Salve. Keyn ha disegnato una One Shot ispirata ad una mia ship, tra Jasmine e Corrado.
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- Andy
Capitolo 2 - Vagito
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Capitolo 2 - Vagito
Bosco
Lira.
Kalut si muoveva tastando il terreno soffice ad ogni passo. Gustava il
solletico dell’erba fresca e morbida sotto le piante dei suoi piedi.
Ogni
tanto, durante le soste, qualche minuscolo animaletto saliva tra le
sue dita,
saltando via e scomparendo al suo minimo movimento. Quel posto magico
lo
ipnotizzava.
Per
un
momento si fermò. Guardò alle sue spalle, guardò a destra, a sinistra,
guardò in basso. Tutto lo affascinava, non aveva mai visto nulla di
simile.
Riprese
a
camminare finché, ad un certo punto, proprio davanti a lui un Venipede
spuntò
fuori da un cespuglio e iniziò a scalare la corteccia di un albero
limitrofo.
Il ragazzo si immobilizzò, gli occhi fissi sulla strana creatura che
stava
sfilando davanti al suo sguardo pietrificato.
Vinto
il
timore, Kalut mosse una mano per toccare il Pokémon, affascinato dalla
sua
rilucente e liscia corazza. Il Venipede, per natura difensivo e poco
fiducioso
nel prossimo, si ritrasse più che poté nel suo esoscheletro, ma quando
le dita
dell’umano lo sfiorarono, egli reagì immediatamente sfoderando i suoi
aculei
veleniferi.
Un
grido
risuonò in tutto il bosco. Persino il Pokémon, terrorizzato dal forte
suono improvviso, si rinchiuse nella corazza appallottolandosi e
cadendo a
terra innocuo ma difeso. Kalut, terrorizzato, era caduto all’indietro.
Stringeva il polso corrispondente alla mano dolorante, fissando con
orrore le
venature violacee che circondavano il punto perforato. Sentì un
brivido che gli
diede come l’impulso di allontanarsi da quell’arto avvelenato, iniziò
freneticamente a scalciare come per prendere le distanza dalla sua
stessa mano,
ma notò immediatamente che la sua strategia era inutile. Strinse
ancora di più
il polso, sentiva il bisogno di staccarlo, di separarsene. Neanche
quello gli
riuscì, il suo istinto contrastante per natura l’autolesionismo gli
impedì il
gesto estremo.
Avvertì
qualcosa
premere sopra i suoi zigomi, poi il bisogno di strizzare gli occhi, di
stropicciare le palpebre. Cominciò a piangere.
Celia
si
trovava all’entrata est del Ponte Sirma, costruzione che permetteva
l’attraversamento del fiume Eridano, arteria principale di Sidera, lungo
corso
d’acqua che la tagliava in due metà. Per un attimo chiuse gli occhi,
immaginò
tutto il suo viaggio. Poi un leggero tocco sulla spalla da parte di Gel,
il suo
Reuniclus che la seguiva fluttuando, la riportò alla realtà.
–
Andiamo... – sussurrò lei annuendo al compagno.
Celia
percorse
il ponte tutto di corsa, trattenendo il respiro. Al termine di questo,
venne avvolta dalla natura, gli alberi sembravano crescere attorno a lei
mano a
mano che i suoi stivaletti calpestavano il terreno. La sua direzione era
Vulpiapoli e ogni tanto il suo occhio
tornava alla Mappa Città implementata come una delle tante
funzioni del
PokéNet. Non voleva perdere di vista l’obbiettivo.
Mantenne
un
ritmo costante per tutto il tragitto, fino all’ora di pranzo. Lì si
fermò e,
tirati fuori dei sandwich per lei e dei poffin per Gel, desinò seduta su
una
roccia coperta di muschio secco. Rialzandosi, avvertì immediatamente un
lieve
dolore ai polpacci, ma non gli dette così tanta importanza. Il suo
cammino,
come una perfetta esecuzione orchestrale ogni tanto sporcata dalle aspre
note
di uno o due violinisti disattenti, riprese toccato a intervalli
regolari dal
lieve stress muscolare fin quando, attorno alle quattro del pomeriggio,
la
ragazza decise di fermarsi, riconoscere e possibilmente medicare
finalmente
quel male che minacciava di attentare alla sua positività.
–
Uff...
– sospirò Celia sedendosi ai piedi della corteccia di un albero cavo.
Rapidamente
identificò
la fascia muscolare che le procurava quel fastidio in continua
crescita. Cominciò un inesperto ma efficace massaggio e in poco tempo
quel nodo decise di
sciogliersi. Provò a liberare
entrambe le gambe. Dopo qualche minuto, quando il dolore fu
apparentemente
scomparso, Celia tornò in piedi.
–
Facciamo che questa è la prima e l’ultima volta che mi fa male, ok? –
parlò
alle sue gambe.
La
ragazza
mosse appena due passi, sollevò lo sguardo e si trovò davanti un uomo.
Questi sostava ad un paio di metri di distanza da lei, guardandola con
fare
leggermente interdetto.
Celia
in
un primo momento non ebbe reazioni, quindi rivolse al tipo un sorriso
imbarazzato.
–
Buongiorno – la salutò l’uomo in tono gioviale.
–
Salve –
ricambiò lei con voce un poco ebete.
La
bionda
squadrò il soggetto, il tipo la fissava dai suoi occhi scuri celati
sotto una
cascata di capelli blu, aveva una corporatura muscolosa e un volto
liscio e
pulito. Con una mano stringeva una sacca che passava sopra la sua spalla
e gli
cadeva appoggiata alla schiena, morbida, come fosse vuota. I suoi
vestiti erano
semplici, una canotta scura senza maniche e priva di scritte o disegni e
un
paio di pantaloni larghi, pantaloni da dojo, stretti alle caviglie,
anch’essi
scuri.
Celia
non
staccò gli occhi dall’uomo per una manciata di secondi. Quello
approcciò. –
Perdonami se ti ho infastidito mentre intrattenevi un animato discorso
con le
tue gambe, io sono Antares. – sorrise avvicinandosi a lei e porgendole
la mano.
La
ragazza
si accorse di aver già sentito quel nome. Le sue sinapsi si
ricollegarono rapidamente e, dopo alcuni millisecondi, lei si rese conto
di
aver davanti il Campione della Lega di Sidera.
–
Oh
cavolo, ma tu sei il Campione! – esclamò stringendogli l’arto intero più
che la
mano.
Antares
annuì.
Aveva imparato come funzionava, quando diceva il suo nome arrivava
immediatamente il vento della fama a scompigliare i suoi lunghi capelli
blu.
–
Che
cosa ci fai in questo posto? – chiese invadente Celia.
–
Avevo
delle... – spostò tutto sul vago. – ...cose da fare. Tu, piuttosto, sei
mica...
– dette uno sguardo al dispositivo che la ragazza portava al polso. –
...l’Allenatrice scelta da Willow?
Con
una
faccia un poco incredula un poco ammaliata, Celia annuì.
–
Ah! Sei
Celia! Ragazza, non sai quante ricerche fatte su di te dal Professore ho
dovuto
leggere e approvare perché fossi tu quella destinata a prendere quel
PokéNet –
esclamò espansivo e sorridente. – Allora? Hai intenzione di battere le
palestre? – domandò interessato l’uomo.
–
Eh, sì,
pensavo di iniziare da Vulpiapoli, sono diretta lì a dire il vero... –
rispose
la bionda.
–
Ma
perché dovresti perdere tempo? Vieni, ti ci porto io! – propose Antares.
L’uomo
prese
una Ball dalla sua cintura e in un attimo un gigantesco Charizard si
interpose tra i due. Celia, senza neanche riflettere, accettò e si fece
caricare dal lucertolone. Dieci minuti scarsi e una traversata
rapidissima
della campagna che li separava da Vulpiapoli e la ragazza era davanti
alla
palestra di Arturo, maestro di tipo Normale
della regione.
–
Diamoci
una mossa! – fece entusiasta Antares.
I
due
entrarono nella struttura la quale si presentava esternamente come uno
scatolone, un cubo di colore rosso scuro. All’interno invece rivelava la
sua
identità: la palestra Pokémon di Vulpiapoli ospitava una vera e propria
palestra, quella con i bilancieri e i tapis roulant. Casistica
impossibile più
che improbabile. I due, entrando, furono subito avvolti da quell’odore
aspro e
metallico misto all’aroma di olio da muscoli e a un retrogusto di
sudore. Il
tutto però purificato dalla benevolenza cara e dolce dell’aria
condizionata
impostata a livello plutone.
Celia
rimase
interrogativa e un pizzico a disagio. Lei, piccola ragazzina in mezzo ai
quei colossi pompati con i bicipiti unti e scolpiti, si sentiva un
piccolo
Wooper in mezzo a dei Bouffalant.
–
Arturo!
– esclamò Antares facendo un gesto con la mano in direzione di un
bancone nascosto
in un angolo poco lontano dall’entrata. – Vieni a vedere chi ho qui! –
proseguì
il Campione.
Da
dietro
quella sorta di scrivania, un ragazzo massiccio e muscoloso si eresse
fiero e
marmoreo. Capelli rasati quasi a zero, una barba biondiccia e
disimpegnata e
dei bicipiti scolpiti. Celia era interdetta. Arturo, il Capopalestra,
era a
petto nudo con un asciugamano appoggiato sulle sue spalle larghe, la sua
pelle
lucida di sudore faceva capire che il ragazzo stava facendo esercizi o
che
aveva smesso da poco. In una mano stringeva un foglio scarabocchiato e
nell’altra una penna, che fu posata alcuni istanti dopo.
–
Antares! – salutò sorridente il biondo riconoscendo il Campione che era
entrato
nella sua palestra e dirigendosi verso di lui. – ...tieni, questa è la
scheda,
deltoidi e tricipiti per questa settimana... – sussurrò poi rivolto ad
uno dei
ragazzi a lui vicini e porgendogli il foglio scarabocchiato. – Allora,
come
vanno le cose nei piani alti? – chiese entusiasta tornando a
concentrarsi
sull’ospite.
–
Tutto
bene, era da un po’ che mi ero riproposto di venire a farti visita, ho
bisogno
anche io di muovermi un pochino – scherzò Antares.
In
tutto
questo Celia era rimasta piccola piccola nel suo silenzio senza osare
intromettersi tra i due.
–
Eh... –
Arturo, ormai prossimo al Campione, si mise a studiare il soggetto che
aveva
davanti. – Devi lavorare un po’ di più sul petto... – mormorò serissimo.
–
Dai,
roccia, a questo pensiamo un’altra volta, guarda invece chi ti ho
portato! –
esclamò sorridente Antares prendendo sotto braccio la bionda e
indicandola con
la mano libera al Capopalestra.
Arturo
la
scrutò per un interminabile minuto con occhi titubanti e un pizzico
delusi. –
Ma è maggiorenne? – chiese ancor più serio di prima.
–
Lei è
Celia – ribatté con aria anti-sarcastica il Campione. – Una degli
Allenatori
scelti da Willow. – aggiunse.
–
Oh! –
concretizzò Arturo con la faccia contorta in una smorfia imbarazzata e
prolungando quel oh per una
decina di
secondi buoni. – Hai fatto bene a portarmela, così mi rendo conto di chi
si
tratta... – cercò espedienti.
–
Salve –
salutò a bassa voce Celia con volto sorridente per convenzione ancora
stritolata dal braccio di Antares.
–
Allora,
vogliamo darle una medaglia? – chiese il Campione stupendo non poco la
ragazza.
Per
un
primo momento nessuna risposta venne fuori dall’espressione atona di
Arturo. –
Ovviamente, deve solo venire con me... – sorrise poi.
La
scenetta
andò avanti, la magia si ruppe solo per un istante quando l’uomo, giunto
al bancone seguito come un ombra poco sicura da Celia, presa da un
cassetto una
medaglia raffigurante una specie di V di colore bianco con il primo
braccio più
largo del secondo, vagamente somigliante ad un arto nell’atto della
contrazione
del bicipite, proferì un “tieni”
talmente greve da far quasi asciugare il sudore che gli imperlava la
fronte.
Ma
Celia
non lo notò, lei prese la medaglia Centauro
felice, senza ascoltare il Capopalestra, orgogliosa come se avesse vinto
lei,
grazie al suo talento, quella targhetta tanto ambita.
La
bionda
si diresse da Antares, lo ringraziò educatamente e scomparve
oltrepassando per
la seconda volta la porta di quella palestra-palestra.
Arturo
la
fissò fino all’ultimo secondo, così come il Campione. E anche quando
ella fu
finalmente scomparsa alla loro vista, i due continuarono a guardare
nella
stessa direzione, con volto serio, come avessero davanti il più bel
tramonto
della storia. Uno accanto all’altro.
Antares
lasciò
andare un sospiro. Arturo lo imitò.
Il
Capopalestra
aprì timidamente bocca: – Il professore...
–
È una
carogna – lo interruppe precipitosamente il Campione della Lega di
Sidera. Con
voce greve. – Ha quattordici anni...! – esclamò con voce soffocata e
fare
altamente incazzato gettando a terra la sacca che aveva in spalla.
“Bosco
Lira
oltrepassato!” pensava Xavier mentre guardava la Ball del Pumpkaboo
appena
catturato attaccata alla sua cintura.
Aveva
impiegato
tutta la mattinata e altre ore dopo il pranzo per attraversare la
fitta selva che era il Bosco Lira. Si era rivelato un viaggio semplice
ma al
contempo un po’ noioso, quindi il ragazzo aveva deciso di sconfiggere
alcuni
Pokémon selvatici. Nel farlo, gli era venuto in mente di catturare un
esemplare
da aggiungere alla sua squadra e quel Pumpkaboo lo aveva convinto.
Accanto al
suo Eelektross, compagno di ogni sua avventura e unico Pokémon che aveva
deciso
di portarsi dietro, sembrava un po’ deboluccio, ma Xavier si era
ripromesso di
allenarlo con cura in modo da rendere la sua squadra una delle più
potenti di
Sidera. Puntava alla Lega, lui.
Il
bosco
era finito, ma c’era ancora un bel pezzo di strada da fare. Inoltre, il
caldo
si faceva sentire. Il ragazzo aveva percorso la prima metà del viaggio
all’ombra della chioma degli alberi, ma dopo quella lo attendevano
almeno altre
tre ore di cammino sotto il sole cocente. Tre ore durante le quali
sarebbe
stato impossibilitato all’uso di Eelektross, poiché esporre la sua pelle
umida
alla troppa luce solare si sarebbe potuto rivelare fatale, e ciò lo
avrebbe
invalidato sul fronte delle lotte.
Intelligente
e
propenso alla riflessione e all’analisi, il ragazzo aveva deciso di
fermarsi
nel primo Centro Pokémon e ricominciare il viaggio al calar del sole.
Provvidenza.
Un
complesso di un paio di edifici dal tetto rosso si presentò davanti a
lui
dopo soli altri due minuti di cammino. Era un grande Centro Pokémon
adibito
all’accoglienza di viaggiatori. Non aveva neanche chiesto al PokéNet se
ce ne
fosse uno nelle vicinanze, la sua presenza rientrava in una di quelle
certezze
che si acquisiscono dopo anni di vagabondaggio nelle regioni.
Xavier
entrò
spalancando col pensiero, come adorava pensarla, la porta di vetro
automatica.
Davanti
a
lui tutto si mostrò un intricato reticolo di corridoi, terrazze,
banconi, il
tutto sparso e distribuito su tre diversi piani di altezza. Non era
pienissimo,
ma delle persone c’erano, Allenatori principianti intenti a negoziare
con le
cassiere dei market a proposito del prezzo troppo alto delle Iperpozioni
e
esploratori necessitanti di indumenti da trekking nuovi. Xavier aveva le
sue
belle convinzioni circa quei soggetti. D’estate iniziano a viaggiare per
le
regioni cani e porci, dagli Allenatori itineranti più scarsi a tutta una
serie
di persone che il ragazzo non riteneva degna
di
tenere in mano una Ultra Ball. Era quindi sicuro di non voler
mischiarsi
con quella gentaglia là dentro e rimanere il più possibile fuori da ogni
gruppetto di persone.
“Ragazzini...”
pensava.
Subito
si
mise alla ricerca di un bar. Lo trovò poco dopo, un caffè della stessa
catena
di quelli che vendevano Conostropoli a Unima. Prese un gelato, era
agosto. Per
un momento sentì nostalgia della frenetica e caotica Austropoli. Dopo un
po’ anche
l’ultima punta di cono andò giù. Si sentiva più fresco dopo quel piccolo
spuntino.
Xavier
si
diresse verso i bagni. Entrò, espletò le funzioni primarie, quindi si
sciacquo
il volto e si diede una rinfrescata al corpo. Portava una maglia leggera
e dei
bermuda abbinati, ma l’acqua era l’unica cosa che veramente lo salvava
dalla
autocombustione spontanea.
Il
ragazzo
decise di fermarsi per un po’. Trovò una poltrona in una sala d’attesa,
affidò con tutta calma i suoi due Pokémon ad un infermiera e prese tra
le mani
una rivista, con l’intenzione di occupare quelle ore che lo separavano
dal
tramonto.
Si
trovò
a leggere “Chicret”, rivista
volta
all’informazione e all’aggiornamento nell’ambito della moda. Notò un
articolo
riguardante una nuova promessa delle gare Pokémon di Hoenn, chiamata
Orthilla,
la foto della ragazza lo aveva colpito. Adorava quelle col visino
innocente, la
maggior parte delle volte si rivelavano essere quelle più perverse. Il
resto
del magazine lo annoiava.
“Professor
Willow?”
udì poi poco lontano.
Xavier
tese
l’orecchio.
“Lo
conosci?”
udì ancora.
Cercò
di
dare uno sguardo e capire che stesse parlando del prof. Con la coda
dell’occhio
intravide due Picnic Girl. Ragazzine di età che si aggirava tra i dieci
e gli
undici anni.
–
Dicono
sia l’unico Professor Pokémon che non abbia mai formato dei Pokédex
Holder –
rise la prima, quella più bassa.
–
Magari
è solo incapace, non ho mai letto un articolo sui Pokémon scritto da
questo
Jason Willow... – aggiunse l’altra.
Xavier
le
ascoltava divertito mentre con il dito carezzava il suo PokéNet nuovo di
zecca.
“Vedrete
chi
è che chiamerete incapace una volta che questo gioiello sarà messo sul
mercato...” pensava.
Kalut
fissava
la sua mano. Ormai aveva smesso di cercare di separarsene e stava
lottando mentalmente per evitare di farsi spaventare ancora. Le
lacrime gli si
erano asciugate, o forse gli erano finite. Il Venipede, lasciato il
suo assetto
difensivo, sostava dietro un cespuglio, lontano dall’umano e lo
fissava, lo
fissava come ipnotizzato.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi era abbattuto, non sapeva come reagire, non sapeva
cosa fare e non sapeva cosa inventarsi. Non avvertiva
più dolore ma il suo codice genetico
non gli permetteva di smettere di preoccuparsi per le ferite. Il poco
sangue
che era sgorgato si era ormai raggrumato sulla sua mano. Lui
attendeva, un
altro colpo, un aiuto, attendeva.
Ad
un
certo punto. Senti qualcosa muoversi dietro il suo collo, qualcosa
vibrare,
come un leggero fremere. Automaticamente, per autodifesa, portò la
mano al
collo e, non trovandovi niente sostenne inconsciamente che quella
sensazione
fosse sparita. Non era così.
I
suoi occhi iniziarono a farsi preoccupati, il suo sguardo sempre meno
sicuro,
le sue lacrime pronte a uscire di nuovo.
–
Venipede! – gridò senza volerlo.
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