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Levyan - Finto



Finto
 
Il camerino era una sauna, l’atmosfera pesante e l’umidità alle stelle. Le luci al neon che coronavano gli specchi opachi e unticci brillavano troppo intensamente. Vera cercava in qualche modo di mettere le ciglia finte senza essere accecata da quelle lampade. Dietro di lei, Lucinda e Serena facevano mille giostre per riuscire ad entrare in quei vestiti scomodissimi che erano costrette ad indossare.
Sempre gli stessi. Ogni volta che lo show andava in onda, indossavano quegli abiti sudici e puzzolenti.
La ragazza dai capelli castani mise il suo solito completo rosso e prese il mascara. Una, due, tre, quattro passate. I suoi occhi ne uscivano fuori appesantiti e impiastricciati, persino chiudere le palpebre le sembrava faticoso.
– Vera... – mormorò Iris comparendo dietro di lei.
– Sì?
– Il capo ti cerca, è furioso...
Lo disse abbassando lo sguardo e scrutandosi le punte dei piedi. Vera impiegò un po’ prima di focalizzare completamente ciò che la ragazza le aveva appena detto, la fissava riflessa nello specchio.
– Ha detto che è importante... – aggiunse la ragazza di Unima.
– Devo andare? – Chiese lei con un filo di voce.
Iris guardò altrove. Non poteva sopportare la pressione di ciò che stava facendo. Vera aveva appena ottenuto un biglietto per un viaggio verso l’ennesima umiliazione e lei era stata la bigliettaia.
La castana si alzò e si diresse verso la porta del camerino. I suoi occhi celesti si facevano umidi e le sue mani tremavano. Dopo quello che era accaduto a Zoe, a Misty e a tutte le altre aveva capito che questo momento sarebbe toccato anche a lei, prima o poi. Eppure non era pronta, nessuna di loro era mai pronta.
Vera uscì dalla stanza.
 
Il proprietario di quella trasmissione era un soggetto strano. Solamente alcune volte avevano avuto modo di guardarlo in faccia. Se ne stava sempre chiuso nel suo ufficio a badare agli affari e a contrattare con vari attori che venivano puntualmente convocati dalla sua schiera di segretarie. Ci era riuscito, aveva finalmente reso quello che prima era un meraviglioso mondo utopico in una fittizia immagine grottesca dell’umanità. Era pieno di soldi. Tutti apprezzavano la sua creazione, le sue idee, le sue invenzioni e i suoi personaggi.
Eppure, all’interno dello studio, non c’era una persona che non lo odiasse. O forse sì.
 
– Allora, a che punto siamo?
Lucinda sentì una mano schiaffeggiarle il sedere. Lo schiocco fu acuto e la ragazza trattenne un gridolino. Si voltò indignata.
– Forza, dobbiamo entrare in scena a minuti!
Il ragazzo che era dietro di lei batteva le mani e gridava di sbrigarsi a voce altissima. Quell’orrenda voce infantile da ragazzino viziato. Era strizzato in un vestito elegante degno del peggior presentatore da circo di sempre. Portava un cilindro cerato e lucido sulla testa e un bastone tra le mani.
Era un perfetto damerino stilizzato.
Le lenti a contatto colorate conferivano un insolito colore ambrato alle sue iridi. Il troppo fard rendeva la pelle del suo viso poco più scura dei suoi occhi. La sua faccia era contorta in un’espressione di disprezzo e vanità, come quella di chi ha tanto potere ma è troppo immaturo per farne buon uso.
– Che ci fai qui, Ash?! – chiese Misty furente.
Il ragazzo era entrato nel loro camerino mentre lei era intenta ad indossare il reggiseno.
– Datevi una mossa e smettete di lamentarvi, donne!
Tutte le attrici lo guardavano in cagnesco.
– Devi smetterla di entrare come e quando ti pare! – esclamò Iris.
– Infatti, abbiamo anche noi diritto alla privacy, Ash! Non puoi mica guardarci mentre ci cambiamo! – ribadì Serena.
Aveva parlato troppo.
Quello perse il suo sorrisetto e camminò indignato verso la bionda.
– Ash... – Serena si fece terrorizzata.
Il ragazzo la afferrò sotto al mento stringendole le guance con le dita e strizzandola forte.
“Ahi! Mi fai male!” Provò a dire quella, ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un gemito soffocato.
– Mettiamo le cose in chiaro, donna... – proferì rabbioso quasi sussurrando le parole all’orecchio dell’attrice. – ...qui il protagonista sono io, ciò significa che ho più potere e più importanza di voi... il vostro compito è quello di obbedire a me, avete capito?! – Proseguì enfatizzando maggiormente l’ultima parte e lasciando violentemente la ragazza. La bionda cadde a terra vicino a Iris che nel frattempo era rimasta impietrita, subito si portò le mani alle guance e prese a massaggiarsele. Il fard era andato quasi tutto via e sulla pelle chiara erano rimaste due impronte rosse delle dita di Ash.
– Basta ora! Stiamo per andare in onda!
Non aveva più quell’espressione soddisfatta di prima, sembrava un vero e proprio tiranno.
Ash uscì dalla stanza senza degnare nessuno di uno sguardo.
– Oggi tocca a noi per prime... – dissero sconsolate Iris e Lucinda.
Le due ragazze seguirono l’attore, uscirono dal camerino sistemandosi i corpetti che le strizzavano in una maniera così umiliante. Portavano le parrucche di sempre, quelle piene di pulci, ed erano avvolte in vestiti che avevano ben poco di sensuale e vertevano molto di più sul pornografico. Trasparenti e attillati.
Nel camerino cadde il silenzio.
 
Vera avanzò lentamente verso la porta dell’ufficio del principale. Aveva indosso solo una parte del costume, la parrucca e i tacchi erano rimasti nel camerino. L’ufficio del capo era lontano e attraversare tutti quei corridoi su quegli altissimi tacchi a spillo non le era sembrata una buona idea.
Prima di entrare allargò il bustino che esponeva così oscenamente le sue forme ed allacciò il vestito fino al collo. Non voleva sembrare meno attraente, solo non le piaceva sentirsi osservata direttamente quando era addobbata in quella maniera.
Bussò alla porta con fare indeciso.
Numerose gocce di sudore imperlavano la sua fronte sciogliendo parzialmente il blush e rovinandole il trucco. Si sentiva sporca e appiccicosa.
– Entra.
Quando sentì la voce dell’uomo, trasalì. Strinse i pugni e si decise ad aprire la porta.
– Capo...
– Vera, finalmente... mi hai fatto aspettare.
L’ufficio era un ambiente totalmente diverso dal camerino al quale era abituata. Lì regnava l’oscurità e un ventilatore posto su uno degli scaffali più alti rinfrescava l’ambiente girando a gran velocità. Si intravedevano alcune piante grasse adagiate in vasi rossicci che decoravano gli scaffali e gli armadi, una scrivania e una persona seduta dietro di essa. Questa era parzialmente illuminata dalla luce emessa dal monitor del computer e teneva in mano fogli di origine sconosciuta che dimostrava di riuscire a leggere nonostante il buio.
Vera si rese conto di star tremando. Per distrarsi, si mise ad osservare la stanza.
Alle spalle dell’uomo seduto alla scrivania si intravedeva una grande finestra le cui tapparelle erano state chiuse quasi ermeticamente. Un sottilissimo filo di luce entrava da ognuna delle fessure della persiana, ma l’interno della stanza rimaneva comunque immerso nel buio.
La castana mosse i primi passi all’interno dell’ufficio. Subito si accorse della moquette morbidissima. Era una sensazione nuova, stava camminando senza scarpe sopra quella soffice distesa di stoffa pregiata.
Quando si fu finalmente abituata all’oscurità, cosa che dapprima le rimase difficilissima data la luce estremamente intensa che invece regnava in ogni stanza di quello studio, poté scrutare alla meglio l’uomo che si trovava davanti. Aveva due spallone larghe e i capelli ingrigiti tirati tutti all’indietro da un triste gel che li faceva sembrare unti e sporchi, una giacca bianca candida nascondeva appena le sue braccia muscolose e, sotto di essa, si intravedeva una camicia nera con i primi bottoni slacciati perché lasciassero fuoriuscire un ciuffetto di peli. L’uomo era grosso, tozzo, i suoi vestiti sembravano dover esplodere da un momento all’altro. Il viso invece, per quanto nascosto, sembrava serio e dava l’idea di una personalità ferrea e irremovibile, mascella quadrata e zigomi marcati. La barba era ben curata e gli occhi sottili la scrutavano severamente.
– Mi ha convocata?
– Vera... – La sua voce era cupa ma giovane. – ...ho saputo che ieri hai avuto un battibecco con Drew.
Quella trasalì, era venuto a saperlo. Sicuramente c’entrava Ash, quel ragazzo non sapeva tenere la bocca chiusa. Vera strinse i denti e annuì chiudendo gli occhi. Il terrore stava prendendo possesso di lei, era innegabile.
– Ho sentito che sei anche arrivata ad alzare le mani su di lui.
Vera non rispose neanche, trasse un sospiro e trattenne un singhiozzo. Una docile lacrima iniziava a scendere lungo la sua guancia portando con sé l’abbondante mascara e cancellando parte dell’ombretto. Lei cercò prima di trattenerla, o almeno di nasconderla.
– Vera... devo spiegarti per l’ennesima volta come funzionano le cose qui? – L’uomo si alzò in piedi e si diresse verso la ragazza che era rimasta in piedi al centro della stanza.
– N... no... – balbettò lei con l’ansia alle stelle e il cuore che batteva come un martello pneumatico nel petto.
– Invece mi pare proprio che tu ne abbia bisogno. – la voce dell’uomo si faceva sempre più greve e vicina. Ormai le stava praticamente sussurrando le parole all’orecchio.
– No... la... la prego... – ormai le lacrime sgorgavano copiose e andavano a sciogliere tutto il make-up della ragazza.
– Che fai? Rovini il trucco? Non hai idea di quanto mi senta... – L’uomo la strinse per il colletto abbottonato con precisione del vestito. – ...indignato! – esclamò strappando i primi bottoni con violenza.
Vera emise un grido soffocato.
– Vediamo se questo metodo serve a farti imparare le buone maniere...
Il principale le strappò completamente le vesti con crudeltà mentre lei cercava di mantenere l’equilibrio sotto le forti mani che la costringevano a denudarsi. Per un attimo, la ragazza vide una figura in un angolo della stanza nascosto da un armadio. Un ragazzo che conosceva bene, un ragazzo dai capelli verdi la stava guardando.
– E la prossima volta... – l’uomo le afferrò la carne e strinse fino a farle male. – ...voglio vedere come reagirai a tutti i favori che ti stiamo facendo.
 
Lo show si era concluso da un pezzo. Tutte le attrici erano uscite dallo studio. La notte era placida e afosa.
In un bar vicino alla sede cinematografica, la ragazza dai capelli castani sedeva ad un tavolino. Di fronte a lei c’era un ragazzo con uno strano cappello. Lei piangeva e l’altro la fissava inerme, senza saper cosa fare.
Vera...
Le lacrime scendevano sulle sue guance irrigandole per poi essere catturate dalle maniche.
– Non ce la faccio più!
– Ti prego, non posso vederti così... devi smetterla, vieni a stare da me, non continuare a lavorare in quella trasmissione. – La voce del ragazzo era triste, empatica.
– Non... non posso. Devo, devo farlo... – i singhiozzi le impedivano di parlare normalmente.
– No, prima di tutto te stessa, non puoi andare avanti così, ti stai lacerando dentro...
– Smettila, Brendon! – Esclamò lei. – Mi distruggerebbero, ti ho fatto leggere le carte, lo sai anche tu come andrebbe a finire!
Il ragazzo col cappello fissò il vuoto.
– Brendon, se mi licenzio, quelli mi rovinano... sono tra due fuochi...
– Come possono... argh! – Il ragazzo mise la testa tra le braccia, era disperato, come è disperato chi non vede soluzioni.
– Devo continuare a lavorare con loro, con Ash, con gli altri...
– Vera...
 
Il giorno seguente, Vera tornò nello studio. L’atmosfera non era cambiata, era la stessa del giorno precedente.
– In onda tra due minuti! Tutte sul set per lo speciale! – Sbraitava il direttore tecnico.
Le due ragazze si misero in posizione sul set. Ancora una volta strizzate in quei vestiti osé e con quel trucco eccessivo che le rendevano molto simili a delle bambole. Non avevano più nulla di umano, le loro facce erano modificate e le loro espressioni fasulle, la loro voce trasformata e le loro frasi scritte su di un copione; recitavano, costrette ad essere ciò che non erano, mentre la loro dignità veniva calpestata, obbligate a sfoggiare i loro sorrisi smaglianti. I loro sorrisi tutti uguali, tutti finti.
La sigla si concluse. Ash entrò in scena.
Le telecamere si accesero, tutte iniziarono a recitare. Tutte tranne una.
Vera rimase davanti alle telecamere immobile, non interpretò la sua parte, rimase ferma soltanto. Gli occhi lucidi fissavano l’obiettivo e le mani erano ferme lungo i fianchi. La sua bocca era semiaperta. Era come ipnotizzata.
Attorno a lei, gli altri le facevano numerosi cenni per spronarla a muoversi. La troupe era in subbuglio e il regista si sbracciava tentando di farla tornare alla ragione.
Niente. Quella non si muoveva.
Le luci erano fortissime e la accecavano, i vestiti la soffocavano, il trucco la faceva sentire sporca, la musica era altissima e le trapanava i timpani senza pietà. Tutto era contro di lei.
Una ragazza, da sola, davanti alle telecamere. Davanti alle sue paure. Davanti alla sua vita devastata.
Di colpo, credette di nuovo di essere al tavolino del bar.
– Ti tirerò fuori da lì... – Brendon le aveva accarezzato la guancia delicatamente. – ...stanne certa.
Vera tentò di mugolare qualcosa, ma non riuscì a formulare alcuna parola di senso compiuto. Nella sua mente, però, un chiaro messaggio ronzava ormai da ore.
Scusami
 
Nei giorni seguenti, nessuno parlava d’altro.
Brendon si fermò a prendere un caffè, prima di andare al lavoro. Non poté non gettare un occhio ai titoli dei giornali adagiati sui tavolini:
Star caduta in depressione, il suicidio in diretta; Morte in diretta, stella della televisione si uccide davanti alle telecamere; Lo spettacolo degli orrori, attrice si taglia la gola sul set.
Pagò il caffè e lasciò il bar senza salutare. Camminava con le mani in tasca e la testa china, senza neanche guardare avanti. Arrivò allo studio, dove trovò una lettera sulla scrivania. Sapeva che prima o poi sarebbe giunta a lui.
Non aveva mai maledetto tanto la famiglia di Vera per aver chiesto a lui, uno dei suoi più cari amici, di condurre la loro causa contro la produzione di quel programma che l’aveva mandata in depressione, portandola al suicidio. Non perché non volesse aiutarli, assolutamente no. Bensì, perché conosceva molto bene il suo settore e sapeva che ci sarebbe stata una seconda richiesta, che non avrebbe tardato ad arrivare.
Ebbene, era arrivata.
Era stato contattato direttamente dalla produzione: poche, semplici parole, frasi distaccate e impersonali, si arrivava subito al nocciolo della questione. Per evitare lo scandalo, era obbligato a lasciare che la produzione vincesse la causa contro i genitori della star suicida, liberandosi della responsabilità di quel suicidio, altrimenti il suo stesso studio legale ne avrebbe risentito.
Non sapeva se provare pena o repulsione per se stesso, aveva provato a giustificarsi tante volte, ma ogni scusa era inutile quanto la prima.
Oramai, Vera era morta, non valeva la pena di seguirla nella sua follia. Non c’era bisogno di iniziare una guerra. Non si meritava quel peso, Vera non avrebbe mai voluto farlo soffrire.
Si stupì della propria stessa vigliaccheria. Era un codardo, avrebbe potuto aiutare la sua amica, ma non era stato abbastanza forte. Vera si era suicidata, alla fine. E lui non ne avrebbe comunque pagato le conseguenze, perché si sarebbe piegato a questo ricatto.
“Ti tirerò fuori da lì...” pensava, tristemente. E invece, era stata lei a trascinarlo dentro.

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