I pt.2
2005
26/09/05
Un forte vento
spirava sui verdi colli della campagna settentrionale di Kanto, accompagnando
con dolci carezze le spighe di grano che, sospinte dalla brezza, oscillavano
fra di loro. Il cielo terso si rifletteva in ogni specchio d’acqua attorno al
Laboratorio del professor Oak come piccole miniere di zaffiri, mentre a fare da
sottofondo erano i rumori della natura, con i suoi gorgoglii, sibilii e
percussioni.
La struttura
sorgeva al centro di un piccolo rialzamento del suolo rispetto al terreno circostante,
cosicché il laboratorio assomigliasse, ai passanti che si trovavano a visitare
quel paesaggio, più ad un fiore di candidi petali sbocciato nel verde della
campagna che ad un luogo di scienza. Eppure, così era, anche in quel momento,
quando il Professore Samuel Oak tutt’altro era intanto a fare che sopravvedere
alle sue creature.
All’ombra di una
veranda che si affacciava ad un prato circostante Oak riposava, sorseggiando
una tazza di tè, quando un trillo ruppe quell’atmosfera idilliaca.
Si voltò in
direzione della porta ed attese.
Il suono
continuava a rimbombare per le stanze del laboratorio.
«Qualcuno può andare
a rispondere?» urlò.
Ritornò brevemente
al suo tè, ma prim’ancora che potesse godere di un altro sorso il suo istinto
prese il sopravvento. Si alzò improvvisamente e rientrò nello stabile.
«Pronto?» chiamò,
cornetta alla mano.
«Buongiorno prof».
Oak si compose.
Era la voce di Red.
«Ciao Red! Che
bello sentirti! Avevi bisogno di qualcosa?».
«In… in realtà sì»
titubò. «Blue è là con lei?».
«Blue?».
Lanciò un’occhiata alla stanza, come se la sua scrivania o le finestre
potessero rispondere a quella domanda. «No, no, come mai?».
«Niente. Sa se è già
tornato a Pallet?».
«Tornato?».
Red attese.
«È da un mese
che non lo vedo più… circa da quando si è trasferito a Saffron City!».
«Saffron?»
sobbalzò Red.
«Sì, come mai?».
«N—niente. Sa—sa
darmi il suo indirizzo?».
«Certamente!
Aspetta che lo cerco».
28/09/05
«Sì, infatti, non
so cosa gli fosse passato per la testa… in ogni caso, Nancy, ho paura che—».
Blue smise di respirare per qualche secondo. Dall’altra parte, una voce
femminile che lo sollecitava a rispondere. «Ti—ti richiamo dopo, ok?».
Chiuse la
chiamata e rimise il telefono in tasca.
«Red» commentò.
«Blue».
«Noto con piacere
che sai il mio nome». Strinse i denti. «Cosa c’è?».
«Volevo… volevo
scusarmi per come mi sono comportato l’altra volta. Credo».
«Scusarti?».
rise. « Non devi scusarti, Red».
Il suo viso si
illuminò. «Oh, davvero?».
«Sì, davvero» lo
incalzò «Mi hai fatto perdere tempo. Capita».
«Io—».
«Chi ti ha
lasciato entrare, poi? La porta non si apre senza chiavi».
«Ho aspettato che
qualcuno entrasse».
«Sono le due di
sera, nessuno in questo condominio rientra dopo le dieci».
«Ho aspettato un
po’».
Blue rise.
Fece per
allungare la mano alla maniglia della porta, ma Red si frappose fra lui e l’entrata.
«Cosa c’è?» commentò
stizzito.
«Senti… questo
per me è nuovo. È tutto nuovo…». Inghiottì. «Tu, io…».
«Sono content—».
«Voglio provarci».
A quelle parole,
Blue si immobilizzò.
«Voglio provarci…
anche se non porterà da nessuna parte. Almeno ci provo, no?».
«Provare a far
cosa?».
Red spostò il
peso in avanti e raccolse con la mano destra il capo di Blue a lui, dopodiché lo
portò a sé in un bacio.
Blue, in
risposta, si lasciò andare, facendo cadere il telefonino che serbava ancora
nelle mani.
2008
03/11/08
Pioveva quel tre
novembre. Il cielo era dipinto di bianco sporco, come la parete di una casa
abbandonata il cui candido colore iniziale era stato rovinato e spinto verso il
grigio dal tempo e dalle intemperie. Delle striscie violacee correvano sull’orizzonte
in direzione di Vermilion City, mentre dall’altra parte, verso Cerulean, le
nuvole andavano rischiarandosi, lasciando entrare di tanto in tanto dei brevi
sprazzi di luce che si districavano tra il grigiore celeste come lame dorate.
La pioggia era
leggera e Red, dall’altra parte del finestrino, si chiedeva se arrivato a
Saffron il tempo sarebbe migliorato. Il suo capo poggiava direttamente sul
freddo vetro della macchina, il suo sguardo proiettato sui grattacieli della
metropoli, mentre delle striscie sottili d’acqua rigavano lo schermo del
finestrino.
Di tanto in tanto
la vettura sussultava per via di dossi nel terreno, ed il viso del ragazzo
sobbalzava anch’esso. Più volte aveva pensato di riferirlo all’uomo che
guidava, ma dalla remotezza del suo antro, sprofondato nel sedile posteriore,
preferiva il silenzio.
Il taxi lo lasciò
di fronte all’Hotel “The Prince”. La pioggia, che aveva smesso di cadere sulla
città, aveva lasciato nell’aria una sensazione di umidità mista all’acre sapore
di smog e quel retrogusto di cattivo tempo che Red non aveva mai imparato a
decifrare.
Il ragazzo impugnò
le due valigie e si trascinò distrattamente all’interno della hall, dove fu
accolto da una donna in abito nero.
Sorrideva.
«Buonasera!».
«Buonasera».
La donna fece
cenno ad un altro uomo di raccogliere la valigia di Red.
«Ha avuto un buon
viaggio da Hoenn?».
Red accennò ad un
sì, mentre il suo sguardo vagava in direzione dei bagagli, che stavano venendo
escortati da un uomo all’interno di un ascensore, per poi sparire nei meandri
dell’edificio seguito da un bip.
«Purtroppo negli
ultimi giorni non ha smesso di piovere… è un peccato, perché Saffron di solito è
così bell—».
«Lo so». Il suo
sguardo era chino sull’apertura dell’ascensore, anche se in realtà non stava
realmente osservando. Era perso in un punto imprecisato. «Ho abitato a Saffron
per qualche tempo».
«Oh, be’, allora
la conosce bene. La sua stanza, comunque, è la numero 1204».
Poteva leggere nella
sua voce il disappunto per esser stata interrotta.
Quando mise piede
dentro la stanza, si ricordò perché aveva amato, un tempo, Saffron City.
Anche se sullo
sfondo di un tetro cielo monocromatico, lo skyline della città non mancava nel
lasciare a bocca aperta chiunque fosse spettatore della sua meraviglia. Torri
di vetro ed acciaio che si susseguivano, l’una dopo l’altra, a disegnare un
sinusoide sopra la metropoli.
«Pronto?».
Red attese.
«Red! È da un
po’ che cerco di chiamarti, va tutto bene?».
«Sì, sì, scusa, è
che sono appena arrivato a Saffron, e tra una roba e l’altra…».
«Figurati, non
preoccuparti. Piuttosto, ti dispiace se domani ti passo a prendere? Non vorrei
che tu ci andassi da solo».
«Per me va bene» commentò
atono.
«Ottimo
allora. Ti aspetto davanti all’hotel per le 10. Sei al The Prince, no?».
Red accennò di sì
con la testa, ma la mancata risposta della ragazza gli ricordò che non poteva
vederlo.
«Sì, sono qua. A
domani, allora».
«Ciao Red!».
«Ciao Leaf».
04/11/08
Red si sistemò il
bavero della camicia e lanciò un’occhiata poco convinta allo specchio che si
trovava di fronte a lui.
Mormorava una
confusa melodia dalla bocca, mentre le mani correvano freneticamente sulla
superficie dell’abito. Stiravano le bocche della camicia, le raccoglievano
dentro i pantaloni e poi spazzavano via la polvere con delle brevi manate, che
alla decima volta avevano perso il senso iniziale. E così ancora, finché non si
vide pronto.
Tornò al trolley
e prese una cravatta blu elettrico, che lanciò sul suo collo a mo’ di lazo per
poi tornare di fronte allo specchio.
La strinse con
entrambe le mani, fece un nodo e lo fece correre fino al collo, dopodiché fece
scivolare il tessuto dietro il nodo, poi ancora davanti ed infine srotolò la
coda con la massima cura.
La mano destra
tirava a vuoto la punta della cravatta, mentre la sinistra spostava di
movimenti millimetrici il nodo ora un po’ più a destra, ora più a sinistra, ora
più in alto.
Leaf indossava un
lungo abito nero, che fasciava il suo corpo dalle spalle a poco sopra le
ginocchia. Fu quanto notò appena salito sul sedile anteriore.
«Grazie mille
ancora per il passaggio».
«Non c’è problema»
sorrise la ragazza, «in qualche modo saresti dovuto arrivare al funerale».
«Suppongo di sì» mormorò.
Red fissava la strada
davanti a lui. Era quasi rapito dallo snodarsi della città di Saffron, di
quella che aveva tutta l’aria d’essere una giungla di vetro, asfalto e cemento.
E colori, un arcobaleno di colori che, quel giorno, venivano stemperati dal
pallore del plumbeo cielo.
«Ci sarà anche
Blue».
Non rispose.
Alla radio era
uscita una nuova canzone.
«Headmaster
sir, didn’t mean to strike a cord…».
«Da quanto non vi
sentite?».
«Tre anni, credo».
«Ti mancava?».
«… nobody
still thinks of you that way…».
«Uh?». Red si
voltò in direzione della ragazza. «Cosa intendi?».
«Blue mi ha
detto, Red».
Riportò il volto
dall’altra parte, e si sentì sprofondare nella fodera in pelle del sedile.
«Non c’è niente
da dire» bofonchiò.
«… so everything is wrong…».
«Ok…».
La bara era color
rosso rame e brillava sotto il pallore della giornata. Come la facevano calare
all’interno della buca, Red poteva osservare la superficie oltremodo lisciata
del legno riflettere mano a mano oggetti diversi e, tanto cambiò l’angolazione,
che poté vedere sé stesso. Si trattenne dalla tentazione di allontanare lo
sguardo e lasciò che lo schermo riflettesse la sua persona nella sua interezza.
Gli passò davanti un uomo che prima d’allora non aveva mai visto e gli strinse la mano.
Gli passò davanti un uomo che prima d’allora non aveva mai visto e gli strinse la mano.
«Condoglianze».
«Condoglianze» rispose
distratto.
Fissò l’uomo
avvicinarsi a Blue ed ad una donna in parte a lui, fare lo stesso e poi
allontanarsi dal gruppo che si era formato attorno la bara, perdendosi dietro
il bosco di cipressi.
Arrivò qualcun
altro e rifece lo stesso.
Dopodiché un
altro, ed un altro ancora.
Red era confuso
sul perché tutte queste persone si fossero fermate a fargli le condoglianze, ma
la sua testa era occupata a pensare ad altro. Ogni persona che lo intratteneva
lo aiutava a rimandare quello che, lo sapeva, sarebbe dovuto accadere, e pur in
questa sua sicurezza voleva rimandare il fatidico momento.
Quando la folla
si sfoltì e rimase solo un pugno di persone, tuttavia, dovette farsi coraggio.
Il suo sguardo
cercò Leaf, ma neanche lei sembrava nei paraggi.
Deglutì e si
avvicinò a Blue.
«Ahem…».
«Red». Blue
riconobbe la sua presenza con un’alzata di sopracciglia.
«Volevo… volevo
farti le condoglianze». Raccolse la sua mano e la strinse di una stretta
incerta. «Condoglianze».
Le labbra di Blue
si inarcarono a formare un sorriso, ma le costrinse giù all’espressione di
serietà che aveva mantenuto per tutto il tempo.
«Grazie, anche a
te».
«So—so quanto ci
tenessi ad Oak» continuò. «Sì, insomma, tuo zio».
«Grazie, Red».
Lasciò la presa
prima che se l’aspettasse e si girò in direzione della donna che lo circondava
prima.
Red mormorò un
saluto che si perse nel silenzio.
«Ehi, Red, tutto
bene?».
«Uh?».
Leaf era apparsa
davanti a lui.
«Sì, sì, tutto
bene».
«Io pensavo di
tornare a casa, farmi una doccia e in caso uscire con degli amici. Vuoi venire
con me?».
«Ahem… sì, perché
no? Va bene».
«Ottimo!». Lo
squadrò. «Non mi sembri convintissimo. Sei sicuro?».
Red la fissò. Più
che guardare lei, stava osservando come le pieghe del suo vestito scendessero
sull’erba, e le sinuose curve che cadevano come una cascata di velluto sulla
distesa verde. «In… in realtà no. Scusa».
«Non c’è problema!
Posso riportar—».
«Tranquilla,
torno a cas— in hotel da solo».
«Sei sicuro? È lunga».
Red asserì.
«Ok, allora. Ci
sentiamo!».
Sorrise. «Ci sentiamo».
Rimase per un po’
a guardarsi attorno, scandendo i minuti con un breve controllo dello schermo
del telefono. Il tempo passava, e con esso la testa di Red girava persa in un
mare di idee. Quando si trovava indeciso se fare qualcosa o meno, il suo
cervello si bloccava, e finiva per scegliere come opzione il non fare niente.
Che non era una scelta, ma al contempo l’unica disponibile.
Erano passati 10
minuti quando guardò il telefono per l’undicesima volta.
«Merda».
Infilò il
telefono in tasca e corse trafilato verso il bosco di cipressi.
«Red?».
Red si era
lanciato trafilato sul parcheggio del cimitero, spostando lo sguardo ora a
destra, ora a sinistra nella vana speranza di incontrare Blue nel tragitto.
Stringeva la giacca in mano, e la camicia bianca era madida di sudore. Anche la
fronte, sulla quale cadeva qualche ciuffo castano, era imperlata di gocce di
sudore, assieme al resto del viso.
«Red?».
Si girò alle sue
spalle, da dove era entrato, e vide Blu avvicinarsi stringendo il telefono in
mano.
«Cosa stai
facendo?».
«Stavo… cercando
un passaggio».
Blue corrugò la
fronte.
«Leaf se n’è andata
e non è riuscita a portarmi all’hotel, ed ero venuto qua per vedere se ci fosse
stato qualcun altro disponibile».
«Oh… mi dispiace,
ma se ne sono già tutti andati».
«Tu no».
Se prima la
discussione era stata irrilevante, quelle parole riaccesero l’interesse nel
rossiccio.
«Anche io ho un
impegno».
«Non… non te lo
chiederei se non fosse urgente, ma è che ho già prenotato l’aereo e tutto. Ho
veramente bisogno di un passaggio».
Blue bofonchiò,
per poi fare cenno alla sua macchina, una utilitaria grigio metalizzato che
giaceva a qualche metro da loro.
«All I needed
was a medicine…».
«Quindi… cos’hai
fatto in questi tre anni?».
«Il solito».
Blue sorrise.
«Significa?».
«Mi sono
allenato, ho combattuto, ho girato un po’ il mondo…».
«… you stuck a
needle right into the vein…».
«Tutto questo con
il premio della Lega?».
Red asserì.
«Wow. Io ce l’ho
ancora tutto a casa, credo».
«E non c’hai
fatto niente?».
«… my hands
are tied behind my back…».
«Una vacanza,
credo, nulla di più».
La macchina
attraversò un sottopassaggio, e per qualche attimo, durante la discesa, Red
ebbe la sensazione di essere sospeso in aria. Quella situazione era talmente
surreale che ogni risposta che dava, o a cui pensava, gli sembrava risultasse
forzata o premeditata.
«… it seemed
to me you were the one the one, turns out you shut me up for fun».
«Beì, significa
che l’userai in futuro».
«Suppongo di sì».
«E invece…» deglutì
«per quanto… riguarda il resto…».
«La mia situazione
romantica?» rise Blue.
Red asserì. «Sì,
cioè, non necessariamente…».
«… yeah, but
you thought you got away with murder…».
«Ho una ragazza».
«Oh». Red si
rabbuiò. «Come si chiama?».
«Karen».
«Bello. È simpatica?».
«… waiting ’til
I catch my breath».
«Mh, sì, dai».
«… am I having
a seizure? Cause I’m shaking up with fear…».
Red guardava
fuori dal finestrino. Si sentiva uno stupido, anche per solo aver pensato di
combinare qualcosa. Il suo piano malefico, aver mentito a Leaf, l’intera
situazione assumeva un tono ridicolo se pensava al tragicomico epilogo.
«Non ho veramente
una ragazza comunque».
«Cosa?».
Red si voltò verso
di lui.
«Ti stavo
prendendo in giro». Un sorriso inarcava le labbra di Blue. «È da un po’ che non
ho avuto una ragazza a dire il vero».
«… hit me on
my blind side, left me on the floor…».
«Oh… be’, in ogni
caso, va bene uguale, no?».
«E tu?».
«Come va la mia
vita?».
«Ragazzi».
«… casanova
fucked me over, left me dying on the floor…».
«Ah». Rimase a
pensare per qualche secondo. «Anche per me è da un po’ che non ho un ragazzo».
«Da quanto
esattamente?».
«Non saprei. Un
po’, comunq—».
«… casanova,
casanova, now you’re all I’m thinking of…».
«Arrivati».
«Oh». Red si
sporse, e vide oltre il parabrezza l’enorme “The Prince” che si stagliava, con
i suoi quindici piani di altezza, nel cuore di Saffron City.
«Grazie mille per
il passaggio».
«Di niente. Ciao,
Re—».
«… casanova
fucked me over, left me dying for your love…».
«Ti va di salire
un attimo?».
«Cosa?».
«Salire con me un
attimo. Ho un appartamento al dodicesimo piano con un terrazzo fantastico, il
frigo bar, e al tredicesimo c’è una piscina fighi—».
«Devo andare, Red».
«Tre secondi. E
poi scendi, dai. È la tua ultima possibilità di vedere il The Prince da dentro!».
«… casanova,
casanova, now you’re all I’m thinking of».
La stanza 1204
dell’hotel The Prince si sviluppava circolarmente attorno alla porta d’entrata,
davanti alla quale, dopo qualche metro di entrata, si sbucava sulla camera da
letto. Il letto, un matrimoniale, era al centro del muro, mentre ai lati si
aprivano due porte finestre che portavano alla terrazza, dalla quale si
intravedeva l’intera città di Saffron City e le montagne alle sue spalle. La
stanza era spoglia, fatta eccezione per una televisione, un piccolo armadio ed
un frigobar incassato sottovi sotto.
A destra si
apriva il bagno, mentre a sinistra una piccola cucina.
«Però… ti sei
scelto un bell’hotel».
Red rise.
«Non scherzavo
quando dicevo che meritava».
Si buttò sul letto
e per qualche secondo stirò le sue braccia verso l’esterno, osservando Blue che
proiettava lo sguardo oltre la finestra, rapito dalla bellezza di quel
paesaggio esterno.
Red rotolò sopra
le coperte e cadde esattamente davanti il frigobar. «Cosa vuoi?».
«Oh, non serve.
Non rim—».
«Tranquillo,
giusto un bicchiere».
Blue borbottò un «Sì»
molto confuso, lanciò la sua giacca sul letto ed uscì all’aperto, mentre Red
versava un liquido color ambra in due bicchieri tozzi e squadrati. In uno vi
versò anche del ghiaccio.
«Eccomi» disse,
come si prestava a varcare la soglia della porta-finestra. Davanti a lui uno
spiazzio rettangolare che si aggettava sullo skyline di Saffron.
«Grazie mille».
Come il vetro
scivolava lungo il tavolino di ferro battutto, emise uno stridio.
«Stai ancora
studiando per diventare Professore?».
Blue asserì.
«Ti manca tanto?».
«Sono circa a metà
percorso. Non so ancora se e quando farò la specializzazione, per ora mi limito
a fare il modulo di base».
«Oh, ok.
Interessante».
«Davvero?». Un
sorriso corse lungo il suo viso.
«Sì, be’, cioè… più
di quanto faccio io, sicuramente».
«Sarà». Bevve l’ultimo
sorso, che riecheggiò nel metallico rumore di impatto tra il vetro ed il
tavolino. «E tu? Mi sembrava… sì, insomma, che anche tu volessi fare qualcosa.
Della tua vita, intendo».
Un sorriso
illuminò il volto di Red. Era più in virtù di un imbarazzo nel rispondere che
di un’effettiva sensazione di contentezza in lui. «Non ho mai saputo bene cosa
fare, in realtà».
«Questo lo so» rise
Blue. La sua risata riecheggiò sulle labbra di Red. «Non è una risposta, però».
«Ok, ok». Red posò
il bicchiere. «C’è qualcosa, ma non so se andrà effettivamente in porto».
«Come mai?».
Riprese il
bicchiere in mano, e lo mosse con movimenti rotatori, mentre osservava ipnotizzato
il movimento sinusoidale che il limite dell’alcolico tracciava sul vetro. «Mah…
non so».
Blue si alzò.
«Vai già via?».
«No, devo solo
andare in bagno un attimo. Mi riempi un altro bicchiere, già che ci sei?».
Prima che potesse
rispondere, Blue era già scomparso dentro l’edificio.
Il ritorno del
ragazzo fu anticipato da un rumore metallico.
Quando lo vide,
era intento a sistemarsi la cintura come metteva piedi fuori nella terrazza.
«Suoni ancora?».
«Più o meno».
«Suonavi bene».
Red sorrise. «Grazie».
Si osservarono a
vicenda mentre Blue prendeva posto in parte a lui. Qualcosa impediva loro, a
vicenda, di rompere quel ghiaccio che cristallizzava i loro pensieri in banale più
e meno.
«Vuoi vedere una
cosa figa?» esclamò Red poco dopo.
Il sole era già calato
e, lentamente, le ultime linee porpora tracciavano stanchi cerchi sulla parete
bianca della terrazza. La stella era scomparsa dietro le montagne di Kanto e il
suo rosso ricordo aleggiava nell’aria.
«Di cosa si
tratta?».
«Eh no!». Si alzò
di scatto. «Se te lo dicessi, si rovinerebbe tutto il divertimento».
«Ok». Deglutì. « Ma
in cosa consiste?».
«Ti voglio
mostrare un posto. Ti va bene?».
Blue acconsentì,
e prima che se ne potesse render conto attorno alla sua faccia correva un
nastro blu scuro ad impedirgli la vista.
«Ok, seguimi e
andrà tutto bene».
Gli prese la
mano, che Blue respinse prontamente. Allungò il palmo al suo bacino e lo seguì aggrappato al suo busto.
«Bene, bene così…
eccoci».
Blue aveva
sentito un rumore metallico, di ciò che credette essere una porta, seguito da
un repentino cambio nella temperatura esterna. L’aria era umida, come dopo una
forte pioggia, ma non necessariamente fredda. Anzi, poteva dire che fosse quasi
come acqua tiepida: in un certo senso, confortevole.
Sentì il calore
delle mani di Red su di sé, dopodiché una luce bianca investì i suoi occhi.
«Ta-dan!».
Di fronte a lui,
si apriva una piscina di medie dimensioni aggettata sulla città di Saffron. Un
arco di luce, sopra di lui, illuminava l’acqua.
«Una piscina?».
«Sì! Figo, vero?
A Novembre non c’è mai nessuno, ma finché non fa freddo perché no, no?». Come
disse ciò, prese a sbottonarsi la camicia.
«Cosa fai?».
«Cosa ti sembra
che stia facendo? Un tuffo». Aprì la camicia e scoprì, dietro di essa, una
canottiera bianca. Si levò anche quella, e la lanciò per terra.
«Non… non penso
sia una grande idea».
Sfoderò la
cintursa dalla sua vita e fece scivolare via i suoi pantaloni, rivelando un
paio di boxer neri dietro di essi.
«Ti sei
dimenticato le scarpe…».
«Oh, giusto». Si
chinò e slacciò le scarpe. «Ora?».
«Non… non so. Non
ho voglia».
«Dai!».
«No. Ho detto di
no».
«Ok…».
Red era nudo,
fatta eccezione per le mutande nere, che costituivano un notevole stacco
rispetto alla sua pelle leggermente abbronzata, in piedi di fronte alla
piscina.
«Va bene, allora
entrerò solo io».
Si girò e fece
per entrare, ma poi si voltò indietro ed avanzò un lungo passo verso Blue. Lo
afferrò per le spalle e, confuso, riuscì a spingerlo dentro l’acqua assieme. a
lui. Quando si rese conto di quello che era successo, era troppo tardi.
«Merda! Red, che
cazzo f—».
«Shh».
Come faticavano a
stare a galla, Red afferrò con foga il capo di Blue e lo spinse contro il suo.
«Ehi!». Blue si
staccò dal bacio. «Che cazzo fai?».
«Cosa ti sembra?».
«Non mi rivolgi
la parola per tre anni e poi—» sputò dell’acqua che gli era entrata nella gola «e
poi mi tratti così?».
«Ti bacio, vuoi
dire?».
«Smetti—».
«Senti, lo so
quello che è successo. Ma puoi darmi un’altra chance?».
«No! Ti sembra il
modo?».
«Mi sono mai
comportato secondo il modo?» ribatté Red. «Se non lo vuoi, puoi andartene via.
Ma c’è un motivo se sei rimasto».
Riprese a
baciarlo, e questa volta Blue si lasciò andare.
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