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Herr - Ditching Cards - 1 - The Bare Bodkin



 DITCHING CARDS

DUE PAROLINE: Benvenuti a tutti, lettori e lettrici! È da molto tempo ormai che avevo in cantiere l'idea di scrivere un sequel a Cards, la mia precedente fanfiction (e più fortunata), ma non son mai riuscito a pensare a qualcosa che valesse la pena sviluppare, fino a quando un mese fa sono uscito con questa idea. Vorrei fare delle note per evitare che salgano dei dubbi durante la lettura: Hilda è il nome inglese di Touko/Anita, e Hilda Baskerville (cognome mio, arbitrario. Tra l'altro, è il nome del font che uso per il testo) è la protagonista di Cards (è anche la protagonista qua, in realtà, con un nome diverso: Erika Joy), Anville Town è il nome inglese di Roteolia (la città che raggiugnete tramite Metrò Lotta), Nimbasa City è Sciroccopoli, Castelia City è Austropoli e Mistralton City è Ponentopoli.
Piccola nota sul titolo: to ditch in inglese significa gettare via, ed ha un doppio significato: sia "gettare via delle carte", che si riferisce alle carte di Cards, sia "gettare via Cards", ovvero chiudere la saga dedicata ad Hilda Baskerville.
Ultima cosa: questo capitolo riprendere un personaggio focale apparso nel capitolo 15, Love is a Losing Game. Clicca qua se vuoi leggerlo, e rinfrescarti la memoria su chi sia Ethan Shepard.


CAPITOLO 1
The Bare Bodkin
Oh, the king
Gone mad within his suffering
Called out for relief
Someone cure him of his grief

His only son
Cut down, but the battle won
Oh, what is it worth
When all that's left is hurt?
(Florence + The Machine; Queen of Peace)
presente – Anville Town – 8/02/2013
Era inizio febbraio ad Unova ed un sottile strato di brina velava i bassi edifici che costellavano il centro della cittadina di Anville Town. Il sole opaco, nascosto dalle nuvole, irradiava blandamente le strade che, ciononostante, risplendevano del gelido pallore. L’aria, fredda, trascinava le poche foglie che non erano ancora state spazzate via sul terreno e svuotava il paese dei propri colori. Un paesaggio monocromatico, ciò che si presentava agli occhi di un passante. Nulla di più, nulla di meno.
Come sospinto dal vento, un uomo camminava per Conductor Street a passo sostenuto. I suoi piedi poggiavano a fatica sul selciato, a volte scivolando sulla sottile lama di ghiaccio che avvolgeva il manto stradale.
Una chioma castana cominciava dove finiva la spessa stratificazione di cappotto e felpa, la sua carnagione era olivastra e i suoi occhi castani, socchiusi, distoglievano lo sguardo dai penetranti raggi del sole.
Nelle sue mani, un biglietto era stretto con decisione.
« Buongiorno » esalò, rivolto ad una donna. Le sue parole si trasformarono in nebbia che di dissolve nell’etere. « Sa dove posso trovare il civico 15 di Ragant Street? ».
« Uhm. Ragant Street? ».
Lanciò un’occhiata al fazzoletto di carta nel suo palmo.
« Intende Regent? ».
« Sì, Regent Street. Sa dove posso trovarlo? ».
« È quel palazzo là, oltre l’incrocio » proseguì. Come fece ciò, indicò col braccio destro un tozzo edificio grigio che faceva da angolo, un centinaio di metri più in là. « È esattamente dopo l’incrocio tra le due strade ».
« Ottimo, grazie ».
L’uomo proseguì.
« Ah, e faccia attenzione! È molto pericoloso a volte ».
« Huh » accennò col capo, per poi tornare sui suoi passi.

Non fu molto che si trovò al cospetto del portone d’entrata, il suo dito premuto su un citofono il cui eco risuonava nell’aria, ad attendere. Erika Joy, recitava la targhetta.
Pochi minuti dopo sentì dei passi alle sue spalle. Un rumore di stridio metallico, delle chiavi che sbatacchiavano tra di loro, anticipò la persona.
« Sta cercando Erika? ».
Il suono che per mesi aveva cercato, la melodia che non era riuscito a trattenere a sé quando, mesi prima, la lasciò scappare, era lì: in parte a lui.
Aprì la bocca, cercando di ribattere, ma nessun suono giungeva alle sue labbra.
« La sta cercando? ».
« … » borbottò fra sé e sé, un suono inaudibile.
« Com’è che ha detto, scusi? ».
La donna fece un passo avanti, mostrandosi agli occhi dell’interlocutore. Era una visione che prendeva forma in piena luce.
« Ni— niente. È lei— è lei, Erika Joy? » balbettò.
La donna fece cenno. « Sì, sono io. Vuole dirmi chi è lei? ».

Erika Joy appariva come una donna sulla ventina inoltrata. I suoi capelli castani scendevano sino alle scapole, azzardò Ethan, morbidi e folti, splendendo di rado di un pallido riflesso biondo. La sua pelle era chiara ed i suoi occhi, castani, vagavano per la stanza alla ricerca di qualcosa.
« Le posso promettere che casa mia non è così disordinata come sembra, signor… Shaperd? ».
Era magra, non che la ricordasse grassa, ma appariva come più bella di quanto non la ricordasse. Sia pur, molto diversa nelle movenze e nell’aspetto.
« Shepard. Ethan Shepard ».
« Sì, mi scusi ».
Non scusarti ripeté nella sua mente. Si limitò a fissarla, invece, senza proferire parola.
« Non—» pronunciò, a fatica « non è un problema. Suppongo ».
« Be’, speriamo che la sua supposizione sia vera » scherzò, rivolgendogli un caldo sorriso. « Ma mi dica, di cos’è che voleva parlarmi? ».
Sbatté due cuscini sul divano color porpora e vi si sedette, di fronte all’uomo.
« Ahem… ».
L’uomo lanciò un’occhiata in giro.
« Non credo… non credo sia così facile da dire ».
« Sono pronta a tutto! » rise Erika « è difficile che qualcosa mi sorprenda, oramai ».
« Ok… dunque, da dove cominciare? » proseguì, il suo tono di voce era appena udibile. « Lei non mi riconosce? ».
« Come scusi? ». Il suo sguardo perso. « Riconoscerla? Dovrei conoscerla? ».
« No, no, suppongo di no—».
« Un’altra supposizione » commentò con ironia. Un sorriso illuminò il suo viso.
Ethan rise sommesso. « Già. Tornando a noi, tornando alle cose serie… proverò così. Le è mai sembrato di accorgersi di qualcosa di strano? ».
« Uh? Cosa intende? ».
« Come se… » chinò il capo. Nascose i suoi occhi nelle grandi mani, che coprivano la quasi totalità del suo viso, ed affondò nella sua stessa pelle. Era bagnata, umida.
« Che c’è? Non abbia paura di parlarmi! » lo esortò Erika « la cosa peggiore che le può capitare è che io la mandi fuori di casa. Cosa può esserci di male in tutto ciò? » concluse. Un sorriso distese le sue labbra perlacee.
A quel punto, era interessata a quella così misteriosa vicenda.
« Facciamo così » bofonchiò, cacciando la mano destra dentro una tasca. Ne estrasse una foto. « Cosa vede? ».
« Dove… dove sono? ».
« Sei a Nimbasa City ».
Ritraeva una donna distesa su di un letto, supina, della cui il viso era l’unica parte visibile. La restante era coperta da un piumone bianco, districato come una soffice nuvola dando vita ad un suggestivo contrasto di luci ed ombre. I suoi capelli, castani, risaltavano sulla candida superficie.
Nel momento in cui la mente di Erika elaborò l’immagine che aveva visto, un ingranaggio come si sbloccò in lei. Una landa infestata dall’oscurità sulla quale per la prima volta dopo tempo immemore, un tempo che le era sembrato infinito, un raggio di sole balenava.
« E tu saresti? ».
« Ethan Shepard ».
« Oh. Mi hai rapito o qualcosa del genere? ».
« Sembro… io? ».
Un sorriso baluginò sul viso di Ethan.
« È quello che le stavo cercando di dire ».
Un lampo le accecò gli occhi.

« Io… non capisco ». Un brivido le corse lungo la schiena, culminando sul collo. « Cosa significa tutto ciò? Perché me l’hai mostrato? » sbottò.
« Calma, calm—».
« Cos’è quella cazzo di foto? Perché dovresti avercela? ».
Alzò le mani verso il soffitto, dimenandole nel vuoto. Come a liberarsi da una stretta che di fatto non v’era, ma che quel ragazzo, giunto così bruscamente nella sua vita, di fatto rappresentava: per quanto psicologica fosse, piuttosto che fisica.
Spinse il divano indietro e si alzò, strappando la foto dalle mani del ragazzo. La impugnò saldamente e con un colpo secco la strappò esattamente lungo la sua metà, per poi farlo ancora. Lanciò i quattro pezzi rimanenti per terra, mentre Ethan la fissava basito.
« Calmati, Hild—».
« MI CHIAMO ERIKA! » sbraitò. La sua voce si ruppe, dovete aggrapparsi ad un comò per evitare di cadere a terra.
« No, non ti chiami Erika! Il tuo nome è Hil—».
« BASTA! ».
La sua voce vibrò nelle pareti.
« BASTA! SMETTILA! » proruppe nuovamente, scagliando una cornice che afferrò dal mobile verso il ragazzo « VATTENE! ».
𐌳
« No, no, ti ho trovato in autostrada. Eri persa, ho pensato avessi bisogno di aiuto. Possiamo dire che sia il tuo principe azzurro ».
Erika sedeva rannicchiata sul divano porpora. Di fronte a sé, il tavolino di cristallo era andato distrutto in tanti frammenti e schegge sul pavimento, che risplendevano della luce crepuscolare che filtrava attraverso le finestre. Tre cornici giacevano, distrutte, a terra, assieme ad una lampada e tre sedie. Gli oggetti di bigiotteria che facevano da soprammobili al comò erano sparsi per varie stanze della casa: nello specifico, una statua in bronzo della torre di Lumiose City galleggiava nell’acqua del lavello, in cucina, assieme ad un piatto sporco ed ad una tazza da tè.
« Vedi qualcun altro? ».
« Non vedo nulla al buio pesto, quindi no, direi di no. Nessun altro ».
Piangeva.
Non era riuscita a fare altro da un’ora a quella parte, il suo viso era un ruscello di lacrime che scorrevano lungo il suo viso e le bagnavano i vestiti. Tracce di mascara erano filtrate attraverso le gocce d’acqua salata e avevano trasportato il prodotto al di sotto, disegnando due spesse strisce nere sotto le sue palpebre.
« Vuoi fare la spiritosa o entrare? ».
« Ed essere stuprata o drogata dal primo che passa? No grazie, non sono una principessa da salvare ».
Singhiozzava, ogni tanto, e così facendo rompeva quell’innaturale silenzio creatosi nella stanza.
𐌳

Bussò alla sua stessa porta, dall’interno.
L’eco le restituì un cavo suono.
Bussò nuovamente.
« … ehi? » singhiozzò. Le sue intenzioni furono chiare quando rimase delusa dal silenzio che l’esterno le riservava come risposta. Trascinò nuovamente il suo pugno, chiuso, sopra la sua testa, per poi farlo schiantare con un movimento macchinoso e stremato sulla porta. Il suono, cavo, fu l’unica risposta.
Si lasciò scappare un altro singhiozzò e rannicchiò su sé stessa, la schiena poggiata contro il freddo legno.
« PERCHÉ? » urlò nel pianto, i pugni che sbattevano contro il pavimento. Oramai il dolore fisico non era più comparabile a quello che provava dentro di sé: tanto valeva morire dissanguata su quel pavimento.

Udì un bussare.
« Hilda? ».
La voce continuò. « Hilda? Hilda, eri te prima? ».
Le sue palpebre si aprirono a fatica.
Strofinò il lembo strappato della sua camicetta per asciugarsi delle lacrime che le annebbiavano la vista e si alzò, aggrappandosi alla maniglia di ottone. Come avvicinò l’occhio destro allo spioncino, sentì il suo cuore alleggerirsi: di fronte a sé era Ethan.
Prima che se ne rese conto, aveva già aperto la porta.
« Hilda, cos’è successo? Cosa hai fatto? ».
« Niente, niente, non devi… » si sentì mancare, per un attimo « non devi preoccupartene. Ora, se volessi… ».
Il fiato le venne a mancare. Sentì la sua gola, arida, bruciare, ed una scarica di dolore le pervase la bocca. La vista si annebbiò, i contorni si fecero meno nitidi e le sagome oscure. Come fece un passo avanti, perse il controllo delle gambe e cedettero al suolo.
Sentì un braccio cingerla dall’alto e perse conoscenza.
𐌳
presente – Anville Town – 09/02/2013
« Lasciami indovinare, sei una di quelle che va in giro con la maglietta “This is what a feminist looks like” ».
Un effimero tepore le blandiva il viso, solleticava le sue palpebre e correva sino al collo, trasmettendole una sensazione di calore che pervadeva l’intero corpo.
I suoi occhi si schiusero come un fiore alla luce del sole. L’intensità, tuttavia, era quasi accecante; fece fatica ad abituarsi a quella situazione..
In sottofondo lo scoppiettio di bolle ronzava nell’aria, accompagnato da un leggero rumore di passi.
« Mh—» mugugnò, rigirandosi nella coperta. Come lo fece, si accorse di esser distesa sul divano: davanti a sé il salotto, che rassomigliava ad un campo di guerra.
« Buongiorno! » esordì Ethans, baluginando dalla porta della cucina con una padella in mano « dormito bene? ».
« Huh? Chi—».
« Ne parleremo più tardi, intanto fatti comoda: tra poco si fa colazione ».

Erika addentò una brioche, affondando i suoi denti nella soffice pasta. Un rivolo di crema al cioccolato fu subito spinto fuori in risposta, e cadde inerme sul tavolo.
« Hai, mnf—» Ethan prese un boccone « hai doiiito beee? ».
Non si lasciò scappare una risata.
« Scusa » ribatté subito dopo, un sorriso che correva lungo le sue labbra « dicevo, hai dormito bene? ».
Il viso di Erika parve illuminarsi. « Sì, grazie ».
« Oh… » bofonchiò « bene, allora. Bene ».
« Già ».
Ethans non rispose, alimentando l’imbarazzante silenzio che si era creato fra i due.
« Io—».
« Vado in bagno » lo interruppe « continua a mangiare ».
« Ma—».
Lasciò che la porta sbattesse dietro di sé, vibrando nelle pareti di un rumore sordo, Ethan lasciato a fissare il suo piatto, opulento in cibo.

A suo giudizio erano passati tre quarti d’ora quando udì dei passi avvicinarsi al salotto.
Ciò che vide balenare per primo dal corridoio fu un accappatoio verde scuro, seguito dalla slanciata e pallida figura di Erika che si districava tra il disordine che aveva lasciato la sera prima sul pavimento. Come la vide, notò che un asciugamano bianco le fasciava la testa, coprendole il capo e la chioma castana.
« Cos’è successo? ».
« Oh, nulla di che » lo liquidò, senza prestargli attenzione, e proseguì attraverso la stanza. « Piuttosto, abbiamo qualcosa di cui parlare ».
La sua voce era alta, vivace, come il canto di un usignolo al mattino.
« Di che? ».
Estrasse da un cassetto un libro giallo, sulla quale copertina era disegnata una mappa di Unova. Dai lati pendevano dei bigliettini, diversi per colore, sui quali erano apportate delle lettere. Come glielo avvicinò, poté leggerne il contenuto: Keyr su quelli gialli, Lou su quelli blu.
« Uh? ».
Il tonfo del manuale sul tavolo della cucina anticipò la sorpresa di Ethan.
Il libro si aprì sul capitolo “Mistralton City e cosa mangiare”.
« Mostramelo » pronunciò sibillina Erika.
« Uh? Mistra—».
« Dove abitavo prima, mostramelo ».
Ethan guardò stordito quelle pagine.
« Non è un po’ presto? ».
« Mh ». Erika rise. « Può darsi. Mostramelo ».
Gli occhi del ragazzo osservarono la lucida carta, risplendente della luce mattutina, per poi soffermarsi sulla numerazione delle pagine. Recava 679. S’inumidì il dito ed alzò una manciata di pagine, alla ricerca di un indice informativo.
« Non hai proprio idea di dove abitavi? » commentò con una nota di curiosità mentre scorreva fra le pagine. « Cioè, nessun ricordo? ».
Erika asserì.
« E allora come fai a fidarti di me? ».
Gettò il libro, chiuso, sul tavolo. « Come fai a sapere che quello che dico non sono bugie? »
Lei lo fissò basita.
Cercò voce per parlare, ma nessun suono raggiunse le sue labbra. Una sensazione di aridità pervadeva la sua bocca.
Tossì.
« Io—».
« Tranquilla, scherzo » la interruppe, un sorriso che illuminava il suo volto, « ma ora bando alla ciance ».
Portò le mani a metà libro, dove il bordo delle pagine era un segmento colorato di giallo, e lo aprì. Come le pagine si dipanarono, si rivelò essere l’inizio del capitolo “Nimbasa City: la città del divertimento”.
« Abitavamo a Nimbasa City, prima. Avevo un appartamento nella zona verde, vicino ai parchi » spiegò, quasi emozionato « vicino alla ruota panoramica ».
« Ottimo, allora! » proseguì melliflua « vado a cambiarmi, tu preparati: partiamo! »

Passò un’altra ora, che Ethan impiegò sistemando il suo salotto e mettendo in ordine il caos che la sera prima era stato generato. Una volta spolverato il pavimento dei vetri e cocci, andati ad intaccare il parquet, riposizionò quanto di più integro poté, mentre dovette buttare nella spazzatura tutti i rimanenti delle cornici e dei souvenir che Erika si era portata dietro dalle sue, a giudicare dal folto numero, numerose vacanze. Ciò che volle riservare a Erika furono le foto, spogliate del legno e del vetro: raffiguravano lei stessa assieme ad un altro ragazzo in varie situazioni e sfondi. I suoi capelli erano molto singolare, essendo di un verde acceso.
« Eccomi! » risuonò contenta la voce di Erika per il salotto.
Nonostante ciò, non poté dire nulla che lo potesse anticipare a cotanta sorpresa.
Erika apparve indossando un paio di jeans blu scuro, che scendevano assecondando la linea magra delle sue gambe, una maglietta bianca ed una giacca in pelle verde smeraldo. Ciò che lo lasciò senza parole, tuttavia, erano i capelli: il castano era sparito, lasciando spazio ad un rosso ramato, e la chioma folta era stata tagliata sino a raggiugnere a malapena le spalle.
Superato lo shock iniziale, concesse che fosse molto bella anche in quella veste.
« I tuoi capelli… ».
« Oh, nulla di che » continuò, avvicinandosi a lui « tu, piuttosto, sei pronto? Non voglio aspettare un minuto di più ».
Ethan la fissò allibito.
« Certo, certo… lasciami solo mettere le scarpe e sono fuori ».
« Perfetto, allora »
Corse di nuovo in direzione del corridoio, svanendo dietro l’angolo. Ciò che Ethan poté udire fu un blando « Torno subito! ».
« Sì, tranquilla » mormorò, infilandosi le scarpe.
Erika ritornò da lui pochi secondi dopo, stringendo nella sua mano destra un blocco di fogli blu e nella destra una penna. Non riuscì a vedere cosa scrisse, ma a giudicare dai suoi movimenti secchi andava di fretta.
« Eccomi! Andiamo? »
Dopodiché i due uscirono, le finestre chiuse e le luci spente, gettando la stanza nell’oscurità e nel silenzio.

« Il verde non ti piace proprio, eh? » ironizzò Ethans alla vista della utilitaria verde smeraldo che Erika disse essere la sua macchina. « Giacca verde, macchina verde, accappatoio verde… ».
Erika rise. « Mh. Diciamo che ho un rapporto complicato col verde, ecco. Mi è sempre piaciuto come colore comunque, non so perché, anche prima di incontrarlo ».
« Uh? Incontrare chi? ».
« Niente » sorrise lei « fai finta che non abbia detto niente. Ad ogni modo, dove siamo diretti? ».
« Non hai portato la guida? ».
« Uhm, no, avrei dovuto? ».
Ethan fece un cenno negativo con la testa « Tranquilla, è a posto, useremo il navigatore satellitare. Fammi solo inserire la via… ».
« Oh, ottimo ».
Le porte del garage si schiusero, irradiando il grigio sotterraneo di una luce intensa; la strada si mostrava tranquilla e poco trafficata quella mattina.
« Non pensavo fossi così attrezzata » constatò Ethan come mise in moto la macchina.
« Mai sottovalutare Erika Joy! » scherzò « o forse dovrei dire Hilda… com’è che è il mio cognome? »
« Baskerville » commentò atono « Hilda Baskerville ».
« Mai sottovalutare Hilda Baskerville, allora! » concluse lei, mentre la macchina si apprestava ad entrare in strada.

« Ah, e un’ultima cosa ».
« Dimmi tutto ».
« Com’è che mi hai trovato? Non mi sembra… non mi sembra tu me l’abbia detto ».
« Oh, davvero? ». Ethan sorrise. « Prima o poi dovrò dirtelo » scherzò.
« Già » l’apostrofò lei.
Appoggiò il viso al finestrino, osservando le file di sempreverdi che si susseguivano una dietro l’altra lungo il panorama autunnale della periferia di Anville Town. Erano da poco entrati in autostrada ed il paesaggio assumeva toni sempre più distanti dal grigio cemento, che spaziavano dal verde ed il rosso degli alberi all’azzurro di un fiume che attraversarono durante la strada.
Come alzò lo sguardo, notò la sigla ANVILLE TOWN EXIT - SOUTH e, poco più sotto, MISTRALTON CITY - 0 MILES. Solo lo 0 era rimasto del numero di miglia apposte sull’insegna, le altre cifre erano state erose dal tempo.
CASTELIA CITY EXIT - NORTH
Un flash le accecò gli occhi.
NIMBASA CITY 100 MILES
Castelia?, pensò dubbiosa.
Scacciò ogni pensiero dalle mente: con un po’ di fortuna tornata a casa a Nimbasa avrebbe potuto capirne di più.

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