Capitolo
6 -
Scoperta
“Cureremo
il Pokémon,
faremo del nostro meglio.” aveva detto in tono rassicurante
l’infermiera.
Celia
era nella sala
d’attesa del Centro Pokémon. La sera stava scendendo su Sidera e lei
aspettava,
aspettava che un qualche aggiornamento giungesse dall’equipe di dottori
che si
stavano occupando di Gible ormai da diverso tempo. Tra le mani aveva un
bicchiere di polistirolo dal quale aveva bevuto poco prima. Odiava quei
bicchieri, capiva che la loro peculiarità nell’essere di quel materiale
così
poco resistente stesse proprio nell’essere usa e getta, in modo da
prevenire la
diffusione di un possibile morbo giustamente contraibile in luogo come
un
ospedale, ma li odiava. Le davano un senso di precarietà, di debolezza,
di
fragilità, e in quel momento lei aveva bisogno di sicurezza, sicurezza
d’acciaio.
Attorno
a lei c’erano
poltrone vuote. Un solo ragazzo, sdraiato su una di esse, giaceva
immobile con
una rivista in faccia. Sembrava addormentato.
Celia
gesticolava
nervosa giochicchiando col bicchiere che aveva in mano, generando un
rumore
abbastanza fastidioso.
–
Ti pagano mica per il
concertino? – mormorò sarcastico il ragazzo da sotto la sua rivista, ad
un
certo punto.
Celia
si voltò verso di
lui. Impiegò un po’ per capire che la domanda fosse rivolta a lei.
–
Scusa...? – domandò
insicura.
–
Ti pagano per
svegliarmi a suon di polistirolo? – precisò l’individuo sollevandosi e
togliendosi la rivista dal volto.
Celia
lo scrutò. Era
giovane, le sorrideva, portava una felpa nera con la scritta “One
Soul”, e dei jeans larghi, era
castano, con gli occhi nocciola.
–
...n-no... – balbettò
disattenta. Un particolare aveva catturato la sua attenzione. I suoi
occhi non
la ingannavano, da dietro la felpa del ragazzo, spuntava un nodo di
cravatta,
un colletto inamidato e una giacca nera elegante.
Fissò
il collo della
persona che aveva davanti come per accertarsi che ciò che vedeva non
fosse uno
scherzo della sua vista.
Lui
ovviamente lo notò.
– Cerchi qualcosa? – domandò sorridente abbassandosi e intercettando la
linea
del suo sguardo.
Celia
venne colta alla
sprovvista. – Io? No, non... non è nulla... – La ragazza si alzò in
piedi e
raccolse la sua borsa.
–
Ehi, ma dove...?
–
Scusami, ma ho da
fare. – tagliò corto la bionda.
Abbandonò
il ragazzo che
non prese proprio benissimo la cosa e si chiuse nel bagno. Trasse un
sospiro.
Era ancora appoggiata alla porta. Si sciacquò il volto, fece mente
locale,
chiarì momentaneamente la confusione. Si accorse che non era poi così
orribile
la situazione, stava andando bene, era solo un Gible selvatico quello
per cui
si stava preoccupando tanto. Tecnicamente era il suo, l’aveva catturato,
ma
soltanto da alcune ore.
Uscì
dal bagno dopo
dieci minuti contati. La prima cosa che vide fu il
ragazzo-giacca-sotto-la-felpa
conversare con un medico.
–
È entrata nel bagno,
dovrebbe essere di ritorno a br... - diceva il castano.
–
Dottore, come sta
Gible? – intervenne Celia spuntando alle spalle dell’uomo in camice.
Il
medico si voltò.
–
Signorina, il suo
Pokémon si sta rimettendo, – La bionda poté liberarsi di un peso che
gravava
sul suo stomaco. – è stato molto fortunato, gli effetti della sua Cura
Ball le hanno
molto probabilmente salvato la vita – confermò il medico.
–
Grazie mille, quando
posso ritirarlo? – chiese Celia stringendo la mano all’uomo.
–
Mh, io le consiglierei
di farle passare la notte in pace, domani potrete ripartire, ma mi
raccomando,
non sottoporla ad uno sforzo eccessivo per i primi tempi, occupati di
lei. –
raccomandò il medico.
–
Uh? È femmina? –
domandò la bionda.
–
Ed è anche
giovanissima, lei è un’Allenatrice signorina...?
–
Celia, mi chiamo
Celia. Sì, sono in viaggio per vincere le medaglie di Sidera – rispose.
–
Beh, sicuramente una
volta che si sarà evoluta avrà un Pokémon davvero forte e fedele in
squadra –
il medico fece per andarsene. Si girò verso la bionda all’ultimo
momento. – Ha
la pellaccia dura – concluse prima di voltarsi e sparire nel corridoio.
Celia
raggiunse la
stanza in cui stava riposando il secondo membro della sua squadra. Gible
era in
un lettino ricurvo studiato appositamente per i Pokémon di piccole
dimensioni,
aveva un’espressione serena in volto. Alcune bende erano avvolte attorno
ai
punti più delicati come le giunture o la pinna che aveva sopra la testa,
ma non
vi era traccia di emorragie o ferite gravi. Era felice che stesse bene,
ma non
lo aveva catturato per “non sottoporlo ad uno sforzo eccessivo”. Aveva
bisogno
di un compagno che la aiutasse nelle lotte.
–
Mi serve Karma... –
sussurrò tra sé e sé.
Julie
stava mettendo a
dormire i Wurmple. Curava i loro bozzoli bianchi e lilla appena
iniziati,
faceva sì che nessuna scoria, foglia secca o rametto si impigliasse
nella seta
da loro prodotta. Una voce giunse dallo stabilimento dell’allevamento. “Julie, ti cercano al telefono!”.
Era
sua mamma.
–
Arrivo ma’! – rispose
lei.
Percorse
velocemente
tutto il prato, Volbeat e Illumise le facevano strada con le loro luci
nell’oscurità della notte.
Giunse
da sua mamma che,
in vestaglia, la aspettava con la cornetta in mano. Julie fece un gesto
alla
madre con la mano come per chiedere chi fosse a cercarla a quell’ora, il
labiale della madre le rispose il nome “Celia”.
–
Celia, dimmi, come va
il viaggio? – salutò la castana.
–
Tutto bene, grazie per
l’interessamento – rispose la bionda dall’altro capo, parlando alla
cornetta
del telefono del Centro Pokémon. – Julie, mi serve Karma – tagliò corto.
– Puoi
mica mandarmelo al Centro Pokémon Ospedaliero di Costa Mirach? –
domandò.
–
Ehm... va bene, te lo
invio immediatamente se vuoi... – rispose Julie.
–
Grazie mille, ti devo
salutare adesso, sei dolcissima, ciao! – Celia riattaccò.
Julie
rimase un momento
interdetta per la brevità della telefonata, la bionda sorella di Xavier
non era
mai stata così precipitosa, non che lei ricordasse.
La
mora raggiunse un
mobile al lato della sala, lo aprì e iniziò a cercare. Esso conteneva le
Ball
degli Allenatori che avevano lasciato i loro Pokémon all’allevamento,
tutte
ordinate e disposte correttamente, ognuna di esse aveva una targhetta
con su
scritti i dati essenziali riguardanti l’esemplare di appartenenza.
Prese
in mano una Ultra
Ball con attaccato un’etichetta cartacea bianca con su scritto “Celia
Ellison, Skarmory, femmina, Karma”.
Tornò fuori.
Si
diresse verso la
parte di giardino in cui avevano disposto dei giganteschi massi per far
adattare i Pokémon più abituati ad un ambiente montano.
–
Karma! – chiamò senza
gridare troppo.
Pochi
secondi e poi un
potente Pokémon Armuccello con due battiti d’ali sorse da dietro il
massiccio
per atterrare, spostando ingenti quantità d’aria, davanti a lei. Emise
il suo
verso acuto.
–
La tua allenatrice ha
bisogno di te, bella... – gli sussurrò l’Allevatrice carezzandola e
poggiando
sul suo corpo la Ball. La Skarmory scomparve all’interno della sfera.
Celia
attendeva davanti al
dispositivo di trasferimento Pokémon. Aveva già chiesto il permesso di
utilizzarlo
all’infermiera che aveva il turno al bancone principale quella notte.
Aspettava
la sua Skarmory, Pokémon che aveva catturato a Johto accompagnando
Xavier in
uno dei suoi viaggi. Insieme avevano attraversato le regioni di Unima,
Johto e
Kanto, lei aveva persino ottenuto le medaglie di quest’ultima, oltre
quelle
della sua regione originaria. Ovviamente durante questi itinerari
lontani da
casa aveva approfittato per costruirsi un team coi fiocchi con il quale
aveva
viaggiato praticamente sempre. Prima di iniziare la gita a Sidera, però,
aveva
deciso di ricominciare tutto da capo e lasciare tutta la sua squadra,
escluso
Gel, all’allevamento della ragazza di suo fratello. Cosa simile aveva
fatto
Xavier che diversamente, aveva catturato molti più Pokémon in ogni
regione attraversata,
ma ne aveva liberata la maggior parte alla conclusione del viaggio. Si
era
ritrovato alla fine con tre soli esemplari tra le mani e uno di questi
era il
suo Eelektross. Diceva di volersi costruire una squadra composta dai “membri più forti delle squadre”.
Un
suono svegliò Celia
dal suo flusso di coscienza. La richiesta di trasferimento da parte
dell’Allevamento Pokémon di Delfisia richiedeva di essere accettata sul
monitor
del dispositivo. Lei premette il tasto OK.
Avvertì
un ronzio
leggero, una luce all’interno della capsula di trasferimento, quindi la
sua
Ultra Ball si materializzò nel dispositivo. La ragazza la prese in mano,
la sua
pelle fu solleticata dall’elettricità statica quando entrò in contatto
con la
sfera nera e gialla. Lo sguardo di Celia oltrepassò il vetro traslucido,
un’assopita Skarmory riposava serena nella sua mano. La sua compagna
così
possente si faceva così minuscola una volta chiusa dentro la sua capsula
La
ragazza mise la Ball
a posto nella borsa, accanto a quella con dentro Gel e a quella vuota
assegnata
a Gible. Aveva sonno. Voleva andare a dormire. Le indicazioni per
trovare le
stanze da letto per i viaggiatori all’interno del complesso dedalo che
era
quell’enorme Centro Pokémon Ospedaliero gli furono date dall’infermiera.
Ripassando nella sala d’accoglienza, la bionda si accorse che il ragazzo
con i
capelli castani era scomparso, nessuno sedeva più sui divanetti rossi.
Una
triste atmosfera cupa aleggiava in quella stanza, rallegrata solamente
dal
brusio prodotto dal Tg notturno in onda sul maxi schermo sopra il
bancone
centrale, il suo volume era stato drasticamente abbassato. Si rese conto
che
era estremamente inquietante il panorama, guardando fuori attraverso il
vetro
della porta e delle finestre si vedeva soltanto il nero, il buio
ambiente
circostante era del tutto occultato agli occhi di chi si trovava
all’interno
del centro dalle luci artificiali perennemente accese. Le venne un
brivido, e
ciò basto a farla correre alla sua cuccetta. La ragazza si spogliò,
indossò un
leggero “pigiama di fortuna” che le impedisse di sudare l’anima durante
la
calda notte di quel trentunesimo giorno di agosto, si sdraiò sulla
branda.
Afferrò
il diario a
forma di tavoletta di cioccolato morsicata e una matita.
“Non
so ancora che
soprannome dare a Gible, Avril, non ho neanche scambiato uno sguardo con
lui.
Penso che dovrei essere preoccupata per le sue condizioni, è comunque un
mio
Pokémon...” scrisse. “...è molto caldo stanotte, il PokéNet dice che ci
sono
trentatre gradi. Domani non ho voglia di rifare tutta la mattinata in
cammino
sotto il sole, spero di incontrare di nuovo Antares...” Qui inserì una
faccina
sorridente. “Se si offrisse di nuovo per accompagnarmi potrei davvero
pensare
male...”
“Ma
scherzi? Secondo me
è un pedofilo, guardati le spalle la prossima volta che lo incontri!” si
rispose.
“Smettila!
È una brava
persona!”
“Celia,
ricordi cosa
diceva la mamma, non devi mai dare completa fiducia a nessuno” si
ricordò.
Per
un istante Celia
smise di scrivere. La sua coscienza tacque, Avril tacque.
“Oggi
ho incontrato un
ragazzo molto particolare, portava un vestito da matrimonio nascosto
sotto una
felpa da skater... sulla felpa aveva scritto One Soul... chissà cosa
vuol
dire...” proseguì.
“Sotto
la felpa? Non
stava morendo di caldo?”
“L’ho
pensato anch’io...
ma, a parte gli scherzi, credo di aver sudato più oggi che in tutta la
mia vita
per quella corsa con la Cura Ball in mano.”
“Mh...
devi farti una
doccia, odori di cadavere di Psyduck morto in maniera atroce.” si
sfotté.
“Hai
ragione...”
“Magari
è per quello che
il ragazzo è fuggito non appena ti sei allontanata” Commentò sarcastica.
Celia
aggiunse un
teschietto al posto del punto in quella frase, chiuse il diario, si alzò
e si
diresse verso il bagno per lavarsi.
Xavier
era nelle stanze
da letto del centro Pokémon della città di Idresia, era steso sulla
branda,
intento ad utilizzare il suo PokéNet tenendolo in mano, non attorno al
polso
come di consuetudine. Aveva chiamato Celia più di una volta, ma non
aveva
ricevuto alcuna risposta. Le prime chiamate andavano a vuoto, le ultime
invece
non partivano neanche poiché la tipa in segreteria diceva che il
dispositivo
del ricevente era spento.
“Impostazioni,
Servizio
satellitare” Il ragazzo navigava tra le impostazioni del suo dispositivo
leggendo mentalmente le scritte sul display. “Radar Allenatori...
dovrebbe
essere questo” pensava.
Si
aprì un interfaccia
olografica che ricordava molto una mappa minimale di colore scuro in
mezzo alla
quale sorgeva un puntino più chiaro. Con estrema probabilità i puntini
non
indicavano gli Allenatori stessi, bensì gli Allenatori dotati di
PokéNet. Era
ambiziosa come approssimazione.
“Questa
è Idresia, e
questo sono io...” ragionò Xavier riferendosi al puntino. “E nei paraggi
Celia
non c’è...”
Fece
un gesto con le
dita stringendo pollice e medio in prossimità dello schermo del PokéNet,
sfiorandolo appena, e l’effetto si riversò sull’ologramma, la cui
immagine si
restrinse, inquadrando una fetta di terreno maggiore. Ora Xavier poteva
vedere
la mappa di tutta Idresia. Scorse un altro punto, più a nord di lui,
indicante
un secondo esemplare di PokéNet. Cliccò sul display e una piccola
finestra si
aprì uscendo dall’icona indicante se stesso. La videata mostrava suoi
dati
Allenatore, la sua scheda, le sue medaglie, la sua età, i Pokémon che
attualmente aveva in squadra, e altre sue informazioni poco importanti.
–
Wow... – Il ragazzo
rimase stupito dall’efficienza dello strumento. Ma non era se stesso che
cercava, sposto l’area interessata muovendosi sul display e centrò il
secondo
puntino. Cliccò.
“Professor
Jason
Willow, profilo bloccato.”
recitava la videata.
–
Ah – sorrise Xavier. –
Già prendi contromisure. – fece sarcastico.
Continuò
la sua ricerca,
gironzolando in tondo attorno alla zona della città-isola di Idresia.
Non
scorse nulla. Quindi si decise e digitò il nome “Celia” sulla barra di ricerca.
L’area
di interessamento
della mappa fece un enorme salto e inquadrò la chiazzetta chiara al
centro
della città di Costa Mirach.
–
È ancora là?! –
esclamò il castano.
Cliccò
sul puntino.
Diceva “Celia Ellison, femmina,
23
febbraio...” E tanti altri dati scritti nella finestra. “In
squadra: Reuniclus, Skarmory, Gible”
Diceva anche.
Kalut
sorrideva,
si era gettato a terra. Il sole era ancora alto nel cielo, era da
poco passato mezzogiorno. Aveva sconfitto il suo primo avversario
insieme al
suo primo Pokémon compagno, ne andava fiero.
–
Dado! Dado! Perché mi scappi sempre?! – udì ad un certo punto.
Lo
sgambettare
tra le fronde lo mise all’erta, qualcos’altro si stava avvicinando,
ma stavolta non riconosceva alcun verso. Alla voce lontana, lo
Staravia esausto
caduto a terra rispose con un lieve cenno del capo e un mugolio
stanco. Kalut
intese che tra l’essere in avvicinamento e il Pokémon sconfitto c’era
un
qualche collegamento.
–
Dado! Dove sei? – continuava la voce avvicinandosi sempre più.
Lo
Staravia,
rinvenendo un po’, riuscì ad emettere un cinguettio più acuto che
giunse all’ignoto soggetto. Il ragazzino tacque e si diresse verso il
luogo in
cui giaceva il suo Pokémon uccello.
Kalut
fece
appena in tempo a rialzarsi in piedi.
–
Dado, sei qui! Smetti di non darmi retta, non devi sparire cos... – il
bimbo si
interruppe.
Il
suo
sguardo incrociò quello di Kalut. Entrambi erano stupiti dalla
presenza
altrui.
Kalut
si
trovò davanti una figura infantile, più piccola di lui, per la quale
non
riuscì a provare spavento. Non era inquieto, si sentiva un morso allo
stomaco,
un calore indesiderato alle punte delle dita. Si vergognava di essere
davanti
ad un essere così particolare.
I
due si scrutarono per un interminabile istante.
–
Perché sei nudo? – chiese ad un certo punto il ragazzino.
Kalut
socchiuse
gli occhi. Un qualcosa era giunto al suo cervello, un messaggio, una
domanda. Sapeva cosa aveva detto il ragazzino, lo aveva capito.
–
Chi sei? – insistette lui.
Il
ragazzo
non rispondeva, i suoi occhi erano persi nel vuoto e la sua lingua
dormiente nella sua gola. Venipede era fermo dietro di lui, mentre
Staravia
giaceva ancora a terra. il bambino mosse alcuni passi verso Kalut, che
indietreggiò di pochi millimetri, giusto per sicurezza, quindi si
avvicinò al
suo Pokémon.
–
Dado... come stai? – chiese il bimbo.
Il
Pokémon
emise un debole mormorio. Era esausto, si trattava di un naturale
svenimento da lotta.
–
Ha combattuto con te? – chiese il ragazzino rivolto di nuovo a Kalut.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi non rispose ma, poco fiducioso, si appropinquò
allo
Staravia. Mise delicatamente una mano sul suo piumaggio, lo carezzò
sotto lo
sguardo attento del bambino.
–
Dado... – mormorò Kalut.
Il
ragazzino
annuì, imitando la carezza dell’altro. – È il suo nome – confermò.
–
Staravia... – proseguì.
–
Sì, si è evoluto da poco.
Le
voci
dei due erano tanto simili. Kalut sentiva le parole del bambino e
capiva
che erano uguali alle sue. Voleva sentirne ancora, voleva sentirlo
parlare.
Voleva sentire quei suoni così particolari, così delicati e definiti.
Adorava
ascoltare i versi dei Pokémon, ma udire la voce umana era tutta
un’altra cosa
alle sue orecchie.
–
Io mi chiamo Richard, ma tutti mi chiamano Rick - si presentò
innocente il
bambino. - Tu invece come ti chiami? - chiese.
Il
ragazzo
dai capelli bianchi si bloccò. La sua mano si sollevò dallo
Staravia, i
suoi occhi smisero di guardare il vuoto. Si diressero verso il
bambino. – Kalut
– rispose.
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