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Lev - Il Pianto Delle Stelle - 07 - Svezzamento

Capitolo 7 - Svezzamento

– Ma sei qui da solo? – domandò Rick.
Kalut si guardò attorno per trovare il suo Pokémon. Venipede si stava nascondendo dietro un cespuglio, probabilmente intimorito dalla presenza altrui. Il ragazzo dai capelli bianchi sedeva a terra con l’asciugamano da mare color pulcino di Rick avvolto attorno alla vita. Il bambino lo aveva portato nello zaino e aveva deciso di prestarglielo in modo da permettergli di coprirsi ed apparire pubblicamente accettabile. Il ragazzo non aveva capito bene perché, ma lo aveva ascoltato.
– Venipede – chiamò Kalut.
Il Pokémon Coleottero-Veleno si avvicinò.
– Ehi... – mormorò Rick. – È tuo? – domandò.
Kalut alzò lo sguardo, nel frattempo il Pokémon Centipede saliva sulla sua spalla passando lungo il braccio. Molto, molto vagamente, Kalut annuì.
– È un bel Pokémon... – commentò il ragazzino.
Dado, lo Staravia di Rick, era stato curato dal suo Allenatore con alcuni rimedi e sopra le loro teste, tornato pienamente in forze dopo un po’ di tempo, svolazzava allegramente.
– Kalut, io devo tornare indietro – disse a un certo punto Rick.
Kalut lo fissò.
– Se vuoi posso lasciarti il mio asciugamano – aggiunse alzandosi con atteggiamenti fuggitivi.
– Rick... – si allarmò Kalut alzandosi anch’esso.
– Che c’è? – chiese il ragazzino.
Kalut scosse la testa.
– Non... – Rick cercò una scusa. – ...non vuoi che vada? – chiese.
Kalut si mise alla ricerca di una risposta, fece largo nella sua mente e provò a capire quale fosse la parole che cercava. Faceva qua e là con gli occhi sotto lo sguardo attonito di Rick che attendeva una reazione. La trovò.
– Resta – pronunciò il ragazzo.
Tra i due si creò il silenzio. Rick l’aveva sentito pronunciare solo i loro nomi e il nome del suo Pokémon, ed era rimasto con lui tutta la mattinata. E poi quella parola.
– Devo essere a casa per pranzo, Kalut... – Il ragazzo guardò a terra.
Il ragazzino tacque per qualche secondo.
– Se vuoi puoi venire con me – fece entusiasta Rick.
Un velo di speranza tornò sul volto di Kalut che sorrise e annuì gioioso.
 
I due si incamminarono, il bosco era fresco e caldo allo stesso tempo. Il sole picchiava, ma una piacevole brezza soffiava tra gli alberi facendo danzare le chiome fitte e verdeggianti degli stessi e carezzando delicatamente i corpi accaldati dei due. Venipede camminava strettamente vicino a Kalut, mentre Staravia volava in corrispondenza del suo Allenatore ma a più di nove metri da terra. Il Bosco Lira era un posto affascinante, e Kalut trovava ogni cinque metri il motivo per fermarsi. Da un Joltik sceso sulla corteccia di un albero a una Baccapesca caduta a terra, fino ad un’impronta di Bouffalant in mezzo al sentiero, cosa che per altro sortiva un totalmente differente effetto su Rick, allarmandolo.
Il ragazzo dai capelli bianchi si stupiva di qualsiasi cosa, tutto era nuovo per lui e differente da ciò che aveva visto durante il poco tempo che aveva passato nella selva. Rick assecondava le sue “scoperte” per i primi dieci secondi, dopo di questi lo esortava a continuare la camminata.
 
I due giunsero a Delfisia che il sole era alto allo zenith.
– Andiamo, Kalut, casa mia è da questa parte! – esclamò Richard.
Il ragazzo dai capelli bianchi si era fermato. Erano giunti da un momento all’altro, seguendo quello strano sentiero nero, ruvido e pungente, in un ambiente totalmente diverso. Dalla terra non sorgevano più alberi, o meglio, le piante stesse erano davvero rare. Invece numerose “case”, come le chiamava Rick, tempestavano il terreno quasi creando barricate tra i sentieri percorribili e il mondo esterno. Kalut si chiedeva come mai tutto fosse così diverso da come lo avesse visto fino a poco tempo prima.
Ancora non si sentiva a suo agio.
Le strade erano vuote, era mezzogiorno, nessuno usciva a quell’ora, e anche i due ragazzi avvertivano sulla loro  pelle l’elemento che aveva spinto tutti a rientrare a casa: il caldo. Kalut stava sudando. E ciò lo inquietava.
Ad un certo punto, dopo alcuni minuti di cammino incerto dietro al passo rapido di Rick, il ragazzo dai capelli bianchi iniziò a sentire un rumore che mai era giunto alle sue orecchie prima di quel momento. Improvvisamente, un’automobile sfrecciò sull’asfalto a gran velocità generando un rombo rapido, greve e fastidioso.
Kalut ne fu terrorizzato, balzò indietro dallo spavento e cadde addosso dirimpetto ad una parete a lato della strada.
– Kalut! – esclamò Rick accorgendosi della sua reazione e tornando indietro per soccorrerlo.
Il ragazzo dai capelli bianchi aveva il cuore che batteva tremendamente rapido nel petto e il respiro corto. Digrignò i denti per un attimo, ripercorse ciò che aveva visto. Uno spaventoso essere di metallo gli era appena passato a pochi metri a gran velocità. Il suo istinto di sopravvivenza si era immediatamente messo in allarme.
Quando si fu calmato, anche con l’arrivo di Rick che cominciò a parlargli per rassicurarlo, Kalut si guardò attorno. Era seduto sul lastricato e con la schiena sulla parete di uno strano edificio dal tetto rosso.
Era un Centro Pokémon, ma non poteva saperlo.
– Kalut, stai bene? – chiese Rick ad un certo punto.
Kalut non gli rispose. I suoi occhi avevano incontrato la porta di vetro del Centro. Proprio accanto a lui. L’immagine ivi riflessa lo aveva ipnotizzato.
C’era un altro. Kalut spostò la testa e l’altro fece lo stesso. Kalut si alzò e l’altro fece lo stesso. Kalut si mosse e l’altro fece lo stesso.
Capì che l’immagine che aveva davanti altro non era che il suo riflesso. Si vide per la prima volta. In principio la sensazione che provò fu di stupore, ma poi un’emozione positiva si intromise in lui. Era felice di se stesso, felice di vedersi.
Mosse un braccio, una gamba, inclinò il collo. Si divertiva guardando l’immagine sul vetro imitarlo. Era affascinato da quello strano fenomeno. Ma poi... vide altro. Accanto a lui, o meglio poco dietro di lui, Rick lo guardava attonito. Tuttavia ad interessargli non era la sua espressione... quanto il suo aspetto.
Grazie all’immagine proiettata sulla lucida porta del Centro Pokémon, poté mettere a paragone la sua immagine con quella del ragazzino.
Erano uguali, speculari, stessa forma del corpo, stesso numero di braccia, di gambe, stessa forma della testa. Rick era un essere appartenente alla sua stessa specie.
Lui aveva incontrato un suo simile.
Kalut era felice, aveva realizzato di essere una creatura simile a Rick e ciò lo faceva sentire più a suo agio in compagnia del ragazzino. Ma qualcosa si intromise nel suo momento di serenità.
Il vetro scorse, la porta si aprì. Dal centro Pokémon uscì un signore sulla quarantina vestito di nero, alto che si trovò davanti il ragazzo dai capelli bianchi avvolto nel suo asciugamano giallo.
Kalut rimase immobile, paralizzato, un terzo esemplare della sua specie si era presentato a lui come niente fosse. Il signore, interdetto, si fermò. Insicuro sul da farsi salutò educatamente e passò avanti eludendo Kalut e Rick.
Il ragazzo non si mosse e non proferì parola. Rimase col suo sguardo da ebete con la bocca socchiusa e gli occhi stupiti a fissare il vuoto.
– Kalut, c’è qualcosa che non va? – chiese Rick che era ancora alle sue spalle.
Kalut si voltò lentamente. Fissò Rick, sorrise. Lo vide meglio, vide il suo simile, un suo simile molto più piccolo, più debole di lui, più fragile.
Qualcosa si mosse nel suo cervello per poi essere trasformato in un impulso elettrico che presto si diffuse in tutto il corpo. Doveva occuparsi di quel ragazzino, era un essere uguale a lui, ma lui sentiva il dovere di prendersene cura.
Kalut tese la mano.
Rick, ormai abituato ai comportamenti insoliti del suo nuovo amico, la strinse.
I due ripresero il cammino.
 
– Dovrebbe essere qui a momenti, gli ho detto che doveva tornare a casa per l’ora di pranzo – affermò Mary, la madre di Rick, impegnata a badare ai fornelli.
Il marito annuì, immerso nella lettura del quotidiano sulla poltrona del salotto.
Qualcuno suonò il campanello.
Mary si avviò verso la porta, la aprì sorrise al figlio e poi le saltò all’occhio anche la figura più grande che era dietro di lui. Per un momento, un brivido le corse lungo la schiena.
– Ricky, chi è il tuo amico? – chiese poco sicura della sua domanda.
Intuendo la presenza di un altro individuo, anche Donald, padre di Rick, si alzò in piedi e abbandonò il giornale per appropinquarsi all’uscio.
– Mamma, lui è Kalut, l’ho conosciuto nel Bosco Lira – rispose sorridente il ragazzino.
Il ragazzo appena presentato alla donna aveva un espressione stupita ma sorridente in volto.
– Oh... – mormorò la donna, facendosi leggermente indietro. – ...e che cosa ci fa avvolto con il tuo asciugamano? – Di tutte le domande che voleva porgli, aveva scelto la più banale.
– Eh, non aveva vestiti, ho pensato di dagli quello – rispose il figlio.
Mary fece una smorfia incredula di chi si preoccupa di non aver sentito bene le parole altrui. – Puoi venire un attimo, Richard? – domandò.
Nel frattempo anche il marito era giunto sulla scena e con fare da pater familias lasciò passare il figlio e si diresse verso l’intruso che automaticamente si accingeva a seguire il suo unico amico lì presente, bloccandolo sulla porta e iniziando a scrutarlo come un agente di un equipe di perquisizione.
– Com’è che ti chiami? – chiese a braccia conserte e con fare serio.
Nel frattempo, giunta in cucina, Mary rivolse l’interrogatorio materno al figlio.
– Scusami, Richard, ma che cosa ci fa qui quel ragazzo?
– Mamma, te l’ho detto, ho incontrato Kalut nel bosco, era solo e senza vestiti. Voleva compagnia e ho pensato di portarlo a pranzo con noi...
– Ma hai la minima idea di chi possa essere?
– No, lui mi ha detto solo il suo nome, è una delle poche cose che riesce a pronunciare.
La donna rimase interdetta.
– Una delle poche cose che riesce a pronunciare? – chiese per assicurarsi di ciò che aveva sentito.
– Sì, parla poco per essere più grande di me...
Mary scosse la testa volgendo la testa verso la porta e intravedendo il marito intento a perquisire l’intruso sullo zerbino. Lo raggiunse intimando al figlio di restare in cucina.
– Che ti ha detto? – domandò all’uomo comparendo alle sue spalle.
L’uomo sbuffò togliendo le mani da Kalut. – Ben poco, non è particolarmente comunicativo, ma sicuramente è disarmato.
I due si guardarono.
– Secondo me è un tossico – affermò il genitore. – Questi ragazzi non sanno proprio come passare il tempo... – commentò scuotendo la testa.
– Che dovremmo fare? – chiese Mary.
Donald scrollò le spalle. – Non so... non possiamo mica lasciarlo nudo per strada...
La donna si fermò a riflettere. Il suo occhi cadde oltre la figura del ragazzo, sullo Staravia del figlio accovacciato a terra vicino ad un Venipede.
– Quello è tuo? – chiese al ragazzo dai capelli bianchi leggermente infastidita dalla presenza del Pokémon Centipede nel suo giardino.
Kalut si voltò e, con volto leggermente insicuro, annuì alla domanda della donna. Il ragazzo si sentiva in dovere di stare calmo, troppe presenze attorno a lui lo stavano schiacciando.
– Lo portiamo dentro? – domandò infine Mary riferendosi al ragazzo.
– Non penso che potremmo fare altrimenti... – rispose il marito.
Kalut, guidato all’interno dell’abitazione da Rick sotto la stretta vigilanza dei genitori, si trovò in una terra completamente nuova. I colori, le forme, le cose che vedeva attorno a sé erano così particolari, così nuovi per lui. Persino i due adulti si stupirono vedendo un ragazzo come lui rimanere incantato da tanti elementi che erano parte della loro quotidianità. Iniziarono a dubitare della loro teoria, mettendo in dubbio il fatto che Kalut fosse un drogato.
Fecero pranzo offrendone, per forza di cose, anche al nuovo arrivato che fu affascinato dal sapore del cibo e ne mangiò con gusto. Kalut continuò l’esplorazione di quello strano universo pure il pomeriggio finché, attorno alle otto, cadde addormentato sul divano del salotto portato in paradiso dalla stanchezza e dalla morbidezza della superficie di quest’ultimo.
 
La centrale di polizia statale era immersa nell’afoso e dolce far nulla della sera del trentuno di agosto. Martin, addetto alla segreteria, era seduto comodo comodo sulla sua sedia leggermente inclinata all’indietro, con i piedi sulla scrivania, il ventilatore puntato in faccia, come tutti lì dentro, e la mano destra intenta a scoppiare caramelline a Candy Crush sul suo cellulare. Dire che Sidera fosse una regione calma era un eufemismo, eppure, in quel periodo sembrava che improvvisamente tutti i criminali si fossero presi una bella vacanza per andare al mare. Due suoi colleghi, seduti su scrivanie limitrofe, si divertivano a lanciarsi aereoplanini di carta fatti con le pagine dell’agenda fornita ad ogni agente dalla banca nazionale, altri due erano presissimi da una partita a dama su una scacchiera portatile. Semplicemente, ognuno ammazzava il tempo come meglio poteva.
Ad un certo punto Martin tolse i piedi da sopra il tavolo, riprese una posizione verticale ed ergonomicamente corretta, ripose il suo cellulare e mosse il mouse per riattivare lo schermo. Cominciò a far scorrere il cursore bianco sul desktop muovendo il dispositivo wireless sul tappetino bianco con la prorompente scritta nera “FACES” in mezzo. Fece appena in tempo a digitare “come diagnosticare il” su Google Chrome che un suono nuovo fece il suo ingresso nell’aere precedentemente così silenziosa e pacifica.
Un paio di sguardi increduli viaggiarono tra i volti dei poliziotti presenti. Lo stesso Martin, dapprima non proprio sicuro delle sue orecchie, cercò in giro visi a cui appellarsi, unì le mani e le scosse leggermente come per dimostrare lieve disappunto per ciò che stava sentendo.
Intanto il telefono fisso trillava insistente sulla sua scrivania e sotto occhi ed orecchie di tutti.
L’uomo finalmente si convinse e, mosso dagli sguardi approssimativi dei colleghi, decise di alzare la cornetta.
 
Dall’altro capo, Donald, con il cellulare attaccato all’orecchio, attendeva battendo nervosamente il piede. Quella era una delle giornate da passare tutto il giorno in mutande in casa ad annoiarsi e a guardare film brutti con la famiglia, a lui invece era toccato uno sconosciuto incapace di esprimersi in casa.
Il genitore avvertì quel suono metallico che si sente quando l’interlocutore risponde alla telefonata.
– Pronto, polizia, mi dica – rispose poi una voce assonnata dall’altro capo.
– Buonasera, ecco... stamattina, mio figlio ha condotto a casa un ragazzo sui sedici, diciassette anni. Dice di averlo incontrato nel bosco, questo ragazzo non sa parlare molto bene e pare quasi... mi scusi agente, so che è molto strano da sentire, ma sembra essere un alieno, è un ragazzo particolare e si è accampato a casa nostra senza dirci nulla di sé... ecco, vorrei... vorrei che deste un’occhiata, giusto per stare sicuri – spiegò frettolosamente ma con le adeguate pause di formulazione Donald.
– Ehm... – balbettò l’agente. – ...va bene, arriviamo immediatamente, indirizzo? – chiese ancora non perfettamente certo di avere a che fare con una persona seria.
 
Cinque minuti più tardi, qualcuno suonò alla porta della casa dei genitori di Rick. Due uomini in divisa fecero il loro ingresso all’interno.
– Buongiorno, grazie di essere venuti subito – li accolse la moglie di Donald. – il ragazzo è sul divano, si è addormentato poco fa... – spiegò guidando i due in salotto.
I poliziotti non si guardarono attorno, misero immediatamente a fuoco il corpo immobile e assopito di Kalut. Quando furono attorno a lui, per prima cosa provarono ad identificare le sue fattezze in quelle di un qualche ricercato, ma la peculiare capigliatura bianca dello sconosciuto li distolse immediatamente da quasi ogni sospetto.
– Non eliminiamo nessuna alternativa, potrebbe essere una tinta... – disse uno dei due allungando meglio gli occhi su tutto il corpo del giovane.
Kalut era in una posizione quasi fetale e aveva indosso dei vestiti prestatigli dal padre di Rick per dignità, una maglietta bianca con un pennuto nero disegnato e un paio di jeans corti, il suo volto era sereno, spogliato di qualsivoglia emozione. Inoltre non aveva particolari segni, tagli, tatuaggi o cicatrici particolari, almeno non visibili e per il momento nessuna delle sue caratteristiche era stata associata ad un soggetto già conosciuto in centrale.

Entrambi decisero di svegliarlo.

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