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Frammenti - Supernova - 3 - Andy Black

Explodes

Fiori di luce si aprivano nel cielo del vespro. Arrossato, imbrunito, quasi bruciato, le stelle reclamavano quella tela brunastra che pian piano si scuriva fino a diventare lentamente nera.
I fuochi d'artificio manifestavano la gioia, l'ennesima festa della popolazione di Amarantopoli.

Ogni occasione è buona per festeggiare.

Astolfo era davanti all'ampia finestra del suo ufficio, lì, sulla torre. Gli occhi si muovevano lenti lungo tutto lo scenario a cui erano sottoposti, assaporando ogni particolare: gli aceri fulvi perdevano le foglie, bastava un soffio di vento per muoverle dal pavimento del cortile. La grande statua di Ho-Oh regnava imperiosa in quello spazio vuoto. I detenuti erano nelle loro celle, e tutto era calmo.
Tutto funzionava come doveva, tutti rispondevano delle proprie funzioni, delle proprie mansioni, delle proprie responsabilità.
E finché ogni rotellina è ben oliata il meccanismo funziona a dovere.
Le braccia erano strette nella camicia celeste e nella giacca grigia; non poteva girare il collo molto agevolmente, il colletto era assai inamidato e nascondeva il suo sguardo a chiunque fosse al suo fianco.
Un altro fuoco d'artificio dipinse linee blu sulla tela ambrata del cielo ed un sospiro fuggì galeotto dalla sua bocca, infrangendosi sul vetro della finestra.

L'hai sporcata.

Abbassò la testa, accanto alla cravatta, grigia come il suo completo, c'era il suo fazzoletto.
Celeste, come la sua camicia.
Lo prese e lucidò il vetro.

Ora è pulito.

Ripose il fazzoletto e si voltò. Cumuli di scartoffie dovevano essere controllati, firmati, controfirmati, timbrati, accumulati a formare pesanti plichi e poi spediti a chi di dovere.
Non lo avrebbe fatto fare a George, no.
George, il suo segretario (almeno qualche anno prima), era andato via.
Anche giustamente, e senza fare troppo rumore.
Astolfo ricordava tutto: con il passare del tempo si era reso conto di come il suo comportamento fosse mutato, di come era l'unica persona dotata di determinate caratteristiche lì dentro.
Non poteva mischiarsi con gli altri, e per altri non intendeva i detenuti; quello nemmeno a pensarlo.
L'unica volta che ci aveva provato, quattro anni prima era stato respinto.
Forse perché era diverso. Perché forse era migliore.
Non riusciva ad ammettere a se stesso di quanto quella situazione avesse bruciato il buono che era cresciuto in lui per tanti anni, ma quando la Dottoressa Mirta Lorin, all'epoca una semplice funzionaria laureanda, respinse ogni suo approccio, lui seriamente era rimasto basito.
I motivi. Erano quelli che non capiva. Non era all'altezza di quella donna? O dell'uomo che quella donna aveva menzionato di avere accanto?
Era migliore di lui quell'uomo?

Non credo proprio.

Si reputava migliore, forse.
Già, non c'era altra spiegazione. Perché rifiutare un ragazzo come lui, ricco di potere, di denaro, intelligente e capace.
Col tempo le lauree sulla sua parete diventarono tre: giurisprudenza, psichiatria ed infine fisica. Era preparato su tutto ciò che muovesse gli uomini. Il loro pensiero, il loro modo di rapportarsi tra di loro, le funzioni che permettevano ad ogni cosa di essere ciò che era.
Tutto.
Astolfo sapeva tutto, ed era a conoscenza dei propri mezzi.
Ma Mirta l'aveva respinto e George era sicuramente andato lì a deriderlo.
Sì, era così.
E quando Astolfo glielo chiese, George rispose di avere una moglie, che sicuramente stava ostentando; sicuramente pensava che quella donna dai fianchi larghi e dai comportamenti frigidi fosse migliore degli attestati dei suoi sacrifici.

Lui non aveva le lauree. Si permetteva di parlare con me, con quell'aria da... saccente, da superiore. Lui non era il proprietario di un manicomio, lui era un semplice segretario.
I suoi compiti erano basilari, elementari; nulla a che vedere con le mie grandi responsabilità.
Io sì che sono un uomo tutto d'un pezzo.

E forse il succo del ragionamento non si manteneva nemmeno sulle sue due gambe toniche, fasciate in quel completo grigio, poggiate in quel paio di Dolce&Gabbana di pelle nera.
George aveva una moglie.
Astolfo aveva un impero. Ed un passato.
Ed una cicatrice.
Era totalmente perso nei suoi pensieri quando qualcuno bussò alla porta.
"Avanti..." fece lui.
L'uscio si spalancò e la figura della Dottoressa Lorin si manifestò.
"È permesso?" domandò, con quella voce morbida e sottile, dolce.
Astolfo la scrutò con lo sguardo spento, dietro le sue lenti piccole e sottili: La donna, chiusa nel suo camice, continuava a tenere in forma quel corpo che tanto aveva stimolato i pensieri dell'uomo. Portava un paio di scarpe eleganti, lei, con tacco quadrato, di quelli doppi. I capelli castani erano tenuti alti, legati con due bacchette. Un paio d'occhiali non troppo grandi nascondevano lo sguardo vivido e acceso.
Astolfo la guardò negli occhi, il suo sguardo scivolò sul naso e rimbalzò sulla lingua di quella che si umettava le labbra, quindi tornò a fissare le iridi verdi della donna.
"Prego".
La voce di Astolfo si espanse dura e cavernosa nel suo ufficio, dove il silenzio rimaneva tale per paura d'infastidire. La ragazza pulì i piedi, anche se inutilmente, su di un tappetino posto fuori la porta, quindi entrò.
La prima impressione che aveva Mirta quando attraversava l'uscio di quell'ufficio era il freddo: un freddo artico, che veniva dall'arredamento e dallo sguardo del Direttore.
"Posso?" chiese lei, una volta arrivata davanti un'accogliente poltroncina.
"Si accomodi".
"Ho le cartelle cliniche dei pazienti chiusi nel settore di massima sicurezza. Sono da timbrare".
"Faccia stesso lei" disse Astolfo, voltando lo sguardo. "Sa come si fa".
"Certo, Dottor Trebuchet".
Astolfo camminava lentamente dietro la sua scrivania.
"E come sta?" domandò poi l'uomo, prendendo un gessetto dalla scrivania ed avvicinandosi alla grande lavagna sulla parete di sinistra.
Mirta Lorin non rispondeva; si limitava a timbrare come una macchina le cartelle cliniche. Poneva poi uno scippo con la penna, una sigla sempre uguale, ciò che più potesse assomigliare alla firma elaborata di Astolfo Trebuchet.
"Mi risponda" tuonò lui, dandole le spalle.
"Sto bene".
Astolfo guardava quella sequenza di numeri e lettere sospirando. Quando si ritrovava davanti quella formula matematica trovava la sua kriptonite e la figura dell’uomo serio e di tutto punto sarebbe facilmente sparita, lasciando spazio a manifestazioni ben più selvagge, se l’autocontrollo del Dottor Trebuchet non fosse radicato in se stesso come canali linfatici in un albero.
Sospirò, quasi sbuffò, facendo segno di no con la testa, quindi si voltò. Mirta lo guardava.
“Che cosa studia?” domandò lei, con la penna poggiata alle labbra. La penna di Astolfo poggiata alle morbide labbra di Mirta.
“Per ora il nulla cosmico. Manca qualcosa”.
Quella si alzò, portando la penna con sé. Lo affiancò ed alzò gli occhi verso l’enorme lavagna. Numeri, lettere, segni, simboli, tutto per trovare la costante, la dannatissima costante.
“Cerco la singolarità”.
“La singolarità?!” esclamò esterrefatta quella.
Lui annuì, guardando soltanto la sua laurea in fisica, senza ostentarla: non sarebbe servito a nulla.
“E per quale motivo?”.
“Tornare indietro... Cancellare gli errori...” e sospirò ancora, assumendo uno sguardo languido nei confronti della dottoressa. Analizzando meglio, però, sarebbe tornato ancora più indietro. Magari avrebbe fermato la piromania di quel pazzo di suo fratello, che aveva portato via i suoi genitori, facendoli morire bruciati.
Bruciati vivi.
In lui crebbe una sensazione di vendetta unica, condita dal rimorso e dal tanto bene che gli aveva voluto; in fondo era sempre suo fratello. La voce di Mirta lo distolse dai suoi pensieri.
“Sarebbe davvero una scoperta rilevante se riuscisse a scoprire la singolarità. Potrebbe inventare la macchina del tempo ed ottenere onorificenze e meriti per l’intuizione” sorrise lei. Astolfo la guardò con sufficienza.
“Non si chiama intuizione ciò per cui lavori da quattro anni. Intuizione è quando attraversi la strada senza guardarti attorno solo perché non senti alcun rumore ed arrivi vivo dall’altra parte. No, Dottoressa Lorin, io sto guardando a destra ed a sinistra prima di arrivare dall’altra parte. Sto studiando il mio percorso”.
Lei tirò le labbra dentro ed annuì, quindi tornò a fissare la lavagna con discreto interesse.
“Se ho ben capito quindi sta cercando, con questa incognita, qualcosa che annulli la materia, giusto?”. Mirta puntava la penna dal cappuccio dorato, opaco e sporco di rossetto, verso l’alfa nella parte destra della lavagna.
“Non l’avevo mai intesa così... Cercavo un punto dove la materia non esistesse” lui si voltò stupito verso la donna. “Ha conoscenze in merito?”.
“Tanta passione” sorrise imbarazzata lei.
“In pratica io cercavo un buco nero. Ma lei, con la sua intuizione, mi ha fatto capire che invece di creare un buco nero, potrei trovare dell’antimateria”.
“Beh, semplice a dirsi... Può cominciare tuttavia a risolvere in base teorica il problema e, alla fine, vedere se ci sono i giusti mezzi per poter effettuare un’applicazione pratica” concluse lei. Poi aggiunse dell’altro.
“Se non le disturba, vado nel mio ufficio a cercare un tomo che mi fu regalato dal Professor Hole, ai tempi dell’università. Riguardava l’antimateria ed il concetto di singolarità”.
Astolfo tornò a guardarla con sufficienza.
“So che le sue conoscenze non possono essere minimamente paragonate alle mie, né a quelle di un libro...” storse per un attimo le labbra Mirta “... Ma forse fare un ripassino può aiutare...”.
Lo sguardo di Astolfo la giudicava.
“Senza offesa e col massimo rispetto”.
“Vada” acconsentì lui, poggiando il gesso al bordo della lavagna ed incrociando le braccia.
Si sentiva strano; Mirta, la stessa donna che gli aveva inflitto quel plurimo rifiuto, adesso stava cercando di aiutarlo.
Nella testa si arrovellavano teorie e fantasie: la singolarità si accostava ai buchi neri, affiancati dall'antimateria, e ancora i graffi del gesso sulla grafite della lavagna, e la voce di Mirta; il suo volto s'illuminò nei suoi pensieri e la fantasia viaggiò, oltre quella porta, entrando nell'ufficio accanto, spogliandola da quel camice bianco e sciogliendole i capelli.
Possedendola sulla scrivania.

No...

Doveva darsi un contegno, doveva calmarsi. Ancora spalle alla porta, rivolto verso la grande vetrata, vide il vento sbuffare mentre due foglie s'inseguivano tra di loro.
La porta alle sue spalle cigolò, quindi sentì due passi rimbombare sul pavimento.
"Non hai pulito i piedi" sospirò l'uomo, voltandosi.
Davanti non aveva Mirta, né i suoi capelli tenuti su con le bacchette.
Nemmeno il suo camice stretto addosso.

Zeno...

Gli occhi di Astolfo si spalancarono nel momento in cui incrociarono quelli del fratello.
"Non sapevo di dovermi pulire i piedi" fece lui, con la sua voce roca e con un accenno di sorriso sul volto.
Astolfo rimase attonito, come uno stupido. La bocca si aprì in maniera automatica, lentamente e lui prendeva consapevolezza di ciò che stava succedendo: di fronte non aveva la Dottoressa Mirta Lorin, no. Di fronte a lui c'era Zeno Trebuchet, il suo gemello.
L'uomo che aveva ucciso la sua famiglia.
Era vestito con una camicia di Jeans, sotto una canottiera di un bianco ingiallito. Jeans e scarpe antinfortunistiche completavano l'opera.
Quant'erano simili tra di loro, quei due.
Stessi capelli scuri, si avviavano in quel grigio particolare, in quella tonalità che di lì a poco sarebbe diventata il classico sale e pepe, con toni di bianco che mano a mano si sarebbero rafforzati.
Il volto era più disteso rispetto all'ultima volta che lo vide e qualche ruga in più solcava il suo volto.
"Dodici anni..." sussurrò Astolfo. "Dodici anni, aspettando di rivederti, Zeno. Ora ti ho davanti".
"Fratello mio" sorrise lui, avvicinandosi lentamente.
"Dodici anni sperando di rivederti vivo" continuò l'uomo nel completo. Zeno gli si avvicinò e lo strinse con vigore.
"Gemello mio" sussurrò quello, poggiando la faccia sul morbido tessuto grigio sulla spalla del fratello. Astolfo abbassò il volto, vedendo la barba di un paio di settimane sul volto di quello.
Dentro stava vivendo una vera e propria battaglia con se stesso. Difficile non ammettere che vedere quegli occhi fosse stato malinconico, portandogli alla mente ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza che avrebbe sempre protetto nel cuore.
Almeno prima del big bang; prima che Zeno uccidesse i suoi genitori.
"Cosa ti ha detto la testa in quel momento?".
Fu un sussurro che, seppur dettato dalla rabbia, penetrò nelle orecchie di Zeno e si radicò tra le sue ossa.
Tuttavia quello fece finta di nulla; la felicità di aver ritrovato il fratello lo costringeva ad un sorriso sommesso.
“E così sei il direttore di questo... Cos’è questo, di preciso?”.
“Questo è un manicomio” fece Astolfo, con voce granitica. “Un luogo di recupero per i malati di mente, per i piromani che bruciano casa, che ammazzano i genitori. Che restano impuniti”.
Zeno rimase per un attimo interdetto. Alzò la testa e guardò il riflesso del suo volto sulla finestra che aveva di fronte.
Si era appena reso conto di quanto fossero diversi. Lui aveva vestiti di jeans sporchi di calce e polveri varie, puzzava di zolfo e nutriva il recondito desiderio di farsi una doccia, almeno per levarsi le incrostazioni di cemento tra le mani.
Suo fratello, invece, era in un completo gessato, dritto e fiero, consapevole di essere migliore.
“Tu, Zeno” continuò improvvisamente il più elegante tra i due “Tu dovresti essere rinchiuso tra le mura di questo carcere...”.
“Io sono venuto qui per te” disse l’altro, facendo un passo indietro, giusto per guardarlo meglio negli occhi; quando lo fece vide rabbia e vendetta unirsi tra di loro in un cocktail mortale. Astolfo rivedeva tutta la scena: gli occhi di Zeno che quasi provavano goduria nel manipolare i comandi della caldaia, il rumore della perdita, le lamiere che si scioglievano, il fuoco che si appropriava di tutto, le risate del fratello.
Ricordava ancora i brividi che lo avevano colto quando sentì il rumore delle chiavi di casa nella toppa della porta d’ingresso.

Mamma... Papà...

Ricordava le sue urla, che a confronto di quelle del fuoco che imperversava risultavano come note stonate e dolenti in quel pentagramma ardente. Sentiva il pericolo, ricordava ancora il pelo del suo Pokémon che cominciava a bruciarsi: raccolse Eevee da terra e corse via, fuggendo da una finestra di fortuna, quasi una feritoia per quanto era stretta.
Poi soltanto quel boom, soltanto quel rumore, ancora gli rimbombava nella testa.
Il battito nel suo petto accelerò improvvisamente. Aveva davanti agli occhi l’autore dei suoi incubi firmati.
“Ti ho cercato per tanto tempo” disse Zeno.
“Anche io”.
“Mi sei mancato molto, ed ora sono qui. Non è che mi faresti usare il bagno... E magari potresti darmi qualcosa da mangiare”.
“Qui mangerai ogni giorno” faceva con lo sguardo vitreo Astolfo, avvicinandosi a lui.
“Grazie, fratello” sorrise Zeno.
Astolfo fece l’ultimo, fondamentale, passo, per poi colpirlo con un gran pugno sul naso. Si gettò su di lui come una leonessa sulla preda, colpendolo nuovamente, facendolo cadere per terra, e ancora gli si avventò contro.
Zeno, dal canto suo, non si aspettava una simile accoglienza. Era davvero felice di rincontrare suo fratello e quella situazione non l’aveva minimamente messa in conto; quel pugno gli era arrivato dritto sul naso e l’aveva risvegliato con un rumore freddo e secco, proprio come la campanella della boxe.
Tuttavia doveva reagire: il fratello sbraitava qualcosa riguardo una sua possibile reclusione, lui non capiva. Era andato da lui per ottenere un abbraccio, la voglia vederlo era tanta; ebbene, si era ritrovato il naso ammaccato ed il sangue che gli colava sulla maglietta.
Non andava bene.
Un colpo di reni di Zeno fece sbilanciare Astolfo, mettendo in pausa il flusso di botte che stava fluendo su di lui. Il secondo era pronto a premere il tasto di rewind, quando Zeno lo colpì con un pugno al petto, facendolo terminare con la schiena per terra.
Gli si avventò addosso, cercando di bloccarlo senza colpirlo ulteriormente, ma una mano agile virò velocemente verso la libertà e andò a colpire con un rumoroso schiaffo la sua guancia destra.
“Che cazzo ti prende?!” urlò Zeno. Astolfo lo spinse via e gli si riavventò addosso, colpendolo di nuovo con forza.
Zeno alzò i pugni per pararsi i colpi sul volto, incassando tuttavia una rapida serie di pugni nello stomaco. Sputò un pochino di sangue e poi sentì la porta aprirsi.
Guardò per un attimo Astolfo: avrebbe dovuto approfittare di ogni minima distrazione, doveva fuggire; gli sembrava seria l’intenzione di rinchiuderlo tra le sbarre di quel manicomio.

Astolfo alzò gli occhi velocemente e vide il viso sconvolto di Mirta Lorin. La Dottoressa fece cadere dalle mani il grosso tomo, nero, in pelle, rilegato finemente, e sconvolta fece un passo indietro.
“Mirta! Mi aiuti! Corra a prendere le manette nel primo cassetto della mia scrivania!”.
Astolfo vide Zeno afferrargli le mani, prese ad urlare.
“Tu!” riprese il Direttore “Tu hai ucciso la mia famiglia! Hai distrutto il luogo dove sono cresciuto e mi hai fatto avere incubi per anni! Tu sei la causa dei miei mali! Dottoressa! Le manette!” urlò ancora alla donna, ferma in stato di shock davanti alla porta.
“Forza!”.
Mirta si svegliò dal suo sonno e fece un passo in avanti, senza pulirsi i piedi. Quasi si sentiva sporca ed inadeguata.
“Nel primo cassetto!”.
Zeno fissava gli occhi iracondi del gemello, vedendo con la coda dell’occhio la donna che si avvicinava a loro. Cercò di fermarla, afferrandole la caviglia, e lei urlò terrorizzata. Sentiva le mani ruvide e sporche sulla sua pelle morbida, i residui di calce graffiavano la morbida cute rosea attorno al cinturino della scarpa. Le dita avvinghiavano il collo del suo piede, si sentì per un attimo in trappola, persa, senza alcuna via d’uscita.
Stringevano, quelle mani, non la lasciavano andare, poco a poco si rendeva conto che un potenziale maniaco sessuale, un folle, un piromane, un rapinatore o peggio, uno stupratore, un rapitore la stava toccando.
Urlò ancora, stavolta più terrorizzata, con la stessa sensazione di un animale in una rete.
Zeno dal canto suo non poteva lasciarla andare; non si aspettava di trovare una simile accoglienza ma passare dalla voglia di vedere suo fratello a quella di fuggire via in pochi secondi era il risultato di quella situazione: Astolfo lo voleva arrestare per il fattaccio di dodici anni prima.
Quindi non avrebbe lasciato che quella donna prendesse le manette. O almeno non lo avrebbe fatto se Astolfo non lo avesse colpito in pieno viso.
“Lascia stare lei! Non permetterti di toccarla!”.
Zeno lasciò la presa dalla caviglia della donna e lei riprese a camminare, con le lacrime agli occhi. Arrivò alla grande scrivania in legno, laccata e lucida, rifletteva la debole luminosità delle lampadine a basso vattaggio, la circumnavigò ed aprì il primo cassetto a destra.
Sbiancò: accanto alle manette vie era una grossa Glock, con i proiettili che rotolavano in direzione del fondo del cassetto.
Afferrò le manette con mani tremanti, erano fredde. Una lacrima lasciò il suo viso e cadde sul fondo del cassetto, distruggendosi in mille frammenti vitrei.
“Presto!” urlò ancora Astolfo.
Lei si riprese, ma era sotto shock: era la paura a dominarla in quel momento, non la testa. La ragione ed i sentimenti non servivano dato che il suo corpo aveva deciso di rimanere lì dov’era.
“Forza, Dottoressa! Mi dia le manette!”.
Mirta sbatté gli occhi un paio di volte prima di rendersi conto dell’effettiva realtà: doveva sbrigarsi.
Astolfo vide arrivare Mirta Lorin con le manette, quindi fece forza sulla spalla del fratello per farlo girare con la faccia a terra.
Lo fece e schiacciò il viso di quello sulle fredde mattonelle. Zeno si dimenava.
“Lasciami!” urlava. “Che cazzo fai?! Lasciami!”.

Prendigli il braccio...

La voce roca e penetrante dell’uomo entrava nella testa di quello che gli somigliava tanto. Durante la colluttazione aveva perso tre bottoni, uno alla giacca e due alla camicia, ma non sembrava interessargli. Spingeva la testa del fratello per terra poi gli piegò il braccio destro e, una volta ricevute le manette, la infilò al polso.
Zeno urlava e si dimenava come un ossesso. Astolfo lo colpì alla testa.

Ora quell’altro...

Afferrò l’altro polso, Zeno sembrava essersi acquietato, quindi aprì la manetta. Astolfo rilassò i muscoli, stava tutto per finire. Mirta osservava con gli occhi spalancati ciò che accadeva, il trucco colava dai suoi occhi lentamente e le labbra erano colte da un tremore ben visibile.

Pochi secondi, un semplice clic e tutto sarà concluso...

Fu all’improvviso.
Zeno raccolse la sua forza dal nulla e, facendo leva sulle gambe disarcionò velocemente Astolfo, quindi si sollevò prendendo a correre, fuggendo.
Astolfo si alzò immediatamente e lo inseguì, dando per sbaglio un calcio al grande libro della Dottoressa Lorin; Una pagina a caso si aprì, trattava di Darkrai, ma a nessuno interessava in quel momento.

“Fermati immediatamente!” urlava Astolfo, scendendo la ripida scalinata che dava nel cortile.
Zeno era un paio di metri davanti a lui, la manetta libera scintillava ad ogni raggio di luce che incontrava.
Astolfo doveva prenderlo, doveva riuscire ad acciuffare suo fratello, doveva assicurarsi che i suoi genitori riposassero in pace. Doveva assicurarsi di aver fatto il proprio dovere.
Scesero l’ennesima rampa di scale, rimaneva l’ultima, che Zeno evitò bellamente, saltandola: dieci scalini lasciati indietro, una capriola appena toccato piede sul terreno e poi via. Diede una spallata alla porta d’emergenza, che si aprì immediatamente, immettendolo nel grosso cortile. Pochi secondi più tardi lo raggiunse Astolfo, che fu costretto un attimo a rallentare: il vento giocava con le foglie, alzava elementi che sarebbero dovuti restare immobili e che confondevano il Direttore con i loro movimenti sinuosi.
“Guardie! Liberate gli Houndoom! C’è un evaso! Avete il preciso ordine di abbatterlo! È un pericoloso piromane. Indossa vestiti di jeans e mi assomiglia!”
Fece qualche passo in avanti mentre gli Houndoom presero ad abbaiare e a correre da tutte le direzioni. Nulla si muoveva, tranne le foglie rosse d’acero. E Zeno, che scavalcava di sottecchi l’alto muro delle recinzioni.
“È fuori!” urlò Astolfo. “Abbattetelo!”.

Zeno sentiva i cani abbaiare, e l’ansia in corpo aumentava, saliva a livelli critici che mai aveva provato prima di quel momento. Correva, accumulando ampie falcate l’una dietro l’altra, inoltrandosi nella foresta. Gli Houndoom lo inseguivano e si avvicinavano sempre di più mentre cercava di visualizzare una possibile soluzione a quel problema, inutilmente, dato che il tintinnio continuo della manetta che sbatteva sugli alberi lo deconcentrava.
Odiava le manette: avrebbe dovuto rompersi di nuovo il pollice per levarla. Convenne con se stesso che non era quello il momento di pensare a certe cose.
Davanti a lui solo schiere di alberi tutti uguali, nelle orecchie gli abbai dei Pokémon ed i versi dei Pokémon del bosco. Il vento gli soffiò contro, quindi una luce bluastra comparve davanti a lui.
“No!”.
Sapeva cosa fosse: era un Teletrasporto, e quello era l’Alakazam di Astolfo, con l’Allenatore accanto.
Zeno frenò gettandosi per terra, ruzzolò, sbatté col fianco contro un’imponente tronco d’albero morto, quindi cambiò direzione, virando verso est.
Astolfo e gli Houndoom lo rincorrevano, con questi ultimi a fargli più paura, perché più veloci ed aggressivi.
Superò l’ennesimo albero, gemello di una famiglia infinita, quindi entrò in una radura, ma inciampò in una radice e rotolò per terra. Un Houndoom gli si avvicinò velocemente e gli morse la gamba dei pantaloni, cominciando a strattonarlo, a tirarlo a sé.
A Zeno, invece, non importava nulla dei pantaloni. Astolfo si avvicinava sempre di più e l’ennesimo colpo di reni, accanto alla pessima qualità dei jeans dell’uomo lo liberarono dalle fauci del Pokémon. Si rimise in piedi, e si rese conto che la radura terminava con uno strapiombo a picco sull’autostrada. Un rumore di clacson lo destò.
“Fermati e arrenditi!” urlava Astolfo, rallentando. Era con le spalle al muro.
“Perché fai così?” chiese sconsolato Zeno.
“Ma guardati... Sembri quasi normale...” sorrise amaramente Astolfo.
“Sono venuto dopo dodici anni perché volevo vederti... Per vedere te! Mio fratello!”.
“Tuo fratello è orfano per colpa tua! Hai ucciso i nostri genitori! Devi pagare per la tua follia!”.
Astolfo non ci vedeva più dalla rabbia. Gli occhi erano spalancati, la bocca pure, i pugni serrati.
“Ora vieni di tua spontanea volontà e non mi costringere ad attaccarti con i Pokémon!”.
Zeno abbassò il volto schifato. “Non volevo...”.
“Non ha importanza. La giustizia ora reclama di vederti rinchiuso in una cella. In una mia cella”.
“Fratello degenere... Mi vendicherò. E soffrirai”.
Si lasciò cadere dallo strapiombo proprio quando l’ultimo raggio del sole aveva colpito il volto di Astolfo, prima di eclissarsi dietro l’orizzonte. L’uomo, coi vestiti strappati si avvicinò lentamente allo strapiombo.
Ed il corpo di Zeno era lì, esanime.




Anzi no.






Il corpo di Zeno non c’era.



Dannazione.

 
Angolo Autore.
Salve a tutti. Voglio cogliere l'occasione per ricordare che il personaggio in questione è stato creato da un sesto autore che non è presente nella stesura della storia, che è Barks.
Grazie per aver letto fino a qui, saluti a tutti.

Andy.

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