Il canto del Cigno
«Ma come è possibile? Che siano successe tutte queste cose, intendo»
Guardai la donna posare la sua penna sopra il suo blocconote, portarsi gli occhiali sulla fronte spostando la sua frangia castana.
Gli occhi erano perplessi, le sopracciglia corrucciate e la gamba si muoveva nervosamente. Le dita della mano destra ticchettavano, le unghie laccate di rosso.
Era evidente che quella donna non appartenesse a quest’ambiente.
Il tailleur grigio che indossava era decisamente troppo elegante per qualcuno che si svegliava presto la mattina e andava a lavorare nei campi, le mani curate e senza calli, la carnagione lattea e le labbra soffici.
Niente rughe dovute al sole, né bocca screpolata a causa del freddo. Nessuna lentiggine o imperfezione, niente che facesse pensare che quella potesse aver vissuto in un pesino di campagna per tutta la vita.
Eppure l’avevo vista, non che abbia vissuto così a lungo, né che possa sapere di ogni singolo abitante di questo buco sperduto, ma l’ho vista.
Foto appese ai muri dell’ufficio del sindaco, stessi capelli castani e occhi verdastri, magari la faccia era più pingue in quelle immagini, ma indubbiamente aveva gli identici lineamenti del padre.
Scrollai le spalle, sistemandomi meglio la tracolla.
«Sono storie che mi raccontava mia nonna, non posso certamente garantire per la loro veridicità, Signora»
«Signorina» mi corresse.
Quale differenza ci fosse, non l’ho mai capita. E non mi è mai servito per andare avanti in questa vita, tuttavia annuii e mi corressi sottovoce.
«Ti dispiace se ti faccio qualche altra domanda?» mi chiese, sistemando il blocconote nella sua borsa e mettendo la penna in una tasca della giacca.
Scrollata di spalle.
«È okay»
Annuì anche lei, chiedendo se fosse meglio dirigersi verso un posto più riparato dal vento freddo che tirava quel giorno. Non che gli altri giorni fosse diverso, ma le dissi che casa mia non era tanto distante e che potevo offrirle un the.
«Sarebbe molto gentile da parte tua» mi sorrise, e nonostante sembrasse sincero riuscii a percepire l’ansia e il dubbio dietro di esso.
Quando arrivammo a casa mia le scostai la porta, facendola entrare per prima. Non sapevo se quello fosse il comportamento che il bon ton volesse, ma siccome la donna non si fece problemi entrai dopo di lei.
«Si accomodi pure, Signorina» le indicai un paio di poltrone nel salotto rustico appena dopo l’entrata e lei annuì come per trovare coraggio.
«Vuole il the?»
«Sarebbe molto gradito, grazie» mi rispose, accavallando le gambe e tirando fuori il suo blocconote.
Quando tornai con due tazze piene di liquido fumante lei ne prese un sorso, per poi posarla sopra il tavolo da caffè con un orribile centrino cucito a mano.
«Allora, che domande voleva farmi?» le chiesi, scaldandomi le mani con la tazza.
Avevo ancora l’uniforme della scuola, ma non pensavo potesse interessare qualcosa a quella donna quindi non mi tolsi nemmeno la giacca.
Mia madre aveva probabilmente spento il riscaldamento prima di uscire quella mattina, quindi la casa era ancora fredda e illuminata di una luce del pomeriggio, che sembrava quasi alogena.
«Da quanto ti vengono narrate queste storie?» mi chiese, guardandomi direttamente negli occhi.
«Uhm... ho diciassette anni e da che ricordo le ho sentite da quando ero piccolo... all’incirca da quando avevo tre anni»
«Non hai nessuna idea di quanto la tradizione sia iniziata?»
«Probabilmente tre generazioni fa, non lo so. Come mai le interessa? Non me lo ha ancora detto»
La vidi muovere una gamba nervosamente, alzando il piede da terra e facendo battere il tacco della scarpa con un ritmo sconclusionato.
«Sto scrivendo un articolo sulle tradizioni dell’est...» rispose senza troppo interesse. Quasi come se la cosa non fosse realmente importante.
«Sono sempre state riguardanti la morte?»
Scrollai le spalle.
«Da quel che ricordo»
«Le racconterai ai tuoi figli, un giorno? Per tradizione?»
«Non so» risposi semplicemente.
«È un’ipotesi, non sto implicando il fatto che tu debba avere figli» mi sorrise gentilmente, come se quello fosse il problema principale.
Scrollai la testa.
«Non è quello che intendevo, Signorina. Non so se voglio raccontare quelle storie ad un mio possibile bambino»
Presi un altro sorso di the, mentre la giornalista corrucciava le sopracciglia.
«Come mai?»
Alzai le spalle, posando la tazza di the sopra il tavolino al centro del salotto.
«Ho visto quello che fanno alle persone. Non continuiamo a raccontarle perché fanno parte della nostra tradizione, né per superstizione. Continuiamo a raccontarle perché abbiamo paura e perché sappiamo»
«Cosa sapete?»
«Che i Pokémon non sono sempre dalla nostra parte» le dissi, lanciandole un’occhiata da dietro un ciuffo di capelli ribelle.
«Suvvia, credi davvero che quelle favole siano vere?» ridacchiò nervosamente.
«Sì»
«Sì?»
«Sì» ripetei di nuovo. Mi alzai per posare la mia tazza nel lavabo e poi tornai a sedermi sulla poltrona.
«Anche voi avete visto quello che è successo con Elisio e il Pokémon Leggendario, i Pokémon non stavano impazzendo, stavano aprendo gli occhi»
«Oh, tutto quel disastro era accaduto solamente perché il Team Flare aveva iniziato a sfruttare i Pokémon, non crederai davvero che ci possano odiare?»
«Perché no? Se io posso odiare qualcuno come potrebbero non farlo loro?»
«Ma addirittura assassinare...?» la giornalista scosse la testa.
«Vale lo stesso. Io posso uccidere qualcuno, loro possono farlo ancora più facilmente e senza essere sospettati»
«Ma quindi, tutte queste sette favole venivano raccontate per cosa?» sviò l’argomento.
«Presumo per ricordare, per non farlo accadere di nuovo, perché le anime corrotte e putrefatte esistono e i peccati non sono estranei a nessuno»
«Parli molto bene per essere un diciassettenne che frequenta una scuola statale» borbottò sottovoce.
Scrollai le spalle, di nuovo.
«Abbiamo finito?»
«Un’ultima domanda, più tecnica che altro. Queste storie venivano raccontate ognuna un giorno diverso?»
Annuii.
«Beh, abbiamo finito allora. Grazie mille per la collaborazione»
«Non si preoccupi» mi alzai e l’accompagnai alla porta.
Nonostante portasse un paio di tacchi ero comunque più alto di lei.
«Le dimenticherà anche lei, vero?»
«Che cosa?»
«Le favole. Le dimenticherà, giusto?»
La giornalista scrollò le spalle, sistemandosi la borsa sulla spalla.
«Sono solo favole»
Annuii.
«Suppongo di sì. Faccia attenzione mentre torna a Luminopoli»
Mi sorrise, come se avesse interpretato ciò che avevo detto come un semplice augurio di buon rientro.
Quando fu lontano, quando ebbe girato l’angolo, entrai in casa.
Dalle scale scese il Sylveon di famiglia; aveva il pelo più irsuto e folto a causa della vita che faceva: sempre fuori a rincorrere Rattata.
«Ehi» lo salutai, chinandomi per carezzargli dietro le orecchie.
Mi guardò con i suoi grandi occhi azzurri, che sembravano tanto innocenti.
«Dimenticherà anche lei, dimenticano tutti» gli sussurrai, mentre strusciava il muso nel mio palmo.
Grattai via una crosta da dietro il suo orecchio e il pelo bianco sopra il suo mento era leggermente sporco di rosso.
«So che ti stava antipatico, ma potevi ridurti a misure meno drastiche» ridacchiai, osservandolo pulirsi il pelo con la lingua lunga e quasi biforcuta.
Dimenticherà, mi dissi, dimenticano tutti e per questo tutto ricomincerà.
Carissimi ragazzi e ragazze, prendo le sembianze di Papa Franceso per dirvi: grazie.
Mi rivolgo soprattutto al pubblico di Pokémon Courage, che nonostante il mio continuo ritardo e le complicazioni [ a mia discolpa posso dire per causa maggiore ], hanno continuato a leggere la mia storia. Non so quanto possiate averla goduta, ma questa storia significa davvero per me.
L'idea era di mio fratello, con la sua fissa per Tim Burton e proprio grazie a lui ho trovato queste immagini. Alcune cose sono andate male, e queste cose mi hanno fatto solamente legare di più alla mia storia. È piena di imperfezioni, se probabilmente me la sottoponessero per essere scelta come storia d'esordio, storcerei il naso e direi che "magari è anche una bella idea, ma non merita".
Quando ho iniziato a scrivere questa storia ero relativamente felice.
Ho smesso a metà, perché non riuscivo più a portarla avanti, e poi Andy mi viene a dire che "Senti, qua dobbiamo pubblicare qualcosa di tuo"
E io sono "Perché no? Riprendiamola, facciamo vedere che non me ne frega niente":
Così ho continuato.
Dovete sapere una cosa di me: non mi affeziono mai. Mi verrete a dire che è una cosa impossibile, ma non mi sono affezionata mai a nessuna storia. Molte sono state interpretate male. Silenzio è stata regalata per sbaglio a qualcuno che non la meritava, perché non ha fatto niente per me. Quella persona può pensare che sia ancora per lui, ma posso garantire che Silenzio è stata scritta per me e per me soltanto.
Ma comunque, non mi affeziono. Se una persona a cui tengo mi venisse a dire che vorrebbe lasciare tutti i rapporti con me, magari piangerei e tenterei di arginare, ma dopo un giorno lascerei perdere.
Non mi affeziono, so portare rancore molto bene, ma non mi affeziono.
E lo stesso vale per questa storia.
Questo epilogo - questo canto del cigno - è una fine come un'altra. Di una storia come un'altra, che magari fosse stata narrata da un'altra sarebbe ancora migliore.
Non ringrazierò nessuno in particolare in questa piccola nota a piè di pagina, non dirò niente di strappalacrime, non lo sento questo distacco. Ho finito una storia, ma non sento in alcun modo la nostalgia di essa.
E forse mi verrete a dire "ma magari non era la storia giusta" e io vi risponderò con un sorriso e una scrollata di spalle.
Perché nella vita mi hanno detto che "dovevo aspettare la persona giusta", in vari aspetti [dalla mia sessualità, al mio rapporto con il prossimo, a persino a cosa mangiavo per pranzo], ma no.
Semplicemente sono così.
Non mi affeziono e probabilmente, anche se sono davvero riconoscente a tutti voi, non riuscirete a farmi affezionare alla vostra persona.
L'unica che ci è riuscita è Weep, ma la nostra è una storia d'amore controversa che non può essere spiegata in una nota.
E beh, niente.
Un inchino,
Cyber.
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