento una specie di tremore sotto i piedi.
E poi ci fu il boato.
La terra stessa parve esplodere, mentre la radura scompariva in un attimo, più rapido del battito d’ ali di un colibrì. Bellocchio vide fiori e piante scomparire a gruppi sempre più grossi, mentre le zolle di terra ai suoi piedi si scomponevano e iniziavano a sprofondare, sempre più velocemente. Un solo salto, e sarebbe potuto essere salvo. Arretrò, uscendo dalla zona colpita dall’improvviso terremoto.
Dal centro della radura, gli occhi di Bianca si posarono per un istante sui suoi, prima di scomparire. Il tulipano era ancora in piedi.
“Ora!” Bellocchio fece due lunghe falciate, ributtandosi a capofitto fra la terra che continuava ad affondare. Saltò di zolla in zolla, utilizzando quelle spaccatosi dal resto e innalzate come appiglio più sicuro. Balzò dritto verso il centro della radura, evitando le voragini che iniziavano ad aprirsi sotto di lui. Un rovo di rose minacciò di cadergli addosso quando lui pestò una delle sue radici, utilizzandola come ponte improvvisato fra due grossi pezzi di terra che minacciavano d’inabissarsi da un momento all’altro. Alzò lo sguardo, cercando quel tulipano rosso, punto di riferimento come un faro in un mare in tempesta. Il rosso, che pareva emanare luce propria, lo raggiunse rincuorandolo come un capitano in balia delle onde viene rincuorato dalla comparsa regolare della luce del faro di un porto. Bianca riapparve al suo fianco. Appena lo vide, parve capire ciò che intendeva fare. La vide prepararsi non appena lui arrivava a portata di balzo da lei.
“Utilizzerò questo slancio per prenderla con me e correre dalla parte opposta, salvandoci”.
- Ora, Bianca! – urlò lui, sperando che lei l’avesse capito a pieno.
Allungò il braccio verso di lei e Bianca vi si aggrappò con tutte le forze, decisa a seguirlo.
Ci fu un ulteriore rombo nell’aria. Bellocchio volse la testa a sinistra, verso il tulipano che erano in procinto di lasciarsi alle spalle, quando lo vide inclinarsi.
Agì d’impulso. Tirò Bianca con tutte le sue forze, azzerando la distanza che li divideva. L’ultima cosa che riuscì a vedere furono gli occhi di lei. Bellocchio la chiuse nel suo abbraccio, avvolgendola con tutto il corpo, per proteggerla.
Poi ci fu la caduta.
Il mondo si chiuse sopra di loro, rendendo ciechi i loro occhi.
L’ultima cosa che Bellocchio sentì fu un dolore lancinante alla schiena, poi un piacevole torpore lo raggiunse nelle membra.
“Non è così male…” pensò.
Sognò di Matière, e Alberta.

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