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Capitolo Quarantasettesimo - Epilogo e saluti

Beatitudo



Il sole stava calando ed il silenzio era rotto soltanto dallo scroscio dell’acqua. Nonostante le Cascate Meteora fossero andate totalmente distrutte, niente aveva deviato il corso dell’acqua, che aveva scavato un percorso nella roccia e sfociava all’esterno della grotta.
Crystal camminava nel silenzio più che totale, mentre superava la casa di Lanette.
Lei lavorava al computer, parlava animatamente all’Holovox, Colette le rispondeva a tono nell’ologramma.
Si fermò, proprio davanti allo spiazzale della casa della donna, dove diversi ciuffi d’erba alta si schiantavano contro la parete rocciosa del passeggio che avrebbe dovuto portare alla montagna.
Crystal levò lo zainetto e ne prese una Pokéball, quella di Seviper.
Lo fece uscire.
“Bene...” sorrise, con una calma nel cuore che quasi le pareva estranea. “Ti catturai perché eri proprio malconcio... Ora però stai bene, quindi sei libero di tornare nel tuo habitat”.
Lo vide strisciare via con rapidità ma riuscì a carezzargli la pelle squamosa prima che sparisse.
E poi s’accorse che qualcuno la osservasse. Ancora.
Si voltò, c’era Zoe.
Non sapeva se sorriderle o meno.
“Crystal...” esordì. Quella ripose la sfera, ormai vuota, ed incrociò le braccia. “Scusa. Scusa per tutto”.
La ragazza dagli occhi limpidi sospirò ed abbassò lo sguardo.
“Se avessi fatto meglio i tuoi calcoli non saremmo arrivati a distruggere tutto...”.
“Lo so. Ora che farai?”.
Crystal fece spallucce. “Immagino che tornerò a casa mia, e mi prenderò qualche giorno di ferie...”.
Zoe sorrise, passando una mano sulla coscia. Nonostante il freddo in arrivo aveva voluto lo stesso uscire in shorts; la Z tatuata sulla coscia aveva dato a Crystal una grossa conferma.
“Ho qualcosa per te” fece proprio questa. Riprese lo zaino e ne cacciò tutte le lettere che aveva preso a casa sua, poco più d’una settimana prima.
Zoe impallidì.
“Oh... Queste...”.
“Siamo stati nella villa dei Vinci senza sapere che fosse casa tua... Queste parole mi hanno realmente toccato. Hai sofferto tanto...”.
Zoe prese quei fogli di carta ormai ingialliti dal tempo, parevano sgretolarsi ad ogni passaggio delle dita; li guardò, li lesse, se li girò per le mani.
“Io...”. Le lacrime scendevano quasi dolorosamente, come a bruciare le guance al proprio passaggio. “Vivere in un posto come... come casa mia...”. Respirò profondamente. “Non è semplice dover erigere un muro, ed aggiungere ogni giorno trenta file di mattoni. Casa mia era costituita da persone con mura altissime, ma troppo sottili; al primo soffio di vento venivano scoperti gli altarini, ciò che quel muro celava e... e non era mai bello...”.
“Mi rendo conto”.
“Mi manca mia nonna” pianse lei, bagnando le sue lettere con le lacrime.
Crystal non poté fare altro che sostare in silenzio. Aspettò che si riprendesse da quella crisi di pianto e poi le fece una domanda: “Tu invece che farai?”.
Zoe fissò con gli occhi verdi ma arrossati Crystal e tirò su con il naso.
“Andrò... andrò ad Adamanta, andrò dalla mia famiglia. Non posso più stare ad Hoenn, dopo quello che ho fatto...”.
“Rivedrai tua nonna...”.
Zoe non le disse che sua nonna era morta pochi mesi dopo la sua fuga di casa. Si limitò ad annuire e s’avvicinò a Crystal, tendendole la mano.
“Tu sei un osso durissimo” le disse infine.
Crystal le strinse la mano, sorridendo. “Per fortuna è così. Per fortuna è così...”.
 
 -

Bip.

Bip.

Bip.

Si sta svegliando...”.


Coma. La parola è strana, anche perché soltanto quattro lettere messe in fila una dietro l’altra non riescono a descrivere in toto la complessità di quanto voglia esprimere la parola stessa.
Il significato insito, lo smarrimento.
Gold era rimasto in coma per un quattro giorni, dopo gli avvenimenti di Ceneride, ed aveva più volte sentito la voce dei suoi amici e dei propri cari che  incitavano la sua sveglia, spaventati e speranzosi.
Lui sentiva tutto ma non riusciva a fare nulla; vedeva se stesso all’interno della sua testa, riusciva a muoversi, riusciva a sentire tutto, ma il suo corpo non rispondeva effettivamente alla sua volontà.
Aveva sentito la voce di Marina quando, pochi giorni prima, s’era ritrovata per la prima volta accanto a lui.

“Hey, Capriccio... come stai? Spero bene. So che non puoi rispondermi ma spero tu possa ascoltare le mie parole... Mi spiace tanto che quello che è successo tu l’abbia dovuto affrontare da solo... Io ero lì per guardarti le spalle, per aiutarti nel tuo lavoro e invece ti ho lasciato da solo. Scusami davvero tanto. E comunque... Quando ti svegli? No, perché vogliamo organizzare una cena tutti assieme. Almeno quelli che sono rimasti in vita, ecco. E poi mi devi un’ulteriore cena, in un ristorantino italiano. Senza vestiti dell’Adidas, per cortesia, sembri il loro testimonial.
No, invece credo che in giacca e camicia staresti molto bene... Io ho già comprato un vestitino corto, bianco, come quello di quella... di quella sera lì, ecco. Spero ti piaccia”.

Avrebbe voluto risponderle, in maniera sarcastica e pungente, com’era solito fare. Poi la immaginò abbassare lo sguardo sconsolata e lui avrebbe sorriso, sfottendola.
Allora lei sarebbe arrossita, irritata come faceva in genere. E probabilmente lui l’avrebbe baciata.
Ma non lì. Non in un letto d’ospedale.

Aveva sentito anche la voce di Silver, proprio qualche ora prima.

“Hey, Gold. Sei in coma. È una cosa molto brutta, e mi spiace molto. Per tutto: per Hoenn, per Crystal e per le cazzate che abbiamo commesso. Non riuscirei mai ad ammetterlo se fossi ad occhi aperti ma per me sei come un fratello”.

Poi lui gli aveva poggiato una mano sulla spalla e gli aveva carezzato la guancia, prima di andare via. Del resto non era mai stato un tipo di molte parole, e quelle poche bastavano.
Anche Crystal gli si avvicinò. Fu addirittura la prima che lo andò a trovare. Ricordava che pianse quasi subito, vedendolo.

“Hey, Gold... mi spiace che tu stia così. Non ci lascerai però, lo so, tu sei forte. Hai catturato Groudon, come avrei fatto io. Stai lottando contro la maledizione, il coma... tutto assieme. Oh, Gold, maledetto! Sempre a farmi preoccupare, a farmi stare male! Scombinato e dannato anche quando dormi! Spero che almeno tu ti stia riposando, perché a noi il sonno ce l’hai totalmente levato!”.

La risposta era sì, Gold cercò anche di risponderle, senza riuscire a muovere le labbra.
Capì che il coma fosse un momento per riposare la mente e ragionare sull’operato della propria vita. Capì che probabilmente, fin da piccolo, era stato costretto a nascondere dietro una maschera d’arroganza il dolore per la scomparsa di suo padre.
Forse, proprio per quella perdita, era riuscito a legare ancora di più al suo cuore il resto della sua famiglia, soprattutto sua madre.
Adorava sua madre, lui. La donna più bella di tutto il mondo, diceva.
E poi la partenza alla ricerca del ladro al laboratorio, che si scoprì essere Silver, divenuto infine uno dei suoi migliori amici. Dopo Crystal aveva fatto il suo ingresso. All’inizio sembrava una ragazza come tante ma poi il suo fascino lo aveva colpito, costringendolo a combattere contro l’istinto per non guardarla. Già, perché altrimenti avrebbe dovuto incrociare le spade con Silver.
E per lui, per il suo amico, capì di poter fare una rinuncia. Che poi, forse, ci avrebbe guadagnato: Marina era davvero carina, a lui piaceva tanto. Forse avrebbe messo la testa a posto.
E poi aveva cominciato a contare tutte le cicatrici sulla propria pelle, tutte le volte che la sua testa era stata fasciata, tutto il sangue che aveva perso.
Maschera di Ghiaccio e l’incontro coi più grandi, quelli di Kanto.
Ed ancora, il Monte Argento. Lì faceva freddo, e Red aveva imparato a non demordere; lui era il migliore, lo sapeva già da prima che quello lo sconfiggesse. E quella gli sembrò essere la conferma dei suoi pensieri.
Ma arrivò con così tanta consapevolezza in più dei suoi mezzi che catturare Zapdos, appena sceso dalla vetta, diventò quasi uno scherzo.
E poi Hoenn, Fiammetta, Team Idro e Team Magma.
Groudon, Kyogre.
E quel drago verde enorme, di cui non ricordava il nome.
E Rocco, certo. Assieme ad Alice ed Adriano.
L’acqua alle caviglie nella Palestra di Ceneride, e tutte le persone morte.
I terremoti.
Senza dimenticare la puttana bionda e la maledizione. Con quel sacchetto inutile.
Inutile ‘sta ceppa, senza sarebbe morto, pensò.
Odiava Hoenn, s’era reso conto di ciò.
Però, qualche centesimo di secondo prima che chiudesse gli occhi, distrutto dal dolore, in groppa a Zapdos, vedendo la Ultraball chiudersi attorno a Groudon e sancire la fine di tutta quella battaglia, beh, proprio lì assaporò la felicità.
La beatitudine nel suo petto, nella sua anima.
Forse era stato quella sensazione che provava nel petto, di totale elasticità, abbandono a se stessi, a dargli una tregua da quell’irrigidimento che viveva da tutta la vita.
E poi decise di svegliarsi.

“... sì ti dico, si sta svegliando!” fece la voce di una ragazza.
Lentamente le iridi auree del giovane attraversarono un caleidoscopio di lacrime, mettendo a fuoco con difficoltà l’immagine di Marina, sorridente ed in lacrime.
“È sveglio” disse, carezzandogli la guancia. Si fece poi da parte, mostrando al ragazzo la figura di sua madre, con gli occhi pieni di lacrime. La donna era sfatta, i suoi capelli, in genere acconciati in maniera sempre più strana e particolare, con tre ciocche a creare altrettanti archi mantenuti dritti tramite forcine, erano spettinati lasciati cadere sulle spalle. Gli occhi della donna sgorgavano lacrime nere, per via dei residui del trucco sciolto, formando rivoli neri sulle guance ormai consumate dai suoi cinquant’anni.
Si gettò su di lui, poggiando la testa sul suo petto e stringendolo alle spalle; il dolore della maledizione, quello al petto, era ancora presente anche se mitigato dagli antidolorifici.
“Ti sei svegliato, finalmente!” fece lei, sollevandosi poi.
“S...” diceva, le corde vocali non funzionavano da un po’ di tempo quindi bevve un po’ d’acqua.
Meglio, però annuì, non parlò.
Il suo volto era stanco e provato, nonostante la grande dormita. Ma stava bene, si sentiva veramente bene.
“D0v’è Marina?” domandò il ragazzo, con la voce roca. La madre sorrise ed annuì con gli occhi leggermente semichiusi, facendosi da parte. La ragazza era seduta silenziosa con lo sguardo squassato dal pianto.
“Ciao, Capriccio...” disse lei, alzandosi e andando lentamente verso di lui. L’elettrocardiogramma continuava a diffondere quel fastidioso bip nelle retrovie ma lui non ci faceva più caso da quando i suoi occhi erano affondati in quelli di Marina.
“Come stai?” le domandò.
Quella sorrise, abbandonandosi al pianto commosso che stava cercando di trattenere su, dove nessuno poteva vederla.
Ma non ci riuscì, lei era fatta così.
“Perché piangi e ridi contemporaneamente, donna... Voi siete pazze...” disse poi il ragazzo, rivolto alla madre.
“Gold, è commossa, lasciala stare” lo rimbeccò quella.
Marina riprese parola. “Rido perché tra i due quello in un letto d’ospedale sei tu; però sei tu che chiedi a me come sto, e la cosa è... è così vera... perché tu sei così...”.
Gold sorrise debolmente, cercando di mettersi a sedere, stringendo velocemente denti ed occhi per il forte dolore.
“Cazzo...”.
“Gold...” rimproverò la madre.
“Scusa. Ma sono ancora maledetto?”.
“Già” annuì Marina. “A proposito...” si rivolse alla più adulta. Quella guardò la ragazza ed annuì, avvicinandosi alla porta ed aprendola. “Puoi entrare” fece a qualcuno.
Pochi secondi dopo quella fece spazio ad una figura più alta, esile.
“Angelo...” disse lui. “Vecchio spaventapasseri...” tossì poi, stringendo di nuovo i denti per il dolore. “Esorcizzami, porca puttana!”.
“Gold!” esclamò di nuovo la madre, imbarazzata.
Angelo sorrideva. “Tranquilla, Gold è così, ho imparato a conoscerlo” disse, con flemma unica. Indossava la solita fascia viola, a coprire la fronte e la frangetta bionda, mentre una calda sciarpa era avvolta attorno al collo. Gli occhi dell’uomo, violacei anch’essi, si poggiarono sul volto del ragazzo.
“Sei pallidissimo” disse.
“Parla per te” rispose l’altro, tossendo.
“Vorrei per favore che le signore s’accomodino fuori... non sarà una cosa breve né carina da vedere... anzi, potrebbe essere pericolosa” fece, tirando fuori un’ampolla e poggiandola sul tavolino accanto al letto.
Marina e la madre di Gold uscirono ed Angelo cacciò fuori gli spiriti dal corpo del ragazzo, intrappolandoli lì dentro. Qualche giorno dopo Gold era a casa di sua madre, solamente per prevenzione, e si preparava, vestendo camicia bianca e scarpa nera, lucida. Completo scuro, quello delle grandi occasioni e botta di profumo.
Pettinò i capelli, senza esagerare, tanto non sarebbe mai riuscire a domare quella chioma; era perfetto, davanti allo specchio si fissava per bene: le sue cicatrici interiori erano nascoste dalla cravatta dorata che gli fasciava il collo e si appoggiava proprio dove, qualche giorno prima, una maledizione terribile premeva per uscire fuori.
In quel momento, però, il suo cuore era pulito, e tanto bastava.
Fece per uscire di casa, con la madre che lo guardava sorridente con la coda dell’occhio, pensando che fosse tremendamente somigliante a suo padre vestito in quel modo. Tuttavia il ragazzo aveva l’aria di star dimenticando qualcosa.
“Le Pokéball ce le ho... i soldi sono qui... il Pokégear è al suo posto... ah!” esclamò poi, prendendo le cuffiette e l’mp3 dal mobile.
Mise su “The Message” di Dr. Dre e partì, in groppa a Togebo, raggiungendo Amarantopoli.

Lì Marina aveva trovato un albergo parecchio carino, non costava nemmeno eccessivamente. E poi Amarantopoli innevata le piaceva da matti. Gold le fece una chiamata con l’Holovox e lei rispose quasi immediatamente.
“Sei in ritardo!” esclamò il suo ologramma.
“Scendi...”.
Guardò le sue scarpe e pensò di non esser mai stato così elegante in vita sua. Pensò pure che le mattonelle di Amarantopoli fossero davvero belle, anche se qua e là qualche chiazza di neve nascondeva la pavimentazione.
Angelo attraversò la strada, salutandolo con un cenno del capo; portava sottobraccio una donna dai capelli rossi, parecchio carina ma dal sorriso triste.
Lui ricambiò il sorriso e poi fece spallucce, non cercando risposte a cui non fosse realmente interessato.
Poi la porta dell’albergo s’aprì e Marina ne uscì, con il suo vestitino bianco, che ricadeva morbido al ginocchio. Indossava un coprispalle nero e dei tacchi abbinati parecchio alti e scomodi.
Era bellissima vestita in quel modo. I capelli, inoltre, erano stati stirati finemente, e ricadevano precisi sulle spalle, con quella sorta di caschetto castano che a lui piaceva tanto.
Perché a lui lei piaceva.
Ma non poteva dirlo così apertamente, o Marina sarebbe diventata insopportabilmente superba e provocatoria.
Meglio così, pensò lui. Le si avvicinò e le diede un bacio sulle labbra, dolce e lungo, gustando il suo sapore ed affondando nel suo profumo.
“Sei meravigliosa” disse poi.
“Grazie. Anche tu, ma le cuffiette rovinano il quadro generale...”.
“Dovevo abbinarle al vestito, forse.” rispose lui. “È comunque Dr. Dre va bene su tutto”.
“No” sbuffò lei, mettendosi sotto il suo braccio. “Quello è il grigio”.
“No, anche Dre”.
Passarono una serata tranquilla, poi la riaccompagnò in albergo. E due settimane dopo lei si era trasferita a Borgo Foglianova, per vivere con lui, nella grande casa che divideva con Silver e Crystal.
 -

“Hey, Rocco... È permesso?” domandò Fiammetta, avvolta in una calda sciarpa di lana grigia. Verdeazzupoli si stava lentamente riprendendo dalle ferite inflitte dai terroristi ambientali e stava lentamente riprendendo il proprio corso.
“Sì, Fiammetta! Vieni pure” sentì la rossa, non capendo da quale sala provenisse la sua voce. Apparve poi il Campione da sinistra, dove un grande tavolo era occupato dai rappresentanti della lega rimasti in vita.
Erano rimasti veramente in pochi.
Fiammetta sorrise all’uomo, baciandolo appassionatamente una volta che lui la raggiunse.
“Come stai?” domandò quello.
“Bene. Fa molto freddo, fuori...”.
“Farò alzare i riscaldamenti” disse lui, cingendole la vita col braccio e spingendola in avanti.
Camminarono verso la sala; al tavolo erano presenti Alice, Adriano, Pat, Ruby ed Emerald. Le due sedie vuote erano per i due in piedi. S’accomodarono.
“Dovremmo essere tutti...” storse le labbra Ruby,  grattandosi la guancia con sguardo basso. Fiammetta comprendeva ciò che provava, aveva perso Sapphire e s’era fatto rubare tutto ciò che era importante in poco tempo.
“Ruby farà le veci di Norman, che è ancora in ospedale. Emerald invece è qui come insider...” disse Alice.
“Ok” annuì Fiammetta. “Ciao, ragazzi”.
“Benissimo. È successa una cosa” fece proprio l’aviatrice, alzandosi.
“Che è successo?” domandò Pat.
“Beh... come sapete Jirachi è un potentissimo Pokémon che si risveglia soltanto al passaggio di una particolare cometa, la Cometa Millennium...”.
“Ricordo...” sospirò Ruby, col sopracciglio alzato.
“L’orbita della cometa è praticamente interminabile, tant’è vero che essa è visibile soltanto ogni mille anni. Ma è successa una cosa, negli scorsi mesi”.
“Ovvero?” domandò Fiammetta.
“Un grosso corpo celeste, molto più grande e magneticamente potente della cometa, ha attraversato la sua orbita, sbalzandola e deviandola. La cometa passerà nuovamente davanti la Terra tra sette settimane. E noi dobbiamo catturare Jirachi giusto in tempo per permetterci d’esprimere un desiderio”.
Adriano annuiva concentrato mentre Rocco rimaneva impassibile.
“Beh, abbiamo proposto d’inviare una rappresentativa della Lega di Hoenn per la sua cattura. Ovvero Fiammetta e Pat”.
La ragazza di Cuordilava spalancò gli occhi, sorpresa. “Cosa?! Io?!”.
Rocco le poggiò una mano sulla spalla. “Già, ho spinto io perché tu avessi questo compito; durante l’operazione di liberazione di Hoenn, nei giorni scorsi, sei stata una risorsa preziosissima. Tu, assieme alle grandi abilità di Pat, sarete una squadra perfetta per la cattura di Jirachi”.
“Ma non è meglio chiamare Crystal per una cattura? Insomma, lei è la Catcher ed io...”.
“Fiammetta” fece Rocco, calmo. “Noi tutti abbiamo fede in te ed in Pat. Siamo sicuri che riuscirete a catturare Jirachi, per esprimere il desiderio di mettere le cose a posto qui ad Hoenn”.
“Riporteremo in vita Sapphire” disse Ruby, guardando Emerald.
Poi fu Adriano a prendere parola. “Rald vi spiegherà tutte le modalità per trovarlo”
“Lui vive è in letargo e si sveglia soltanto durante il  passaggio della cometa; quando accadrà, dovremo essere pronti”.
Adriano annuì, quindi sciolsero la riunione. Adesso il passato di Hoenn era più tangibile, ed era tra le mani calde di Fiammetta.
E quella magiche di Pat, naturalmente.
Ma questa è un’altra storia.
-

Dopo la grande lotta, Martino aveva liberato Rayquaza, rimanendo affascinato e sconvolto dentro quando lo vide bucare gli strati dell’atmosfera per sparire oltre le nuvole di zucchero filato.
Non sapeva se lo avrebbe rivisto, in futuro.
Salutò Rocco e soprattutto Fiammetta, bagnando per l’ultima volta lo sguardo con quel corpo così ben scolpito e quindi prese la prima nave che lo portasse ad Oblivia.
Quando arrivò, senza Marina che era andata ad Amarantopoli per accertarsi della salute di Gold, si sentì un po’ spaesato.
Forse però doveva andare così. Doveva staccare il cordone ombelicale da sua sorella, lasciarla vivere la sua vita e permetterle di commettere i suoi errori.
In fondo era una ragazza responsabile, se non si aveva a che fare con enormi draghi leggendari smeraldini. Pat inoltre sembrò averla curata a dovere con i suoi poteri, ma s’accertò lo stesso che, una volta arrivata nella città dell’autunno, lei si facesse visitare da un medico.
Lo fece: il cuore era stato sottoposto a grave stress ma qualche settimana di riposo e sarebbe ripreso tutto a scorrere come sempre.

“Niente avventure scapestrate, quando Gold si sveglierà!” la ammonì, prim’ancora che quella pensasse di poter fare una cosa del genere.
Lei abbassò il capo, spostando le labbra in una smorfia strana e dispiaciuta.
“Tu credi che si sveglierà?” domandò, con la voce più dolce che avesse potuto fare. Martino sorrise dolcemente e la strinse.
“Certo che si sveglierà. Quel saraceno ha nove vite, lo sai...”.
“Ho paura che non riapra più gli occhi... Pat non ha potuto fare nulla per il suo coma...”.
Martino poi sospirò, lasciandola dalla stretta affettuosa. “Pat non è un dottore, ed avete beneficiato dei suoi poteri fin troppo. E poi ha anche perso suo fratello da pochissimo tempo, forse è meglio rivolgersi ad un ospedale...”.
Marina sbuffò, capendo che contasse poco: se Gold non fosse stato pronto a svegliarsi non lo avrebbe fatto.

Si lasciarono a Forestopoli, la città meno distrutta da quella situazione terribile, poi le loro strade si divisero e lui tornò a casa.
Sì, certo, giusto il tempo di una doccia, per poi tornare alla base dei Ranger.
Le porte automatiche s’aprirono e lui immerse il volto nell’aria riscaldata dalle macchine a pompa di calore dell’impianto.
Si guardò attorno, Clelia rispondeva alle telefonate d’emergenza che riceveva, mentre due Ranger novelli erano lì ad aspettare direttive.
Raimondo, il Caporanger, era invece nel suo ufficio; poco spesso c’entrava, da quando avevano trasferito la base operativa da casa sua in un edificio adibito soltanto alla supervisione Ranger lui era sempre in giro.
Martino s’avvicinò alla porta e bussò sul montante di legno.
Raimondo, con gli occhiali sul naso, leggeva un report sul pc scrollando lentamente col mouse. Quando vide Martino spalancò gli occhi, come se avesse davanti un fantasma.
“Sei vivo!” esclamò, sorridente. S’alzò in piedi e strinse la mano al giovane, che sorrise un po’ imbarazzato. Raimondo lo fece accomodare, felice.
Ma la sua felicità sparì repentina quando s’accorse d’una mancanza.
“E Marina dov’è?!”.
Martino inarcò un sopracciglio. “Johto...” rispose.
“Ma sta bene?”.
Lui annuì.
“Oh, ok...”.
“Mi sono preso la responsabilità di darle un permesso abbastanza lungo, Raimondo. Ha rischiato di morire parecchie volte, e tu sai che...”.
“Sì, Martino, la sua salute, certo. Hai fatto bene”.
“È stato un inferno, lì...” disse poi il Ranger più giovane, sprofondando con le spalle nella comoda poltroncina di pelle blu.
“Immagino. Assolutamente... Ho sentito Rocco Petri, Campione e Capo della Lega di Hoenn, e si è congratulato con voi e con me per la vostra incredibile preparazione. Senza di voi, ha detto, non sarebbero mai riusciti a sbrogliare quella tremenda matassa... Ma dimmi: è stato davvero così terribile lì?”.
Lui abbassò la testa per un attimo, con il collo incavata nelle spalle, quindi sospirò triste. “No. È stato peggio. Ho visto persone morire davanti ai miei occhi. Ho visto palazzi crollare, isole interamente sommerse e Pokémon feriti ed impauriti. Ho visto gente che sciacallava nelle case rimaste vuote, ed ho visto uomini uccidere altri uomini. Ho visto un uomo che, senza alcuno sdegno, alcun rimorso, ha spezzato il braccio di una bambina di quattro anni. Ho visto interi eserciti di persone essere comandati da un uomo, da una donna. Ho visto queste due persone perdere la propria testa, diventare dei mostri. Ho visto Groudon e Kyogre, ho visto Rayquaza. Lì ho visto mia sorella più morta che viva. Secondo te è stato terribile o disumano?”.
Raimondo rimase in silenzio, con le mani conserte sotto il mento ed i gomiti puntellati sulla scrivania.
“Hai bisogno di riposo” concluse quello.
“Già” rimbeccò Martino. “Ho bisogno di riposo...”.
 
 -

Toc - toc.
Qualche coppia di passi anticipò il cigolio dei cardini; Maris sorrise alla vista di Crystal e l’accolse abbracciandola.
“Hey... Come va?” chiese la Dexholder, senza camice ma con un voluminoso maglione di lana ed i capelli stranamente legati in una coda alta, corta. Era parecchio carina così.
Portava una valigetta nella mano sinistra ed un pacchetto regalo nella mano destra.
“Tutto a posto. Fortunatamente stai bene...”.
Eggià...” sorrise stanca quella. Maris le fece spazio.
“Stavamo per chiudere l’ambulatorio, oggi è il trentuno dicembre e ci aspettano per il cenone”.
“Lo so, Maris”.
“Sei stanca...” sorrise quella.
“Non hai nemmeno idea di quanta voglia abbia di farmi un bel bagno rilassante...”.
“Green Oak ed il Professor Elm ti aspettano di là”.
Crystal annuì e scivolò oltre l’ingresso per poi arrivare nell’ufficio del suo capo. Lì tutto era ordinato e catalogato maniacalmente. Green Oak era poggiato sulla scrivania, con le mani in tasca ed un maglioncino bianco aderente a coste.
 Sorrise nel vederla arrivare; Crystal poggiò la valigetta sulla scrivania e ricevette l’abbraccio del castano, oltre ad un bacio decisamente troppo affettuoso sulla guancia.
“Come è andata?” domandò quello.
“È andata... Ora ho solo voglia di riposarmi”.
Green annuì, tornando serio.
“Comunque auguri a tutti per il Natale” fece la ragazza, alzando la valigetta ed abbandonandosi sulla sedia, cercando di mantenere crismi d’eleganza e posatezza.
“Auguri anche a te” esordì Elm. “Ma immagino che per far venire qui Green da Biancavilla devi avere un motivo un po’ più importante degli auguri di Natale, vero?”.
Lei annuì e mise la valigetta sulle ginocchia.
“Ho perso la vista tre volte. Sono diventata un animale, soffocando totalmente il mio lato razionale. Ho acquistato una forza che non avrei mai avuto se non mi fossi arrabbiata toccando... questa” fece, aprendo la valigetta. La pietra nera era incastonata all’interno di un foglio di gommapiuma.
“Che diamine è?!” chiese Green, allungando la mano. Elm gli bloccò il polso.
“Non hai sentito che ha detto? È pericolosa, quella pietra...”.
Green puntò gli smeraldi sul Professore, poi li riportò sul cristallo.
“Che diamine è?” ripeté.
Crystal schiarì la voce. “Io l’ho chiamata Pietra della disperazione, perché ogni qualvolta mi sentivo arrabbiata o, per l’appunto, disperata, perdevo ogni controllo. Sfruttava ogni mio muscolo, ogni mia motivazione. Sono diventata cieca tre volte per via di questo cristallo. Dei manigoldi che la cercavano l’hanno chiamata Lacrima di Giratina, forse in dipendenza dal fatto che quel Pokémon sia la divinità del caos. L’ho presa ad un uomo che la cercava appositamente”.
“Questo è uno strumento potentissimo” disse Green.
“Già. Ecco perché voglio che tu lo analizzi e lo tenga al sicuro”.
Crystal chiuse la valigetta, con ancora il pacco regalo tra le mani, poi diede la ventiquattr’ore a Green e si alzò.
“Ed ora, se permettete, vado a casa mia”.
“Certo” annuì Elm. “Riposati”.
Green guardò la ragazza uscire, poi abbassò gli occhi nuovamente sulla valigetta, annuendo quando Crystal salutò Maris e chiuse la porta.

Ormai le era rimasto solo il pacchetto tra le mani, e camminava lentamente, fino a raggiungere casa sua. Dalle finestre veniva proiettata una calda luce arancione, ed una musica calma e tranquilla: note dolci d’un piano magistralmente suonato vagavano nell’aria fredda dell’ultimo giorno di quell’anno.
Aveva le chiavi in tasca, lei, ma, contrariamente a quanto avrebbe fatto se non fosse stata così stressata mentalmente, decise di bussare il campanello: due rintocchi semplici, e poi dei passi.
Silver aprì la porta, con un maglione a strisce orizzontali grigie ed amaranto ed i pantaloni sporchi di polvere sulle ginocchia. Aveva attorno al collo una ghirlanda e due palline dorate tra le mani.
Anche lui aveva i capelli legati verso l’alto.
Quando i loro occhi s’incontrarono, Crystal sembrò potersi sciogliere da un momento all’altro; lui aveva perso la sua seriosità, anzi, sembrava felice, tranquillo. Le fece spazio e la fece entrare, chiudendo la porta.
Fuori faceva parecchio freddo, invece in casa, complici le fiamme del camino, l’aria era parecchio calda e confortevole.
“Ho messo su un po’ di quella musica che piace a Gold durante le feste...  E sto cercando di addobbare l’albero. Ma non prendertela con me se è venuto male: è la prima volta che lo faccio”.
Crystal sorrise, chiudendo la porta e fissando le fiamme del fuoco, asciugando il freddo che aveva nell’animo.
Voltò la testa verso l’albero; non era il migliore che avesse mai visto, ma l’impegno c’era.
“In genere lo fai tu... A te vengono meglio queste cose...” anticipò il fulvo.
“È perfetto”.
“Gentile. Fin troppo. Ed anche bugiarda” sorrise.
“Gold è tornato?” domandò quella, levando gli stivali e rimanendo in calzini. S’avvicinò al divano e vi poggiò il pacco sopra, quindi prese un paio di palline e si mise ad addobbare l’albero.
“No” rispose, senza irritarsi. “Ma ha chiamato prima. Ha detto che sarebbe rimasto ad Amarantopoli per qualche giorno, visto che Marina sta lì, con l’albergo”.
“Uhm, ok. È per te”.
Silver si guardò attorno, aspettando silenziosamente delle spiegazioni.
Spiegazioni che arrivarono fulminee.
“Il pacco, il regalo. È per te”.
Lui sorrise. “Grazie, non dovevi. Io per te non ho ancora comprato nulla e...”.
“Non preoccuparti. Aprilo” disse, voltandosi e guardando come un ragazzo grande e grosso potesse tornare bambino semplicemente scartando un regalo di Natale; la curiosità nei suoi occhi fece sorridere la moretta, che non riuscì a trattenere un fremito quando, una volta aperto il pacco, il fulvo non ci trovò nulla.
“È... è vuoto?” chiese quello, guardando con occhi confusi la scatola.
“Sì...” annuì lei, pazientemente. Poi lo fece sedere sul divano, con ancora la scatola vuota tra le mani e si accomodò di fianco a lui.


“Perché in questa scatola avrei voluto mettere cose che non ho la possibilità di trovare, in forma materiale: avrei voluto mettere la gratitudine, per avermi seguita passo dopo passo, mano nella mano in quest’avventura... Avrei voluto mettere l’affetto che provo per te, incredibilmente denso e forte. Avrei voluto mettere in quella scatola un tuo sguardo, per farti rendere conto di quanto bello sia quando mi guardi, ed anche un tuo bacio, perché è la cosa più dolce del mondo. Avrei voluto mettere qui dentro la sensazione di protezione e calore che mi da un tuo abbraccio. Avrei voluto farti vedere quello che vedevo io, quello che provavo io, quando ad Hoenn t’ho visto esanime, sotto il ghiaccio. Ma purtroppo non posso, perché non so dartele, queste cose. Quello che però ti posso assicurare è che io, di te, mi sono innamorata. E fidati, non ti lascerò andare mai, mai più”.



Bacio.


 

Da qui in poi siete dentro casa mia;
La storia si conclude così. Hoenn's Crysis è durata un anno e mezza ed oggi è finalmente conclusa. Lieto fine, nonostante abbia giocato con i feels di mezzo fandom (o almeno, la metà dei lettori di questa storia, che sono molto meno di mezzo fandom) ho preferito dare un lieto fine.
Non posso negare di essermi divertito parecchio a scrivere questa storia ed il senso di vuoto che sto provando ora non sarà colmabile, almeno fino a quando non aprirò una nuova storia.
E la aprirò questa nuova storia, lo sto scrivendo un po' ovunque ma adesso la cosa è ufficiale. La prossima fan fiction che scriverò si chiamerò The Sinful's Recall e sarà ambientata ad Adamanta. La redarrò non appena finirò di riscrivere Back to The Origins per aggiornare lo stile (cosa che tra l'altro sto già facendo per Hoenn's Crysis, nei primi capitoli già si nota il cambio di registro stilistico, spero). La nuova storia non uscirà, probabilmente prima di marzo ma intanto sul profilo verranno pubblicate due storie di meno di dieci capitoli: una vede Fiammetta e Pat a catturare Jirachi per riparare a tutto il casino che ho fatto, un po' come la Damage Control della Marvel. L'altro, presumibilmente il primo che vedrà la luce, sarà Ferriswheel puro.
E quindi nulla. Ringrazio come sempre tutte le persone che hanno recensito e soprattutto letto le mie storie, il numero tutt'oggi m'impressiona e mi rende fiero dell'impegno che sto mettendo nel progetto. Non chiuderò la storia fin quando non sarà pronto ogni capitolo del fumetto che Black Lady sta ancora disegnando.

Ancora grazie.


Andrew Christopher Black


 

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