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Against Me (an Unravel Me story): Chapter 1


Against Me        
   Quando tutto cade.
                                                                                                                                   

Unima, Austropoli, BW Agency, 18 giugno 20X1

Ho caldo. Ho caldo e ho l’ansia.
Ho sete.
Devo bere, il telefono squilla.
Uff… Devo respirare più profondamente. Mi devo fermare.

Camminava freneticamente, White, sul tappeto persiano che aveva acquistato durante il viaggio di nozze. Era morbido, e già alla prima occhiata si riusciva ad apprezzare la qualità di quelle setole colorate. Generalmente non lo calpestava, né permetteva a qualcuno di sostarci per troppo tempo sopra; trovava qualche pretesto per andare dall’altra parte dell’ufficio o, se parlava con un suo dipendente, gli diceva di levare i fottuti piedi dal suo fottuto tappeto.

- Alzalo sul muro.
I suggerimenti di Black non era mai troppo brillanti, lui stesso lo sapeva e ridacchiava, quando incontrava lo sguardo allibito di sua moglie.
- Non è mica un arazzo…
- Nessuno lo saprebbe.
- Si vede dal sesto piano del palazzo di fronte che è un tappeto. Penseranno che sia stramba, a tenere un tappeto a mo’ di arazzo appeso al muro. Credi che qui siano tutti ignoranti come te?
- Touché, mon amour... touché...
- E non parlare quella lingua del cazzo. Odio il francese.
- Forse il fatto che tu sia cresciuta in questa dannatissima città sta prendendo un po’ troppo il sopravvento sul tuo vocabolario, piccola stella di Broadway...
- Tsk… essere di questa città è un po’ come il passepartout per le parolacce, Black...
Lo ricordava, il sorriso del suo uomo, prima che le baciasse la guancia.
- Hai parlato quella lingua del cazzo, mon amour...
- Quando?
- Hai detto passepartout.
- Bah! Fottiti, marito! E non aspettarmi per cena...
- Non ci penserei neppure, tranquilla. Stasera è pizza.
- Come tutte le sere, del resto…

Sospirò, ritornò al presente.
Il telefono continuava a squillare e il calore aumentava sempre di più. Sudava, aprì il secondo bottone della camicetta, e poco le importava che si vedesse l’orlo merlettato del reggiseno. Continuava a camminare senza un senso su quel tappeto dalle frange rosse e blu e dai ghirigori gialli.
Tutte geometrie, tutte linee dritte che tagliavano e cambiavano direzione.
Tutto cambiava direzione.
Sospirò di nuovo. Il telefono non smetteva di squillare.

- Devi risolvere questi problemi, White. Solo in questo modo puoi tornare a essere la vera te...
- Belle, spari un mucchio di cazzate...

Aveva buttato poi giù il quarto bicchiere di brandy, che ormai il sorriso non gli appariva più sul volto. Era fieramente alcolizzata, e se non avesse bevuto così tanto, durante la giornata, probabilmente avrebbero finito per trovarla impiccata sul lampadario di cristallo del corridoio che portava al bagno.
Forse era un po’ pacchiano, ma era uno Swarovski. Insomma, certe cose si mostrano e basta, non ci si fa tante domande sul per come e sul per cui.
Pensò che avrebbe dovuto fare in quel modo anche con Black.
Il loro rapporto non era dei migliori, ovviamente, anche perché si vedevano poco: lei lavorava assiduamente durante la giornata, e se l’orologio non accarezzava le ventidue lei non chiudeva baracca e burattini e non si ritirava. Mezz’ora dopo era a casa, che Black ancora si allenava, oppure non c’era. Quattro minuti di chiacchiere, qualche volta lo tirava per la maglietta fino alla camera da letto, lo mangiava e si addormentava sfinita, senza neppure cenare.

- Vivi in maniera troppo irregolare, White...
- Fottiti, Black...
- Come ogni martedì sera, tra l’altro...

Risposte sarcastiche a parte, sapeva che in fondo lui ci rimanesse male. La gran parte delle volte era l’alcool a parlare per lei e la cosa aveva un duplice effetto: il primo era che vedeva tutto tramite un filtro, come se indossasse degli occhiali con una profonda patina di sporco a macchiare le lenti; il secondo, ovviamente, era il fatto che non ricordasse quasi mai nulla di ciò che succedeva dopo un determinato orario, se non se lo scriveva.
E il suo Blackberry serviva proprio a quello. Il suo fido assistente, il suo mondo, il suo lavoro, le sue relazioni. Tutto in quel pezzo di plastica un po’ obsoleto.
Sentiva ancora il telefono squillare.
Lasciò che suonasse. Se fosse stato importante avrebbero richiamato poi, quando avrebbe avuto la voglia di rispondere. Si bloccò, dato che sarebbe potuto essere qualcosa d’importante.
Qualche chiamata di lavoro.
Magari sarebbe potuto essere Ruby, che la chiamava per dire che era tornato in città.
Spalancò gli occhi e si fiondò versò la scrivania, famelica. Raccolse il cellulare e lo guardò.


INCOMING CALL

FREDERICK TIPTON

ANSWER                                       DECLINE


Uno che voleva lavorare con lei per un progetto totalmente campato in aria.
Non gli rispondeva da quattro mesi, e lui, imperterrito, chiamava almeno due volte al giorno, per riuscire a prendere la linea.
- Fanculo anche tu, Tipton...
Sbuffò e lanciò nuovamente il telefono sulla scrivania.
Voleva davvero che il nome sullo schermo fosse quello di Ruby Normanson, ma sapeva anche che difficilmente la cosa sarebbe successa. Yvonne l’aveva fatta grossa, troppo grossa, con tutta la faccenda di Sapphire, tant’era che non aveva avuto neppure il coraggio di dirgli che aspettava il loro bambino. Quando poi il pensiero si spostò dallo stilista alla modella sentì la rabbia ribollirle nel petto. Odiava il francese, e quella maledetta parlava proprio la lingua d’oltralpe.

- Siediti. O stenditi sul divano... levati le scarpe, dannazione, fai quello che ti pare...
- Stai un po’ esagerando...
- Vuoi bere? Acqua, intendo - le aveva detto White. Quella aveva fatto cenno di no, seria, e si avvicinò alle poltroncine davanti alla scrivania. Si sedette lentamente, sospirò e poggiò delicatamente le mani sul pancione. Pareva stesse per esplodere.
- No, White.
- E allora che sei venuta a fare?
- Voglio tornare a stare un po’ a casa mia...
La Presidentessa fece spallucce e sospirò, bevendo liquido ambrato dal suo bicchiere con ghiaccio.
- Fa’ ciò che vuoi, moi Lolita... Tanto non riuscirei comunque a farti sfilare, con quel pancione enorme. Al massimo posso organizzarti qualche servizio fotografico sulle donne più incinte del mondo. Ma stai esplodendo, in questo stato non puoi calcare le passerelle.
- Comme si je voulais... - aveva sospirato l’altra, stanca.
- Baguette, io non l’ho mai capita, la tua lingua...
- Non avrei partecipato comunque. Mi prendo una pausa finché non partorirò, e poi ancora dopo... Puoi chiedere a qualcuno di trovarmi un aereo per Luminopoli?
White l’aveva guardata profondamente e aveva sospirato, accavallando la gamba destra sulla sinistra e incrociandovi le mani sopra.
-Stiamo perdendo badilate di soldi...
- Non ricominciare...
- Io lo avevo detto! – esplose. - Lo avevo detto che non fosse una buona idea! Lo avevo detto! Ma tu, no! Tu dovevi innamorarti del tuo capo! Dell’uomo che stava facendo un cazzo di miracolo!
White lanciò il bicchiere per aria, che finì per frantumarsi in mille pezzi a pochi metri da loro. Entrambe lo guardarono, poi la Presidentessa sospirò, facendo cenno di no con la testa.
- Dopo faccio pulire…
Yvonne l’aveva guardata e aveva sospirato. Si era alzata a fatica e aveva fatto per voltarsi, quando l’altra l’afferrò delicatamente per la mano.
- Aspetta... - fece
La modella si voltò, aggrottando la fronte.
- Che c’è, ancora?
- Lo hai sentito?
Si erano guardate ancora, in silenzio. Yvonne socchiuse gli occhi leggermente, piangendo.
- Non lo sento da mesi. Da quando è andato via... Non ha mai risposto al telefono.
- Ma squilla, quando lo chiamo.
- Sì, squilla anche quando lo chiamo io. Ma lui non ha mai risposto.
White aveva sospirato e chiuso gli occhi.
- Vai pure... resta lì se ritieni che partorire a Kalos sia la cosa più importante ma non dimenticare che hai un contratto con me e che farò comunque ripartire quel maledetto atelier. Con o senza Ruby Normanson.

Ora, l’Atelier.
Riempì il bicchiere di scotch e si abbandonò sul divanetto, guardando le impronte che aveva lasciato sul tappeto. Allontanò il pensiero, si focalizzò di nuovo sul progetto che aveva cominciato con lo stilista galeotto e bevve silenziosa.
Complessivamente, il lavoro che avevano svolto assieme in circa un anno era stato strepitoso. I modelli che avevano portato a realizzazione erano stati tra i più venduti dell’intera stagione, e la produzione non aveva minimamente rallentato nel confezionamento dei vestiti che Ruby aveva fatto indossare a Yvonne e alle altre.
Tuttavia c’era chi aspettava i nuovi abiti.
Bevve, buttò giù tutto d’un sorso, poi strinse il cubetto di ghiaccio tra i denti e sospirò.
Doveva trovare un modo.

- Non c’è? In che senso?
- Presidentessa... - titubò Whitely. - Stamattina non si è presentato, in atelier. Eppure dovevamo discutere della nuova collezione.
- Lo so, ragazzina, lo so. La mia domanda però è: per quale fottutissimo motivo non stai consumando il cordless e il tuo orecchio destro nel tentativo di rintracciarlo?
- L-lo-lo faccio subito...

Lo avrà chiamato un centinaio di volte, quella mattina.
Non aveva mai risposto.
Che poi quell’uomo era così terribilmente teatrale che quasi se lo aspettava, White, che tutte quelle donne sarebbero finite per morirgli dietro. Già lo facevano quando era lì.
La sua presenza era praticamente necessaria.
Yvonne lo amava in maniera furibonda e la sua assenza, unita allo scompenso ormonale della gravidanza, non avevano fatto altro che farla cadere in una profonda depressione, che all’inizio si era manifestata con isterici attacchi di pianto, intensi e ripetuti, lamentosi e disperati. Era poi diventata un’apatica rassegnazione, condita dalla sottile disperazione di aver concepito il bambino di un uomo che non l’amava più e che non sapeva neppure come contattare.
Whitely era la sua assistente, e da quando se n’era andata non sapeva più cosa fare per tenere calma White, che d’altronde stava smaniando per vedere la sua opera decollare.
E c’era quasi.
Era colpa di Yvonne. Era colpa dell’amore.
Sbuffò, guardò l’orologio sul polso e fece cenno di no con la testa. Stese le gambe sul tavolino di cristallo e fece cenno di no con la testa. Continuava a guardare le lancette, il tempo passava e si stava rendendo conto di un fatto sconcertante: stava perdendo soldi e stava invecchiando contemporaneamente.
Si alzò in piedi, guardò la sua figura allo specchio e poi abbassò il capo. Guardò il bicchiere, pensò a Black. Quell’uomo meritava una famiglia, e una donna che lo adorasse.
Perché lo meritava.
Non che lei non lo adorasse, anzi, ma c’erano delle volte in cui si vedeva in casa, con le ciabatte di gomma bianca, una di quelle tute di poliestere calde e comode che risaltavano il culone, e davanti aveva il pancione gravido, poi un bambino sul braccio destro e uno sul sinistro, che litigavano e piangevano e sputavano e urlavano.
E il suo volto apatico pareva non percepire il rischio di crollo nervoso che di lì a poco quella versione di lei avrebbe dovuto affrontare. E Black sarebbe tornato a casa, avrebbe baciato lei, i suoi figli, avrebbe mangiato qualcosa e si sarebbe rintanato nelle sue stanze. Avrebbero fatto l’amore una volta ogni due settimane, avrebbero vissuto una vita media e lui avrebbe finito per scoparsi la prima cretina più giovane e con meno borse sotto gli occhi.

Rabbrividì, quasi le venivano i conati di vomito.

Non era fatta per quella vita.
Ammise di aver esagerato la realtà, ma la verità era comunque che White non fosse stata progettata per una vita ordinaria. Rinsavita, si guardò attorno, saggiando con gli occhi ogni mobile pregiato, ogni cristallo delicato, ogni aggeggio elettronico infernale. Si avvicinò lenta al tavolino con gli alcolici, e si versò stanca un altro Jägermeister nel bicchiere.
Altro cubetto di ghiaccio, altro sospiro, si spostò verso la scrivania, la superò e andò verso la grossa finestra, che dava proprio al centro della Main. Oltre la strada, c’era il mare, un paio di yacht in lontananza, qualche vela svettava sullo sfondo blu del cielo, accanto ai traghetti che si spostavano verso la zona ovest della città, in direzione del porto civile.
Quella vista era spettacolare, ed era solo sua, non apparteneva a nessun altro.
E i vestiti che indossava in quel momento costavano quanto l’intero guardaroba del suo assistente, e se avesse voluto avrebbe reso ricco un qualsiasi uomo che calpestava i marciapiedi sotto il palazzo donandogli un venticinquesimo del suo patrimonio.
White era dove molti uomini volevano arrivare. Ed era una donna.
Sapeva di avere altre strade, altre possibilità.
Sapeva che il suo corpo avrebbe potuto regalare una gioia a suo marito, col suo volto e il suo cognome, ma lo stesso sentiva la mente che si chiudeva in se stessa quando quel pensiero affiorava.
Eppure era chiaro che Black sognasse una famiglia.
Buttò il liquido ambrato giù tutto d’un colpo e cominciò nuovamente a masticare il ghiaccio.
Era egoista?
Forse sì. O forse era semplicemente realista: lei, una famiglia non la voleva. Non voleva figli, non voleva responsabilità, non voleva che qualcuno dipendesse così tanto da lei da correre il rischio di morire, senza la sua presenza.
Forse era il motivo per cui stava abbastanza bene con suo marito: tra gli allenamenti e le altre cose che faceva, lui aveva poco tempo a disposizione per la famiglia e le altre cose.
Ma lui avrebbe potuto lasciare tutto immediatamente, se soltanto lei glielo avesse chiesto.
Mentre lei no.
La differenza era lì.

No.

Non c’entravano nulla quelle paranoie. Doveva aggiustare le cose con l’atelier.
Si voltò, dando le spalle all’oceano e sospirò; pensò che forse quello potesse essere il giorno giusto. Forse quello poteva essere il giorno in cui tutto sarebbe ripartito daccapo.
Forse Ruby le avrebbe risposto. Poco convinta, si sporse sulla scrivania e prese il cellulare tra le mani. Selezionò il numero dello stilista dalla rubrica e premette il tasto verde.
Avvicinò la cornetta all’orecchio, pregando l’altissimo che qualcuno rispondesse, anche soltanto per dirle che lui fosse morto da tempo ormai e che dovesse mettersi l’anima in pace.
Ma squillava.
Squillava.
Squillava, squillava, squillava. Squillava e basta. E poi cadeva la linea, lasciando White lì, sola e inutile a guardare il tavolino degli alcolici, e il bicchiere che quasi le urlava di tornare da lei.
- Normanson del cazzo! Rispondi! - esclamò poi, in preda all’ira, scattando verso la finestra e aprendola. Il cellulare esplose in mille pezzi sull’asfalto rovente, pochi secondi e un volo di trecentocinquanta metri dopo.
Il vento caldo gli soffiò sul viso, il cuore batteva, il bicchiere chiamava ancora e la consapevolezza di aver fatto una cosa che non avrebbe dovuto fare le si accese sul volto. Guardava taxi e lunghe berline grigie, blu e nere calpestare i resti di quello che era il punto g del suo lavoro.
Del suo stress.
Distolse lo sguardo, sospirò.
- Merda... – fece, abbassando il volto. - Fanculo anche a te, White... – concluse poi, chiudendo la finestra e abbandonandosi sulla sedia dietro la scrivania.
Doveva solo calmarsi. Sì, le serviva un po’ di calma.
Un altro bicchiere l’avrebbe aiutata, pensò, e quindi si alzò e se lo riempì, per poi tornare lì. Non lo buttò giù immediatamente ma anzi, assaporò lenta quel brandy come se fosse il più pregiato del mondo, socchiuse gli occhi e lasciò che l’aria fresca che usciva dal climatizzatore le rinfrescasse le carni.

“Sapphire... Ciao, scusa se ti disturbo, sono White Libertine della B&W Agency di Austropoli, a Unima. So che non vuoi avere nulla a che fare con tutta questa storia e mi spiace che tra te e Ruby sia andata com’è andata poi, effettivamente, ma io ho un fottutissimo bisogno di parlare con lui e non mi risponde da un mese al telefono, ed è appena passato un mese dall’ultima volta che l’ho visto. E a prescindere da tutto, io mi sto preoccupando. Dimmi che è lì con te, e se è lì con te digli che è uno stronzo e che mi deve richiamare subito, prima che gli mandi la mafia russa a strappargli la lingua con le mollette del bucato. Grazie, tesoro”.

Come si poteva trovare una persona senza sapere dove cercare?
Ma soprattutto: come si poteva sostituire la rotella più importante del meccanismo senza fermarlo?
Sbuffò, mosse il mouse, e lo screensaver che rimbalzava da un angolo all’altro dello schermo si placò. Prese un altro sorso di brandy, aprì la posta elettronica e passò una mano tra i capelli.
- Dannato Ruby Normanson. Dannata Yvonne comecazzosichiama...
Forse fu anche merito del caldo, ma l’alcool cominciò a farle quell’effetto simpatico che tanto le piaceva, quando provava quello strano solletico fin dietro le palpebre e la testa cominciava a essere pesante.
Fu però quando, tra le mail di richieste di assunzione, pubblicità spazzatura e fatture, non lesse il nome di Brad Mayer che i suoi occhi blu si spalancarono con violenza.
- Brad Mayer...
Lei sapeva che quello fosse l’agente delle star di Hollywood, e di ogni altra personalità che vedeva tutti i giorni in tv e sui giornali. Qualunque cosa toccasse quell’uomo si trasformava in vile denaro. La freccetta bianca si avvicinò alla mail, lei cliccò due volte e cominciò a leggerla.
                                  

DA:        BRAD MAIER (bradmaier.pwood@starjetset.com)
A:         w.libertine@bwagency.com
IL:        18/06/20X1 alle 11:28
OGGETTO:   Proposta di Collaborazione Atelier Automne/Produzione 246545 Pokéwood.
ALLEGATO:     258kb – Productionsheet96547.pdf



Buongiorno Dott.ssa Libertine,
La contatto dagli studi della Starjetset S.P.A., da Hollywood, in riferimento alla produzione 246545, un film di prossima uscita che vedrà come protagonista Sabrina. Apprezzando il lavoro dell’Atelier Automne, in persona del suo stilista principale, Ruby Normanson, vorrei intavolare le trattative per una collaborazione tra le nostre società, intesa per la produzione di capi d’abbigliamento inclusi in particolari scene (le cui descrizioni trova in allegato).
Chiaramente, non serve dirLe che ciò che Le ho inviato è confidenziale e non dovrà essere divulgato a terze parti.
Vorrei poterLa incontrare presso i Suoi uffici, per definire un accordo di massima e contrattualizzare un accordo per la produzione complessiva di n. 7 capi d’abbigliamento.
In attesa di sicuro riscontro Le porgo

Distinti saluti,

Brad Maier, Starjetset S.P.A.
Southern Avenue – District A, 45,
Pokéwood (UN).


Le informazioni contenute in questa e-mail e negli eventuali allegati sono riservate alla persona sopraindicata. Si notifica a chi legge il presente avviso che è proibito leggere, copiare, usare o diffondere il contenuto di questa comunicazione senza autorizzazione ai sensi dell’art. 1653 del C.P. e ai sensi del D. Lgs. 4654/20X-15. Se avete ricevuto questo messaggio per errore, siete pregati di rispedirlo al mittente informandoci immediatamente, distruggendone il contenuto (testo e documenti allegati).


Prese un respiro.
Bello profondo.
Le piaceva l’idea. Avrebbe avuto una visibilità non indifferente, e avrebbe avuto l’opportunità di aprire un rapporto lavorativo con Maier e chiunque altro negli Studios.

“Soldi...”

Ne avrebbe guadagnati a palate. Forse avrebbe alleggerito la testa da tutti quei pensieri.
Buttò giù l’ultimo sorso di quel dolce veleno e allontanò il bicchiere con una manata, che scivolò sulla superficie liscia della scrivania di legno.
Doveva scendere in campo in prima persona e risolvere il problema una volta per tutte. Certo, avrebbe potuto non trovare Ruby per altri vent’anni, ma aveva poco tempo per far ripartire l’Atelier, e Brad Maier avrebbe ottenuto i suoi sette vestiti. Costasse quel che costasse.
E la cosa principale da fare era una, in quel momento.
Il dito smaltato andò a premere il tasto otto del telefono. Quello rispose con un doppio bip e la mise in contatto con il suo assistente, che rispose, ligio, dopo un solo squillo.
- Presidentessa, Signora White.
- Hugh, vieni qui.
- Sì, Presidentessa. Vengo subito.
La donna sospirò e aprì la borsa, prendendo una Winston e stringendola tra le labbra. Non l’avrebbe mai accesa lì, avrebbe lasciato la puzza di fumo nell’aria e non le piaceva. Ma aveva bisogno di una boccata d’ossigeno che non la costringesse a uscire fuori al caldo.
In qualche modo avrebbe cambiato l’aria che aveva nei polmoni. Si alzò in piedi e si avvicinò al centro della stanza, quando Hugh, il suo assistente, le si parò davanti.
- Presidentessa.
La donna voltò la testa, vedendo il giovane in piedi, dritto accanto alla porta dell’ascensore. Indossava una camicia bianca attillata, e una cravatta rossa, che ben si abbinava al colore corvino dei riccioli neri che gli si annodavano sulla testa. Lo sguardo, di quell’insolita sfumatura vermiglia, pareva concentrato e al contempo preoccupato. Le labbra erano schiuse, la salivazione probabilmente si stava azzerando.
White sorrise. Sapeva che non fosse facile lavorare per lei.
- Allora, Hugh, dovrai fare tre cose per me, molto importanti. La prima è rispondere alla mail di Brad Maier e organizzare un appuntamento con la sua assistente la settimana prossima, quando vuole lui. La prima data proponila tu, lei sicuramente rifiuterà, ne proporrà un’altra, quindi tu accetterai, qualunque essa sia. Semmai avessimo già un impegno sposterai l’appuntamento che avevamo in agenda, anche fosse col papa. Mi segui?
- Sì, Presidentessa.
- Benissimo. Avverti Whitely che nel pomeriggio dovrà farmi trovare un resoconto sulla scrivania di Ruby, andrò all’Atelier, e voglio che tutto il personale sia presente.
- Va bene.
- E poi procurami un Blackberry.
- U-un Blackberry?!
La donna riguardò la sigaretta tra le dita e sospirò.
- Sì, il mio è volato dalla finestra due minuti fa. Recupera il mio numero e tutti i contatti che avevo salvato, reimposta ogni cosa come l’avevo e, per l’amor di dio, non entrare nel mio cloud... dio solo sa che fotografie potresti trovarci.
- Certo, Presidentessa.
Con la solita classe che la contraddistingueva, White fece per avanzare, passando accanto al divano e avvicinandosi all’assistente, per poi rallentare. Con la sigaretta tra le labbra, ancora spenta, si voltò e guardò il salotto.
- E alza il tappeto a mo’ di arazzo sul muro.
- Sul... sul muro?! - titubò quello, vedendola entrare nell’ascensore.
- Erano quattro cose, Hugh, non tre. Quattro.
Le porte si chiusero, mozzando quella conversazione e lasciando il ragazzo da solo nell’ufficio.

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