6. Nessuna
Scelta
- Universo X -
Un tuono rombò in quella casa buia e silenziosa.
Solo due respiri s’avvicendavano, educatamente, senza sovrapporsi.
“Ti supplico” fece Irya, stringendo le mani di sua sorella Marta. Quella
portò i capelli castani dietro il collo, fissandola ardentemente con le sue
iridi cremisi.
“Sei... sei sicura? Hai idea di quello che mi hai chiesto? Dopo potresti
pentirtene... Insomma, è tua figlia”.
Irya non riuscì più a trattenere le lacrime, sentendo la disperazione
squassarle l’animo dall’interno.
Sentì sua sorella continuare a parlare, mentre le stringeva le mani.
Marta era sempre stata la più matura, quella che prendeva le decisioni dopo
un’attenta valutazione.
“Lui ti ha davvero detto quelle parole?”
“Sì. Sono riuscita ad uscire, questo pomeriggio, senza farmi vedere dai suoi uomini. Ed ora devo fare presto, altrimenti potrebbero
scoprirci e venire qui”.
“Credo che non sia la soluzione migliore. Forse dovremmo chiamare la
polizia e...”.
“Ma sai quanti soldi possiede?! Potrebbe corrompere chiunque... Marta,
ti prego... Se te lo sto chiedendo vuol dire davvero che non ho altra scelta”.
Irya aveva il trucco sciolto sul volto, con gli occhi azzurri che sembravano
piangere lacrime nere sulle guance arrossate. Aveva i capelli corvini, quella
sera di Novembre, legati in una coda disordinata, con molti ciuffi lunghi e
corti che le ricadevano sul collo. Indossava una felpa bordeaux con cappuccio,
e su aveva un disegno di un bulldog col cappellino dei Metz.
Era disperata, e Marta lo vedeva. La sorella maggiore era rimasta
immobile per qualche secondo, soppesando ogni possibilità. Guardava il dolce
viso di sua sorella stretto in una smorfia di dolore, come non l’aveva mai
vista, e quindi comprese appieno la gravità della situazione.
Doveva decidere velocemente il proprio futuro, quello della sorella.
Quello di sua nipote.
Avrebbe dovuto crescerla come una figlia.
“Ed ora la piccola dov’è?”.
“Con le suore, in chiesa, a Primaluce”.
“Lionell non verrà subito qui, secondo te?”.
Io e Lionell ci stiamo trasferendo ad Alola fino ai diciott’anni di
Rachel... un posto tranquillo, insomma”.
“Ma Rachel sarà qui con me”.
“Lo so. Ecco perché, grazie alle suore, riuscirò ad adottare una
bambina, pressappoco della stessa età di Rachel”.
“Quindi...” sospirò Marta “Lionell penserà di avere davanti a sé sua
figlia ma in realtà...”.
“In realtà mia figlia sarà qui con te. E lei non dovrà mai sapere nulla
di questa storia, Marta. Io...” e le lacrime cominciarono a scendere per non
fermarsi più.
Marta la comprendeva, quasi sentiva attraverso la stretta delle sue
piccole mani dalle unghie mangiucchiate il dolore che provava. Un dolore non
del corpo, ma del cuore.
Ascoltava i gemiti della sorella e capiva che non avrebbe potuto fare
nulla per fare in modo che quella giovane madre non si dividesse da sua figlia.
“Scusami...” faceva Irya, con il labbro inferiore stretto tra i denti.
Pulì le lacrime sporche con la manica del maglione e vide anche sua sorella non
riuscire più a trattenere il pianto.
“Va bene...” disse Marta, stringendo la sorella minore in un abbraccio
che serviva ad entrambe. Si voltò, mentre Ryan, suo figlio, cinque anni di
vitalità e sorrisi infantili, dormiva sul divano, in attesa che suo padre
tornasse da lavoro.
Gli occhi di Irya si riempirono di triste sollievo.
“Grazie. Andrò a prenderla subito, se per te va bene”.
Marta annuì. “Verrò con te”.
“No, stanne fuori. Se dovesse vederti sarebbe la fine”.
E quindi uscì fuori, Irya, nella tempesta.
Entrò nella BMW blu di John e mise in moto immediatamente. Non sapeva
guidare quella macchina così grande.
Inoltre aveva il cambio manuale, e lei era abituata con quello
automatico.
In quel momento però doveva correre, far presto, quindi ripassò tutte le
nozioni che suo marito le aveva dato sulla guida con quelle dannatissime auto
europee e fece retromarcia, per poi accelerare velocemente, facendo stridere le
gomme.
Non sentiva il pieno controllo dell’auto, infatti sbandò un paio di
volte prima di prendere pieno controllo della vettura. La radio s’accese da sola,
facendo partire Confortably Numb dei Pink Floyd.
Magari, pensò.
Senza responsabilità, senza preoccupazioni. Soltanto una vita tranquilla,
nascondendo a tutti il proprio segreto, come aveva sempre fatto fino a quel
momento.
Accelerò ancora, imboccando l’autostrada panoramica, che girava attorno
alla lunga costa dell’isola d’Adamanta. Uscì da Timea velocemente, accelerando
e sentendo il motore urlare sotto il cofano. Avanzò la marcia, trasmettendo la
quarta, e poi la quinta.
Corsia di sorpasso fissa, la pioggia cadeva e faceva muro, ostruendo
qualsiasi cosa ma Irya continuava a correre, incosciente e noncurante di ciò
che sarebbe potuto succederle.
Raggiunse i duecento chilometri orari, quasi cinquemila giri del motore
ed inserì la sesta, e intanto il ritornello della canzone la faceva cadere in
uno stato irrequieto di consapevole disperazione.
“Avrei dovuto evitarlo, prima di partorire avrei dovuto fare qualcosa!”
urlò a se stessa. “Avrei dovuto ucciderlo, o dirlo prima a Marta. Magari John
l’avrebbe fatto ragionare! Invece sono rimasta in silenzio, ed ora Lionell
vuole uccidere la mia bambina!” piangeva. “Sono una stronza! Una merda!”.
Immaginava le mani di Lionell sul corpo di sua figlia, poi sulla sua
pelle e quasi aveva voglia di strapparsi la carne da dosso.
Quell’uomo la repelleva.
L’uscita per Primaluce fu raggiunta molto velocemente. Scalò, il motore
si disperava sotto le sue mani inesperte, quindi frenò e tornò nella corsia di
destra, facendo spaventare una coppia anziana in una vecchia Matiz rossa; il
vecchietto che guidava rimase attaccato al clacson per quattro secondi buoni,
prima di vedere quell’arrogante auto tedesca sparire oltre la rampa d’uscita.
I pensieri di Irya continuavano a vorticare mentre si immetteva nella piccola
cittadina, adeguando la velocità dell’auto. Il cuore le batteva impazzito nel
petto e voltò a sinistra, entrando nella piazza.
Non ci mise molto ad arrivare in chiesa, quel pomeriggio.
La zona era deserta, erano le diciotto e in quella giornata di quel
freddo inverno la pioggia radente batteva sul cortile del piccolo sagrato.
Scese dalla macchina dopo aver parcheggiato di traverso e lasciò le chiavi
vicino, quindi si mosse verso l’ingresso dell’edificio con la vecchia croce di
ferro battuto sulla porta. Calpestò un giornale vecchio ed affondò poi i piedi
in una profonda pozzanghera, inzaccherandosi totalmente i pantaloni della tuta
fino alla caviglia sottile. Entrò e camminò velocemente, sentendo i suoi passi
bagnati risuonare lungo la navata centrale. Oltre ad una vecchia donna che
sgranava un rosario sulla prima panca a destra non c’era nessuno. Con ancora il
cappuccio alzato salì sull’altare e poi passò oltre, aprendo la piccola porta
che dava alla sagrestia.
Appena entrata vide un grosso dipinto che raffigurava la Battaglia del Plenilunio;
s’intravedevano un Haxorus ed un Noctowl, sulla tela, oltre ad un numero
spropositato di spade brandite da uomini con le armature candide e lance
strette da soldati con gli elmi neri.
Non si curò dello sguardo della donna anziana e passò oltre, arrivando
in un lungo corridoio buio.
La pioggia batteva sulle finestre in alto ed un tuono deflagrò come una
bomba, poco lontano da lei.
Proseguì, soltanto il suo passo inzuppato risuonava nel lungo
corridoio, fino all’ultima porta.
Non bussò neppure e l'aprì.
“Rachel dov’è?” domandò, senza salutare.
L’anziana suora che la teneva in braccio le fece cenno di far silenzio.
“Sta dormendo”.
“Ha pianto tutto il tempo” rispose un’altra, considerevolmente più
giovane, con gli occhiali doppi sul naso.
Il parroco era in piedi, silenzioso e con le mani raccolte dietro la
schiena; guardava la pioggia attraverso la finestra.
“Come farai, Irya?” domandò lui.
“Marta ha detto di sì”.
Si girò, l’uomo aveva poco meno di settant’anni, i capelli totalmente
candidi e gli occhi di un uomo stanco che non aveva visto nulla della vita ma
che vi aveva raccolto tutto.
Irya s’avvicinò alla suora anziana e raccolse sua figlia, stringendola.
Rachel non si svegliò.
“Sì, piccola, continua a dormire” faceva, baciandole la testa. Scottava
un po’.
La cullò dolcemente, sentendo quell’odore dolce di borotalco che si
univa a quello naturale dei capelli radi e neri della creatura.
Non avrebbe mai voluto separarsi da lei.
“Padre, io... la ringrazio per quello che ha fatto. Le sarò riconoscente
per sempre”.
“Io credo che sarà importante tenere Lionell il più lontano possibile da
Adamanta”.
“Quando la piccola compirà diciott’anni Lionell tornerà automaticamente qui, per sacrificarla sul Monte Trave”.
Le tre persone di chiesa abbassarono lo sguardo e sospirarono.
“Ti stiamo consegnando una bambina orfana per farla morire, quindi?”
chiese la più giovane delle suore.
“Farò di tutto per proteggerla. La crescerò come fosse mia figlia”.
“Devi contattare le autorità” disse il parroco. “Anche se lo reputi
inutile non possiamo condannare un’altra giovane anima alla morte”.
“Rachel è più importante, Padre. Rachel è importante per tutti noi”.
“Che Arceus mi fulmini” disse poi il vecchio col collare candido,
aprendo la porta di una stanzetta adiacente. Accese la luce e quattro culle si
presentarono davanti a lei.
Quattro culle piene.
“Sono contento che tua sorella si faccia carico della bambina”.
“Risulterà quindi che Marta abbia adottato una di loro”.
“Lei” fece la suora anziana, che li aveva seguiti. La lasciarono passare
ed andò a prendere la bambina nella prima culla a sinistra, sollevandola.
Dormiva ancora, la bambina, nonostante il trambusto.
Anche lei aveva capelli neri e radi. E gli occhi, aveva assicurato il
parroco, erano azzurri come il cielo.
Come quelli di Rachel.
“Benissimo” fece quella, carezzando la manina morbida di quella che
avrebbe dovuto crescere come fosse sangue del suo sangue. Si assomigliano
molto... spero che Lionell la beva.
“È suo padre... dovrebbe riconoscere sua figlia all’istante...” s’inserì
il parroco.
“Lionell non vede la bambina da due settimane. Torna a casa a notte
fonda e quando mi sveglio è già andato in ufficio”.
“Quell’uomo è pericoloso” continuò l’anziano uomo di chiesa.
Irya si limitò ad annuire. “Ora devo andare”.
La suora più giovane accompagnò la donna e le due bambine verso l’auto,
liquidandole con un Arceus vi benedica
tutte e tre, prima di sparire oltre l’uscio del sagrato.
Rimise in moto la BMW, Irya, ma guidò lentamente, raggiungendo mezz’ora
dopo Timea. La pioggia non accennava a diminuire.
Parcheggiò nel vialetto di casa di sua sorella, evitando per pochi
centimetri i bidoni d’alluminio per la raccolta differenziata.
Non appena spense i fari Marta aprì la porta, correndo verso di lei.
Irya scese ed aprì le portiere posteriori; Marta si stava apprestando a
prendere una delle due bambine, quando sua sorella la fermò.
“Non quella. L’altra, Marta”.
La sorella rimase per qualche secondo immobile, sotto la pioggia, quindi
annuì e circumnavigò l’auto, aprendo la portiera e prendendo la bambina che era
sistemata lì.
Quella pianse immediatamente.
Corsero subito in casa, Irya era zuppa ma rimase con il cappuccio sulla
testa.
“Levati questo straccio bagnato e metti qualcosa d’asciutto” le fece
Marta.
“Devo andare. Allora, quella che hai in braccio è Rachel”.
“Oh”.
Marta guardò la piccola creatura, paonazza per il pianto, con appena un
dentino in bocca. I capelli neri erano arruffati. La donna la prese, cercando
di calmarla, cullandola.
“Sì, non fare così, dai...”.
Ryan si svegliò, alzando la testa. “Mamma...” fece. S’alzò e raggiunse
le donne in cucina. “Zia... cosa ci fai qui?”.
Irya rimase in silenzio e guardò Marta.
“Ryan, vai immediatamente nella tua stanza” disse, cullando la piccola
Rachel. L’altra bambina, invece, continuava a dormire nel porta enfant consunto
che la chiesa le aveva regalato.
Il ragazzino biondo non si fece altre domande e salì al piano di sopra,
chiudendo la porta.
“Ok. Marta, mi devi promettere che la tratterai come se fosse tua
figlia. Come se fossi io, come quando la mamma morì e tu mi crescesti. Me lo
devi promettere” Irya strinse il braccio della sorella mentre sentiva Rachel
calmarsi.
“Sì, naturalmente”.
“Io domani partirò. Da allora me la caverò da sola. Cercherò di salvare
questa bambina che ho preso”.
“La nuova... la nuova Rachel...” sussultò Marta.
“Già...”.
“Ti prego... non fare stronzate”.
“Lionell non permetterebbe mai che la bambina subisse qualcosa prima dei
diciott’anni. Sarà allora che dovremo agire. Magari fino a quel momento
cambierà idea”.
“Magari morirà” ringhiò Marta.
“Sì. Magari sì”.
“Ok... io devo andare adesso. Ti prego Marta non...”.
“Non le farò mancare nulla”.
Irya prese Rachel dalle braccia di sua sorella e la guardò: così piccola
e fragile, così bisognosa d’attenzioni.
Piccola mia,
cresci. Diventa donna e dai alla luce un’altra piccola donna, che ti somiglierà
come tu assomigli a me. Rachel mia, non hai scelto tu di nascere, non hai
chiesto tu di avere questo potere così devastante nel tuo piccolo corpicino.
Non hai chiesto
nulla di tutto ciò ma sarai importantissima per questo mondo.
E tuo padre
è uno stronzo, ti auguro di non incontrarlo mai. Per quel che ti riguarda
ascolta tua zia, chiamala mamma, non mi offenderò.
Tanto, nel
profondo del nostro cuore, io e te saremo sempre legate a filo continuo.
Come una
madre ed una figlia.
Posò Rachel e poi strinse sua sorella in un caldo abbraccio.
“Mi dispiace molto, Marta. Mi dispiace, che Arceus mi perdoni” fece.
“Mi sento tanto impotente. Vorrei fare qualcosa...”.
Irya storse le labbra. “Stai già facendo tanto”.
“Dovrei fare di più. Dovrei levarti da questa situazione. Dovremmo
ammazzarlo”.
Irya abbassò lo sguardo. “Non posso...”.
Marta sbuffò, stringendola ancora più forte. Cominciò a piangere, la più
grande, sentendosi inutile. “Io vorrei davvero tanto poterti vedere tranquilla,
mentre cresci tua figlia ma..”.
Irya sentiva la voce di sua sorella distrutta dal pianto e la cosa la
faceva stare male. Aveva creduto ad un uomo che si era rivelato il male, aveva
sbagliato a fidarsi, ed ora sua figlia sarebbe cresciuta senza madre.
Marta si disperava; la sua unica famiglia le piangeva fra le braccia.
Non resistette più, Irya, tornando nuovamente a piangere; non era così
forte, non avrebbe potuto fare tutto quello che si era preposta senza
complicazioni.
Aveva paura.
“Scusami, Marta” piangeva, stringendola forte. “Scusami Rachel.
Scusatemi tutti!”.
“Non fare stupidaggini”.
“Sì” rispose Irya, che intanto veniva accudita anche in quel momento.
“Crescila bene. Con Ryan... lui è un bravo bambino, andranno d’accordo”.
“Sì” annuì Marta, sentendo sua sorella sciogliersi dall’abbraccio.
Quella mise le mani nelle tasche e cacciò una Pokéball.
“Questo è uno Zorua, Marta. Questo Pokémon è di Rachel... daglielo. È
nato pochi giorni dopo di lei. Volevo fosse il suo primo Pokémon”.
La voce di Irya era stanca, i suoi occhi rossi e colmi di lacrime.
Rachel aveva ripreso a piangere ma nessuna delle due si mosse.
“Credo che... credo che sia il momento di andare...”.
La porta però si spalancò, proprio in quel momento. John Livingstone, il
marito di Marta, era appena tornato da lavoro, con il suo trench nero ben
stretto addosso.
“Hey, ragazze. Perché siete al buio?”.
Marta sospirò e baciò sulla guancia la sorella, quindi fece lo stesso
con Rachel e s’avvicinò all’uomo.
“John...”.
Quello vide la moglie prendere la bambina in braccio.
“Perché piangete? Ragazze, che è successo?” chiese calmo quello.
“Niente” sorrise Irya, con quel che rimaneva del trucco a colarle sul
viso.
“Marta...”.
Irya diede un bacio sulla guancia al cognato e prese il porta enfant,
aprì la porta e sparì nella tempesta.
“Marta...” disse l’uomo, accendendo la luce e vedendo sua moglie
prendere in braccio la bambina.
“Dobbiamo parlare...” sorrise la donna, che cercava di calmare la
bambina cullandola.
“Credo sia ovvio” rispose l’uomo, levandosi il soprabito ed
appendendolo. Riavviò i capelli con la mano destra ed andò a lavarsi le mani,
quindi tornò in salone. Marta era ancora lì ma la bambina sembrava essersi
calmata.
“Questa è Rachel?” chiese John, asciugando le lacrime di sua moglie con
un fazzoletto.
“Sì”.
“E perché è qui?”.
Marta sospirò. “Perché le stiamo salvando la vita, John”. Gli spiegò
tutta la situazione e John sospirò quando si rese conto di non avere alcuna
scelta.
“Io credo che adesso uscirò ed andrò a comprare tutto quello che le
serve. Poi spiegheremo a Ryan tutto quanto. E domani andremo a
riconoscerla...”.
Marta annuì, riconoscendo quanto straordinario fosse suo marito. Lo
baciò, cullando ancora Rachel, che ormai s’era acquietata. John rimise il
trench ed uscì, lasciando nuovamente sua moglie da sola.
La pioggia sembrava essersi calmata.
La bambina era sana e stava bene, e questo era l’importante. E sì,
l’avrebbe davvero cresciuta come fosse sua figlia.
Come fosse Irya, che tanto le assomigliava. L’avrebbe protetta a costo
della sua stessa vita.
La posò nel cestello e portò le mani ai fianchi.
Nuova vita in quella casa.
Commenti
Posta un commento