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H.O.P.E. - House Of Psychiatric Experiments - Capitolo 2 - Ombre alla Finestra

Ombre alla Finestra

Mmh… già tra due giorni ci tocca tornare a casa.”
Sean realizzò questo con un mormorio sommesso appena si alzò di buon’ora. I raggi del Sole filtravano tenuamente dalle tende della stanza da letto dell’albergo che avevano preso lui e la fidanzata, la quale sonnecchiava ancora beatamente, distesa su un lato, senza dare il minimo segnale di essersi accorta dello svegliarsi del ragazzo. Lui le lanciò un’occhiata di sfuggita, non la voleva disturbare. Era uno mattiniero al contrario di lei, che più volte si era addormentata anche sui libri i pomeriggi quando avrebbe dovuto dedicarsi anima e corpo allo studio.
Il ragazzo si mise in piedi stiracchiandosi silenziosamente e andando in bagno. Dieci minuti abbondanti dopo uscì e trovò Helen che immancabilmente continuava a dormire, incurante del fatto che Sean fosse, in pratica, pronto per vestirsi e scendere a fare colazione.
Con un sospiro intenerito dall’espressione tranquilla di lei, che così di rado riusciva a incontrare quando era sveglia, le si avvicinò accarezzandole un braccio che non era coperto dal piumone. “Ehi, amore…” sussurrò.
Dovette ritentare qualche altra volta, con voce sempre più alta, perché lei desse segni di vita. Si decise ad aprire gli occhi solo quando lui la degnò di qualche bacio disseminato sulla sua fronte e sui capelli spettinatissimi.
“’giorno, principessa” sorrise Sean.
“Ohi. Che ore sono…?” brontolò lei stropicciandosi gli occhi.
“Le otto e mezza, pasticcina” Questi nomignoli sdolcinati contrariavano la ragazza e lui li usava nella speranza che si riprendesse prima. “Dai, vai a farti bella, così poi usciamo.”
“Cercherò di rendermi il più presentabile possibile” replicò lei spiaccicandosi il cuscino sugli occhi e balzando a sedere di scatto, mentre Sean accendeva la tv per ascoltare le notizie.
La ragazza impiegò come al solito una mezz’ora buona per ‘rendersi presentabile’ e uscì dal bagno totalmente trasformata. I capelli all’apparenza indomabili quando era appena sveglia erano ora raccolti in una coda non molto lunga a causa della chiosa abbastanza corta. Adesso i suoi occhi avevano un’aria un po’ meno persa nel vuoto - o da pesce lesso, come si prendeva spesso in giro lei - grazie a una forte presenza di matita nerissima. Nel frattempo si era anche vestita ed era già pronta per andare a fare colazione, proprio come Sean che, vedendola finalmente vestita e messa a posto, spense la tv.
Una ventina di minuti dopo erano già fuori dall’hotel, con la cartina di Amarantopoli in mano e indecisi sulla prossima meta da visitare.
“Allora, abbiamo già visto la Palestra, ovviamente, e il Teatro di Danza” riassunse Helen. “Poi ieri siamo stati alla Torre Bruciata e al Museo d’Arte…”
“Che ne dici di andare alla Torre Campana?” chiese Sean indicando un punto sulla cartina che teneva in mano. “Ora che ho la Medaglia della Palestra della città non dovrebbe essere un problema visitare almeno il vialetto che porta alla vera Torre e il piano terra.”
“Già, perché il mio Campione ha battuto così facilmente quel temibile Capopalestra!” scherzò Helen ridendo allegramente e abbracciando senza preavviso il ragazzo, sorprendendolo abbastanza.
Sean ridacchiò e le cinse la vita con un braccio, stringendola a sé, per poi avviarsi verso la Torre Campana. Adorava vedere la sua ragazza di buonumore e per lui era diventato ancora più importante negli ultimi tempi, quando aveva scoperto una parentesi sgradevole della vita di Helen, quella riguardante gli Unown. Ora che erano nella sua città natale, poi, era perennemente preoccupato di sapere se stesse bene o avesse bisogno di qualcosa, sicuro che la pressione su di lei fosse particolarmente alta in quei momenti.
Quel giorno, uno dei primi dell’anno, Amarantopoli voleva essere rapita dal vento. Esso soffiava con forza inaudita e inaspettata, gli aceri rossi ondeggiavano pericolosamente e si spintonavano l’uno con l’altro mossi dalla violenta corrente, evidentemente intenzionata a dare del filo da torcere alla città intera. Chi passeggiava si ritrovò ad affrontare il vento senza aspettarselo e tra queste persone c’era proprio la coppia formata da Sean e Helen. I due camminavano praticamente abbracciati per cercare un po' di calore e difendersi da quel freddo micidiale.
La Torre Campana si stagliava imperturbabile sull’orizzonte invernale e nebbioso, sicura sulle proprie antiche e mitiche fondamenta messe a dura prova dal passare degli anni, ma resistenti nonostante tutto. Quando i due arrivarono dopo una lunga - e anche abbastanza impegnativa - passeggiata all’ingresso maestoso, il freddo non diede loro tregua: se la Torre non barcollava, sfidando la potenza del vento, il legno vetusto che la teneva in piedi era stato irrimediabilmente segnato dal tempo e numerosi, fastidiosi, terribili spifferi gelidi si insinuavano per il piano terra e congelavano il naso all’insù di Helen, che rabbrividiva in continuazione, per niente abituata a quel clima.
Sean le chiese se avesse bisogno di qualcosa ma lei scosse la testa silenziosamente. Il guardiano della Torre chiese loro la Medaglia e decise di farli passare entrambi anziché attenersi alle regole, che imponevano di lasciar entrare solo chi fosse provvisto di Medaglia e perciò una persona alla volta.
Quando i due si ritrovarono sul breve percorso che portava al piano terra della Torre, fortissimi colori autunnali diedero loro il benvenuto ufficiale nella magica zona che stavano visitando. Gli aceri sempre rossi e dorati, le cui foglie erano colorate di una vastissima gamma di colori caldi - dal rosso al giallo, passando per dozzine di sfumature d’arancione, ondeggiavano al vento più tranquillamente degli altri tipi di piante, come se lì la sua forza fosse attenuata.
In effetti era questa la sensazione che avevano avuto Sean e Helen al momento dell’accesso al tragitto che portava alla Torre Campana. I ciottoli e la ghiaia che componevano la stradina erano coperti in tantissimi punti dalle foglie cadute, ma le loro condizioni abbastanza buone annunciavano che pochi piedi le avevano calpestate fino ad allora. Il fitto muro che gli alberi facevano quasi impediva la vista all’interno dei boschetti adiacenti, così agli occhi dei due visitatori si presentava una distesa quasi infinita color tramonto.
Helen era incantata da quella vista e rimase letteralmente a bocca aperta. Mentre aspettava che si riprendesse, Sean scattò dozzine di foto, esagerando volontariamente, cercando le angolature più belle e affascinanti e immortalando la Torre Campana in quello splendido mare autunnale.
“Per Arceus” boccheggiò la ragazza, “è assolutamente eccezionale.”
Sean annuì ascoltandola a malapena, aveva la testa tra le nuvole mentre scattava le fotografie; ma Helen aveva parlato più a sé stessa che a lui, quindi la sua situazione non era tanto differente da quella del fidanzato.
La cosa più bella era che quella vista non li stancava assolutamente. Rimasero interi minuti a studiare ogni singolo, meraviglioso dettaglio che componeva quello scenario spettacolare, che forse in nessun luogo al mondo poteva essere imitato. Esistono centinaia di spettacoli della natura al mondo, ognuno eccezionale a modo suo e mai uguale ad altri, per questo inconfrontabili l’uno con l’altro. Il vialetto della Torre Campana era unico nel suo genere.
È come se il tempo si fosse fermato qui, pensò Helen. La stagione non cambia, non diventa né più fredda né più calda, si è sempre nel cuore dell’autunno più bello. Non c’è una foglia che abbia una sfumatura violacea o verdognola, ogni colore è simile all’altro, ma indubbiamente diverso. Questo luogo è come isolato dal resto del mondo, non c’è il vento terribile che soffia per le strade di Amarantopoli ora e nemmeno la nebbia che mi pareva di vedere in lontananza, all’orizzonte, verso la Torre.
Sussultò quando la mano di Sean strinse la sua e si accorse di essersi persa nei suoi pensieri. Sorridendo imbarazzata per quei lunghi momenti d’incanto, s’incamminò con il fidanzato in religioso silenzio verso il monumento al Leggendario dell’arcobaleno, Ho-Oh. Li seguivano a ruota Quilava e Kirlia, che osservavano i dintorni ammaliati da tanta magia e sentendosi così insignificanti e piccini a confronto.
“Secondo te è il potere di Ho-Oh a mantenere tutto così?” domandò Helen con un filo di voce.
“Non saprei, ma è probabile. Insomma, è l’unica cosa che potrebbe spiegare tanta bellezza” rispose Sean con un bellissimo sorriso di beatitudine e ammirazione a incurvargli le labbra.
“Già…”
“E poi questi alberi sempre autunnali si trovano solo in questa zona, quindi è possibile che sia così” insistette lui. “Ce ne sono un po’ anche dentro e ai confini della città, dispersi nei boschi verdi. Anche se adesso con l’inverno sono quasi tutti spogli.”
“Ma gli aceri rossi non lo sono. Hanno tutte le foglie” ribatté Helen. Chissà che dentro di loro non divampi lo stesso fuoco che anima Ho-Oh. Forse è questo a renderli così, rifletté. Ma non volle esternare questi pensieri, abbastanza sicura che il fidanzato a quel punto l’avrebbe presa in giro per la sua fantasia.
“Ho un’idea!” esclamò Sean all’improvviso. “Che ne dici di andare a fare un picnic fuori dalla città? Così possiamo andare a vedere gli alberi rossi che sopravvivono, al contrario degli altri.”
“Mi sembra un’ottima idea” approvò Helen sorridendo dolcemente.
Erano arrivati di fronte al portone in legno riccamente intagliato e decorato, con numerosi elementi in oro e in bronzo, per niente ossidato come invece i due si aspettavano. Spinsero una delle due gigantesche maniglie e la pesantissima porta si aprì lentamente, con un cigolio lamentoso a causa del tempo che aveva trascorso a fare quel lavoro - peraltro molto poco spesso, proprio per questo non era allenata ad aprirsi in silenzio.
Il giro che fecero al primo piano fu molto veloce e non poterono goderselo a causa della stizza della guardia, molto più severa dell’altra, poiché erano passati insieme quando avevano una sola Medaglia. Dovettero accontentarsi di scattare qualche foto alle grandi finestre illuminate dal Sole, che rifletteva sul legno del pavimento i colori delle foglie d’acero, e alle statue maestose di Ho-Oh. Non poterono nemmeno avvicinarsi alle scale che portavano ai piani superiori e furono scacciati in malo modo dalla guardia.
Indispettiti ma rasserenati dalla prospettiva di potersi godere il pranzo con un bel picnic insieme, commentando con allegria e ammirazione ciò che avevano visto quella mattina, andarono a comprare il necessario per andare.



Dodici.
Altri dodici se ne sono andati, che cavolo sta succedendo?
La mensa è sempre piena e ricca di alimenti vari, del tutto gratuiti. Gli alloggi sono confortevoli e sempre in ordine. L’organizzazione è impeccabile. Gli orari dei turni non sono stressanti. Tutto è assolutamente perfetto.
Allora perché altri dodici dei miei uomini hanno abbandonato il posto di lavoro così? L’intera sezione di inservienti addetti al reparto C-15 ha lasciato le proprie dimissioni stamattina sulla mia scrivania, senza neanche una parola, senza coraggio. Se ne sono andati anche loro.
Siamo a trentasette in un mese. Cosa diamine c’è che non va?
Sotto la mia direzione il manicomio ha avuto la sua rinascita. Era soltanto un padiglione quando ho preso io le redini, mentre ora è diventato un impero. Guardie, mura, medici, infermieri, parchi e luoghi di relax per gli ospiti e i lavoratori. Io l’ho riportato allo splendore.
Io ho dato lavoro a tutta questa gente.
Io ho curato centinaia di pazienti.
Io ho donato a tutti loro una casa, un luogo in cui lavorare e vivere in tranquillità.
Io ho creato l’ordine che qui regna.
Io e solo io ho fatto tutto questo. Non loro.
Nessuno può permettersi di abbandonare questo luogo in quel modo. Nessuno può andarsene se non sono io ad accordare il permesso. Nessuno si può licenziare senza prima aver chiesto la mia approvazione.
Sono soltanto io che detto le regole qui dentro, e solo io decido chi può varcare il mio cancello. Quegli stupidi idioti non si rendono conto del nemico che si sono appena creati.
Sono dei vigliacchi, sono soltanto dei poveri illusi che credono di trovare di meglio lì fuori.
Erano parte del mio impero ed hanno deciso di andarsene. Vili disertori, ecco cosa sono, dei disertori. Fossi stato come quel pazzo di mio fratello in questo momento si troverebbero nelle fondamenta del mio manicomio, fra i miei Houndoom. Lì avrebbero trovato quel “clima di lavoro più sereno e caloroso” chehanno tanto decantato.
Scappate pure, voi stolti. Fuggite come inutili soldati che, spaventati dal nemico, ignorando il comando principale senza mostrare un minimo di dignità. Siete tutti dei codardi e non meritate di far parte del mio regno.
Qui sono io che governo, io e solo io. Non ho bisogno di voi, non ho bisogno di nessuno, il manicomio è vivo grazie a me, io sono il suo cuore, io sono ciò che lo tiene in vita.
Io. Io e solo io. Nessuno di voi merita di trovarsi qui dentro. Vi ho donato la grazia di poter lavorare nel mio manicomio, sotto le mie direttive, e voi mi ripagate così?
Razza di sciocchi che non siete altro, vi distruggerò la vita per questo!

“Capo, tutto bene…?”
“Cosa? Che vuole?”
“È fermo davanti alla finestra da più di dieci minuti. E ha rotto il bicchiere, ha la mano insanguinata.”
“Giusto… Mirta sia gentile, vada a prendere delle bende e disinfettante dall’infermeria. Anche delle pinzette, devo avere dei cocci nel palmo.”
“Subito signore.”
“Grazie” disse Astolfo, ancora completamente immerso nei suoi pensieri.
Senza scomporsi, riprese il suo posto nella grande poltrona in pelle. Piccole gocce di sangue si suicidarono lanciandosi dalle sue dita, si librarono per un istante in aria, per poi schiantarsi sulla moquette della stanza.
Il suo corpo affondò nella grande poltrona, facendo quello strano rumore che soltanto essa poteva riprodurre. Astolfo odiava quando la pelle si stirava in quel modo sotto il suo peso, provocando quel fastidiosissimo suono, ma non poteva fare a meno di sedervisi. Era la più costosa che avesse potuto trovare, ergo doveva essere sotto il suo possesso.
Lentamente abbassò lo sguardo, notando le macchie di sangue.
“Maledizione, devo rimediare…”
Utilizzò la mano sinistra per sfilarsi la cravatta in seta nera, fissandola per un istante nel pugno chiuso della sua mano.
“Mi dispiace, Dorothy, ma devo sacrificarti. La moquette è pur sempre moquette” Osservò indifferente le poche gocce cadute sul pavimento, per poi legare la cravatta al palmo della mano destra per fermare il sangue.
“Dorothy, signore?”
“È la mia cravatta, Mirta.”
“Lo so, le ha dato un nome… Perché?”
“Perché bisogna dare un nome a tutto ciò che ci appartiene, specialmente le cose più importanti. Così le si rende nostre. Conoscendo il nome di una determinata cosa sono capace di individuarla fra tante e posso anche rivendicarne il possesso. Ora per piacere, mi medichi la mano.”
“Certo signore. Posso chiederle a cosa stava pensando?” Mirta si inginocchiò ai piedi del suo superiore, portandosi la lente d’ingrandimento vicino all’occhio in modo da individuare più facilmente i cocci di vetro e poterli rimuovere.
“Lei ha mai avuto un impero sotto il suo comando, mia cara? Si è mai trovata a dover dirigere il lavoro di più di duecento persone, centinaia di Pokémon e migliaia di pazienti? Tutto questo trovandosi completamente da sola, senza poter contare su niente e nessuno se non sulle proprie lauree. Ha mai dovuto affrontare una situazione simile?”.
“No signore. Per caso sta trovando difficoltà nel gestire il manicomio?”
“Io? Difficoltà io? Ma non scherzi mia cara, non c’è nulla che io non possa sistemare.”
“Allora cos’è che la affligge così tanto? La soluzione della formula?”
“No no, quello no. Quello che mi fa incazzare sono i dodici inservienti del reparto C-15 che hanno dato le loro dimissioni di punto in bianco, senza alcuna spiegazione. Dopo che io li ho accolti nel mio manicomio. Quei maledetti bastardi sono scappati, è un affronto alla mia persona, capisce? Non hanno avuto rispetto di un loro superiore. Avranno la vita rovinata per questo, userò le mie conoscenze per bloccargli ogni via lavorativa. Torneranno qui strisciando.”
“Signore… non è forse troppo impulsivo? Con tutto il rispetto ma sembra quasi un dispetto di un bambino i cui amici se ne sono andati, lasciandolo solo” Mirta aveva finalmente estratto l’ultimo frammento di vetro.
“No, tu non puoi capire, sei troppo giovane mia cara. Io sono una persona superiore a loro, sotto tutti i punti di vista. Ero il loro superiore in ambito lavorativo, questo è ovvio. Ora non più in quanto si sono azzardati a dare le dimissioni. Nonostante ciò, io sono ancora e sarò sempre il migliore. Io sono più intelligente e furbo di loro. Io sono più intelligente di chiunque qui dentro. L’unica a potersi avvicinare al mio intelletto è lei, mia cara, anche se è troppo giovane per poter capire a fondo le mie azioni” rise lui, la sua voce rimbombò nella stanza.
Le pareti parvero vibrare. L’intero manicomio parve ridere con il suo dirigente.
Un brivido trapassò la spina dorsale di Mirta, gelandole il sangue. Il suo superiore non era mai stato così spaventoso come in quel momento. Improvvisamente alla ragazza parve di vedere un mostro al posto di Astolfo, come se la sua faccia non fosse altro che una maschera sotto la quale si nascondeva la vera essenza di quell’uomo.
“Signore io qui ho finito, le bende sono sistemate. Ora dovrei andare ad occuparmi dei pazienti, le lascio i rapporti settimanali sulla scrivania?” disse con voce tremante Mirta.
“Vada pure, arrivederci.”
“Arrivederci signore, stia un poco più calmo che non è una tragedia, entro qualche giorno le procurerò nuovo personale.” La porta si chiuse alle sue spalle.
“Umbreon, tu mi capisci, vero? Siamo siamo sempre stati assieme, fin da piccoli, tu non mi abbandonerai, vero? Per oggi basta con il lavoro, riposiamoci un poco” Astolfo stava accarezzando Umbreon con la mano sana, mentre gli reggeva la testa con l’altra, fissandolo negli occhi.
“Sei la mia unica famiglia, io non ti abbandono”.

Il piccolo Pidgey iniziò il suo volo partendo dagli alberi di recinzione del manicomio, facendo cadere qualche foglia rossiccia di quegli alberi così particolari. Aveva stabilito lì la sua base da poche settimane e giorno dopo giorno riusciva a coprire una distanza sempre maggiore, a breve sarebbe riuscito a viaggiare per il mondo come anche sua madre faceva.
Quel pomeriggio si trovò a passare nuovamente vicino la finestra di quell’uomo. Era sempre strano avvicinarsi a quel posto. La prima volta pensava di poter rimediare qualche briciola di pane da poter beccare sul davanzale della finestra, così come faceva dalla parte opposta dell’edificio dove quella signorina gli sorrideva sempre e gli carezzava la testa. Invece quell’uomo gli fece paura, tanta.
Ora era addirittura peggio. Più si avvicinava a quella finestra più sentiva nel suo piccolo corpo la sensazione che aveva provato quella volta, quando un Braviary aveva cercato di artigliarlo colpendolo dall’alto e sua madre l’aveva salvato.
L’uomo era rivolto verso la finestra a cui Pidgey si stava avvicinando. Si accorse di lui e prese un pezzo di pane da sopra la scrivania, porgendoglielo.
Il piccolo uccello si avvicinò e si poggiò sul davanzale. L’uomo si sporse un poco in avanti, invitandolo ad afferrare il pezzo di pane. A Pidgey parve strana quella situazione ma per la sua inesperienza si fidò, venendo assalito poco dopo da un Umbreon sbucato dal nulla.
Pidgey urlò cercando di liberarsi dalla morsa di Umbreon, senza riuscirvi. La porta si spalancò quando, per la seconda volta nella giornata, entrò la ragazza che di solito dava da mangiare a Pidgey. Lui la sentì urlare e vide sorridere l’uomo. Poi un enorme Alakazam comparve dalle mani della donna, colpendo il Pokémon con una strana mossa.
Pidgey si sentì strano, poi tutto si fece buio. Quando riaprì gli occhi si trovava fuori dalla finestra e stava precipitando. Riprese velocemente a volare, si voltò indietro e vide la finestra dove si trovava prima, completamente annerita nei suoi contorni.
Contorni dentro i quali vide la sua salvatrice placare l’uomo crudele.



“Ehi, Helen cara? Mi aiuti, per favore?”
La ragazza si riprese all’udire la voce di Sean da qualche metro di distanza, scuotendo la testa come a voler scacciare un pensiero che la stava prendendo troppo. E in effetti era così: da fin troppi secondi per essere una situazione accettabile, i suoi occhi castani, colorati dal rosso e dal giallo di qualche acero lì vicino, si erano fissati su un’immagine che l’aveva immobilizzata senza che lei sapesse perché. I pochi vetri rimasti di una finestra rotta, appuntiti e taglienti come rasoi, temibili, e una cornice nera scrostata dalle piogge e da chissà quanti altri fenomeni: ecco cos’era.
“Sean, che cos’è questo edificio?”
Lui si voltò a quella domanda. Helen gli indicò la costruzione in rovina, una specie di grosso casermone in cemento armato, grigio e lugubre, prima di riprendere a sistemare il telo da spiaggia che volevano stendere sulla distesa di foglie e rametti che componeva i lati della stradina tra Amarantopoli e Fiordoropoli.
Il ragazzo osservò per qualche secondo l’edificio in cerca di qualche elemento che gli rendesse chiara la sua natura. Esaminò senza molto successo il tetto piatto, sprovvisto di tegole in qualsiasi punto, forse perché ospitava un terrazzo a lui invisibile dal basso. Un alto muretto conduceva all’ingresso che non riusciva a vedere da fuori, il cui accesso era consentito da un imponente cancello in acciaio che sembrava, al contrario del resto del complesso, non essere stato intaccato dallo scorrere inesorabile del tempo.
“Non saprei proprio” concluse infine. “Perché ti interessa?”
“Mmh, come spiegarti… mi dà una strana sensazione” mormorò lei. “È così grande, un tempo deve aver avuto un periodo di splendore e chissà com’era allora. Ma adesso non si riesce a capire nemmeno cosa o chi ospitasse, i muri cadono a pezzi e le finestre sono tutte rotte… Mi mette a disagio, insomma!”
Helen era arrossita apparentemente senza motivo. Sean la guardò per qualche istante ma lei evitò accuratamente il suo sguardo, che poteva apparire innocente ma che in realtà era un esperto indagatore. Lui ridacchiò alla fine e lei a quella sua reazione gli lanciò un’occhiata fugace di dubbio.
“Sei troppo impressionabile, tesoro” commentò lui scherzosamente.
L’altra stette un po’ in silenzio e poi mormorò: “Sì, è probabile… gli edifici vecchi e in rovina hanno sempre avuto uno strano effetto su di me, lo ammetto.”
Proseguirono parlando di altro ad allestire la modesta area per il loro picnic, senza accorgersi che un altro curioso gruppo di giovani ragazzi parlava proprio di quella struttura. E loro riuscivano a leggere senza problemi il suo nome, poiché nonostante le scritte al neon che coronavano la porta d’ingresso fossero andate distrutte, un’insegna su una colonnina accanto al cancello in acciaio che recava un’indicazione abbastanza inquietante, sempre stata oggetto di scherzi e leggende metropolitane da parte dei curiosi che non riuscivano a prendere sul serio ciò che essa descriveva, imperturbabile e indifferente al rischio di ciò che poteva costituire la conoscenza degli eventi che avevano avuto luogo anni addietro dentro l’edificio. Se solo il governo avesse saputo la verità…

 
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