Frammenti - uno Sguardo al Passato
one shot di _beatlemania is back per il Soulwriters Team
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1. ESCAPE
Frammenti
di ricordi la svegliarono nel cuore della notte anche quella volta. La
donna si alzò a sedere di scatto sul letto, il respiro affannoso, le
lacrime che le rigavano le guance. Quella tortura non sarebbe mai
finita.
Nel corso della sua vita, Miriam aveva imparato ad amare tante cose, tante persone, e ad odiarne altrettante. Tra tutto ciò alla quale disgustava soltanto il pensiero, vi era una data: 26 giugno. Oltre a detestarla, ogni volta che viveva quella giornata o che s’imbatteva in quella data, non poteva impedirsi di sentirsi a pezzi, di avvertire un pesante macigno nella fastidiosa zona tra i polmoni e lo stomaco, di voler gridare all’intera cittadina di Azalina la sua frustrazione, la sua vergogna.
Il 26 giugno di cinque anni addietro, sua figlia Helen era fuggita di casa. Aveva appena undici anni, nessuna esperienza del mondo fuori le mura domestiche né aiuti economici, soltanto i suoi Houndour e Larvitar a proteggerla, ma anch’essi assolutamente inesperti quando si trattava di proteggere la propria giovane allenatrice.
Quell’episodio rappresentava il suo fallimento come madre e non poche volte l’aveva spinta sull’orlo del baratro. La sua Helen, scomparsa a causa sua, della sua inesperienza quanto all’essere genitore… La sua bambina, il suo tesoro, se n’era andata chissà dove, in cerca della vera felicità. Perché lei si sentiva oppressa dalle attenzioni morbose della madre, che da quando, alcuni mesi addietro, si era separata dal padre di Helen, non poteva fare a meno di starle sempre addosso chiedendole se poteva aiutarla in qualche modo, se aveva bisogno di lei.
E puntualmente i desideri della ragazzina venivano smontati pezzo per pezzo, fino alla più piccola scaglia, al più piccolo residuo rimanente dei suoi sogni e delle sue idee, dietro alla solita scusa della madre, che recitava “Voglio solo il meglio da te, non voglio che poi delle illusioni ti feriscano, bambina mia!”.
Se voleva farsi una passeggiata sola con Houndour e Larvitar non poteva, né tantomeno stare fuori con un’amica oltre una cert’ora, Miriam credeva fosse troppo pericoloso; non poteva stare sveglia fino a tardi poiché doveva dormire abbastanza per essere in forma il giorno dopo; non poteva stancarsi troppo gli occhi sul computer, sui videogiochi o sul PokéGear.
Ma la cosa che spinse Helen a fuggire fu la paranoia di quella donna. Ovunque andasse, quando c’era la madre, le persone da questa giudicate “poco raccomandabili” che incrociavano per strada dovevano essere evitate dalla ragazzina come fossero lebbrosi. Il problema era che questi “poco raccomandabili” occupavano la stragrande maggioranza della popolazione di Amarantopoli, la città natale di Helen e della famiglia, quindi Miriam la sballottava da un lato del marciapiede all’altro come se la figlia potesse diventare una delinquente solo avvicinando la sua aura a quella di altri.
- Mamma, sono stanca.
- Tesoro, perché? Stai bene, ti senti male? Forse è meglio se vai a dormire presto, piccola mia, posso…
- No mamma, no, non sono malata e non ho sonno… sono solo stanca, stanca di questa situazione.
Nonostante i continui sforzi di Helen di spiegare alla madre che non aveva bisogno di tutte le attenzioni che le venivano riservate e che continuasse a ripetere di sentirsi troppo soffocata dalla sua premura spesso inutile o stupida, questa non l’aveva mai ascoltata fino in fondo, si giustificava con scuse poco credibili persino per un adulto o dirottava l’argomento della “conversazione” su chissà quali altre cose.
Quindi Helen si era preparata per andarsene. Era diventata una ragazzina matura per la sua età, effettivamente un po’ inquietante con il suo essere così enigmatica e imprevedibile, e questo lato del suo carattere si era accentuato con la separazione dei genitori. Si sentiva anche tradita a causa di questo: non aveva mai notato una pecca nella recitazione dei genitori nei ruoli di perfetti innamorati, con una bambina bellissima e una vita meravigliosa, e alla fine quel fragile castello di carte le era caduto addosso con indicibile violenza.
Era cresciuta a forza, era diventata più realista e angoli nascosti del suo carattere erano emersi, fino a trasformarla in una donna nascosta nel corpo immaturo di un’undicenne. Vedeva cose che persino sua madre, resa cieca dallo shock della separazione e dall’amore morboso per la figlia, si rifiutava categoricamente di riconoscere, come ad esempio il suo eccessivo attaccamento a lei.
Helen passò molto tempo a pianificare la fuga fin nel minimo dettaglio. Aveva bisogno di soldi, di cambi per i vestiti, doveva iniziare portandosi dietro un po’ di cibo e, soprattutto, i suoi Pokémon. Passò mesi ad accumulare risparmi e, quasi due mesi prima del suo compleanno, che cadeva nel 14 agosto, uscì di casa per non tornare mai più. Si era premurata di lasciare un biglietto alla madre con le spiegazioni del suo atto, sperando che per una volta capisse.
Perciò, mentre la madre era via per delle commissioni verso la metà della mattinata, Helen uscì di casa senza portarsi nemmeno le chiavi, in caso dovesse tornare. Voleva tagliare i ponti in tutti i modi con quella città, quella famiglia. Si sarebbe diretta ad Olivinopoli, abbastanza vicina da poter essere raggiunta a piedi in poche ore.
Me ne vado.
So che probabilmente non capirai, che attribuirai la colpa a chiunque… tranne che a te.
Me ne vado. Verso la libertà che tu mi hai sempre impedito di raggiungere…
Addio.
Helen
Corse via dalla città e prese il percorso 38, con Houndour al seguito pronto a difenderla, per quanto possibile, da eventuali attacchi di Pokémon selvatici. Anche Larvitar era abbastanza forte, e probabilmente quei due insieme sarebbero riusciti a fronteggiare i numerosi Meowth e Magnemite della zona.
Le cose si misero male quando Houndour andò K.O. a causa dell’assenza di molti rimedi. Helen era partita sicura di sé e certa che le zone d’erba non fossero tantissime, ma per evitare gli allenatori che sicuramente l’avrebbero sfidata dovette passare in mezzo ad esse. Si rivelarono molto più ostiche di quello che pensava, così come i Pokémon che vi si nascondevano: erano più forti rispetto a quello che si aspettava.
Arrivò ad Olivinopoli verso sera, stremata. Cercò disperatamente un Centro Pokémon dove poter riposare e dove far curare Houndour e le ferite di Larvitar, ma la città era un labirinto di casette marittime dai colori chiari e luminosi, strade più o meno ampie che si diramavano in vie minori e infine in angusti vicoli bui, tutti intrecciati a formare un intricato labirinto che certo non l’aiutava in una situazione del genere. Negozi di articoli per il nuoto o la pesca si alternavano ad altri di vestiti o bancarelle di venditori ambulanti che cercavano di offrire al minor prezzo possibile libri, CD, DVD o magliette ed abiti.
Helen si decise, dopo aver vagato a lungo in giro ed essere giunta al lungomare, di chiedere aiuto a qualche passante. S’incamminò lungo la via che costeggiava la riva, piena di sabbia che le andava a finire nelle scarpe e la infastidiva. La luce della luna era frammentata nella distesa blu del mare come tanti piccoli cristalli vividi e brillanti, ma Helen non si interessò di questo. Iniziava a preoccuparsi.
- Scusate… - si rivolse ad una famiglia che passeggiava con tranquillità e indubbia spensieratezza, ridendo allegra. Quelli subito la ascoltarono: erano due genitori con il figlio, un ragazzetto con i capelli scuri spettinati e la pelle abbronzatissima che la guardò attentamente fin nei minimi dettagli, facendola sentire un po’ a disagio. - Sapete dirmi come raggiungere il Centro Pokémon?
La donna, la madre del ragazzino, le rispose dandole qualche indicazione che Helen memorizzò, sperando di non sbagliarsi. Stava per salutare e ringraziare, quando un bambino in bicicletta corse incontro ai quattro, sbarrandole la strada.
- Hey, Sean! - esclamò, rivolgendosi al ragazzino. - Mi devi la rivincita, ti ricordi?
- Mark! Oh, giusto - lo sguardo di Sean, così doveva essere il nome del figlio della coppia, si illuminò. Helen notò che aveva gli occhi di un azzurro incredibile, che verso l’esterno sfumava in un blu più scuro. Immaginò che avesse più o meno la sua età, forse era poco più grande. - Ma non è tardi?
- Non è mai troppo tardi per lottare! Vai, Staryu!
- Coraggio, Sean, lotta! - lo incoraggiò il padre. Helen rimase stupita: i suoi genitori non avevano mai nemmeno immaginato che lei volesse imparare tutto sulle lotte. A volte l’avevano pure persuasa dal continuare ad allenare i suoi Pokémon, dicendole di concentrarsi sulla scuola e sullo studio, nonostante avesse appena finito la prima media e di studio impegnativo c’era poco e nulla.
Sean assunse un’espressione decisa, molto diversa da quella pacata e curiosa di conoscere Helen di prima. - Bene! Manderò Kirlia!
Il Pokémon di tipo Psico uscì dalla sfera in un baluginio di luce bianca e rossa. Helen non poté restare indifferente alla vista di quell’essere sconosciuto, non aveva mai visto una specie del genere, così aggraziata e bella.
- Che Pokémon è?- chiese sinceramente incuriosita ai genitori di Sean.
Il padre le rispose: - Kirlia, proviene da Hoenn. L’ha catturato l’estate scorsa, quando era ancora un Ralts. Comunque il mio nome è Michael, ma puoi chiamarmi Mike, e questa è mia moglie Linda - si presentò l’uomo. Aveva gli stessi capelli spettinati di Sean e la sua pelle scura, mentre dalla madre aveva preso gli occhi e il colore dei capelli. Il padre infatti li aveva castani, così come gli occhi.
La ragazzina assentì e mormorò un secco “Helen” di presentazione mentre in pochi colpi di Fogliamagica (una mossa anch’essa a lei sconosciuta) lo Staryu finiva inesorabilmente al tappeto.
Mark se ne andò, fumante di rabbia, in fretta così com’era arrivato. Helen era tutt’occhi per Kirlia, che comunque aveva risentito degli attacchi di Staryu.
- Direi di andare tutti insieme al Centro Pokémon - propose Linda con allegria - dato che sia i Pokémon di Sean che i tuoi, Helen, hanno bisogno di cure. Ti va di venire con noi?
Lei annuì silenziosamente mentre Larvitar, nascosto tra le sue gambe, osservava diffidente i tre personaggi. Kirlia rientrò nella sua sfera mentre tutti insieme si dirigevano verso la via maggiore della città: esattamente a metà di essa vi era il Centro, grande ed attrezzato.
Mentre i Pokémon si riposavano, Helen approfittò del servizio gratuito di esso (le tasse contribuivano a dar loro i fondi) e chiese all’infermiera: - Stanotte è tutto occupato o avete una stanza libera?
Tutti rimasero abbastanza sorpresi della richiesta della ragazzina. - Certo che no, puoi pernottare tranquillamente - si riprese quasi subito l’infermiera.
- Ma come, tesoro, non abiti qua ad Olivinopoli? - chiese stupita Linda mentre si sedevano tutti sulle comode poltrone di cui era provvisto il Centro.
Helen scosse la testa e rispose: - Io vengo da Amarantopoli. E non penso proprio di tornarci.
- Cos…
Non diede il tempo a Mike di finire. Con un sospiro rassegnato, dicendosi “Tanto qualcuno lo dovrà sapere, magari mi aiuterà”, Helen spiegò: - Me ne sono andata. Scappata, se preferite, di casa.
Mentre la famiglia di Sean accoglieva la notizia quasi con spavento, Miriam era inginocchiata a terra sul pavimento della camera di Helen. Le buste della spesa erano state abbandonate a sé stesse nell’ingresso e lei aveva appena chiuso la porta di casa quando si accorse del silenzio che regnava lì dentro.
- Hel… Helen… - la voce della donna era un sussurro disperato, quel pomeriggio, mentre gli occhi marroni, vitrei, fissavano senza vederlo realmente il biglietto d’addio della figlia che stringeva in mano, stropicciandolo. Prese a singhiozzare, nascondendo le lacrime con le mani alla vista delle pareti intorno a sé, che le sembravano farsi tanto più strette: le mancava il respiro, non riusciva a controllare il tremore del suo intero corpo scosso dai singhiozzi. Le lacrime silenziose che prima rigavano le sue gote erano ora sul pavimento, sulle sue cosce, sparse sui palmi delle mani.
Gridò. Pianse fino a sera, per tutti i giorni successivi, non curandosi del suo lavoro e rimanendo sola con la sua disperazione: non avrebbe mai smesso probabilmente, sarebbe rimasta così a singhiozzare per il resto della sua vita, della sua vita coronata con un fallimento totale. Quello di essere genitore.
Miriam fuggì ad Azalina, città quasi agli antipodi di Amarantopoli nella regione di Johto, e non senza incontrare grandissime difficoltà si trovò un’occupazione ed un’abitazione vicino alla bottega di Franz, l’Artigiano delle Pokéball, che per un po’ l’aiutò a sopravvivere in quella città sconosciuta.
Miriam sentiva di non meritarsi la gentilezza e la premura di quell’uomo. Se era riuscita poi a trovare un altro lavoro e si era sistemata senza il suo aiuto, una domanda le saliva spontanea in mente e poi riscendeva a pugnalarle il cuore.
“Perché? Perché sono riuscita a cavarmela in questa città sconosciuta e ho reso infelice mia figlia senza rendermene conto, la mia meravigliosa bambina?” fu la domanda che di nuovo, ogni sera, la costringeva a soffocare la sua disperazione nel cuscino. Era sola, non aveva più nessuno. La sua famiglia l’aveva abbandonata e lei l’aveva fatto con chi ancora non sapeva della situazione.
La famiglia Reed si era definitivamente smembrata.
Il padre di Helen, Robert, se n’era andato a Kanto. Probabilmente adesso abitava a Zafferanopoli: Miriam ricordava con una fitta di dolore al petto i momenti davvero felici, e non falsamente allora, quando lui le confessava i suoi sogni e le sue aspettative per il futuro. Era un grande sognatore e lei apprezzava enormemente la sua fantasia, la sua brama di scoprire nuovi luoghi e cose, di conoscere.
E dal loro amore era nata quella bellissima bambina, incredibilmente somigliante ad entrambi quanto ad aspetto, ma diversissima se si andava a vedere il carattere.
Adesso però l’aveva lasciata sola, facendola sentire terribilmente in colpa.
Aveva paura di fallire di nuovo. Anche nelle più piccole cose.
- Per… perché papà è andato via? Mamma…
- Bambina mia… ci sono io qua a proteggerti, stellina, non sei sola…
- Ma papà?
- Torna presto, papà, non preoccuparti… è andato a trovare… una sua cara amica…
La famiglia di Sean accusò la gravità delle parole di Helen, quella piccola fuggitiva, come fossero stati colpiti in pieno da una bomba ad idrogeno.
- Piccolo tesoro! - Dopo quelli che parvero lunghi minuti di silenzio, Helen si ritrovò all’improvviso col fiato mozzato dall’abbraccio fin troppo energico di Linda. - Non devi più scappare, ci siamo noi adesso!
- Eh? Cosa?! - esclamò stupita la ragazzina.
- Non possiamo lasciarti sola! - s’aggiunse il padre, con una dolcezza che non si aspettava, aggiungendosi alla stretta della moglie e rischiando di far morire la ragazza. Non aveva più fiato nei polmoni.
Sean si schiarì timidamente la voce e quelli si staccarono, come per magia, dalla povera malcapitata, che dandosi un contegno - o almeno provandoci - disse, con il suo fare misterioso e l’espressione seria e matura sul volto: - Vi ringrazio, ma è presto e so che è difficile organizzarsi così in fretta e furia. Stanotte resterò qui, casomai domani potete venire a prendermi. Se vi va, ovvio - concluse, dubitando dell’affidabilità di quei due.
Li aveva osservati attentamente. Nonostante il fisico di entrambi fosse assolutamente naturale, erano vestiti con abiti fin troppo stravaganti: lui con una camicia caleidoscopica piena di tinte diverse e sfumature da far venire il mal di testa solo allo sguardo, abbinata ad un paio di pantaloncini neri al ginocchio che lasciavano scoperti i polpacci fin troppo pelosi. Dello stesso colore era un foulard piuttosto ambiguo, morbido sul collo, e dei grossi sandali ai piedi.
La moglie era bassa, ma tacchi vertiginosi la facevano alzare quasi di una spanna. Aveva il trucco curato, forse un po’ esagerato, era magrolina e piatta. Un tubino nero dalle spalline appena presenti la fasciava fino alle ginocchia.
Invece Sean era… una via di mezzo tra i due. Aveva il fisico del padre, quindi non era molto magro, ma già si vedeva un accenno di una muscolatura che in futuro si sarebbe fatta molto più pronunciata. Sì, era proprio a metà tra loro. I capelli spettinati erano tali e quali al padre, così come il colore della pelle, mentre il colore della sua chioma ribelle era nero come i capelli della madre. Da lei aveva ripreso anche gli stessi identici occhi, ma che risaltavano molto di più su di lui grazie all’abbronzatura dorata.
- Certo, piccola, non ti preoccupare! - la rassicurò Mike scompigliandole i capelli. - Domani mattina, verso le dieci, veniamo a prenderti, d’accordo?
- Oh… va bene.
Fu così che, dopo un ritardo di circa mezz’ora rispetto all’orario concordato, Helen Reed divenne a tutti gli effetti parte della famiglia Morgan. L’affetto che i due adulti di quel piccolo nucleo familiare le dimostravano era incredibile e quasi inverosimile: il 14 agosto, il dodicesimo compleanno di Helen, fu festeggiato a sorpresa, e lei non ricordava nemmeno di aver mai rivelato la sua data di nascita. La ragazza era più piccola di un anno di Sean, nato il 30 giugno.
Sean, i primi tempi, fu un tipo silenzioso. Non in senso negativo, anzi: era sempre sorridente, allegro e positivo, ma parlava poco e mai a sproposito. Forse era un po’ timido, o forse aspettava di conoscere meglio Helen prima di stringerci amicizia ufficialmente. Anche lei, i primi tempi, fu piuttosto schiva nei loro confronti, ma quella bizzarra famiglia non gliene fece mai un peso.
- I miei genitori sono artisti - le disse una volta Sean, pochi giorni prima che iniziasse la scuola.
Lei s’incuriosì molto. Gli chiese che genere di lavoro facessero, e lui le rispose con un bell’elenco, ridacchiando: - Oh, sono registi, pittori, scrittori, musicisti, attori…
- Eh?! E dove lo trovano il tempo per stare a casa? - sobbalzò lei interrompendolo.
Sean sorrise e l’altra colse una nota di amarezza nel suo sguardo, nella curvatura delle labbra arricciate in un mezzo sorriso. - Non lo trovano. Solo d’estate si prendono due o tre mesi di pausa, sai. Poi tornano a Natale e verso i primi giorni dell’anno nuovo se ne vanno…
- E tu con chi stai mentre non ci sono?
- Con mio nonno, il papà di papà - rispose lui. - Ma non mi dispiace, e poi i miei genitori… l’avrai notato anche tu… sono davvero molto premurosi quando ci sono. Forse un po’ mi hanno viziato - ridacchiò. Helen annuì semplicemente.
Quella passeggiata era la prima che facevano da soli. A lei non dispiacque, e quando si rese conto di essere stata davvero bene con quel ragazzo, il sangue fluì all’istante verso le sue gote. Almeno era il tramonto, Sean non l’avrebbe notato. Forse.
Alla fine decise che non le importava più di tanto. Iniziò a parlare di sé stessa, della sua - seppur breve - storia, di quello che pensava di ciò che le accadeva intorno, anche delle cose più futili.
- Sono silenziosa, sì - disse alla fine di una lunga chiacchierata, mentre si avviavano sulla strada di ritorno - ma sono attenta a ciò che mi circonda. E so ascoltare. Ma penso di essere una delle poche in grado di farlo veramente bene.
- Già - assentì Sean, - è così difficile riuscire a prestare attenzione a qualcosa. Attenzione vera, quella che poi ti fa fare tesoro di ogni significato nascosto dentro qualcosa, che può essere un’azione, una frase o una lotta Pokémon… anche quello più apparentemente invisibile, inesistente forse.
Maturo. Ecco com’era Sean: un ragazzo incredibilmente maturo per la sua età, proprio come lei. Non lo annoiava stare con lui, come invece accadeva con la maggior parte delle persone.
- Forse tu penserai che io sia una ragazzina enigmatica o chissà che altro… - aveva detto poco prima Helen, mentre parlava di sé. - La verità è che la separazione dei miei genitori mi ha costretta a crescere più in fretta. E ciò non mi piace, se devo dirla tutta, sai. Da piccola ero come loro due: solare, chiacchierona e tutto il resto. Ma quando lui se n’è andato e lei si è mostrata incapace in molti aspetti dell’essere genitore… ho capito che dovevo cambiare, se volevo migliorare.
- Le tue parole sono strane, dette da una dodicenne - commentò a bassa voce Sean, osservando il sole che si nascondeva dietro l’orizzonte. O forse stava solo facendo un bagno in mare. - Ma credo a quello che dici. Se davvero la separazione dei tuoi ti ha resa come sei adesso, non mi stupisco più.
- È che da quando hanno rotto, io ho iniziato a non fidarmi più di nessuno. Ho tagliato i ponti con un sacco di gente. Lui se n’è andato verso la fine dell’anno scorso, dopo Natale. È stato tristissimo… - mormorò infine, abbassando lo sguardo, smettendo di osservare il sole morente.
Sean le prese la mano. - Mi dispiace. Ma ora ci sono io, e tutta la mia famiglia e i miei amici. Anche con la scuola ti troverai bene, ne sono sicuro.
- Sì - sussurrò Helen, che poi sorrise con sincerità. - Grazie, Sean.
- Il professor Elm ha portato a papà un Cyndaquil. Sai, sono davvero amici.
- Wow, Cyndaquil è un Pokémon adorabile!
- L’ha dato a me, sai?
- Davvero? Che fortuna…!
- Sì, ma… vorrei che lo tenessi tu.
- Ehi…
Una voce dolce la riportò con i piedi per terra. Helen si riprese e scosse la testa, scacciando via i ricordi di quei giorni della fuga e della conoscenza con Sean. Guardò negli occhi proprio lui, il ragazzo che passeggiava accanto a lei, che sorrideva gentile, chiedendole semplicemente con lo sguardo se ci fosse qualcosa che non andava.
Probabilmente era l’unico ragazzo, l’unico essere sulla faccia della Terra che riusciva a sopportare i suoi continui sbalzi d’umore, la sua attitudine ad essere vendicativa ed irascibile, e il solo in grado anche di calmarla. Helen conosceva poche persone come lui e queste erano coloro a cui era più affezionata, con i quali si toglieva la maschera di ragazza misteriosa e riusciva a liberare il lato solare di sé.
E Sean era la persona a cui teneva di più al mondo.
- Ohi - rispose semplicemente, ricambiando il sorriso. Il vento di metà febbraio le scompigliava i capelli castani già mossi di loro, mentre i suoi occhi color brace, così pieni di sfumature calde come il rosso, il giallo e il color nocciola, s’incontravano con quelli azzurri e blu del suo fidanzato. Faceva piuttosto freddo, quell’anno l’inverno non si era dato limiti e non aveva risparmiato un angolo della regione di Johto. Timide, dolci nuvolette si formavano davanti alle bocche dei due, appena schiuse.
- E anche San Valentino è finito - sospirò Sean, osservando le rade coppiette che gironzolavano per la spiaggia della città: tutti erano per il corso maggiore a fare incetta di regali per il partner. Erano effettivamente soli. Dietro di loro, un Quilava ed una Kirlia li seguivano, guardandoli incuriositi. Era tutto il pomeriggio che i due, anzi i quattro, stavano fuori, senza curarsi del fatto che per il giorno successivo avessero un qualche quintale di compiti da sbrigare. Al pensiero, Helen fece istintivamente spallucce, ma Sean lo interpretò come un “e chissene se è finito San Valentino”.
- Ah, quindi non t’importa! - ridacchiò.
- Eh? Cosa?
- È finito il 14 febbraio. Non te ne frega per niente, ammettilo…
- Ah, quello. In realtà stavo pensando che per domani sono piena di compiti e sono già le sei, ma no, la risposta non cambia - e fece nuovamente spallucce, con un mezzo sorriso sul volto.
L’altro sbuffò e tolse la mano dalla tasca, andando a cercare la sua. Lei non oppose resistenza.
Nemmeno all’intenso bacio che Sean riuscì a strapparle subito dopo.
Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Ohi a tutti! (bello il colore viola per l'angolo nevvero?)
La vostra beatlemania is back è tornata davvero, vedete che il soprannome non l’ho scelto proprio alla cacchio? E con che roba è tornata! Con un grande, innovativo progetto che porta il nome di *rullo di tamburi (o di rutti, così anche Son è contento)*
Nel corso della sua vita, Miriam aveva imparato ad amare tante cose, tante persone, e ad odiarne altrettante. Tra tutto ciò alla quale disgustava soltanto il pensiero, vi era una data: 26 giugno. Oltre a detestarla, ogni volta che viveva quella giornata o che s’imbatteva in quella data, non poteva impedirsi di sentirsi a pezzi, di avvertire un pesante macigno nella fastidiosa zona tra i polmoni e lo stomaco, di voler gridare all’intera cittadina di Azalina la sua frustrazione, la sua vergogna.
Il 26 giugno di cinque anni addietro, sua figlia Helen era fuggita di casa. Aveva appena undici anni, nessuna esperienza del mondo fuori le mura domestiche né aiuti economici, soltanto i suoi Houndour e Larvitar a proteggerla, ma anch’essi assolutamente inesperti quando si trattava di proteggere la propria giovane allenatrice.
Quell’episodio rappresentava il suo fallimento come madre e non poche volte l’aveva spinta sull’orlo del baratro. La sua Helen, scomparsa a causa sua, della sua inesperienza quanto all’essere genitore… La sua bambina, il suo tesoro, se n’era andata chissà dove, in cerca della vera felicità. Perché lei si sentiva oppressa dalle attenzioni morbose della madre, che da quando, alcuni mesi addietro, si era separata dal padre di Helen, non poteva fare a meno di starle sempre addosso chiedendole se poteva aiutarla in qualche modo, se aveva bisogno di lei.
E puntualmente i desideri della ragazzina venivano smontati pezzo per pezzo, fino alla più piccola scaglia, al più piccolo residuo rimanente dei suoi sogni e delle sue idee, dietro alla solita scusa della madre, che recitava “Voglio solo il meglio da te, non voglio che poi delle illusioni ti feriscano, bambina mia!”.
Se voleva farsi una passeggiata sola con Houndour e Larvitar non poteva, né tantomeno stare fuori con un’amica oltre una cert’ora, Miriam credeva fosse troppo pericoloso; non poteva stare sveglia fino a tardi poiché doveva dormire abbastanza per essere in forma il giorno dopo; non poteva stancarsi troppo gli occhi sul computer, sui videogiochi o sul PokéGear.
Ma la cosa che spinse Helen a fuggire fu la paranoia di quella donna. Ovunque andasse, quando c’era la madre, le persone da questa giudicate “poco raccomandabili” che incrociavano per strada dovevano essere evitate dalla ragazzina come fossero lebbrosi. Il problema era che questi “poco raccomandabili” occupavano la stragrande maggioranza della popolazione di Amarantopoli, la città natale di Helen e della famiglia, quindi Miriam la sballottava da un lato del marciapiede all’altro come se la figlia potesse diventare una delinquente solo avvicinando la sua aura a quella di altri.
- Mamma, sono stanca.
- Tesoro, perché? Stai bene, ti senti male? Forse è meglio se vai a dormire presto, piccola mia, posso…
- No mamma, no, non sono malata e non ho sonno… sono solo stanca, stanca di questa situazione.
Nonostante i continui sforzi di Helen di spiegare alla madre che non aveva bisogno di tutte le attenzioni che le venivano riservate e che continuasse a ripetere di sentirsi troppo soffocata dalla sua premura spesso inutile o stupida, questa non l’aveva mai ascoltata fino in fondo, si giustificava con scuse poco credibili persino per un adulto o dirottava l’argomento della “conversazione” su chissà quali altre cose.
Quindi Helen si era preparata per andarsene. Era diventata una ragazzina matura per la sua età, effettivamente un po’ inquietante con il suo essere così enigmatica e imprevedibile, e questo lato del suo carattere si era accentuato con la separazione dei genitori. Si sentiva anche tradita a causa di questo: non aveva mai notato una pecca nella recitazione dei genitori nei ruoli di perfetti innamorati, con una bambina bellissima e una vita meravigliosa, e alla fine quel fragile castello di carte le era caduto addosso con indicibile violenza.
Era cresciuta a forza, era diventata più realista e angoli nascosti del suo carattere erano emersi, fino a trasformarla in una donna nascosta nel corpo immaturo di un’undicenne. Vedeva cose che persino sua madre, resa cieca dallo shock della separazione e dall’amore morboso per la figlia, si rifiutava categoricamente di riconoscere, come ad esempio il suo eccessivo attaccamento a lei.
Helen passò molto tempo a pianificare la fuga fin nel minimo dettaglio. Aveva bisogno di soldi, di cambi per i vestiti, doveva iniziare portandosi dietro un po’ di cibo e, soprattutto, i suoi Pokémon. Passò mesi ad accumulare risparmi e, quasi due mesi prima del suo compleanno, che cadeva nel 14 agosto, uscì di casa per non tornare mai più. Si era premurata di lasciare un biglietto alla madre con le spiegazioni del suo atto, sperando che per una volta capisse.
Perciò, mentre la madre era via per delle commissioni verso la metà della mattinata, Helen uscì di casa senza portarsi nemmeno le chiavi, in caso dovesse tornare. Voleva tagliare i ponti in tutti i modi con quella città, quella famiglia. Si sarebbe diretta ad Olivinopoli, abbastanza vicina da poter essere raggiunta a piedi in poche ore.
Me ne vado.
So che probabilmente non capirai, che attribuirai la colpa a chiunque… tranne che a te.
Me ne vado. Verso la libertà che tu mi hai sempre impedito di raggiungere…
Addio.
Helen
Corse via dalla città e prese il percorso 38, con Houndour al seguito pronto a difenderla, per quanto possibile, da eventuali attacchi di Pokémon selvatici. Anche Larvitar era abbastanza forte, e probabilmente quei due insieme sarebbero riusciti a fronteggiare i numerosi Meowth e Magnemite della zona.
Le cose si misero male quando Houndour andò K.O. a causa dell’assenza di molti rimedi. Helen era partita sicura di sé e certa che le zone d’erba non fossero tantissime, ma per evitare gli allenatori che sicuramente l’avrebbero sfidata dovette passare in mezzo ad esse. Si rivelarono molto più ostiche di quello che pensava, così come i Pokémon che vi si nascondevano: erano più forti rispetto a quello che si aspettava.
Arrivò ad Olivinopoli verso sera, stremata. Cercò disperatamente un Centro Pokémon dove poter riposare e dove far curare Houndour e le ferite di Larvitar, ma la città era un labirinto di casette marittime dai colori chiari e luminosi, strade più o meno ampie che si diramavano in vie minori e infine in angusti vicoli bui, tutti intrecciati a formare un intricato labirinto che certo non l’aiutava in una situazione del genere. Negozi di articoli per il nuoto o la pesca si alternavano ad altri di vestiti o bancarelle di venditori ambulanti che cercavano di offrire al minor prezzo possibile libri, CD, DVD o magliette ed abiti.
Helen si decise, dopo aver vagato a lungo in giro ed essere giunta al lungomare, di chiedere aiuto a qualche passante. S’incamminò lungo la via che costeggiava la riva, piena di sabbia che le andava a finire nelle scarpe e la infastidiva. La luce della luna era frammentata nella distesa blu del mare come tanti piccoli cristalli vividi e brillanti, ma Helen non si interessò di questo. Iniziava a preoccuparsi.
- Scusate… - si rivolse ad una famiglia che passeggiava con tranquillità e indubbia spensieratezza, ridendo allegra. Quelli subito la ascoltarono: erano due genitori con il figlio, un ragazzetto con i capelli scuri spettinati e la pelle abbronzatissima che la guardò attentamente fin nei minimi dettagli, facendola sentire un po’ a disagio. - Sapete dirmi come raggiungere il Centro Pokémon?
La donna, la madre del ragazzino, le rispose dandole qualche indicazione che Helen memorizzò, sperando di non sbagliarsi. Stava per salutare e ringraziare, quando un bambino in bicicletta corse incontro ai quattro, sbarrandole la strada.
- Hey, Sean! - esclamò, rivolgendosi al ragazzino. - Mi devi la rivincita, ti ricordi?
- Mark! Oh, giusto - lo sguardo di Sean, così doveva essere il nome del figlio della coppia, si illuminò. Helen notò che aveva gli occhi di un azzurro incredibile, che verso l’esterno sfumava in un blu più scuro. Immaginò che avesse più o meno la sua età, forse era poco più grande. - Ma non è tardi?
- Non è mai troppo tardi per lottare! Vai, Staryu!
- Coraggio, Sean, lotta! - lo incoraggiò il padre. Helen rimase stupita: i suoi genitori non avevano mai nemmeno immaginato che lei volesse imparare tutto sulle lotte. A volte l’avevano pure persuasa dal continuare ad allenare i suoi Pokémon, dicendole di concentrarsi sulla scuola e sullo studio, nonostante avesse appena finito la prima media e di studio impegnativo c’era poco e nulla.
Sean assunse un’espressione decisa, molto diversa da quella pacata e curiosa di conoscere Helen di prima. - Bene! Manderò Kirlia!
Il Pokémon di tipo Psico uscì dalla sfera in un baluginio di luce bianca e rossa. Helen non poté restare indifferente alla vista di quell’essere sconosciuto, non aveva mai visto una specie del genere, così aggraziata e bella.
- Che Pokémon è?- chiese sinceramente incuriosita ai genitori di Sean.
Il padre le rispose: - Kirlia, proviene da Hoenn. L’ha catturato l’estate scorsa, quando era ancora un Ralts. Comunque il mio nome è Michael, ma puoi chiamarmi Mike, e questa è mia moglie Linda - si presentò l’uomo. Aveva gli stessi capelli spettinati di Sean e la sua pelle scura, mentre dalla madre aveva preso gli occhi e il colore dei capelli. Il padre infatti li aveva castani, così come gli occhi.
La ragazzina assentì e mormorò un secco “Helen” di presentazione mentre in pochi colpi di Fogliamagica (una mossa anch’essa a lei sconosciuta) lo Staryu finiva inesorabilmente al tappeto.
Mark se ne andò, fumante di rabbia, in fretta così com’era arrivato. Helen era tutt’occhi per Kirlia, che comunque aveva risentito degli attacchi di Staryu.
- Direi di andare tutti insieme al Centro Pokémon - propose Linda con allegria - dato che sia i Pokémon di Sean che i tuoi, Helen, hanno bisogno di cure. Ti va di venire con noi?
Lei annuì silenziosamente mentre Larvitar, nascosto tra le sue gambe, osservava diffidente i tre personaggi. Kirlia rientrò nella sua sfera mentre tutti insieme si dirigevano verso la via maggiore della città: esattamente a metà di essa vi era il Centro, grande ed attrezzato.
Mentre i Pokémon si riposavano, Helen approfittò del servizio gratuito di esso (le tasse contribuivano a dar loro i fondi) e chiese all’infermiera: - Stanotte è tutto occupato o avete una stanza libera?
Tutti rimasero abbastanza sorpresi della richiesta della ragazzina. - Certo che no, puoi pernottare tranquillamente - si riprese quasi subito l’infermiera.
- Ma come, tesoro, non abiti qua ad Olivinopoli? - chiese stupita Linda mentre si sedevano tutti sulle comode poltrone di cui era provvisto il Centro.
Helen scosse la testa e rispose: - Io vengo da Amarantopoli. E non penso proprio di tornarci.
- Cos…
Non diede il tempo a Mike di finire. Con un sospiro rassegnato, dicendosi “Tanto qualcuno lo dovrà sapere, magari mi aiuterà”, Helen spiegò: - Me ne sono andata. Scappata, se preferite, di casa.
Mentre la famiglia di Sean accoglieva la notizia quasi con spavento, Miriam era inginocchiata a terra sul pavimento della camera di Helen. Le buste della spesa erano state abbandonate a sé stesse nell’ingresso e lei aveva appena chiuso la porta di casa quando si accorse del silenzio che regnava lì dentro.
- Hel… Helen… - la voce della donna era un sussurro disperato, quel pomeriggio, mentre gli occhi marroni, vitrei, fissavano senza vederlo realmente il biglietto d’addio della figlia che stringeva in mano, stropicciandolo. Prese a singhiozzare, nascondendo le lacrime con le mani alla vista delle pareti intorno a sé, che le sembravano farsi tanto più strette: le mancava il respiro, non riusciva a controllare il tremore del suo intero corpo scosso dai singhiozzi. Le lacrime silenziose che prima rigavano le sue gote erano ora sul pavimento, sulle sue cosce, sparse sui palmi delle mani.
Gridò. Pianse fino a sera, per tutti i giorni successivi, non curandosi del suo lavoro e rimanendo sola con la sua disperazione: non avrebbe mai smesso probabilmente, sarebbe rimasta così a singhiozzare per il resto della sua vita, della sua vita coronata con un fallimento totale. Quello di essere genitore.
Miriam fuggì ad Azalina, città quasi agli antipodi di Amarantopoli nella regione di Johto, e non senza incontrare grandissime difficoltà si trovò un’occupazione ed un’abitazione vicino alla bottega di Franz, l’Artigiano delle Pokéball, che per un po’ l’aiutò a sopravvivere in quella città sconosciuta.
Miriam sentiva di non meritarsi la gentilezza e la premura di quell’uomo. Se era riuscita poi a trovare un altro lavoro e si era sistemata senza il suo aiuto, una domanda le saliva spontanea in mente e poi riscendeva a pugnalarle il cuore.
“Perché? Perché sono riuscita a cavarmela in questa città sconosciuta e ho reso infelice mia figlia senza rendermene conto, la mia meravigliosa bambina?” fu la domanda che di nuovo, ogni sera, la costringeva a soffocare la sua disperazione nel cuscino. Era sola, non aveva più nessuno. La sua famiglia l’aveva abbandonata e lei l’aveva fatto con chi ancora non sapeva della situazione.
La famiglia Reed si era definitivamente smembrata.
Il padre di Helen, Robert, se n’era andato a Kanto. Probabilmente adesso abitava a Zafferanopoli: Miriam ricordava con una fitta di dolore al petto i momenti davvero felici, e non falsamente allora, quando lui le confessava i suoi sogni e le sue aspettative per il futuro. Era un grande sognatore e lei apprezzava enormemente la sua fantasia, la sua brama di scoprire nuovi luoghi e cose, di conoscere.
E dal loro amore era nata quella bellissima bambina, incredibilmente somigliante ad entrambi quanto ad aspetto, ma diversissima se si andava a vedere il carattere.
Adesso però l’aveva lasciata sola, facendola sentire terribilmente in colpa.
Aveva paura di fallire di nuovo. Anche nelle più piccole cose.
- Per… perché papà è andato via? Mamma…
- Bambina mia… ci sono io qua a proteggerti, stellina, non sei sola…
- Ma papà?
- Torna presto, papà, non preoccuparti… è andato a trovare… una sua cara amica…
La famiglia di Sean accusò la gravità delle parole di Helen, quella piccola fuggitiva, come fossero stati colpiti in pieno da una bomba ad idrogeno.
- Piccolo tesoro! - Dopo quelli che parvero lunghi minuti di silenzio, Helen si ritrovò all’improvviso col fiato mozzato dall’abbraccio fin troppo energico di Linda. - Non devi più scappare, ci siamo noi adesso!
- Eh? Cosa?! - esclamò stupita la ragazzina.
- Non possiamo lasciarti sola! - s’aggiunse il padre, con una dolcezza che non si aspettava, aggiungendosi alla stretta della moglie e rischiando di far morire la ragazza. Non aveva più fiato nei polmoni.
Sean si schiarì timidamente la voce e quelli si staccarono, come per magia, dalla povera malcapitata, che dandosi un contegno - o almeno provandoci - disse, con il suo fare misterioso e l’espressione seria e matura sul volto: - Vi ringrazio, ma è presto e so che è difficile organizzarsi così in fretta e furia. Stanotte resterò qui, casomai domani potete venire a prendermi. Se vi va, ovvio - concluse, dubitando dell’affidabilità di quei due.
Li aveva osservati attentamente. Nonostante il fisico di entrambi fosse assolutamente naturale, erano vestiti con abiti fin troppo stravaganti: lui con una camicia caleidoscopica piena di tinte diverse e sfumature da far venire il mal di testa solo allo sguardo, abbinata ad un paio di pantaloncini neri al ginocchio che lasciavano scoperti i polpacci fin troppo pelosi. Dello stesso colore era un foulard piuttosto ambiguo, morbido sul collo, e dei grossi sandali ai piedi.
La moglie era bassa, ma tacchi vertiginosi la facevano alzare quasi di una spanna. Aveva il trucco curato, forse un po’ esagerato, era magrolina e piatta. Un tubino nero dalle spalline appena presenti la fasciava fino alle ginocchia.
Invece Sean era… una via di mezzo tra i due. Aveva il fisico del padre, quindi non era molto magro, ma già si vedeva un accenno di una muscolatura che in futuro si sarebbe fatta molto più pronunciata. Sì, era proprio a metà tra loro. I capelli spettinati erano tali e quali al padre, così come il colore della pelle, mentre il colore della sua chioma ribelle era nero come i capelli della madre. Da lei aveva ripreso anche gli stessi identici occhi, ma che risaltavano molto di più su di lui grazie all’abbronzatura dorata.
- Certo, piccola, non ti preoccupare! - la rassicurò Mike scompigliandole i capelli. - Domani mattina, verso le dieci, veniamo a prenderti, d’accordo?
- Oh… va bene.
Fu così che, dopo un ritardo di circa mezz’ora rispetto all’orario concordato, Helen Reed divenne a tutti gli effetti parte della famiglia Morgan. L’affetto che i due adulti di quel piccolo nucleo familiare le dimostravano era incredibile e quasi inverosimile: il 14 agosto, il dodicesimo compleanno di Helen, fu festeggiato a sorpresa, e lei non ricordava nemmeno di aver mai rivelato la sua data di nascita. La ragazza era più piccola di un anno di Sean, nato il 30 giugno.
Sean, i primi tempi, fu un tipo silenzioso. Non in senso negativo, anzi: era sempre sorridente, allegro e positivo, ma parlava poco e mai a sproposito. Forse era un po’ timido, o forse aspettava di conoscere meglio Helen prima di stringerci amicizia ufficialmente. Anche lei, i primi tempi, fu piuttosto schiva nei loro confronti, ma quella bizzarra famiglia non gliene fece mai un peso.
- I miei genitori sono artisti - le disse una volta Sean, pochi giorni prima che iniziasse la scuola.
Lei s’incuriosì molto. Gli chiese che genere di lavoro facessero, e lui le rispose con un bell’elenco, ridacchiando: - Oh, sono registi, pittori, scrittori, musicisti, attori…
- Eh?! E dove lo trovano il tempo per stare a casa? - sobbalzò lei interrompendolo.
Sean sorrise e l’altra colse una nota di amarezza nel suo sguardo, nella curvatura delle labbra arricciate in un mezzo sorriso. - Non lo trovano. Solo d’estate si prendono due o tre mesi di pausa, sai. Poi tornano a Natale e verso i primi giorni dell’anno nuovo se ne vanno…
- E tu con chi stai mentre non ci sono?
- Con mio nonno, il papà di papà - rispose lui. - Ma non mi dispiace, e poi i miei genitori… l’avrai notato anche tu… sono davvero molto premurosi quando ci sono. Forse un po’ mi hanno viziato - ridacchiò. Helen annuì semplicemente.
Quella passeggiata era la prima che facevano da soli. A lei non dispiacque, e quando si rese conto di essere stata davvero bene con quel ragazzo, il sangue fluì all’istante verso le sue gote. Almeno era il tramonto, Sean non l’avrebbe notato. Forse.
Alla fine decise che non le importava più di tanto. Iniziò a parlare di sé stessa, della sua - seppur breve - storia, di quello che pensava di ciò che le accadeva intorno, anche delle cose più futili.
- Sono silenziosa, sì - disse alla fine di una lunga chiacchierata, mentre si avviavano sulla strada di ritorno - ma sono attenta a ciò che mi circonda. E so ascoltare. Ma penso di essere una delle poche in grado di farlo veramente bene.
- Già - assentì Sean, - è così difficile riuscire a prestare attenzione a qualcosa. Attenzione vera, quella che poi ti fa fare tesoro di ogni significato nascosto dentro qualcosa, che può essere un’azione, una frase o una lotta Pokémon… anche quello più apparentemente invisibile, inesistente forse.
Maturo. Ecco com’era Sean: un ragazzo incredibilmente maturo per la sua età, proprio come lei. Non lo annoiava stare con lui, come invece accadeva con la maggior parte delle persone.
- Forse tu penserai che io sia una ragazzina enigmatica o chissà che altro… - aveva detto poco prima Helen, mentre parlava di sé. - La verità è che la separazione dei miei genitori mi ha costretta a crescere più in fretta. E ciò non mi piace, se devo dirla tutta, sai. Da piccola ero come loro due: solare, chiacchierona e tutto il resto. Ma quando lui se n’è andato e lei si è mostrata incapace in molti aspetti dell’essere genitore… ho capito che dovevo cambiare, se volevo migliorare.
- Le tue parole sono strane, dette da una dodicenne - commentò a bassa voce Sean, osservando il sole che si nascondeva dietro l’orizzonte. O forse stava solo facendo un bagno in mare. - Ma credo a quello che dici. Se davvero la separazione dei tuoi ti ha resa come sei adesso, non mi stupisco più.
- È che da quando hanno rotto, io ho iniziato a non fidarmi più di nessuno. Ho tagliato i ponti con un sacco di gente. Lui se n’è andato verso la fine dell’anno scorso, dopo Natale. È stato tristissimo… - mormorò infine, abbassando lo sguardo, smettendo di osservare il sole morente.
Sean le prese la mano. - Mi dispiace. Ma ora ci sono io, e tutta la mia famiglia e i miei amici. Anche con la scuola ti troverai bene, ne sono sicuro.
- Sì - sussurrò Helen, che poi sorrise con sincerità. - Grazie, Sean.
- Il professor Elm ha portato a papà un Cyndaquil. Sai, sono davvero amici.
- Wow, Cyndaquil è un Pokémon adorabile!
- L’ha dato a me, sai?
- Davvero? Che fortuna…!
- Sì, ma… vorrei che lo tenessi tu.
- Ehi…
Una voce dolce la riportò con i piedi per terra. Helen si riprese e scosse la testa, scacciando via i ricordi di quei giorni della fuga e della conoscenza con Sean. Guardò negli occhi proprio lui, il ragazzo che passeggiava accanto a lei, che sorrideva gentile, chiedendole semplicemente con lo sguardo se ci fosse qualcosa che non andava.
Probabilmente era l’unico ragazzo, l’unico essere sulla faccia della Terra che riusciva a sopportare i suoi continui sbalzi d’umore, la sua attitudine ad essere vendicativa ed irascibile, e il solo in grado anche di calmarla. Helen conosceva poche persone come lui e queste erano coloro a cui era più affezionata, con i quali si toglieva la maschera di ragazza misteriosa e riusciva a liberare il lato solare di sé.
E Sean era la persona a cui teneva di più al mondo.
- Ohi - rispose semplicemente, ricambiando il sorriso. Il vento di metà febbraio le scompigliava i capelli castani già mossi di loro, mentre i suoi occhi color brace, così pieni di sfumature calde come il rosso, il giallo e il color nocciola, s’incontravano con quelli azzurri e blu del suo fidanzato. Faceva piuttosto freddo, quell’anno l’inverno non si era dato limiti e non aveva risparmiato un angolo della regione di Johto. Timide, dolci nuvolette si formavano davanti alle bocche dei due, appena schiuse.
- E anche San Valentino è finito - sospirò Sean, osservando le rade coppiette che gironzolavano per la spiaggia della città: tutti erano per il corso maggiore a fare incetta di regali per il partner. Erano effettivamente soli. Dietro di loro, un Quilava ed una Kirlia li seguivano, guardandoli incuriositi. Era tutto il pomeriggio che i due, anzi i quattro, stavano fuori, senza curarsi del fatto che per il giorno successivo avessero un qualche quintale di compiti da sbrigare. Al pensiero, Helen fece istintivamente spallucce, ma Sean lo interpretò come un “e chissene se è finito San Valentino”.
- Ah, quindi non t’importa! - ridacchiò.
- Eh? Cosa?
- È finito il 14 febbraio. Non te ne frega per niente, ammettilo…
- Ah, quello. In realtà stavo pensando che per domani sono piena di compiti e sono già le sei, ma no, la risposta non cambia - e fece nuovamente spallucce, con un mezzo sorriso sul volto.
L’altro sbuffò e tolse la mano dalla tasca, andando a cercare la sua. Lei non oppose resistenza.
Nemmeno all’intenso bacio che Sean riuscì a strapparle subito dopo.
Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Ohi a tutti! (bello il colore viola per l'angolo nevvero?)
La vostra beatlemania is back è tornata davvero, vedete che il soprannome non l’ho scelto proprio alla cacchio? E con che roba è tornata! Con un grande, innovativo progetto che porta il nome di *rullo di tamburi (o di rutti, così anche Son è contento)*
SOULWRITERS TEAM!
Ebbene
sì, anche io faccio parte del primo gruppo di scrittura della sezione, e
uno dei pochi sul sito. Quindi dopo Andy Black e Barks ci sono io, ma
voi non risparmiatevi di passare da Son of Mumford, Levyan e AuraNera
nei prossimi giorni, eh! Ne avete fino alla fine del mese!
Quindi, oggi vi ho presentato la coppia del gruppo, che spero di riuscire a gestire bene (lol), ovvero Helen Reed e Sean Morgan, i miei primi due piccioncini. Spero che il passato dei due sia abbastanza chiaro, se non si fosse capito bene…
Vabbè, spremetevi le meningi e capitelo da soli, che sennò m’impappino con le spiegazioni lol.
Ah, tra due giorni è il compleanno di Helen. Non ve lo dimenticate, è permalosa a livelli esasperanti. Ma questo suo lato lo conoscerete presto!
Ringrazio il gruppo che è stato così gentile e paziente di leggere e rivedere questa uansciott partorita dalla mia mente malata, messa incinta dal progetto dei Soulwriters stesso, e che spero abbiano apprezzato il mio lavoro.
Spero che anche a voi sia piaciuto!
Quindi, dopo Andy Black il 1° agosto, quello che ha coniato il mio nuovo soprannome (L)Ele, e Barks il 7, il proprietario dell’oca fosforescente Ocabelle De La Rouge Von Weber Adler, ci sono stata io, oggi, il 12 agosto, con questa meravigliosa - ma anche no - oneshot, la prima di molte!
Ci vediamo il 17 con Son of Mumford, quello che mangia la Nutella sotto il mio naso facendomi soffrire!
Il 22 con Levyan, quello a cui ho ceduto il famoso Di(ld)o d’Oro! Fanne buon uso caro!
E infine il 27 con AuraNera_, l’altra donnah del gruppo! Tienimi compagnia Aura…
Alla prossima! Ci vediamo sia sulle storie del gruppo che sulle mie!
beatlemania is back, Lele, Ele, Cactus (e le sue varianti) oilcazzoquellochevipare
Quindi, oggi vi ho presentato la coppia del gruppo, che spero di riuscire a gestire bene (lol), ovvero Helen Reed e Sean Morgan, i miei primi due piccioncini. Spero che il passato dei due sia abbastanza chiaro, se non si fosse capito bene…
Vabbè, spremetevi le meningi e capitelo da soli, che sennò m’impappino con le spiegazioni lol.
Ah, tra due giorni è il compleanno di Helen. Non ve lo dimenticate, è permalosa a livelli esasperanti. Ma questo suo lato lo conoscerete presto!
Ringrazio il gruppo che è stato così gentile e paziente di leggere e rivedere questa uansciott partorita dalla mia mente malata, messa incinta dal progetto dei Soulwriters stesso, e che spero abbiano apprezzato il mio lavoro.
Spero che anche a voi sia piaciuto!
Quindi, dopo Andy Black il 1° agosto, quello che ha coniato il mio nuovo soprannome (L)Ele, e Barks il 7, il proprietario dell’oca fosforescente Ocabelle De La Rouge Von Weber Adler, ci sono stata io, oggi, il 12 agosto, con questa meravigliosa - ma anche no - oneshot, la prima di molte!
Ci vediamo il 17 con Son of Mumford, quello che mangia la Nutella sotto il mio naso facendomi soffrire!
Il 22 con Levyan, quello a cui ho ceduto il famoso Di(ld)o d’Oro! Fanne buon uso caro!
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Alla prossima! Ci vediamo sia sulle storie del gruppo che sulle mie!
beatlemania is back, Lele, Ele, Cactus (e le sue varianti) o
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