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Andy Black - Unravel Me - Sedici. 16 (XVI)

UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).

 
“E credimi, oggi è solo silenzio.
Perché non saprei più che dirti, se non che forse hai perso la tua occasione per vivere la felicità come la intendo io.
Non come la intendi tu, sia ben chiaro.
Ma mi hai dato la forza per andare avanti, e cercare altro, nella vita.
Cercare qualcuno che mi meritasse davvero.
Tanto è sempre questione di tempo. Tempo che passa, tempo che abbiamo perso. Tempo.”.
Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 15 Luglio 20XX
Baby it hit so hard, I'm holding on to my chest… Maybe you left your mark, reminding me to forget…”
Aveva aperto il rubinetto del lavandino, Ruby, quello di casa sua.
Miscelatore a cascata. Bello da vedere.
L’acqua cadeva e lui la vedeva. Bagnava la lama del suo rasoio da barbiere prima di terminare nello scarico.
Alzò gli occhi verso lo specchio, vedendo lo spettro di quello che era sei mesi prima: volto smagrito e capelli leggermente più lunghi. Gli occhi erano più scavati nel viso, sembravano rubini incastonati in una pallida roccia.
La schiuma da barba era ben stesa sul viso, e lui cantava.

“It doesn't matter where you are, you can keep my regret… 'Cause baby I got these scars, reminding me to forget…”.
Whiteley aveva cantato un paio di volte quella canzone il giorno prima, in atelier, e a lui era venuta la curiosità di ascoltarla.
Miguel e Kygo. Gli pareva che quel musicista suonasse sempre la stessa canzone.
Però gli piacevano le parole.
Miguel era un bravissimo cantante. Ricordava un video musicale, non ricordava se fosse quello di Sure Thing o quello di Adorn, dove il cantante indossava il paio di occhiali più brutto che avesse mai visto in vita sua.
Il rasoio si poggiò leggero sulla pelle del ragazzo.
Una passata, nella mente ancora le parole della canzone.

Reminding me, I got these scars, get your love. Keep reminding me, ooh, to forget your love.
Gli sembrava che parlasse di lui, quella canzone.
Che parlasse di qualcosa che aveva deciso di chiudere in un baule incatenato e lanciato sul fondo del mare.
Nonostante tutto il dolore che aveva provato, quel baule conteneva pur sempre un tesoro.
Sapphire ancora nella sua testa, e ormai erano passati quasi due mesi da quando aveva voltato pagina.
Rase la guancia destra molto bene, tanto fu che, contropelo, non riuscì a sentire il minimo accenno di quella barba così ispida.
Sospirò, doveva abbandonare quei pensieri.
Ma quella canzone era troppo bella. Troppo azzeccata per quella situazione.
You left your mark…
E cantarla, automaticamente, lo riportava al punto zero.
Aveva lasciato Sapphire.
Abbassò lo sguardò verso l’acqua che continuava a fluire dal lavandino, sciacquò la lama e rimase a fissare se stesso, il suo riflesso, che pareva dirgli qualcosa, usando i soli occhi.
Okay, e allora? Hai lasciato Sapphire, è stata una stronza. Ma ora possiamo avanzare, per favore? Possiamo andare avanti? Perché, personalmente, ne ho le palle piene.
Stasera abbiamo QUEL matrimonio, QUELLO MOLTO IMPORTANTE, e tu non puoi portare con te quella faccia di cazzo che hai indosso.
Annuì.
Nuova vita, nuova casa, nuovo lavoro.
Fanculo il vecchio mondo, quello sarebbe dovuto essere un nuovo Ruby.
E poi, metà faccia rasata e metà sporca di schiuma, uscì dal bagno che aveva in camera, sentendo la il cellulare cantare Call Me Maybe.
Era Yvonne; gli aveva sottratto il cellulare una sera di qualche settimana prima e l’aveva impostata come suoneria personale.
Si controllò con un’occhiata veloce allo specchio, perché generalmente Yvonne non chiamava, videochiamava. Forse con metà faccia sporca di schiuma e il solo asciugamano attorno alla vita non era del tutto presentabile ma aveva imparato a non avere vergogna della bionda, in quelle occasioni.
Rispose, scivolando col dito sullo schermo.
Il volto della ragazza apparve schiacciato contro la videocamera.
“Oddio…” fece, allontanandolo subito. Ruby sorrise.
“Scusami, ma non mi chiami in un buon momento…”.
Hai fascino, mon amis… Avevo un piccolo dubbio”.
“Su cosa?”.
La telecamera di quella si spostò verso il letto, dove due vestiti, uno celeste e uno beige, erano stesi.
Quale scelgo?”.
Il ragazzo sospirò. “Che ne so, mica faccio lo stilista...”.
Stupide! Aidez-moi!”.
Ruby sorrise ancora e fece cenno di no con la testa. “Quello beige. E non perché sia un mio vestito, ma perché quando lo provasti avesti l’effetto wow su di me.
Yvonne spostò la videocamera sul suo volto, mostrandola con già i capelli fatti, arricciati in preziosissimi boccoli dorati, ed entrambe le sopracciglia alzate.
Effetto Wow?”.
“Eri parecchio bella, con quello. Risaltava le tue forme e t’illuminava il volto”.
Se non fossi gay ti dovrei sposare, per tutti i complimenti che mi fai…” sorrise.
“Seh, proprio… Piuttosto, a che ora pensi di arrivare lì?”.
In ritardo, évident...”.
“Cerca di non perderti la sposa”.
Non arriverò in ritardo, Ruby”.
Allora occuperò due posti, così ti siedi accanto a me”.
Quella sorrise. “Hai bisogno di un’accompagnatrice di livello, stasera?”.
Ruby annuì divertito. “Saresti un’accompagnatrice abbastanza costosa”.
Oh, ovviamente, mon cher! La più costosa di tutte. Ma ne varrebbe la pena”.
Non ebbe il coraggio di confermare; la salutò in silenzio e attaccò, lanciando il telefono sul letto e tornando in bagno. Allo specchio ancora la sua figura.
Metà faccia rasata e metà piena di schiuma.
Incompleta.
E se c’era di positivo che Carly Rae Jepsen aveva totalmente sostituito Miguel in quella litania mentale che si riproponeva ciclicamente tra un respiro e l’altro, dovette ammettere a se stesso che Yvonne quella sera rasentasse la perfezione.
Ma ne varrebbe la pena, aveva detto. Lui lo avrebbe confermato urlandolo con tutta la forza che aveva nel petto.
Quasi gli saltò in mente, poco prima di tirare giù una striscia di schiuma dalla sua guancia, che fosse tornato single dopo anni.
E che Yvonne stravedesse per lui.
Ebbe un fremito, un sussulto che gli mosse di poco la mano.
Si era tagliato leggermente sul volto.
“Cazzo…” sbuffò.
Sciacquò il viso e poggiò un pezzo di carta sulla ferita.
Ripensò a quell’idea malsana e ricordò le parole di White.
Non si caga dove si mangia. Yvonne è lavoro. Scopati il resto di Austropoli e dintorni ma lascia stare le mie ragazze. E Whiteley, please”.
“Lei è una ragazzina!”.
“Appunto. Lascia che prenda le telefonate e nient’altro”.
Poi l’aveva vista ammiccare e aveva risposto a una telefonata.
Venti minuti dopo era pronto.
Il cellulare tra le mani, la scarpa lucida che rifletteva il sole impietoso di quel luglio a cento gradi e la voglia di levare la giacca e darle fuoco.
Con quel caldo non ci sarebbe voluto molto.
Le strade cominciavano a esser leggermente più vuote: gli impiegati dei vari uffici andavano in ferie, portando con loro famiglie formate da mogli annoiate e figli avviati sulla pessima strada, verso mete esotiche o più semplicemente verso le zone di Unima dove la natura non era ancora stata sconfitta; difatti, la gran parte degli abitanti di Austropoli non era originaria del posto ma veniva convogliata nella capitale commerciale della regione dal bisogno di un lavoro di livello.
Del resto era una metropoli, quella. Sullo stesso marciapiede s’incontravano le stelle dell’hockey e del basket e gente del calibro di Marv il barbone.
Ruby lo aveva conosciuto qualche mese prima, col caldo che cominciava a premere, e gli aveva comprato una bottiglia d’acqua fresca.
Da quel giorno, Marv lo salutava ogni volta che lo vedeva passare. Si ricordava di lui, ed era difficile, considerato che viveva sul marciapiede più calcato di tutta Unima.
Di tanto in tanto lui gli dava qualche moneta. Non tutti i giorni.
Quel giorno Marv non c’era, e una strana sensazione gli pervase lo stomaco; quando però vide passare un taxi dimenticò tutto e agitò la mano libera.
“Si fermi! Taxi!” urlò, vedendolo accostarsi accanto a lui. Aprì la portiera, ammaccata giusto in mezzo, e si sistemò su quei sediolini infeltriti.
“Dove andare?” domandò Aziz, che quel giorno guidava la yellow cab targata 7C8a. Era la solita Ford Crown Victoria, ma sembrava che fosse uscita da poco dall’autolavaggio.
“Dobbiamo andare al molo 16”.
Quello annuì, guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore con espressivissimi occhi verdi.
“Isola di Libertà?”.
“Liberty Island, sì” annuì Ruby, alzando il cellulare e scattandosi un selfie.
Lo inviò a Yvonne e tornò a guardare avanti.
Una Cadillac bianca entrava sulla 4th Avenue mentre il semaforo diventava giallo.
Lui invece proseguì e sette minuti dopo il tassametro segnava dodici Pokédollari. Lui pagò quindici e ne lasciò tre di mancia, scendendo sulla piattaforma in legno che finiva dritta in mezzo al mare.
Non c’erano onde ma una brezza leggera scompigliava i capelli ai numerosi presenti sul molo. Il vociare s’accavallava coi sussurri del mare blu.
Liberty Island era un’ombra poco lontana a largo della baia di Austropoli; gl’invitati al matrimonio, tutti ben vestiti, eleganti e impomatati, aspettavano l’attracco del Syracuse, un vecchio battello rimesso a nuovo.
Non era molto lontano dal molo, sputava una nuvola grigiastra dalla ciminiera che andava a pittare la tela celeste del cielo.
Ruby camminava lentamente. Gli occhiali da sole nascondevano il suo sguardo carminio, che rimbalzava di volto in volto, analizzando rapidamente gli outfit di tutti gli invitati.
Deformazione professionale, forse.
Si fermò accanto a Kimberly, salutandola con un cenno del capo, poi prese il cellulare.
Mi sa che Marv è morto. Il battello sta per attraccare... Dove diamine sei, Yv? 11:05
No! Che ne sai?! Hai percorso la stessa strada che fai ogni giorno? Non è possibile! 11.08
 Meglio. Marv è troppo attraente per White. Ma dove cavolo sei? Sono qui da un casino di tempo! 11.09Già! Magari è lo sposo 11.09
Niente da fare, ho visto Black in una storia di Instagram e ha ancora tutti i denti in bocca 11.09
Alzò gli occhi, vedendola sorridere dolcemente.
In quel momento, lo stilista stava combattendo una lotta contro se stesso per convincersi di non andare da lei e baciarla, davanti a tutti, creando scalpore e mettendo in secondo piano il grande evento.
No, doveva essere forte.
“Non si caga dove si mangia”.
Comunque meglio così, Marv è troppo attraente per White. Ma dove cavolo sei? Sono qui da un casino di tempo! 11.09
Decise quindi di avvicinarsi a lei, alle spalle, e di cingerla lentamente.
Quella sobbalzò, voltandosi subito e rilassandosi non appena poggiò lo sguardo sul ragazzo.
“Stronzo… Mi hai fatta spaventare. Dov’eri?”.
“Lì”.
Lei fece un passo indietro e squadrò il ragazzo, indossando un sorriso compiaciuto sul volto.
“Sei uno schianto, Normanson”.
Lui ringraziò gentilmente con un cenno del capo e la prese per mano, facendole fare una piroetta.
“E tu sei un sogno”.
Lei si fermò, poggiando le mani sulle spalle del ragazzo, felice.
“Grazie. Il tuo vestito è meraviglioso”.
“Sei tu che lo rendi tale” fece, sistemandole l’orlo poco sopra al seno.
La gente guardava, parlava, ma loro sembravano essere totalmente isolati dal resto delle persone che, impaziente, aspettava che il traghetto attraccasse.
Venti minuti dopo erano a bordo. Il Syracuse si muoveva lento, scivolando sul mare della baia in direzione di Liberty Island. Yvonne sorrideva, mentre il vento le spettinava i capelli davanti al volto, appoggiata alla balaustra sul ponte di poppa. Qualcuno aveva graffiato la ringhiera con una chiave o qualcosa di simile, scrivendo FUCK TRUMP, FUCK THE WALL, VATO 4 LIFE.
“Che significa Vato?” domandò quella, avvicinandosi a lui.
Quello non sembrò assai interessato a risponderle, limitandosi a fare spallucce e a sistemarle i capelli sfuggiti dalla crocchia.
“Non lo sai?” domandò ancora.
“No. Non so tutto”.
Quella sorrise e annuì. “Vero. Tu non sai quasi nulla, a dire il vero”.
Frecciatina bella e buona, lui si limitò a sbuffare e a fare cenno di no con la testa.
“Che succede?” domandò lei, invitandolo a sedersi su di una panca, la cui vernice era stata mangiata dalla salsedine.
“Sapphire…”.
Lei spalancò gli occhi, per un istante, quindi abbassò lo sguardo.
“L’hai sentita?”.
“No… Non l’ho sentita, no. È che è dura lasciarsi alle spalle una storia del genere, per me”.
“Lo sarebbe per chiunque, Ruby…”.
Lo fece sorridere. “Adoro quando mi chiami usando quell’accento…”.
“Est-ce que ça vous fait rire mon français?”.
“Non mi fa ridere il tuo francese… rido per il modo in cui dici Ruby, in francese. Come se dicessi Rubì. Mi diverte”.
Lei inarcò un sopracciglio, accompagnandolo con un sorriso a mezza bocca.
Ruby! Ruby! Rubyrubyrubyruby!”.
“Smettila ora” ridacchiò l’altro.
“Se può farti stare meglio, allora continuerò a chiamarti così…”.
Lui non se ne accorse, ma Sapphire era sparita. Era bastato che Yvonne lo chiamasse per nome.
Se ne rese conto al momento dello sbarco a Liberty Island.
Quella non era altro che un grosso scoglio al centro della baia di Austropoli. Molto grosso.
Al centro di essa vi era un alto faro, che per l’occasione era stato rimesso a nuovo per la celebrazione.
Sulla sinistra, un piccolo altare bianco era protetto da un arco di meravigliosi fiori bianchi.
Un lungo tappeto bianco si stendeva per quasi cinquanta metri, accompagnando gli invitati al matrimonio verso le sedie.
C’erano molte sedie.
C’erano molti invitati.
Il vento soffiava leggero, il mare era leggermente più impetuoso che ad Austropoli ma non infastidiva.
“Permesso” disse l’uomo dal colletto bianco che li scavalcò velocemente. Aveva poco più di sessant’anni, ma la tunica talare aderiva sul suo corpo asciutto.
Pochi capelli in testa, tutti perlopiù bianchi, qualcuno biondo.
“Forse siamo arrivati troppo presto” osservò Yvonne. Ruby però fece cenno di no: aveva appena guardato l’orologio.
“Siamo in perfetto orario”.
Due ragazze, che avevano poco meno di vent’anni, cominciarono a spargere qui e lì petali di rose bianche, mentre le persone, incuriosite e meravigliate dalla bellezza della location, si mettevano a sedere.
C’era profumo di mare, lì. C’era profumo di fiori.
Yvonne sbuffò e diede un leggero colpetto al braccio di Ruby.
Quello, che al contrario aspettava pazientemente, si voltò verso di lei.
“Che vuoi?”.
“Pensavo al matrimonio”.
Quello levò gli occhiali da sole e la vide sorridere, avvampando.
“Non guardarmi così!”.
“A che pensavi?”.
“Che è inutile”.
Ruby rise di gusto. “Sei la donna più romantica che abbia mai conosciuto”.
“Stupido! È che non c’è alcun bisogno di una cosa così pomposa per giurarsi amore eterno”.
“Lo fai davanti ad Arceus. È un sacramento”.
“Io non credo in Arceus” ribatté l’altra. “Io credo nel caso, che fa conoscere due presone… me e te, per esempio… e le fa innamorare”.
I suoi occhi si riempirono di luce, prima che sfuggissero alla morsa dello sguardo di Ruby. Avvampò e si mordicchiò il labbro inferiore.
“Me e te?”.
“Per esempio” sorrise ancora, facendo innamorare chiunque riuscisse a vederla.
Anche Ruby si vestì di un sorriso sommesso, quasi nascosto dall’espressione semiseria che manteneva sul volto.
Avrebbe voluto baciarla, in quel momento, ma la faccia di Sapphire ancora appariva come un grosso stop davanti ai suoi occhi.
Eppure lei glielo stava chiedendo senza parlare; sentiva la scintilla partire dagli occhi rossi del ragazzo, che terminava dritta nei suoi, e si era disposta di fronte a lui, stringendogli la mano.
Quasi come se gli stesse dicendo vieni. Vieni e prendimi.
Yvonne però non era stupida: capiva. Capiva che ci fosse ancora il nome della sua vecchia donna sulla barriera mentale che si stava imponendo.
Eppure che cos’era, quel bacio? Il classico apostrofo rosa?
Oppure una via di fuga da quella condizione?
Non lo sapeva, Ruby. Si limitò a girarsi dall’altra parte, a infilare nuovamente gli occhiali e a guardare un ragazzo snello e atletico, dai capelli neri e corti e dallo sguardo minuscolo, nascosto dietro un paio di doppie lenti, che si avviava verso il posto riservato ai testimoni, sulle prime panche.
“Quello è Komor” fece lei. “Un amico d’infanzia di White. Me ne parlò qualche volta e vidi una foto a casa sua”.
“Sei stata a casa di White?” domandò Ruby, curioso.
“Sì, qualche volta. Abbiamo un buon rapporto”.
“È il testimone di Black?” chiese ancora l’altro, cambiando discorso. La vide fare spallucce, allungando il collo per fissarlo meglio.
“Non è male…”.
Ruby si voltò verso di lei, guardandola sorridere civettuola. Era infastidito dalla cosa. Ancora doveva rendersi conto di esser geloso della modella che aveva accanto.
“È un bell’uomo… ma accanto a te ho sempre visto un altro tipo di persona”.
Yvonne lo guardò silenziosa, fissandolo per qualche istante.
“E che tipo di uomo vedresti accanto a me?”.
“Mah… un tipo più… alto? Più prestante?”.
“Come lo sposo?”.
Lo indicò con un gesto della testa, la bionda, facendo girare Ruby.
Black camminava al centro del tappeto, sorridendo e salutando i propri conoscenti con rapidi cenni e strette di mano sfuggenti.
“Lui è alto e prestante” continuò Yvonne, fissandolo l’uomo chiuso nel suo gessato nero. La cravatta era ben stretta attorno al collo, tutti i bottoni erano chiusi saldamente. Era un uomo bellissimo, dalla pelle dorata e dai capelli castani, mossi e lunghi fino alle spalle. Gli occhi, di un bellissimo color nocciola, gli splendevano sul viso.
“Lui è il marito del nostro capo”.
“Non ancora…” ridacchiò ancora Yvonne, vedendo una sua collega, seduta alla panca davanti, voltarsi scioccata.
“Mi stai dando fastidio…” proseguì lo stilista, vedendola continuare a sorridere.
Non cambiò espressione, la bella di Kalos, rimanendo impassibile. “Sei geloso?”.
“Smettila”.
Si era bruciato la copertura, e la cosa gli dava fastidio. La sentiva ridere dall’altra parte della barriera, mentre lui ancora non riusciva a comprendere perché dicesse quelle cose.
Anche Ruby avrebbe potuto dirle che vedeva in continuazione bellissime donne, quasi sempre nude, ma non glielo faceva pesare.
Poi si rese conto che Yvonne avesse ragione. Era davvero geloso.
Merda…
Non era un mistero che gli piacesse Yvonne. Il mistero era che ne fosse geloso.
Qualche minuto dopo l’organo a canne, nascosto da un sobrio separé bianco, cominciò a suonare la marcia nuziale.
“Eccola!” esclamò Yvonne, sorridente.
White era meravigliosa, nel suo vestito da sposa.
Il lungo velo veniva portato da una bambina bionda, dai grandi occhi azzurri, e da una donna, che le somigliava tantissimo; bionda anche lei, occhi azzurri anche lei, indossava un abito color pesca che non nascondeva qualche rotondità in eccesso.
“Quella è Belle… la sua migliore amica” aggiunse.
“Non conoscevo nulla del passato di White, a quanto pare”.
Yvonne fece segno di no con la testa. “Non biasimarti. Non ne parla mai…”.
“Come se avesse qualcosa da nascondere”.
“Come se quelle persone fossero legate a qualcosa di doloroso e sbagliato”.
La sposa continuava a camminare, sorridente ed emozionata, salutava con la mano destra tutti gli invitati, indugiando su Ruby e Yvonne.
Comme c’est beau!” esclamò lei, che si stava commuovendo. Agitò le mani davanti agli occhi e respirò profondamente, cercando di calmarsi “Dieu, si je pleure l’astuce est fondue…”.
Ruby ridacchiò.
“Appunto… non piangere”.
“Ma guardala!”. Allungò poi la mano verso di lei, vedendola avanzare felice in direzione del suo uomo, altrettanto felice, altrettanto sorridente. “È meravigliosa!”.
“È vero…” sussurrò Ruby, con una vena malinconica nella voce.
White raggiunse quello che qualche minuto dopo diventò suo marito. Il vento aveva alzato i petali di rosa che avevano cominciato a turbinare lungo tutta Liberty Island, trasformandola in un’isola bianca.
Si scambiarono i fatidici , si baciarono, Belle pianse e Yvonne pure, cercando di nascondere lo sguardo dietro le mani smaltate.
“Hey…” le disse Ruby, sorpreso da quella sua reazione. “Non eri quella che credeva che il matrimonio fosse inutile?”.
Tais-toi, scem…”.
“Va bene” sorrise Ruby. “Starò zitto…”.
White sorrideva.
Era raggiante tra le braccia di Black, che la stringeva con vigore e ripercorreva al contrario il lungo tappeto bianco sul quale avevano camminato da persone libere, l’ultima volta.
Yvonne s’era calmata. Aveva stretto il braccio di Ruby e sorrideva, ingentilita dalla vista di un amore realizzato.
Camminarono tutti verso il faro.
L’enorme struttura era stata illuminata integralmente e le pareti interne erano ricoperte da grossi drappi di tulle bianco.
Yvonne e Ruby erano al tavolo coi testimoni di nozze.
Komor si accomodò accanto a Yvonne, serio, quasi cupo. Yvonne lo guardava e Ruby guardava Yvonne.
“Salve” lo salutò lei. Gli tese la mano. “Yvonne Gabena. Sono una delle modelle di White”. L’altro la guardò, inarcando un sottilissimo sopracciglio e sorridendo con distaccata gentilezza.
“Salve. Sono Komor, un amico d’infanzia di Black”.
Quella diede totalmente le spalle allo stilista, che assisteva contrariato alla scena.
“Anche tu sei un grande Allenatore?”.
“Io sono un professore”.
Quella spalancò gli occhi. “Vraiment?! Où?”.
L’espressione che indossò il ragazzo fece sorridere Ruby.
“Ehm… Io non parlo il francese”.
“Ti chiede dove lavori…” s’inserì quello dagli occhi rossi, che poi vide Belle e la piccola Beatrix accanto a loro. Salutò con un cenno del capo la donna e sorrise alla piccola, tornando a guardare in cagnesco Komor, seppur nascosto dall’esile figura di Yvonne.
Quello si aggiustò il colletto della camicia e rispose.
“Alisopoli”.
“Oh, non ci sono mai stata”. Si voltò rapida verso Ruby. “Ci sono mai stata?”.
“Cosa dovrei saperne io?”.
Quella ridacchiò, per un breve attimo. “Ti ho fatto soltanto una domanda, Ruby…”.
Il ragazzo roteò gli occhi verso l’alto e sospirò, alzando la testa e cercando di vedere oltre il piccolo palchetto circolare al centro del vasto atrio.
“È un paesino molto piccolo…” le rispose Komor, vedendo poi la ragazza annuire e poggiare una mano sul suo braccio.
“Piccolo?”.
“Sì. Estremo oriente di Unima. Lì tira sempre un piacevole vento d’aliseo”.
Ruby non lo sopportava.
Hai davanti la donna più bella del mondo e le parli dell’aliseo…
Beatrix cominciò a urlare, il vociare della folla aumentava sempre di più, fino a quando la sua insofferenza non lo portò ad alzarsi.
Yvonne lo vide andar via ma non gli diede molto peso, continuando a parlare con Komor, e la cosa infastidì Ruby non poco.
Era geloso di lei, era ufficiale. Tuttavia sapeva che innamorarsi di quella donna non fosse una buona idea.
No.
Sbuffò; non era mai stato tanto pieno di dubbi come in quel momento.
Guardava la gente divertirsi e si chiedeva come mai non potesse indossare lui stesso quel sorriso disinteressato, quasi stanco e annoiato che tutti portavano sul viso.
Era forse Sapphire la ragione?
Perché non riusciva ad abbandonare il peso che quella donna gli aveva gettato sulla coscienza?
Prese il cellulare, guardando la tastiera.
Erano passate settimane intere senza che l’orgoglio gli permettesse di telefonarle.
Ora era lì, davanti al mare, con tutti che si divertivano e Yvonne che faceva la stronza con Komor.
White era poco lontana, scattava delle fotografie con Black sulla costiera.
Quell’uomo era strano: esprimeva una sensazione di libertà estrema a ogni sguardo che lanciava in giro.
E nonostante tutto aveva deciso di perdere la propria libertà e di rimetterla alle volontà di sua moglie. E viceversa, certo.
Non sapeva come interpretare l’idea, in quel momento, eppure poco più di un mese prima era decisissimo a lanciarsi in quel vuoto fatto di routine e sesso coniugale.
Di spese da gestire e liti inutili.
Di calda familiarità e freddo odio/amore, che inizialmente è amore e che rimane, dopo anni, soltanto lo stelo di un fiore dilaniato dalla tempesta, che aveva perso tutti i suoi petali.
Si voltò, guardando Yvonne. Poi abbassò lo sguardo sulla tastiera.
Doveva chiamarla?
No.
Rimise il cellulare nella tasca e sospirò, appoggiandosi alle balaustre, e rimase lì a fissare il mare per venti minuti buoni, prima che gli sposi salissero dalla scogliera e gli si avvicinassero.
White sorrideva raggiante. Sul suo viso le gote erano arrossate, come quelle di una bambina.
“Oi, stilista…” fece, cingendogli il collo e baciandogli la guancia. Gli lasciò il segno del rossetto.
“Il tuo abito è fantastico, Rù. Grazie. Grazie, davvero” continuò quella, che mai era stata così bella agli occhi del suo socio. Black aspettava in silenzio alle spalle della Presidentessa, che intanto sbuffò.
“Fa davvero caldo, oggi”.
“I capelli” osservò Ruby.
Quella spalancò gli occhi. “Cos’hanno che non va, i capelli?”.
Sorrise, lo stilista. Le si avvicinò e le sistemò la crocchia.
“Ora va bene. Complimenti e auguri per tutto”.
Quella si limitò a sorridere e ad abbassare la testa, in segno di ringraziamento. “Noi entriamo”.
“Salve” si limitò a commentare Black, sorridendo gentilmente e seguendo sua moglie.
Poi guardò Yvonne. Si era voltata a guardarlo e sorrideva.
Tornò a parlare con Komor, trascinando uno sguardo lascivo.
Ruby aveva capito.
*
Menù di pesce, ottimo, unito a un tavolo dove una bambina piangeva imperterrita. Yvonne, la sua accompagnatrice, di fatto non lo accompagnava.
Qualche foto, il calore e l’apprezzamento per la location, e poi la cerimonia che tirava tardi, almeno fino a quando il cielo non fosse diventato blu, e le prime stelle si fossero affacciate alla finestra.
Ascoltava disinteressato le chiacchiere futili della modella e del professore, aspettando che quel tripudio dell’autocelebrazione dell’amore terminasse, e che il battello li riportasse sulla terraferma.
Doveva soltanto avere pazienza.
Yvonne parlava di Kalos e della sua infanzia; stava dicendo a quel perfetto sconosciuto tutti gli affari suoi, e la cosa lo infastidiva non poco.
C’era davvero bisogno di fare tutte quelle public relation, per una scopata col testimone di nozze?
Secondo lui no.
Anche perché Yvonne avrebbe potuto levarsi lo sfizio in un quarto d’ora, chiusa nel bagno di quel faro.
Stava pensando ancora a Sapphire quando poi Belle gli poggiò una mano sul braccio.
Si voltò lentamente, lui, guardando per un attimo Beatrix addormentata tra le sue braccia.
“Che succede?” le domandò.
Quella rimase un attimo in silenzio, per poi sorridere gentile, come suo consueto.
“No, nulla. È che non ho ancora avuto l’opportunità di presentarmi… Mia figlia oggi ha fatto gli straordinari e poi è crollata, sfinita…”.
“Ha due polmoni notevoli, la bimba”.
Quella sorrise. Era carina, seppure un po' troppo in carne per i suoi gusti.
“Lo so, mi spiace… Komor e… Yvonne, giusto? Loro stanno parlando da quando ci siamo seduti, e non sono sembrati infastiditi molto dalle sue grida…”.
Ruby inarcò un sopracciglio. “Oh, ma non sono infastidito da tua figlia. Io sono infastidito in generale”.
Belle sorrise ancora, passando la mano destra tra i capelli. Abbassò per un attimo lo sguardo e sospirò, raddrizzando la forchetta e il coltello e ponendoli perfettamente paralleli.
“Apprezzo molto i tuoi vestiti, sai?”.
“Ti ringrazio davvero tanto”.
“Vorrei avere la capacità che hai tu di immaginare certe cose e realizzarle… Sei un artista, in fin dei conti”.
L’altro avvampò.
“Non faccio nulla che non mi venga naturale”. Alzò poi la mano e la poggiò su quella di Yvonne, interrompendola ma senza rivolgerle la parola. “Poi, con lei accanto è tutto più semplice. Pare che gli abiti le si poggino automaticamente addosso…”.
Quella aveva sentito.
Guardava Komor, che aspettava che lei terminasse la frase che aveva cominciato, tuttavia non vi riusciva.
Si voltò e guardò Ruby, voltato dall’altra parte.
Lui vide Belle distogliere lo sguardo, e capì che Yvonne lo stesse fissando. Ritrasse quindi la mano dal suo polso e incrociò le braccia.
“Ci sono tante modelle, in atelier, e per molti questo è un paradiso… Il fatto è che voi donne siete complicate, e questo mondo è come una graticola. Sono fortunato perché, tranne questa bionda qui, non ho prime donne che sfilino per me. Sono tutte gentili e…”.
Qu'est-ce que cela signifie Primadonna?”.
Ruby si bloccò e si voltò. Le parlò in francese.
Écoutez-vous ce que je dis pendant que vous parlez au professeur?”.
Je vous entends, comme vous parlez de moi!”.
“Je parle de mes modèles, et vous en faites partie, c'est tout”.
Lo sguardo di Yvonne era appuntito. Poi annuì e prese Komor per mano.
“Usciamo un po’ fuori… Qui l’aria è pesante”.
“Certo” rispose lui.
La vide sculettare via fino all’ingresso. Ruby l’accompagnò con lo sguardo e un sorriso amaro.
“Scusami se mi permetto…” s’inserì Belle. “Ma quella è la tua ex?”.
Rise, lui. “No. La mia ex probabilmente adesso è su un albero a mangiare banane”.
“Oh… No, perché mi sembri piccato da... Komor. In più siete gelosi l’uno dell’altra e sembra quasi che stia facendo di tutto per farti innervosire”.
“Yvonne è così”.
“Così come?”.
“Stronza” fece, alzandosi in piedi. “Con permesso”.
Uscì fuori e si guardò intorno, cercando la figura esile e sottile della donna che l’aveva accompagnato lì, trovando però soltanto Black, con un bicchiere di spumante e lo sguardo perso nel mare scuro.
Lui gli sorrise, con un cenno della testa. “Ruby, vero?” domandò.
Gli porse la mano, lo stilista la strinse e gli sorrise educatamente.
“Prima non ci siamo presentati, hai ragione”.
“White parla sempre di te. Ti ho visto spesso in televisione”.
Bevette un sorso di champagne e poggiò il bicchiere sulla balaustra, conscio che, pochi secondi dopo, un cameriere con la divisa bianca e la cravatta nera lo avrebbe rimosso e portato via.
La palla passò a Ruby.
“Di te invece conosco veramente poco… Quando siamo in ufficio, White è telegrafica su ciò che non riguarda il lavoro…”.
“Ah, beh, è così fin da quando era una ragazzina, credimi… La testa per gli affari e l’attitudine al lavoro…”. Sorrise poi, mostrando la dentatura perfetta. “È incredibile come abbia scelto di starmi accanto… siamo agli antipodi, io e lei”.
Sapphire bussava di nuovo alla sua mente.
“Beh, non sempre bisogna essere la stessa persona in due corpi diversi, per provare le stesse emozioni”.
“No, non lo metto in dubbio… Ma quando ero piccolo non avrei mai pensato di stare con una donna così importante…”.
“Oh, beh, se ti può consolare non avrei mai pensato che un uomo le resistesse accanto così a lungo senza impazzire, quindi meriti una medaglia al valore”.
Risero entrambi, e poi si creò quel silenzio imbarazzante che entrambi s’impegnarono a riempire con le parole.
“Nonostante tutto, White è una donna meravigliosa… Ha i suoi difetti, come tutti, ma è in grado di amarmi come mai nessuno è stato in grado di fare…”.
Ruby si affacciò alla balaustra, guardando il mare scuro.
“Come vi siete conosciuti?”.
“Ero un ragazzino. Avevo forse tredici, quattordici anni… Lei già gestiva la sua società, e un giorno, non ricordo neppure dove fossi a esser sincero, le distrussi un set pubblicitario… Da allora non le staccai gli occhi di dosso…”.
“E come hai finito per girare il mondo? Insomma, se l’amavi da allora non dovette esser semplice prendere la decisione di andar via”.
“Il suo lavoro era qui ma io ero saturo di Unima… Certo, è una regione varia, piena di tutto, si va da un eccesso all’altro senza molti problemi. Ci sono mari e montagne, campi aperti e metropoli… C’è la Lega… Ma poi, una volta che l’hai girata tutta, ti rendi conto che al di fuori, lontano da qui, ci sono altre cose da vedere, altre persone da conoscere… Altre cose da fare”.
“Sei un viaggiatore”.
“Esattamente. Non riesco a stare tanto tempo fermo in un punto. Ho bisogno del cambiamento. Della novità…”.
“Un tempo anche io ho fatto un viaggio, sai? Proprio come uno dei tuoi… Certo, non mi allontanai come facesti tu ma sostanzialmente stetti 80 giorni lontano da casa… E non ho mai avuto la voglia di tornarci”.
Fece ridere Black.
“Ti capisco. Ma sai, poi tutto cambia, a un certo punto”.
Ruby annuì e, sulla scogliera, vide Yvonne e Komor che continuavano a parlare. Da lontano, si sentiva il rumore del battello a vapore, pronto a riaccompagnare gli invitati a casa.
“E White ha sempre accettato la tua distanza?”.
“No. Mai. Abbiamo avuto molti problemi ma alla fine ho deciso di cedere io, per non perderla”.
Sapphire bussava ancora alla sua mente.
“E l’hai sposata”.
“Sì, ma non devi pensare che io sia stato costretto. Ormai ho quasi trent’anni, ho visto tante cose nella mia vita e posso dirti che avere una moglie e occuparmi della mia casa, in questo momento, può diventare una nuova sfida. Il fatto è che ho sempre avuto accanto una donna speciale, e non me ne sono mai accorto. Io e mia moglie abbiamo fatto pochissime cose insieme, e non sai quanto io mi stia pentendo di questa cosa”.
Sapphire sparì dalla mente di Ruby. Ormai guardava Yvonne, lui.
“Però…” continuò “… sono cosciente di aver chiuso un capitolo della mia vita. Non servirebbe a nulla rimuginare sul mio passato e su quello che sono… renderebbe sterile la mia capacità di vivere il mio presente e costruire il mio futuro…”.
Yvonne bussò alla sua mente.
“Hai ragione…”.
“Io sono del parere che le opportunità debbano essere colte non appena si presentino… Sono sempre stato molto sanguigno, ho sempre pensato poco alle conseguenze, a ciò che facevo, ma posso garantirti che trovare una persona che ti appaghi e che ti faccia sorridere è l’obiettivo di una vita intera. Non contano i soldi, non contano le ambizioni. Contano solo i sogni. E se i tuoi sogni vedono accanto a te una persona come White, non devi fare altro che metterti in mezzo a una strada e aspettare che lei, col suo modo di fare, t’investa. Semplice”.
Ruby rise. “Metafora appropriata”. Poi tornò serio.
“Quella Yvonne… la ragazza che sta parlando col mio amico Komor… che tipo è?”.
Ruby si voltò a guardare lo sposo.
“La ragazza più sbagliata che c’è, per Komor”.
Black s’accigliò. “Perché?”.
“Perché sono innamorato di lei dal primo momento che l’ho vista”.
Il battello attraccò e la gente cominciò a scendere, mentre i due rimanevano immobili. Quello dagli occhi rossi distolse lo sguardo, poggiandolo poi su di lei.
Non si accorse del sorriso divertito dell’altro.
“Beh… È arrivata l’ora di tornare a casa. Spero d’incontrarti più spesso, ora che sei qui ad Austropoli”.
“Senz’altro” concluse l’altro, dandogli una pacca sulla spalla e raggiungendo White, che lo cercava con lo sguardo vicino alla scalinata.
Forse era la prima volta che lo ammetteva a qualcuno, Ruby.
Era innamorato di Yvonne e il fatto che Sapphire lo marcasse a uomo in quel modo, anche se non fosse più parte della sua vita, stava per rovinare tutto.
Doveva parlare con lei.
Raggiunse di corsa la scogliera ma la sua accompagnatrice e il professore non c’erano.
Si guardò intorno, impanicato.
Non possono essere andati a chiudersi in bagno proprio ora… Il battello è qui, dobbiamo tornare a casa!
Il buio mangiava ciò che le luci del faro non riuscivano a illuminare e nulla era davvero ben visibile, lì. Neppure le persone.
“Yvonne!” la chiamò. Nessuno rispondeva.
Il cuore batteva forte e il rimorso per non aver subito fatto capire a Komor che quella fosse la donna della sua vita lo stava lentamente consumando da dentro. Girava la testa a destra e a sinistra, compulsivamente, a intervalli rapidi di qualche secondo, cercando di capire dove si trovasse la donna, prima che qualcuno gli si avvicinasse e gli poggiasse la mano sulla spalla.
“Yv!” esclamò, voltandosi. “Oh… sei tu, Kim…”.
Quella sorrise a mezza bocca. “Non ho mai visto una persona così felice di vedermi…”.
“Cercavo Yvonne”.
“Lo so. È già a bordo”.
Gli occhi del ragazzo s’illuminarono.
“Grazie!”
Scattò come una gazzella, saltando sul moletto e scavalcando la fila, fino a quando non si trovò all’interno del battello.
C’era confusione, lì. C’era gente.
L’ansia continuava a fare il suo dovere e intanto le paranoie lo tormentavano.
Non può scegliere quel professore!
Si avvicinò al bar, muovendo qualche passo. I suoi occhi analizzavano decine di volti, capendo però che nessuna di quelle persone avesse un vestito come il suo.
Insomma, erano poche le donne con un vestito beige, quella sera.
E si concentrò su di loro.
Erano tre, su quasi cento, in tutta la parte interna della nave; aveva controllato al bancone del bar e tra le poltroncine della sala interna, fuori alle balconate laterali e persino nel bagno delle donne, dove la fila era diventata considerevole. Tuttavia, lì Yvonne non c’era.
Forse è andata fuori...
Salì rapidamente le scale, spintonando una donna dal lungo vestito rosso (poco sobrio in un’occasione come quella) e arrivò sul ponte di prua.
Ma lì non c’era davvero nessuno, se non due donne che si baciavano dolcemente.
Non indugiò su di loro e guardò il corridoio laterale sinistro, vedendolo pieno di gente.
White stava salutando la folla dal molo.
Beh, l’avrebbe rivista l’indomani, non si sarebbe offesa se non si fosse affacciato a dire ciao a lei e a suo marito.
Attraversò la folla, cercando il vestito beige che gli avrebbe dato la sicurezza che, effettivamente, Yvonne fosse lì.
Ne trovò uno, ma apparteneva a un’anziana donna che agitava un fazzoletto in lacrime.
Dove diamine sei, Yv…
Rimaneva solo il ponte di poppa, dove erano seduti all’andata.
Lo raggiunse col fiatone, guardandosi attorno con la testa che girava.
E poi la vide.
Seduta al loro posto, con le braccia conserte sulla pancia e la pochette appoggiata sul sedile accanto a lei, a occupare il posto.
Guardava il faro con un sorriso malinconico.
Lui le si avvicinò, da dietro. Le poggiò una mano sulla spalla e sospirò.
“Ti ho cercata… dappertutto…” fece, ansimando.
Quella alzò lo sguardò e gli sorrise.
E quando succedeva, quando il sorriso le fioriva in viso, era primavera.
“Sono tornata qui. Pensavo volessi parlare con Belle tutta la sera e non volevo disturbarti”.
“Adesso ti ammazzo” fece, alzando la borsa e sedendosi.
“Ehm… è occupato”.
Gli occhi di Ruby si spalancarono, gettandosi in quelli di ghiaccio di Yvonne.
Il cuore batteva forte.
Sta tornando a casa con Komor.
Non riusciva a crederci. Il volto di Yvonne era così gelido da fargli intendere quanto fosse sgradito seduto lì, dove sarebbe dovuto esserci un altro uomo.
“… Mi spiace. Mi alzo subito, scusami…”.
Quella lo vide ripoggiare la borsa e camminare lentamente verso la balaustra.
FUCK TRUMP, FUCK THE WALL, VATO 4 LIFE.
Vi si poggiò sopra, vedendo il mare sotto di lui diventare mano a mano più scuro.
Il faro si allontanava.
“Guarda che scherzavo” sentì sorridere l’altra. Si voltò rapido, trovandola con la borsetta tra le mani. “Ti sei incupito…”.
“Già”.
Yvonne si alzò e gli si avvicinò, prendendogli la mano. “Tutto bene?”.
Ruby rimase in silenzio. Sospirava, o forse ancora ansimava, lei non lo sapeva.
Abbassò la vista e vide l’incisione sulla ringhiera.
“Komor mi ha spiegato che significa Vato”.
“So che significa Vato” le rispose rapido.
“Mi vuoi dire cosa c’è che non va?”.
Il ragazzo sorrise a mezza bocca, la parte che lei non riusciva a vedere, quindi si voltò. “No. Perché non lo so”.
Guardò le labbra di Yvonne schiudersi leggermente, assumendo quell’espressione confusa che lui adorava. “Non capisco”.
“Lo so, che non capisci. Neppure io capisco”.
Tornò a guardare dritto, mentre Liberty Island tornava a essere una luce intermittente al centro della baia di Austropoli.
“Sembra che tutto debba andare male, nella vita. Non riesco a esser sicuro più di niente…”.
“So che è un momento difficile per te ma io e gli altri ti siamo tutti vicino”.
“Non è questo, quello che intendo” le rispose, rude.
“Ti ho fatto qualcosa?” domandò, spostandogli il viso in modo da poterlo guardare negli occhi. “Perché nel caso non era mia intenzione… Non ti farei mai del ma…”.
“No, non sei tu. Sono io. Ce l’ho con me”.
Yvonne sbatté le palpebre per qualche secondo, abbassando lo sguardo in cerca di un’illuminazione, che tardò ad arrivare.
“In che senso?”.
Sbottò.
“Nel senso che non sono pronto! Io non sono pronto a gestire le cose! E l’universo non può aspettare me, che prenda coraggio! Ho fatto tardi con Sapphire e ho sbagliato anche con te!”.
Yvonne fece cenno di no a una persona alle spalle di Ruby, facendo cenno di andarsene e lasciarli stare; lui neanche se ne accorse.
“Eppure ho sempre cercato di essere una persona onesta! Di combattere tutti… tutti gli istinti che… che mi avrebbero trasformato in un animale, ecco! Perché quando mi convinco ad affondare il colpo, l’universo mi leva il piatto davanti?!”.
“Uff…”. Yvonne si limitò a sbuffare, stringendo Ruby in un abbraccio. Sentiva il suo profumo, pungente. Le piaceva.
Lo percepiva avvinghiarsi alla sua esile struttura, arrampicandovisi come se la nave stesse affondando.
Ha bisogno di una mano. Lui è solo… Proprio come me.

*
Mezz’ora dopo il battello sbarcò al molo 16. Tutti si disposero educatamente in fila per scendere, mentre dagli altoparlanti una voce meccanica ringraziava i passeggeri per aver scelto la Syracuse.
Le mani di Ruby scivolavano sulla ringhiera bianca, impregnata di quella salsedine che gli aveva graffiato il viso per tutta la durata del viaggio.
Seguiva un’assonnata Yvonne, che camminava lentamente, sperando che le gambe rimanessero dritte su quei tacchi che parevano assottigliarsi dopo ogni passo.
“Ciao, Yvonne” salutò Komor, da lontano. Non guardò neppure il gesto stanco che la modella gli rivolse, con la mano.
“Devo levarmi queste scarpe…” sussurrò la ragazza. “Dividiamo il taxi?”.
Ruby si limitò ad annuire.
Un quarto d’ora dopo erano in silenzio, l’uno accanto all’altra, su di un sedile posteriore diretto verso la casa del ragazzo, più vicina rispetto alla stanza d’albergo.
Gli America cantavano A horse with no name attraverso la vecchia radio col mangiacassette della yellow cab, mentre il viale del lungomare stava per terminare.
La donna si lasciò lentamente andare, appoggiando la testa sulla spalla di Ruby.
“Je suis fatigué...”.
“Anche io”.
Passò un secondo, in cui entrambi riempirono i polmoni e il tassista voltò l’angolo verso la Main. Erano quasi arrivati.
Ruby…” lo chiamò poi Yvonne.
E quando il ragazzo si voltò si voltò verso di lei, così vicina com’era, se la ritrovò a pochi centimetri dal volto.
Lei lo baciò subito, con una rapida delicatezza.
Appoggiò le labbra alle sue, carezzò la sua lingua e ne assaporò il gusto.
Ruby sapeva di buono, lei sapeva di paradiso.
Lui, che del resto l’aveva sempre allontanata dopo aver assaggiato un po’ dei suoi baci, non osò più rifiutarsi quel privilegio: si voltò verso di lei, carezzandole il viso e poi il collo. Sentiva le carni bollenti della donna aderire sul suo corpo.
Arrivarono e i due neppure se ne accorsero. Sedici dollari e sessantacinque, pagò lui, lei glieli avrebbe restituiti, lui avrebbe rifiutato, ma questo soltanto l’indomani.
In quel momento non ci pensavano.
Scesero entrambi dal taxi e si baciarono nuovamente, mentre lei cercava d’infilare la scarpa destra più aggraziatamente possibile senza però riuscire a fermare quell’impeto che li travolgeva.
“Aspetta…” fece lei, con Ruby che le baciava il collo, il volto, le labbra. “La scarpa”.
“Aspetta tu…”.
Si baciarono, ancora e ancora, con passione e una scarpa tra le mani della bionda. Furono cinque minuti meravigliosi, in cui Ruby tentava disperatamente di catturare Yvonne nella sua morsa, che cercava un momento per sistemarsi.
Alla fine ci riuscì, lei.
Altro bacio, quindi lui le sussurrò all’orecchio una frase che la fece rabbrividire.
“Sali da me…”.

Puro piacere.
“Credevo non me lo avresti mai chiesto…”.

Sorrisero entrambi, correndo per quella strada ancora affollata, dove giovani dalle belle speranze s’alternavano a vecchi tromboni, chi fidanzati con bionde dai vestiti troppo corti, chi sposati con donne liftate dai seni posticci. Due minuti dopo erano davanti al palazzo.
Lei lo baciò ancora, lui cercava d’infilare la chiave nella serratura, senza riuscirci, e ci provò ben quattro volte prima che fosse costretto a distogliere lo sguardo dallo spettacolo che stava salendo con lui, a casa sua.
L’ascensore fu il vero preambolo del letto, dove la donna aveva sbottonato già metà della camicia di Ruby e dove lui le aveva sciolto i capelli.
Passarono venti secondi nell’attesa frenetica che le porte dell’ascensore si aprissero, dopodiché si ritrovarono nell’atrio della casa dello stilista, al buio.
“Sul divano…” ansimava Yvonne, tirandolo per mano e trovando la sua resistenza.
“Andiamo a letto”.
“Sì”.
Levò le scarpe, lei, tirandogli via la giacca e poi gettandosi ancora su di lui; lo baciava, mentre liberava gli ultimi bottoni della camicia, sentendo infine Ruby ribellarsi e girarla con vigore su se stessa.
Le alzò i capelli e aderì con fame alla sua schiena. Lo sentiva, lei, attraverso il tessuto del vestito, che fremeva. Sentiva le sue mani tastarle il corpo e fermarsi sul seno destro, stringendolo, mentre la zip del vestito andava giù; lei sgusciò fuori da quel bozzolo come una splendida farfalla, col reggiseno stretto e la brasiliana abbinata.
Ruby la prese in braccio, continuando a baciarla, stringendo le natiche tra le mani e affondando poi il volto tra i seni, prima di raggiungere l’alcova e gettarla sul letto.
Si spogliò, lui, poi le divelle gli ultimi stracci da dosso ed entrò in lei.

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