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Giornalino Arcobaleno - Edizione #01

Edizione #01

E con un mese di ritardo il Giornalino Arcobaleno fa di nuovo la sua apparizione sul grande schermo... o meglio, nella homepage della sezione Pokémon di EFP.
Buongiorno/pomeriggio/sera a tutti, carissimi futuri e attuali sudditi! Chi vi parla è il vostro Sovrano Ho-Oh (Big Ho-Oh is watching you, citazione della mia vice sovrana) che è stato imposto davanti alla tastiera di un pc, aggeggio a me molto sconosciuto, a scrivere le introduzioni ai due articoli che le pazze giornaliste (o qualunque cosa siano quelle due lì) hanno sfornato. Non aspettatevi insulti rivolti a me in queste due storielle, mocciosi! La mia regale figura è stata anzi esaltata dalla benevolenza che le due compari hanno deciso tanto affettuosamente di dimostrarmi pubblicamente.
Che state dicendo? Volete sapere il motivo di questo ritardo? Be'... vi basterà leggere questo articolo per capire!

 
Articolo 1: Un’agenda troppo piena

La sveglia iniziò a trillare allegramente dal mio comodino posto accanto al mio comodo letto.
“Stattene zitta” rimbeccai io da sotto le coperte, sbadigliando subito dopo.
‘Oh, no’ pensai quando le lacrime dovute da quello mi colmarono gli occhi. Quando inizio a sbadigliare non la finisco più e piango tutte le mie lacrime. Peggio di un’allergia.
Tirai una manata verso la fonte del rumore, mancando deliberatamente la sveglia e beccando invece lo spigolo del comodino. Sono un vero talento nel farmi male da sola a caso.
Non che me ne vanti.
Dovetti tentare altre tre volte, poi beccai quella cosa e la buttai a terra, dove continuò a suonare.
“Uffaaaa” mi lamentai, scalciando via le coperte. Rotolai sulla schiena e mi alzai in piedi. Da là raccolsi quel dannato aggeggio e finalmente posi fine a quel rumore trapana - cervello. Riposi l’oggetto sul comodino e mi guardai inavvertitamente allo specchio che era appeso alla parete proprio sopra al comò.
“Oh santo piripillo!” esclamai, notando la massa informe bianca che mi ornava la testa. Informe non per i nodi, quanto perché i capelli erano diventati elettrici.
Tentai di domarli almeno in parte con la spazzola, e riuscii a dargli una forma per lo meno decente, pur continuando ad assomigliare ad un cactus.
Non ancora determinata a togliere il mio pigiamone di pile bianco e nero ornato sul petto da una faccia di un panda, uscii dalla camera diretta alla cucina. Preparai pigramente il the, litigando con il gas che, come al solito, non si accendeva. O perlomeno, non al primo tentativo.
Finalmente la fiamma si accese, e io lasciai l’acqua a scaldare, aprendo le mensole vicine al fornello cercando i biscotti. Li poggiai sul tavolo assieme allo zucchero, per poi gettare uno sguardo alla finestra. Era buio.
Sbuffai. Perché dovevo uscire? Chi me lo faceva fare?
Risposta: la scuola. Anche se era sabato.
Feci una pernacchia. Non ne avevo proprio voglia di uscire al freddo. Mi abbracciai le ginocchia mentre me ne stavo seduta sopra la sedia... dimenticandomi dell’acqua.
“Oh, cribbio!” imprecai, girando la valvola per estinguere le fiamme.
La classica mattina di una ragazza con seri problemi di attenzione quale è la sottoscritta. Ci metto decenni a fare colazione e poi devo correre per fare il resto.
Mi finii di vestire, abbastanza pesantemente, e guardai l’orologio.
“Merda” proclamai. Avrei perso il treno. A meno che...
Afferrai alcune Pokéball e mi avvicinai alla finestra. Ficcai quella di Vaporeon nella tasca più piccola dello zaino, lei la avevo sempre con me. Poi liberai Espeon sul tappeto e Noivern fuori dalla finestra.
“Per favore, Espeon, chiudi la finestra” raccomandai prima di lanciarmi fuori di casa saltando dal davanzale, sotto lo sguardo stupefatto di una ragazza universitaria che stava guardando fuori dalla finestra in quel momento.
Noivern mi prese al volo e poi, sotto incitamento, scattò in direzione della stazione. “Dannazione, non farò mai in tempo” mi lagnai, e il mio Pokémon accelerò utilizzando le onde sonore.
“Woah!” mi lascai sfuggire, appendendomi alla peluria attorno al suo collo. Dopo qualche minuto atterrammo e io gli accarezzai il muso, facendolo rientrare nella sfera.
“Perdonami, amico” sussurrai. Poi mi misi a correre come una pazza, schivando persone e bagagli vari. Mi tuffai dentro il mio treno appena in tempo, travolgendo una persona.
“A quanto pare ce l’hai fatta anche oggi, Aura” ridacchiò. Io ansimai per qualche secondo accasciandomi contro la porta, sorridendo.
“Scusami, Sam” risposi. Lei scrollò le spalle.
“Di niente. Vieni, ci stanno tenendo i posti” mi disse, facendomi strada.
“Buongiorno, svegliona!” mi salutò ghignando una ragazza dai capelli blu.
“Gne, Seir. Stai zitta, o giuro che non ti faccio copiare matematica” rimbeccai. Lei per tutta risposta mi fece la linguaccia.
Mi accasciai sul sedile vicino alla quarta ragazza presente, dai capelli mossi rosso fiammante.
“Giorno, Aura” mi sorrise.
“Giorno Yun” risposi allo stesso modo io. Ringraziai che i sedili fossero così comodi. Lo facevo ogni mattina, soprattutto il sabato, perché essendo l’ultimo giorno ero particolarmente distrutta.
Tastai la tasca della giacca in cerca degli auricolari... che non trovai. Sbuffai esasperata, incrociando le braccia al petto. Di solito la mattina tentavo di non unirmi alle conversazioni, perché facevo fatica a seguirle, ancora mezza addormentata. Altro che mezza, quasi completamente, a dire il vero.
Ma per quella volta avrei fatto un’eccezione. Era noioso il viaggio.
“Che mi raccontate?” chiesi, soffocando uno sbadiglio.
“Niente… non ho voglia di andare a scuola” fu la sbrigativa risposta di Seir.
“E quando mai” la prese in giro Seo-Yun.
“Gni.”
“Gna.”
Io ridacchiai, socchiudendo gli occhi.
“Aura, sei distrutta, che hai fatto questa settimana?” mi chiese Sam, sorridendo nel vedermi praticamente in coma.
“Il solito” feci vaga io. Speravo non mi costringessero a parlare. E invece…
“Racconta” mi disse Yun, sorridendo. Lei ancora non sapeva la mia settimana, rammentai. E ormai non mi avrebbe più lasciato in pace. Mi drizzai sul sedile.
“E va bene” borbottai, iniziando a riavvolgere il nastro della mia settimana.

Lunedì

Avevo l’acrilico fin sopra ai capelli. Meno male che sui vestiti avevo il camice, altrimenti sarei stata scambiata per Arlecchino. Mi diressi in bagno e mi specchiai, iniziando a ridere di gusto, accasciandomi per terra tenendomi la pancia. Ero un disastro.
Avevo lasciato quella casa con i capelli bianchi e la faccia pulita, e adesso era un capolavoro di arte moderna dal volto arcobaleno e la chioma che avrebbe fatto invidia a Sehun degli EXO.
Ok, vi spiego perché ero stata conciata in quel modo. Frequento il liceo artistico. Dovete sapere solo poche cose sul mio liceo.
Cosa numero 1: il mio liceo è la patria della disorganizzazione. Capita che ti facciano uscire e che ti corrano dietro subito dopo riprendendovi pure.
Cosa numero 2: colore, colore, colore. Se vi da alla testa, non entrate là dentro. Per chi non è abituato, c’è troppo dipinto. Per noi troppo poco.
Cosa numero 3: Non aspettatevi minimamente una cosa normale. Specialmente alle assemblee d’istituto o durante i periodi vicino alle festività. Tipo a Natale, che si mettono a fare i cori di ubriachi usando l’altoparlante.
Ecco, questo è il mio liceo. Ma le materie e i personaggi che lo frequentano non sono le sole cose dalle quali bisogna guardarsi. Anche i corsi extrascolastici ci mettono la loro. Tipo quello a cui mi sono iscritta io, body painting.
Per quelli che non sanno/non hanno voglia di tradurre, si tratta della pittura del corpo. Esatto, andiamo a farci ricoprire faccia e braccia di pittura. Ma normalmente va bene. Solo che oggi doveva succedere qualcosa di strano.
Le prime due ore avevo arti figurative (pittura, disegno e mosaico per i comuni mortali). Bene, abbiamo fatto sperimentazione del dripping, che è una tecnica che prevede l’acrilico molto diluito per poi farlo sgocciolare allegramente in giro con il pennello, ottenendo una pittura a spruzzo, direi che possiamo definirla così. È molto divertente… quasi troppo.
Infatti abbiamo perso di vista il concetto di ‘foglio da imbrattare’ e assunto invece il nuovo argomento ‘persona da imbrattare’.
Evviva, ero diventata Iride, la dea dell’arcobaleno.
Inutile dire che ci guardavano in modo strano mentre attraversavamo l’istituto. Ma dentro quella scuola è normale. Il problema arriva quando si esce dalla scuola. Centinaia di occhi che ti guardano come se fossi appena scappato da un circo composto da elementi fuoriusciti da un manicomio.
E forse hanno ragione.
Il pomeriggio a Body Painting dipinsi sul volto una mia compagna, dato che io ero già un opera d’arte. Purtroppo mi considerarono incompleta, così decisero di darmi qualche tocco di colore sui capelli con gli spray apposiit e mi dipinsero anche le mani. Era divertente, quello sì.
Lo fu un po’ meno camminare fino alla stazione, con tutte quelle persone che mi guardavano sdegnate. Volevo essere inglobata nel marciapiede per la vergogna. Di solito mi nascondevo nelle lunghe ciocche di capelli, ma in quel momento avevo una criniera arcobaleno che rendeva il mio piano inutilizzabile.
Finalmente mi accoccolai nel treno, accaparrandomi un posto vicino al finestrino e nascondendomi dentro la tenda. E da quella posizione mangiai velocemente un panino, la mia cena, mentre ascoltavo musica a tutto volume. Mi concentravo sul panorama per ricordarmi la mia fermata.
Finalmente, scesi, ignorando ancora gli sguardi insistenti delle persone. Maledissi la distanza tra la mia scuola e il mio appartamento che mi costringeva a prendere il treno. Almeno il teatro dove facevo danza era vicino abbastanza per permettermi di volare assieme a Noivern.
Salii di corsa le scale. Non perché fossi in ritardo, quanto perché volevo sedermi in fretta sulle poltrone dello spogliatoio. E così feci, collassando su una di esse con un manga in mano e le cuffie nelle orecchie.
Constatai che avevo male ad un braccio. E che, come al solito, me ne sarei fregata. E che quindi, canonicamente, sarei uscita a pezzetti.
Lascai passare il quarto d’ora che precedeva la mia lezione, partecipando parzialmente ai discorsi delle mie compagne di danza, che puntualmente mi chiesero cosa diavolo avessi fatto a braccia, capelli e faccia.
“Forza, ragazze, iniziamo!” ci richiamò la nostra insegnante.
Ecco, ora chi mi dice che la danza è roba da nulla o che non è uno sport, beh, voglio proprio vederlo a provare. Tenere a mente ogni singola fibra del proprio corpo e muoverla in modo perfetto, visibile ma non esagerato, aggraziato, ma adatto al ritmo della musica mentre già pensi al movimento successivo... beh, non è facilissimo. Soprattutto quando non ci riesci, ecco.
Tipo il mio gruppo, che collassa a metà degli addominali, e che passa lo stretching a fare lo stesso esercizio per due canzoni di fila per poi accorgersi che dobbiamo fare le spaccate e che non siamo calde nemmeno un pochino.
E poi ci sono io, che non ho ancora capito come devo atterrare dalle cadute... e che mi sfracello costantemente per terra... almeno so come non far rumore. Bum.
Ecco, in qualche modo sono tornata a casa in groppa a Noivern, ho mangiato qualcosa a caso, mi sono levata via la pittura e mi sono lanciata nel letto pensando: “Oh, cribbio, è solo lunedì”.

Martedì

Ero davvero euforica quella mattina. Dopo aver bevuto il caffè ed essermi almeno in parte svegliata, sia chiaro. Quel giorno avevo la primissima lezione di giapponese.
Non pensai ad altro per tutto il periodo scolastico, beccandomi più volte una gomma in testa da parte di Seir che mi stava parlando mentre io, troppo occupata a osservare fuori dalla finestra, non le prestavo la benché minima attenzione. Ero troppo presa dal mio fantasticare... come se non fossi già distratta di mio.
Inciampai sul mio stesso zaino mentre andavo a ricreazione e dovetti aggrapparmi a Yun. Fu una pessima idea, perché ci mettemmo a ridere entrambe e cascammo come due salami. Una peggio dell’altra.
Va beh, in qualche modo, riuscii ad arrivare nel mio appartamento perlomeno intera e a prepararmi qualcosa di non velenoso, tossico o radioattivo per pranzo.
Ok, mi ero fatta i ramen istantanei, quindi dovevo solo scaldare l’acqua, ma con me non si può mai sapere.
Infine, mi misi a saltellare per casa in attesa che arrivassero le sei di sera. Quindi, facendo un rapido calcolo, dovevano passare... cinque ore.
Mi bloccai in mezzo al soggiorno realizzando che non potevo saltellare per casa per cinque ore di fila, così, andai a sedermi sul divano, tentando di trovare una soluzione fattibile.
Mezz’ora dopo ero ancora lì che pensavo. Per fortuna la mia soluzione fu il suono del campanello.
“Giorno Aura” sorrise Shirley, abbracciandomi. Era la mia vicina di appartamento con cui mi ero iscritta al corso. Dato che sembrava più presente di me in quel momento, decisi che poteva essere una cosa intelligente chiederle cosa volesse fare.
Iniziammo a parlare di cose varie, no, in realtà parlavamo di cose diverse ma legate tra loro da un argomento solo, la musica. Poi a quello ogni tanto si legavano i discorsi tipo ‘oggi in classe abbiamo fatto le cialde e la prof non capiva cos’era il profumo che si sentiva’ da parte di Shirley. Ma quelli sono dettagli.
Continuammo a parlarne anche mentre eravamo in ascensore, alla fermata dell’autobus, sull’autobus, mentre camminavamo per raggiungere la scuola e in classe, interrotte solo quando sentimmo un ‘kombawa’ proveniente dalla porta.
Allora, allora. Non sono questa grande esperta della lingua giapponese ma so che kombawa significa buonasera.
“Hajimemashite” esordì poi la giovane donna che doveva essere la nostra insegnante. Ok, probabilmente si stava presentando.
Guardai Shirley e lei guardò me, poi ci sorridemmo come due idiote. Sì, sarebbe stato divertente.

Ne uscimmo due ore dopo, sorridenti e cincischiando su quanto fossero fattibili o meno gli Hiragana. Avevamo fatto esercizio di scrittura, divertendoci poi a scrivere parole che conoscevamo. Un mio problema è che confondevo la ‘i’ con il ‘ko’, quindi, invece che scrivere ‘Kai’ (un nome, anche se andrebbe scritto in Katakana ma dettagli, insomma), scrissi ‘kako’ che significa passato. Ci risi su mezz’ora buona.
Stavo ancora ridendo quando rientrai in casa, tenendomi la pancia e spaventando Vaporeon, che si convinse che l’ultimo neurone a me rimasto avesse fatto le valigie e se ne fosse andato.
Probabilmente ha ragione. Mi dispiace per lei.

Mercoledì

“Vedi? L’ombra portata è mooolto più scura di quella propria, ma tu qua me le hai mescolate, mentre dovevi lasciare un filo bianco. Così si vede bene la forma del cilindro. E poi questa parte della bottiglia qua non va bene, manca di volume. Osserva: qui vedi il dentro, qua il sopra, qui un po’ di sotto e poi...”
La professoressa continuò a borbottare cosa stavo sbagliando del chiaroscuro che, per inciso, neanche avevo iniziato a fare. Ok, quello del cilindro sì, ma la bottiglia era ancora al livello ‘tre righe in croce’.
“Hai capito?” mi chiese. Io annuii: pur facendo i miei commentini sarcastici nella mia mente avevo inteso ciò che voleva.
Ripresi in mano le matite e tornai a litigare con quella bottiglia di vetro scuro, mentre la prof iniziava a tartassare la povera Yun, seduta al mio fianco. Quando si fu allontanata, ripresi a lamentarmi.
“Come diavolo si fa a fare il chiaroscuro di una bottiglia di vetro? Il vetro è trasparente, cambia lo sfondo dietro e non va più bene!” borbottai, fissando truce il suddetto oggetto, come se mi stesse facendo un torto personale.
Beh, in effetti era così, ma prendersela con una bottiglia non era abbastanza soddisfacente. Ma inveire contro la professoressa era decisamente poco saggio, e fin là ci arrivo anche io.
Così mi lamentavo con Yun, che a sua volta se ne lamentava con me. Come passare le lezioni in un modo intelligente e costruttivo, capitolo uno.
Suonò la campanella ed entrambe ci alzammo, realizzando che dovevamo cambiare aula e che dovevamo ancora rincorrere matite e gomma pane per tutto il banco.
Cinque minuti dopo sgusciammo fuori dall’aula.
“Devo passare dall’armadietto” annunciai, girando a destra, seguita da Yun, che mi prestò assistenza, osservandomi mentre mi dimenticavo per ben cinque secondi la combinazione del luchetto.
Finalmente riuscii a chiudere l’armadietto dopo aver prelevato il camice tutt’altro che immacolato.
“Possiamo andare!” affermai. Yun guardò me, poi il mio camice.
“Cavolo, dovevo prenderlo anche io!” esclamò, schiaffandosi una mano in fronte. Io imitai il suo gesto.
Quando anche lei fu pronta, ci dirigemmo verso l’aula di oreficeria. Solo che a metà strada mi accorsi di star stringendo qualcosa nella mano.
Il lucchetto dell’armadietto.
“Merda!” mi lasciai sfuggire, correndo indietro mentre Yun si era incantata nell’osservare delle opere appese alle pareti.
“Che bei quadri” cinguettò sognante.
Finalmente, dopo dieci minuti dal suono della campanella, ci fiondammo in classe.
“Profciscusiperilritardoeravamoall’armadietto!” esclamai io buttando giacca, sciarpa e zaino sul tavolo e mettendomi il camice.
Andammo poi a posizionarci con tutto il nostro materiale su due banchi da orafi accostati. Guai a dividerci a noi due.
Entrambe dovevamo saldare, io un ciondolo e Yun un braccialetto.
“NO! MI SI È RITIRATA LA SALDATURA, VAFFANBROCCOLO!” inveì la mia compare rivolta al suo fil di ferro che non si voleva attaccare ai suoi cugini.
Io, da parte mia, ero riuscita a saldare quello che dovevo saldare, ma avevo bruciato i dintorni. Ci guardammo con un sorriso furbo, ci alzammo e, con un braccio levato verso il cielo e l’altro che reggevano le pinze che racchiudevano il nostro lavoro incandescente, urlammo: “AL DECAPAGGIOOOOOOO!!!”
Ossia, un acido che toglieva la parte bruciata dal lavoro. Ci andavamo una ventina di volte alla lezione. Compativo tantissimo il mio povero filo, era più nero che dorato.
Non so dirvi perché ogni santa volta che dovevamo pulire il ferro lo annunciavamo al mondo, quindi non chiedetemelo.

Il mercoledì è il mio giorno libero, ossia non ho niente da fare il pomeriggio. Riuscii a scrivere qualcosa in più del solito, studiai, ma soprattutto cavoleggiai sul web. Quindi, niente di interessante, tranne le risate che mi facevo guardando alcuni video, o quando un burlone su Wikipedia cambiò il nome di un cantante prima in Zibedeo e poi in Morthadello. E lì sì che risi per cinque minuti buoni.

Giovedì

“Perché dobbiamo avere il pomeriggio? È brutto e cattivo” si lamentava Seir mentre ci recavamo a pranzo armate di buono mensa.
“Tu prega che non ci tolgano il sabato, in quel caso sì che ci sarà da lamentarsi” ribattei io, nonostante non scoppiassi dalla gioia di fare un pomeriggio dove avevamo la bellezza di due ore di italiano. Una palla assurda, pesantissime da fare dopo pranzo.
L’anno scorso avevamo un laboratorio ed era molto meglio.
Immersa com’ero nei miei pensieri andai quasi a sbattere contro un lampione, una siepe, una stanga, un’auto e poi finii direttamente addosso a Seir.
“Oh... ma siamo già arrivati?” fu il mio commento geniale, seguito dai facepalm delle presenti.
“Buongiorno Auraaaa” cantilenò Lizz, una mia compagna di classe.
“Gne” ribattei io.
“Gni” disse Seir.
“Gna” si aggiunse Yun.
Lizz dal canto suo si esibì in un altro facepalm, per poi avanzare di qualche passo nella fila.

“E così ragazzi, il Monte Corona è stato spesso un disagio nell’antichità per le comunicazioni della Sinnoh d’oriente e quella d’occidente. Persino alcune piante e Pokémon sono diversi! Inoltre, prima che i cunicoli interni fossero scavati, le persone...”
Sbattei la testa sul quaderno. Yun mi espresse la sua solidarietà battendomi in modo consolatorio la mano sulla spalla, mentre Seir se la rideva.
“Che palle” dissi attraverso a carta dove, in teoria, avrei dovuto prendere appunti. Dico in teoria perché di appunti non ce ne erano. Solo una piccola ricerca. Poi avevo fatto un ritratto a Vaporeon.
Rialzai la testa prendendo la matita più vicina e iniziando a scrivere qualche Hiragana random, per mettermi poi a scarabocchiare simboli e scenette varie o qualche spunto per una storia.
Seir armeggiava con il PokéGear nascosto nello zaino e Yun faceva più o meno come me, sbirciando ogni tanto il mio quaderno e l’aggeggio tecnologico dell’altra.
Finalmente la campana suonò, non ne potevo più di sentir parlare del Vetta Lancia, che oramai mi usciva dalle orecchie.
“Mi raccomando, ragazzi, studiate quello che abbiamo fatto oggi!” gracchiò la prof. Io segnai le pagine sul diario così, per sport. Aprivo il libro di geografia una cosa come due volte all’anno.
Sgusciai fino alla fermata con Seir, che ogni giovedì ospitavo a casa mia perché lei abitava lontano da dove faceva hip-hop mentre io un po’ meno. Così, mentre io e Shirley uscivamo per andare a giapponese, lei usciva per andare a ballare. E lasciavamo il mio appartamento solo al suo destino di polvere e disordine.
Poveretto, un po’ lo compatisco.
Salii sul treno e mi accasciai in un posto libero, seguita da Seir che prese possesso di quello di fianco a me. Lei prese il doppio attacco per le cuffie ed io accesi il mio piccolo iPod. Stavo collassando nel sedile per diventare parte integrante della morbida imbottitura quando il PokéGear vibrò sulla mia gamba.
Era un messaggio da parte di un numero sconosciuto. ‘Al diavolo... ora ci metterò secoli di meditazione profonda e digiuno per capire di chi si tratta’ pensai mentre leggevo il contenuto.
‘Ok, niente digiuno. Per fortuna, sarebbe stato un supplizio’ continuai a dirmi con un sorriso da perfetta cretina in faccia.
“Perché ridi da sola?” mi chiese Seir incuriosita dalla mia espressione cretina. Io sorrisi ancora di più.
“Perché non devo digiunare. Purtroppo non ho giapponese, ma significa che ho più tempo per impararmi gli Hiragana!” cinguettai io tutta soddisfatta.
Seir mi guardò storto, ma aveva imparato dall’esperienza che quando facevo così, era meglio non darmi retta e, soprattutto, non farsi domande.

Venerdì

“ALZATE QUEL CULO E METTETEVI A CORRERE!”
Il prof di motoria e la sua finezza. Mi commuove tutte le volte. Mica per niente lo ho soprannominato ‘marine’.
Mi trascinai in qualche modo a fare una corsetta attorno alla palestra, sognando le due ore successive come mai prima di allora.
Ok, no, è una balla. Tutte le volte che facevo motoria sognavo le ore successive molto intensamente. Non perché mi dispiacesse particolarmente educazione fisica, ma perché avendo danza lo stesso giorno, arrivavo a casa più morta che viva.
E il giorno successivo erano dolori a tutti i muscoli.
Cinque minuti dopo ero appesa alla spalliera che boccheggiavo tentando di non ansimare come un’asmatica. Feci un qualche esercizio di respirazione, e poi mi chinai a toccare le punte dei piedi tenendo le gambe tese.
“FORZA, BRANCO DI SFATICATI! PRENDETE I MATERASSINI, I PESI E LE CORDE!” ululò ancora il prof.
“Ma che vuole ancora da noi?” ringhiò Lizz avviandosi, mentre io tentavo di non morire lì sul colpo.
“Vuole farci saltare la corda e fare addominali? Ma quello è fuori” ansimai sbiancando.
Ma io, che sono fin troppo ubbidiente e forse anche un po’ masochista, andai comunque a prendere l’occorrente per poi svenire sopra il tappetino. Yun fece la stessa cosa una manciata di secondi dopo.
“Buonanotte” mi disse.
“A te” risposi, chiudendo sul serio gli occhi.

Arrivai in qualche modo in aula di plastico scultoreo, la materia che adoro.
Tirai fuori la teca contenete i disegni della suddetta materia. In quel momento dovevamo fare un ritratto, a mia sorella nel mio caso.
E io che stavo facendo? Un drago. Mi pare ovvio.
“Ehi, Yun...” chiamai con un sorrisino la mia amica, che si voltò a guardarmi con un velo di preoccupazione negli occhi.
Io presi fiato e...
“IO DISEGNO DRAGO, IO FACCIO DRAGO, DRAGO, DRAGO, DRAGOOOOO!” sproloquiai, riferendomi a un episodio realmente capitato.
Seo-Yun si schiaffò una mano in faccia, per poi minacciarmi, trattenendo una risata che liberò subito dopo assieme alla sottoscritta.
“Aura, ti tiro un cuscino!”

Dovete sapere una cosa a proposito delle ore di plastico scultoreo. È la lezione più strana, perché può passare tranquillamente o diventare un covo di matti.
Ora che ve lo ho detto, riuscirete più o meno a giustificare come io e Yun siamo arrivate a sclerare per colpa dei ritratti (e del mio drago e di qualche occhio) fino a quei livelli.

“AHAHAHA, ODDIO, SEMBRA UN FUNGO! AHAHAHAHA AURA GUARDA, È UN FUNGO! AHAHAHA!!”
“Lasciami stare, Yun, lasciami marcire qui sotto in silenzio... AHAHAHAHAHA… io sono depressa…”
Ecco, vi descrivo la situazione. Seo-Yun era in preda a convulsioni dovute a una risata isterica che si portò dietro per entrambe le ore. Rischiava di cadere giù dalla sedia a momenti, e mi sorprendo della resistenza della sua matita, che era ancora integra nonostante la ragazza continuasse a sbatterla sul tavolo.
Io, invece, ero seduta a gambe incrociate sotto il tavolo con la testa tra le mani, che a tratti mi deprimevo, ma pesantemente, e in altri momenti ridevo quanto l’altra.
Insomma, una cosa normale.
La colpa era dei nostri ritratti, ovviamente.
Io non riuscivo a farlo, secondo la mia opinione tutt’altro che colma d’autostima. Così ero tornata a fare il drago. Solo che non mi venivano le scaglie, e così avevo avuto uno dei miei moti di depressione. Ergo, avevo sbattuto la matita sul tavolo, ribaltato i fogli per non vedere il mio operato, spostato la sedia indietro, così da crearmi un posto sotto il tavolo, dove mi ero seduta. E dove rimasi dieci minuti abbondanti.
Yun cancellò la base del suo ritratto per poi rifarla.
“AHAHAHAHA ODDIO, ORA È UNA MEDUSA! AURA, UNA MEDUSA, MEDUSAHAHAHAHAHAH! … ANDIAMO TIRATI SU!”
“No, io resto qui... sono troppo depressa... AHAHAHAHAHA... lasciami stare...”
“Ehi, Yun... dov’è finita Aura? Era qui dieci minuti fa!” chiese una mia compagna di classe alla mia compare, che aveva abbandonato quello che era tornato ad essere un fungo dopo la sua breve esistenza da medusa per iniziare a fare degli occhi, mettendosi a ridere anche per quelli. Un caso perso.
“È sotto il AHAHAHAHAHAHA tavolo... AHAHAHAHAHA OCCHI!”
“EEEEEH? E che ci fa là sotto?”
“Booooooh! AHAHAHAHA”. E dopo questa, la mia povera compagna lasciò perdere la situazione, che ormai poteva essere descritta con una sol parola.
Disagio.

Sabato

“Ecco, questo è quanto”.
Finii di raccontare tra le risate generali. Sam era scesa da qualche minuto, non facendo la nostra stessa scuola, ma una un po’ più vicina.
“Oddio ahahahaha, davvero, mi ricordo, ahahahaha... il fungo... no, ok, ahahahahah”. Yun dava l’impressione di star per sputare un polmone.
Seir, dal canto suo, scuoteva la testa divertita.
Il treno si fermò, mentre ancora la ragazza con i capelli rossi rideva, così io e la blu la scaricammo giù dal mezzo di trasporto praticamente di peso.
Per fortuna si riprese prima di entrare a scuola, perché pur essendo magra un po’ pesava, specialmente se continuava a contorcersi come un’anguilla.
Ci dividemmo da Seir per le prime due ore di laboratorio. E, ad aspettare me e Yun in classe, tanto per cominciare bene a giornata, c’era un prof che parlava con un manichino.
La giornata iniziava proprio bene.

Beh, questo è tutto. Spero faccia ridere, le mie amiche hanno letto dei pezzetti e si sono spanzate. Anche perché c’entravano loro!



L'articolo è stato scritto da Aura, come avrete capito voi zucche vuote ma non troppo. Siete invece troppo zucche vuote per capire il motivo del ritardo.
L'autrice di questo articolo è visibilmente soffocata dagli impegni e riesce a ricordarsi che tra le sue funzioni vitali c'è anche la respirazione solo il mercoledì. Purtroppo è diventata anche una specie di zombie a forza di bere caffè per dimenticare le ore di sonno bruciate dalle sue mille e una cose da fare...
C'è anche la pigrizia dell'altra tipa che ha rallentato un po' la pubblicazione. Andate a vedere il prossimo articolo, che sarà online a momenti (è in fase di HTMLaggio, comprendeteci) e che sicuramente vi farà schifo.
Sì, mi diverto a offendere quella marmocchia permalosa di Eleanor.

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Brunifoglia “ Comunità rurale ricca di orticelli ” Brunifoglia era una modesta cittadina nata tra le montagne, situata a Nord-Est di Hoenn. Attraversata da un'unica via principale che collegava il Percorso 113 al Percorso 114, era caratterizzata da paesaggi rurali che la rendevano differente e particolare rispetto alle altre città della regione. Il territorio era fertile e argilloso grazie alle acque del lago, l'unico ecosistema in grado di ospitare Pokémon come Barboach, Whiscash e Lombre. Anche il Monte Camino era in grado di caratterizzare l'ambiente circostante, il Percorso 113 era rinomato per la cenere vulcanica che scendeva dal cielo e ricopriva il suolo con un leggero manto grigiastro. I bambini che non avevano il timore di affrontare gli Skarmory selvatici, erano abituati a inoltrarsi nella vegetazione per dedicarsi alla raccolta della cenere e portarla del vetraio che abitava nelle vicinanze. Brunifoglia era abitata esclusivamente da fami

Quindicesimo Capitolo - 15

Salve ragassuoli, mi dispiaccio ogni volta per il ritardo nella pubblicazione, e mi rendo conto che sta diventando un disagio. Ecco perchè, dalla settimana prossima, per problemi di lavoro, la fan fiction sarà pubblicata il MARTEDì. Chiedo ancora scusa, e spero di non aver recato disagio. Ringrazio tutti quelli che hanno messo mi piace alla pagina   Pokémon Adventures ITA . Vedere il seguito crescere ogni giorno di più è una grande soddisfazione. Sei su EFP? Vieni a recensirci anche lì!  Andy Black, autore su EFP Ricordo sempre che il nostro progetto, Pokémon Courage ha bisogno di sostegno da parte vostra...niente soldi, tranquilli, basta solamente un po' di partecipazione. Siamo davvero così pochi a leggere questa bellissima storia? Entrate anche voi a far parte della famiglia di Pokémon Courage . Ho finito con le raccomandazioni. Cominciamo. Stay Ready...Go! Andy $   “Rachel...sei davvero tu?” chiese sgomento Ryan, quasi commosso. Zorua fece un