Prayers pt. 3
Gyarados fu spinto in acqua da una potentissima sfera di energia argentea, proveniente dal cielo. La luce che emanava veniva riflessa sul volto bagnato dall’acqua di Marina.
Ci fu la deflagrazione e poi il silenzio: i Gyarados zitti, nessun grido, nessun ruggito, soltanto le onde del bacino di Ceneride che s’agitavano qua e là, e la pioggia che sembrava lanciare minuscole ed acuminate frecce dalle nuvole.
Questi i minuscoli ed impercettibili rumori a riempire la loro mente per quegli interminabili tre secondi che quell’enorme Gyarados impiegò per abbattersi sulla superficie del lago, alzando grandi onde.
Martino guardò la scena da lontano, quasi rimanendo incantato da quella scena, senza comprenderne il motivo.
Forse fu la monumentalità del momento, forse semplicemente la maestosità perduta di quel Gyarados gigante, colpito da quell’oggetto misterioso.
Poi il Ranger guardò il volto spaesato della sorella, almeno prima che il ruggito di uno degli altri Gyarados non lo risvegliasse.
“Forza!” urlò Martino ai Pokémon che aveva catturato con lo Styler. “Attaccate!”. La rabbia nella voce del Ranger risuonò per tutta la valle di Ceneride, facendo eco e venendo a contatto col profondo dell’animo di sua sorella, ancora in piedi sul Pokémon che aveva acquisito:
Martino ci mette impegno nel proteggere la gente. Martino ci mette vita. Per la vita degli altri.
Un urlo proveniva dall’alto, dove la pioggia cadeva ancor più fitta; Marina alzò gli occhi per vedere cosa avesse causato la temporanea sconfitta di quel Gyarados feroce, ma l’acqua s’abbatteva forte sui suoi occhialini, fitta, non permettendole di mettere a fuoco nulla.
“Oh, dannazione...” sospirò. Aveva voglia di un bel bagno caldo, Marina, di una tazza di tè ai frutti rossi e poi di una serata passata a vedere Grey’s Anatomy mentre suo fratello si lamentava perché voleva guardare Breaking Bad.
Invece si ritrovava ad essere un pelino vicino alla morte, o almeno più di quanto avrebbe voluto, sotto la pioggia battente e con i capelli ed i vestiti fradici.
Il Gyarados si rialzò ruggente, ancor più iracondo se possibile; l’acqua che cadeva dal suo corpo pareva mitragliata in acqua da un plotone d’esecuzione. Il suo volto era ferito e sanguinante su tutto il lato destro, provocato da quel misterioso fenomeno argenteo. Ancora sangue colava dall’orbita dell’occhio offeso, ormai chiuso e livido, e dalla guancia, scendendo verso il basso e gocciolando dal mento ossuto, sporcando il canino inferiore destro. Immaginava, Marina, un Pokémon senza autocontrollo, senza un briciolo di cervello per poter ragionare, senza alcun freno e limite, così grande e così potente... così arrabbiato. Il sapore del suo stesso sangue non avrebbe fatto altro che raddoppiare il lui quella terribile furia omicida.
Gyarados spalancò le fauci, nella sua bocca cominciò a formarsi una luce bianca.
“Iper Raggio...” osservò la ragazza, con lo sguardo spento. Era molto più morta di quel che pensasse, se n’era appena resa conto.
E Martino non poteva fare nulla. Erano rimasti pochi altri Gyarados, attorno alla gran quantità di cadaveri che si era formata, squassando la superficie cristallina del lago nella baia di Ceneride. Il sangue aveva riempito lo specchio d’acqua, ed ora tutti quei Pokémon giganteschi lottavano nel loro stesso sangue, che si rigettava a riva con le onde.
Vide la luce nella bocca del leviatano, vide il volto di sua sorella e capì che quello dovesse essere un attacco Iperraggio.
“Marina!” urlò disperato, troppo lontano, troppo impotente ed infelice. “Vai via di lì! Spostati!”.
Ma era lontana, sua sorella, ed il rumore della pioggia, quello dei Gyarados, assieme al cuore che le batteva così forte nel petto, non le permise di sentire nulla che non fosse il suo respiro.
“Marina!” urlò ancora più forte, ancora più rabbioso, con le lacrime agli occhi. Ed i ricordi ripresero a fluire.
“Marina! Marina! Aiutatemi!” prese ad urlare Marino. Non avrebbe mai potuto dimenticare quella scena, la paura improvvisa che lo investì, la sensazione di vuoto che gli si era creata sotto i piedi ed il baratro in cui cadeva; tutto fermo, tutto immobile, tutto giù e loro lì, lei morente faccia a terra, il sangue a terra che usciva dal suo costato ed il suo vestitino, poche ore prima bianco, poi diventato rosso. Rosso sangue.
Gli occhi della ragazza erano semischiusi, come anche la bocca. Sentiva nel respiro della ragazza una pesantezza che non aveva mai ascoltato prima. Tuttavia era la debolezza nel suo sguardo che lo preoccupava.
“Mart... iuto...” farfugliava lei.
Il cuore batteva nel petto di suo fratello come un martello pneumatico, pareva quasi volesse uscire fuori, andare via, lasciare il suo corpo.
Subito s’inginocchiò, incurante d’aver affondato le gambe nel sangue che continuava ad uscire copioso dal corpo della ragazza. La girò, facendola stendere sulla schiena e vedendola tossire; un rivoletto di sangue prese a colare sulla sua guancia bronzea.
Ragionò così in fretta che quasi si stupì. Era solo, doveva agire velocemente, e la prima cosa da fare era portare Marina in ospedale. Oppure chiamare l’ambulanza.
Sì, decise che fosse la cosa migliore da fare. Prese il Pokénav ed effettuò la chiamata.
“Pronto! Aiutatemi! Mia sorella sta perdendo sangue dal torace! Sì, perde molto sangue!”.
Gli avevano detto di stare calmo e tenere la situazione sotto controllo, un’ambulanza stava arrivando immediatamente. Gli avevano anche detto di cominciare col primo soccorso. Gli avevano chiesto cosa vedesse.
E sinceramente non c’era null’altro che una fontana di sangue che riversava ampie quantità di sangue all’esterno del corpo. E poi qualcosa di lucido.
“C’è... c’è... un grosso pezzo di vetro... C’è un grosso pezzo di vetro conficcato nel profondo della ferita!” urlò piangendo il giovane, tenendo la testa della ragazza alzata, ancora debolmente lucida.
“Che devo fare?!”.
Gli venne spiegato che non avrebbe dovuto toccare minimamente il corpo estraneo presente nel corpo di sua sorella e che avrebbe dovuto detergere il sangue, pulire la ferita nei limiti del possibile con qualcosa di pulito e fare attenzione che la ferita non s’infettasse.
Doveva agire in fretta, posò per terra il Pokénav, mettendolo in modalità vivavoce. Cercò con lo sguardo un panno ma l’unico sotto mano era uno straccio buttato nel terreno. Una voce nella sua testa ripeté un paio di volte “Escherichia Coli”, poi riportò alla mente le parole della donna con cui stava parlando al Pokénav, che le spiegava che la ferita non dovesse infettarsi.
Marina tossì ancora, sentì la voce della donna che gli diceva di stare tranquillo e poi sospirò forte.
Stracciò il vestito sulla pancia della sorella, per avere una visuale migliore della situazione. Poi l’illuminazione: stracciò la manica della sua camicia con rabbia e paura e poi prese a tamponare la ferita. La camicia era bianca, proprio come il vestitino della sorella, ma non aveva le bruciature, e subito divenne rosso rubino.
“Marina, stai calma” piangeva lui, mordendosi le labbra e guardando il volto di sua sorella, sempre più sofferente, sempre più stanco. “Stanno arrivando i soccorsi! Tu non addormentarti e rimani con me!”.
“Sono... stanca...” disse lei, tossendo ancora sangue.
Martino inorridì. “No! Non provare ad addormentarti, brutta stupida! Non provare a lasciarmi da solo, non te lo perdonerò mai!”.
Passarono sei minuti. Sei minuti interminabili, sei minuti passati a tamponare la ferita. Il sangue fuoriusciva in maniera sempre minore ma la pozza sotto le ginocchia del ragazzo s’era allargata. Marina aveva quasi chiuso gli occhi ed il suo respiro pareva pesasse una tonnellata, tanto che il solo esalare un fiato sembrava essere una fatica immane per la ragazza.
Ed allo scoccare del sesto minuto sentì le sirene dell’ambulanza irrompere per strada. Ancora venti secondi, apparvero due infermieri che, velocemente, presero in braccio Marina per caricarla su di una barella. Martino piangeva, intanto stringeva la mano della sorella e le parlava, cercando di tenerla sveglia.
Arrivarono all’ambulanza.
“Devo salire” fece scosso, con la manica della camicia strappata e le mani e le ginocchia sporche di sangue.
“Le condizioni sono critiche. Farebbe meglio ad andare in ospedale ed aspettare notizie lì”.
“Io non posso lasciarla da sola!”.
L’infermiere accettò suo malgrado di farlo presenziare sull’ambulanza. Non che diede fastidio, anzi, Martino rimase silenzioso, a guardare gli occhi chiusi di spenti di sua sorella, prima che la addormentassero ed intubassero.
Arrivarono all’ospedale in un lampo. Scesero velocemente dall’ambulanza, ed entrarono nel grosso edificio. Oblivia era molto efficiente in fatto di sanità, difatti tutto pareva funzionare perfettamente lì. Due infermieri guidavano la barella velocemente, e Marino li seguiva.
“Starà bene mia sorella?! La curerete?!” domandò nervosamente.
L’infermiere si guardava attorno, urlando ordini ai tirocinanti. Si girò per un attimo e guardò Martino. “La situazione è parecchio grave”.
“Grave quanto?!” stava per piangere nuovamente il ragazzo.
“Abbastanza. Dai controlli effettuati sull’ambulanza sembra che la ragazza sia stata miracolata: il frammento di vetro non ha reciso i polmoni né alcun organo vitale limitrofo. Tuttavia ha perso una quantità incredibile di sangue ed ha riscontrato ustioni di secondo grado su alcune parti della cute”.
“Quindi?!”.
“Quindi adesso è un codice rosso, dovrà essere operata per l’estrazione del frammento di vetro e le dovrà essere inserito in circolo una buona quantità di sangue. Mi può dire il suo gruppo sanguigno?”.
“B negativo” sospirò lui.
“Molto raro. Ha dei parenti che possiedono lo stesso gruppo sanguigno? Chessò, i genitori della ragazza...” fece l’uomo con la divisa verde, spingendo il lettino.
“No. Loro non sono compatibili con lei. Lo sono io”.
“Lei è un donatore di sangue?”.
“Lo posso diventare”.
“Bene, le faremo avere i moduli nell’eventualità non dovessimo disporre di sangue di ricambio. Ora si sieda qui e si rilassi. Ci vorrà del tempo” fece l’uomo sparendo oltre una gialla con un segnale di divieto sopra. Martino fece per seguirlo, sbraitando parole che si schiantarono sulla superficie della porta di divisione dell’ospedale, oltre il quale Marina era sparita.
Almeno prima che un’infermiera gli si avventasse contro dicendogli che non poteva proseguire oltre. Martino fu costretto a mettere le mani sporche di sangue ai fianchi e ad abbassare la testa. Il braccio destro, scoperto e senza manica, si lasciò cadere debole lungo il lato del suo corpo, ormai al limite della sopportazione nervosa. Aveva lasciato il Pokénav sul pavimento della veranda, quindi andò in centralino, chiedendo di poter effettuare una telefonata.
“Mamma...”.
Ed avvertì i genitori.
Ed allora, proprio come in quel momento, Martino sentì la voglia di unire le mani e guardare il cielo. Di pregare Arceus, per salvare Marina.
Per salvarla di nuovo.
Gold stava lottando con tutta la forza che gli era rimasta, cercando di liberare il collo dalla presa inesorabile di Ottavio. L’uomo, dai lunghi capelli neri e gli occhi scuri, fissava con rabbia il ragazzo di Johto, stringendo sempre di più la morsa, chiudendo i cancelli al suo respiro.
E poi sorrise, quando vide le braccia di Gold cadere inermi al suo fianco.
Niente, Gold non respirava più, non sentiva più il suo fiato; soltanto lo sgocciolio rompeva il silenzio di quel posto.
“Sei feccia, ragazzo” disse l’imponente uomo. Lasciò cadere il corpo vuoto di Gold per terra, che si accasciò debole ed innaturale. “Nient’altro che feccia”.
E poi qualcosa accadde.
Ottavio lo sentiva, sapeva benissimo che le cose non potessero essere così semplici. L’ennesima scossa di terremoto fece tremare ulteriormente le pareti, ma a franare leggermente fu soltanto il pavimento, allargando ulteriormente il fossato che si era formato precedentemente.
Fu proprio da lì che apparvero Silver e Grovyle, saltando con agilità in avanti.
Il ragazzo aveva il volto basso. Alzò leggermente gli occhi, per incrociare lo sguardo stupito di Ottavio, quindi si perse sul corpo di Gold. Il fulvo ascoltava, il suo udito era sopraffino e tutti suoi sensi acuiti, tant’è vero che riuscì a vedere un debole movimento del torace del ragazzo dagli occhi d’oro.
Respirava ancora. Non era morto.
“Bene. Grovyle, occupati di Gold” disse Silver. Ma pareva che qualcosa non andasse. No, Grovyle non voleva lasciare il campo di battaglia; non voleva abbandonare Silver.
Doveva rimanere lì.
“Grovyle... tu...”.
Lo sguardo del rettile era fisso e serio. Non aveva alcuna intenzione di cambiare idea, anzi, dalle foglie sui suoi polsi fuoriuscirono minacciose due liane.
“Vuoi combattere. Bene, mi sembra giusto”.
Ottavio sorrise. “Sembra strano che il tuo Pokémon ti disobbedisca in questo modo... Cos’è, rosso, non hai tutte le medaglie?”.
Silver sorrise e guardò sott’occhio il suo Pokémon. “No. Non ho tutte le medaglie. In effetti mi mancano quattro medaglie, qui ad Hoenn. Ma sottovalutare un Dexholder in questo modo è veramente da stupidi”.
“Osi darmi dello stupido?!” esclamò divertito Ottavio. “I miei Pokémon mi rispettano! Mi temono! Sanno che tra me e loro, chi comanda sono io!” urlò poi.
“Ciò non fa di te un bravo Allenatore. E ad essere forti sono i tuoi Pokémon, perché tu non sai sfruttarne le capacità. Dall’odio nasce soltanto altro odio, te lo dico per esperienza”.
“Lottiamo” si pronunciò infine il malvagio.
In campo nuovamente Infernape. Ottavio lo sapeva: nonostante la stanchezza del suo Pokémon, la differenza di livello e la differenza tra tipi incidevano assai.
“Infernape!” mandò in campo Ottavio.
Grovyle fissava concentrato il suo avversario e cercava di captare ogni piccola alterazione del luogo campo di battaglia: le goccioline che cadevano dai tubi che pendevano dal soffitto, la luce che faceva contatto e poi l’acqua che cadeva nel grande fosso che c’era nel pavimento, finendo giù. “Grovyle... attento” lo avvertì Silver, vedendo il sorriso folle sul volto di Ottavio.
“Infernape! Distruggiamolo! Bruciamo l’erba secca con un Fuocobomba!” fece quello e vide poi quel malconcio Infernape balzare in aria e gettare sull’avversario una sagoma di fuoco con la forma di un uomo. Viaggiava incandescente, questa, luminosa e velocissima.
“Grovyle! Non dobbiamo farci colpire!” comandò Silver. “Schiva a sinistra!”.
Il Pokémon Legnogeco fece come ordinato, ed Ottavio vide svincolarsi Grovyle sulla sinistra e Silver sulla destra; l’attacco andò a schiantarsi con una parete, che crollò poco dopo, inondando di luce il lungo corridoio.
“Grovyle, dobbiamo attaccare da lontano. La precisione di quel Pokémon non è ottimale, e quindi non dobbiamo permettergli di avvicinarsi! Spargi attorno a te delle spore velenifere. Se si avvicina a noi è fottuto...”.
E così fece il Pokémon. L’aria che circondava Grovyle aveva una parvenza violacea, come se una pellicola sottile e colorata dividesse i due contendenti.
“Non pensare che sia questo a mettermi in difficoltà” ghignò il malvagio. “Infernape passerà di lì senza problemi! Ruotafuoco!”.
Non si preoccupò del veleno, Ottavio, e vide sfrecciare il suo Pokémon come uno pneumatico infiammato, abbattendo il muro di spore e gettandosi su Grovyle con foga, gridando inferocito.
Silver analizzò velocemente la situazione e tutto parve quasi rallentare, all’improvviso.
E poi vide tutto tracciato nella sua testa: linee, semirette da seguire e direttrici da percorrere; tutta fisica, semplice movimenti da effettuare in un dato momento.
“Salta!” ordinò. Il Pokémon fece proprio come detto, e vide passare l’avversario sotto le sue zampe. Atterrò poi proprio al centro del corridoio, tra Silver ed Ottavio.
Infernape, invece, andò a schiantarsi con violenza contro una parete. E dall’impatto provocato, una piccola crepa si trasformò in una grande crepa, e s’allargò sempre di più, seguendo una linea distorta che portava al soffitto.
E che lo fece crollare. Proprio sopra Grovyle.
“Dragobolide!” sentirono urlare all’improvviso i due Ranger.
L’ennesima sfera argentata impattò contro quell’enorme Gyarados, che indietreggiò di parecchi metri per il colpo.
Marina non riuscì ad attribuire la paternità di quella voce a nessuno, almeno senza guardare in alto, direzione da dove effettivamente era partito quell’attacco, anche perché la pioggia continuava a scendere ingrata sulle loro teste e sul viso della ragazza.
Martino però era più lontano, e riuscì a intravedere ali di cotone su di un volatile celeste ed una donna su di esso, con il copricapo da aviatore in testa e gli occhialini abbassati sul volto.
Lunghe ciocche color lilla erano pregne d’acqua, ma la grinta di quella donna sembrava non avere pari.
Il grande Gyarados ripartì alla carica, con Colpo, tuffandosi letteralmente contro il Pokémon su cui Marina stazionava, senza riuscire a comprendere chi avesse realmente osato colpirlo con un attacco di quella lena.
“Attenta, Marina!” urlò la figura misteriosa, che si avvicinò velocemente verso di lei, in picchiata. Il Ranger sgranò meglio gli occhi, all’interno dei suoi occhialini, quindi fu in grado di mettere bene a fuoco l’immagine che le si era presentata davanti.
“Alice!” esclamò la giovane, guardandola.
“Salta!” urlò invece la Capopalestra di Forestopoli, avvicinandosi ad altissima velocità.
Il leviatano s’avvicinava con velocità e furia omicida, col volto interamente insanguinato e la rabbia negli occhi; il suo verso esprimeva morte.
Alice virò velocemente verso sinistra, con le ali di Altaria che si tesero come le ali di un aeroplano in discesa. Passò ad un metro dalla testa del Gyarados che Marina aveva acquisito con lo Styler ed allungò la mano verso la giovane, che tese la sua, col volto pieno di paura.
Le loro dita s’accarezzarono, poi i palmi si strinsero e quindi le mani si serrarono l’un l’altra.
Alice serrò le cosce contro i fianchi di Altaria e tirò forte Marina, che, a sei metri da terra, seguita da Pichu Ukulele, spicco l’ennesimo salto.
Martino seguiva sul dorso del suo Staraptor la scena, terrorizzato, impietrito, lontano quaranta metri; e probabilmente il suo cuore si sarebbe fermato se avesse continuato a guardare, sennonché un grande attacco Idropompa lo riportò immediatamente a prestare attenzione alla sua missione.
Difatti fu il piede di Marina a cedere, disgraziato, a non fare forza durante il salto, costringendola ad un debole balzo, non bastevole a piazzarla alle spalle di Alice. Furono proprio le loro mani gli ultimi ponti di collegamento tra le due.
“No!” urlava Marina, mentre cercava di aggrapparsi a qualcosa per evitare di cadere nelle acque insanguinate ed agitate. Alice la stringeva, più che potesse, con tutta la forza che aveva in corpo, ma poi sentì l’attrito tra le dita diminuire, le braccia bruciare ed il timore crescere esponenzialmente all’interno del suo petto.
Come un rimorso, ecco.
Il rimorso di non essere riusciti a tirare su la persona che si stava cercando di salvare; le dita persero ogni contatto, gli occhi di Marina si spalancarono repentinamente, abbinati ad un urlo sconvolto e preoccupato, colmo di paura.
Alice la vedeva cadere, verso il basso, sempre più veloce, e poi capì che doveva agire in fretta: infatti, se Marina fosse finita in quelle torbide acque rubine, il leviatano si sarebbe gettato impietoso su di lei.
Ed in acqua, i Gyarados erano in vantaggio.
In aria no. In aria lo era Alice, col suo Altaria.
E allora veloce, incurante della, pioggia, del vento e del Gyarados assassino che voleva sbranare tutto, Alice prese coraggio e si gettò in picchiata, veloce ed intrepido.
Altaria s’avvitò per prendere velocità, scendeva più veloce della pioggia che avevano sulla testa, ed il voltò d’Alice s’incupì nel fissare quello di Marina.
La paura, sul suo volto, null’altro.
“Acceleriamo, diamine!” urlò la Capopalestra, con le lacrime agli occhi.
Altaria sembrò mettere il turbo, accelerò ancora di più e la superficie dell’acqua s’avvicinava sempre di più. Marina piangeva, con le mani rivolte verso l’alto e gli occhi spalancati.
E la loro distanza diminuì, fino a quando Altaria addirittura la superò e Alice la cinse al petto; virata veloce e Marina si ritrovò dietro Alice, seduta e tremante.
Ottavio rideva quasi compulsivamente, rigonfiando il petto e riempiendolo d’ego. Era felice, aveva messo sotto torchio il suo avversario, quel ragazzo dai capelli rossi legati sulla testa, ed il suo Pokémon.
Grovyle stava sotto le macerie crollate dal tetto, dolorante e ferito nell’orgoglio.
Infernape affannava, visibilmente provato dalla doppia lotta.
“Bene. Adesso farai la stessa fine del tuo amichetto...”.
Silver inarcò un sopracciglio. “Non credo proprio”.
Ottavio si scagliò con furia contro l’avversario, caricando il pugno destro indietro e rilasciandolo rabbioso.
Silver, più rapido, schivò verso destra e vide passare l’avversario di fianco, quindi lo colpì con un grande calcio, dietro la schiena.
Ottavio atterrò con un tonfò sordo, scivolando di un paio di metri avanti.
“Non ha senso lottare. Ora sparisci da qui e dimmi dov’è Rodolfo” fece Silver.
Il Magmatenente si alzò lentamente, con la divisa nera e bagnata. “Infernape!” urlò poi, e dalle spalle del fulvo apparve il Pokémon Fiamma, bloccando le braccia e la testa di Silver.
Ottavio ghignò e si avvicinò con passo deciso.
“Vediamo se incassi bene” sorrise.
Un pugno, e poi un altro, entrambi nello stomaco, entrambi dati con vigore.
Silver spalancò gli occhi, gemendo ad ognuno dei due colpi.
“Lasciatemi!” urlò poi con grinta, cercando inutilmente di liberarsi dalla presa del Pokémon di Ottavio.
“Zitto” tuonò l’uomo, colpendolo ancora. Guardò per terra e prese un grosso frammento di vetro appuntito e lo passò sul volto diafano di Silver; dapprima lo accarezzò, poi affondò nella guancia, segnando una linea rossa.
“Potrei pugnalarti. Già... potrei farlo”.
Ottavio rideva, con quel sorriso splendente e quel ghigno fastidioso, quindi caricò indietro il braccio col frammentò e fece per portarlo avanti, quando si sentì trattenuto.
Il Magmatenente spalancò gli occhi e si voltò repentino: il suo polso era stato trattenuto da qualcosa.
Guardò meglio, era una liana. Silver sorrideva mentre il sangue gli colava sulla guancia.
La luce s’attaccò velocemente, mostrando il volto di Grovyle dolorante ma ancor di più, rancoroso e furibondo: dal braccio che era rimasto libero era partita una liana che aveva bloccato l’attacco del cattivo.
“La differenza tra i miei Pokémon ed i tuoi” attaccò Silver. “... beh, la differenza è che loro vivono per me ed io per loro. Tu ed il tuo scimmione siete soltanto due individui parecchio confusi... Grovyle, grazie” annuì, non controllando una lacrima che lentamente prese a cadergli sul viso. Forse fu proprio quella lacrima a dargli forza e coraggio, e così diede un forte strattone ad Infernape, che, non aspettandosi la reazione, mollò la presa con facilità.
“Forza Grovyle!” urlò Silver e fu così che il corpo del Pokémon s’illuminò, cambiando dimensione. Il suo Allenatore spalancò gli occhi e schiuse la bocca, incredulo.
“Finalmente...” sospirò poi, sbuffando e tirando fuori un peso dall’animo che occupava spazio e dava fastidio. Le braccia di Grovyle s’allungarono, il suo torace divenne doppio e muscoloso ed il suo collo più lungo. Le macerie che lo ricoprivano si spostarono in corrispondenza ad ogni suo movimento, tant’è vero che un’innata energia venne sprigionata dal suo corpo non appena si rimise in piedi con vigore. La grande coda spazzò il pavimento, lanciando in aria detriti e calcinacci. Infine urlò, come se fosse stato liberato da un peso non indifferente.
“Sceptile...” sorrise Silver. “Bene! Vediamo un po’ che sai fare!” gli urlò, facendosi da parte.
Partì veloce verso di lui, schierandovisi davanti, a volerlo proteggere.
“Sei velocissimo... Proprio come ha detto il Professor Oak. Bene! Colpiamo Infernape con Attacco Rapido!” esclamò con grinta il fulvo, stringendo il codino sulla sua testa e fissando ogni sfumatura di quel momento, assaporandone ogni attimo con lo sguardo.
Il grande rettile si gettò a capofitto contro il primate di tipo Fuoco, non dandogli la possibilità di difendersi. La sua velocità era incredibile.
“Non finirà così!” ringhiò Ottavio, spostando una ciocca corvina dal volto. “Infernape, Fuocobomba!”. Poi tossì.
Il suo Pokémon caricò l’attacco e tirò il capo indietro, pronto per rilasciare il suo colpo, che in effetti partì. Nuovamente, la sagoma infuocata si dirigeva verso Silver e Sceptile ma, come avevano fatto precedentemente, la dribblarono entrambi con agilità, uno a destra e l’altro a sinistra.
“Bene! Concludiamola, Sceptile! Nottesferza!”.
E fu così che una lama di vento buia colpì in pieno torace Infernape. Esso, ormai esausto, s’accasciò per terra, chiudendo lentamente gli occhi.
Ottavio continuava a tossire, inginocchiato per terra, sempre più violentemente. Dalla sua bocca apparvero tracce di sangue.
Tossì nuovamente, con le lacrime agli occhi per via dello sforzo, poi si piegò ulteriormente, poggiando la fronte a terra; i capelli ondulati si poggiarono in una pozza d’acqua e polvere, mentre forti attacchi di tosse lo stavano tormentando.
“Che...” e poi tossì. “Che tu sia maledetto...”. Tossì per l’ultima volta e vomitò grandi quantità di sangue, per poi chiudere gli occhi e spegnersi per sempre.
Silver guardò Sceptile e vi si avvicinò, ben attento a stare lontano dalla carcassa di Ottavio.
“Ottimo lavoro... Se quando eri un Grovyle hai emesso spore tanto tossiche da uccidere un uomo, ho solo paura di immaginare cosa tu sia capace di fare adesso”.
Si gettarono a capofitto su Gold, poi, esaminando per bene la situazione.
“Respira” s’accertò il fulvo, con sollievo: il torace s’espandeva e si comprimeva, ed anche dalle sue narici fuoriusciva un fiato caldo e regolare. “Ha soltanto perso coscienza. Sceptile, fagli odorare qualcuno dei tuoi aromi, per fargli riprendere conoscenza”.
Ed il Pokémon così fece: detto fatto, Gold aprì debolmente gli occhi dorati e respiro un paio di volte a pieni polmoni; il volto di Silver fu la prima cosa che vide.
“Stai bene?” domandò quest’ultimo.
“Principessa... mi ha salvato lei?”.
Silver sbuffò. “Forse era meglio lasciarti svenuto...”.
Il moro si rimise in piedi sorridente, girando attorno al corpo morto di Ottavio, guardando poi Silver con sospetto. “Ma che hai combinato?!”.
“Io nulla”.
“E poi, un attimo... Sceptile s’è evoluto! Haha! Vecchio lucertolone, ero certo del fatto che saresti diventato una bestiaccia verde ed enorme!” sorrise Gold.
“Ora silenzio e proseguiamo. Dobbiamo trovare Rodolfo... potrebbe darci informazioni importanti” spense i toni Silver.
Passarono avanti, continuando a camminare e portandosi verso l’interno dell’edificio, e ancora più in fondo, sempre più dentro, arrivando all’altare dove di solito il Capopalestra stazionava aspettando gli sfidanti.
Rodolfo era steso sul pavimento, faccia a terra, con i capelli impastati con sangue e polvere di cemento. Una grossa macchia rossa si espandeva dal suo corpo, colava sugli scalini e si mischiava alle pozze d’acqua sporca.
Diventata ancora più sporca.
“Dobbiamo catturarlo” disse Alice, concentrata sul proprio obiettivo. “Altrimenti si rialzerà sempre. I Gyarados sono i Pokémon dell’orgoglio”.
“Lo so” rispose Marina, stringendo la Capopalestra in vita. “Diventare forti Gyarados essendo in precedenza dei deboli Magikarp deve dare motivo d’orgoglio. In questo caso però c’è una rabbia immane”.
“È il maschio alfa, Marina, e questo è il suo territorio. E non si fermerà fino a quando non ci vedrà morti. Inoltre nessuno garantisce che non se la prenderà con la città, una volta che ci ha fatti fuori.
“Ho una Pokéball...” disse timida.
Alice si voltò leggermente a guardarla, mentre Altaria virava verso est per poi ritornare in rotta per il prossimo attacco. “Non sei un Ranger, tu?”.
“Ho rubato una Pokéball a Gold, quando non mi vedeva...”.
“Benissimo” sorrise Alice, a denti stretti. La pioggia continuava ad imperversare ed intanto il Gyarados lottava contro l’ultimo esemplare che Marina aveva acquisito, che cadde esanime e senza vita in poco meno di un paio di minuti. Il volto del leviatano era letteralmente sfigurato e perdeva grandi quantità di sangue.
“Si sta indebolendo. Altaria, Dragobolide!” fece Alice, vedendo il proprio Pokémon caricare al suo interno l’energia e trasformarla in qualcosa di tangibile ed esplosivo: nuovamente, una sfera argentata partì veemente dalla bocca del Pokémon Canterino, fino ad esplodere con forza sul corpo del grande Gyarados. Barcollò ed urlò per il dolore.
Alice capì che quello fosse il momento giusto.
“Forza! Catturalo, Marina!” esclamò.
Il Ranger era a più di dieci metri d’altezza, e quel Gyarados aveva tutta l’intenzione di cadere verso lo specchio d’acqua sotto di loro, alzando un grande numero di onde. Quindi difficoltà, problemi che si sommavano ai molti che già stavano affrontando.
“Vai! Marina, forza!” la incitò nuovamente Alice, e fu quello il momento in cui il Ranger si alzò in piedi su di Altaria e si lanciò con coraggio nel baratro. Il vento e la pioggia la colpivano con insistenza ma la sua missione era una ed una soltanto: catturare quel Gyarados. Con la Pokéball ben stretta nella mano destra, aspettò il momento giusto e lanciò la sfera.
Non seppe dire con precisione di aver catturato quel Pokémon fino a che non risalì in superficie, bagnata d’acqua salmastra e sangue di Pokémon. Alice volò velocemente verso di lei, afferrando la sfera con una mano e Marina con un’altra, poi volò velocemente verso la riva.
“Stai bene?!” chiese la Capopalestra alla ragazza, totalmente fradicia, forse più di prima. Annuì, Marina, sospirando e tirando fuori un grosso peso dall’animo.
Pochi secondi dopo raggiunse la spiaggia Martino, saltando immediatamente giù da Staraptor. Aveva rilasciato sedici Gyarados qualche attimo prima, che si erano immersi nelle zone più profonde di quello strano specchio d’acqua.
Corse verso sua sorella, prendendola per le spalle e scuotendola leggermente, come a testare il corretto funzionamento di ogni sua funzione vitale. “Sei tutta intera?!” chiese, preoccupatissimo, scrutando il sorriso sul suo volto, ancora leggermente scosso.
“Sto bene... tranquillo. Piuttosto, la situazione è sotto controllo?”.
Martino annuì. “Sì. Tutto a posto... Ma... ma lo sentite questo rumore?”.
Era un trascinamento, qualcosa di strano e fastidioso, lamentoso. Alice, assieme ai Ranger, si voltò verso la superficie finalmente calma dello specchio d’acqua e notarono qualcosa di strano: al centro qualcosa muoveva l’acqua.
“Cos’è?” domandò Marina.
“Non lo so” rispose suo fratello. “Sta’ indietro...”.
Dall’acqua fuoriuscirono delle persone, lentamente, camminando con passi regolari e decisi. Erano persone vestite di bianco e azzurro. Con le bandane in testa.
“Il Team Idro!” esclamò Alice, salendo velocemente su Altaria. “Attenti, ragazzi”.
Dietro di loro, una grande quantità d’acqua s’alzò all’improvviso, mostrando ciò che lo scrigno blu celava: era enorme, del colore del mare o forse più scuro.
E gli occhi erano enormi fari gialli su di uno sfondo nero. Le orbite erano ben aperte, ma più di ogni altra cosa, sul suo corpo, risaltavano linee rosse di luce pulsante, che splendevano forti.
Il volto di Alice esprimeva appieno la paura che provava.
“Kyogre” fece. “Quello è Kyogre”.
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