Capitolo
8 -
Crescita
– Ehi, svegliati.
– Kalut.
– Svegliati, Kalut.
– Svegliati...
Kalut spalancò gli occhi.
Timore,
paura, rabbia, frustrazione, tutto insieme. Emozioni negative e
tensioni
asfissianti nella sua testa fino a colmarla talmente tanto da far
fuoriuscire
quelle sensazioni che non sapeva come spiegare dalla sua bocca. Con un
grido.
Né greve né acuto, né di rabbia né di terrore.
I suoi polmoni si
svuotarono, tutti
si trassero indietro spaventati dalla reazione improvvisa. Kalut aveva
alzato la
schiena, si guardava attorno cercando di capire in mano a chi fosse il
martello
che aveva frantumato la così delicata barriera della sua quiete. Occhi
spalancati, rossi, bocca semichiusa, peli rizzati e pelle d’oca in
ogni punto
del suo corpo, mentre un tremolio lo scuoteva.
– Calmati, Kalut –
sussurrò
avvicinandosi troppo Mary, la madre del ragazzino.
Kalut balzò indietro come
una molla
sul bracciolo del divano per la troppa invadenza dell’essere umano, ma
la sua
schiena toccò qualcos’altro. Si accorse che alle sue spalle stava la
statuaria
figura del marito della donna, Donald.
Si trasse indietro anche
dalla sua
presenza. Ancora terrorizzato, ancora precipitoso.
Voltò la testa e
un’ulteriore
sagoma era comparsa accanto a lui, cercò l’ultima via d’uscita e si
rese conto
che anche quest’ultima era bloccata da un quarto uomo. La sua
pressione
sanguigna aumentò spaventosamente, il suo cuore pompava sangue a
velocità
infraluminale, le ripercussioni fisiologiche del suo stato di terrore
furono
ancor più accentuate dalla sua condizione totalmente ignara di ciò che
stava
accadendo.
Per un momento il ragazzo
dai
capelli bianchi si bloccò, come paralizzato, immobile. Ogni suo
muscolo si tese
e ogni sua giuntura si fermò nella sua posizione.
– Rick... – sussurrò con
la voce
tremante di un violoncello nella mani di un suonatore d’orchestra.
I due uomini che il suo
cervello
non aveva ancora identificato, quelli che lui non sapeva essere due
poliziotti
giunti lì durante il suo sonno, si appropinquarono a lui bruscamente.
Il suo tronco cerebrale
inviò
repentino un segnale al midollo, l’impulso elettrico attraversò rapido
e
indolore la spina dorsale e giunse in un tempo incredibilmente
ristretto ad
ogni singola diramazione del suo sistema nervoso.
Kalut sembrò scomparire
agli occhi
dei presenti, come se si fosse teletrasportato improvvisamente, ma era
solo
sgusciato via da quel cerchio di umani che nel quale era stato
inconsapevolmente inscritto.
– Basta! Via! – esclamò
stupendo i
presenti che più o meno tutti avevano constatato o erano stati
informati del
fatto che quel ragazzo si esprimesse davvero raramente.
Kalut si guardò attorno,
si rese
conto che nel suo cranio vi era un perfetto disegno di quella casa.
Gli era
bastato vederla, esplorarla una volta per memorizzarla. Per questo il
suo
sguardo si indirizzò senza tanti dubbi verso il punto per il quale era
entrato
in quel posto.
– Kalut! – esclamò Rick.
– Fermati, ragazzo! –
aggiunse
deliberatamente uno dei due agenti.
Kalut li guardò appena. Il
suo
obbiettivo era la porta.
Il giovane corse verso
quell’occulto oggetto che scoprendo una via di collegamento, aveva
permesso a
lui e Rick di avere accesso al dedalo degli umani ore prima. Le sue
mani si
scontrarono col legno beige, il suo cervello cercò di spolverare
meglio i ricordi
alla ricerca di un’immagine più concreta che gli permettesse di
comprendere
come il meccanismo che permetteva di tornare all’aperto funzionasse.
Nulla.
Un colpo sullo stipite,
poi fermo.
– Kalut, che cosa stai
facendo?! –
esclamò il ragazzino dietro di lui.
Kalut si girò per un
istante. Rick
intravide leggermente il suo volto. Digrignava i denti, aveva gli
occhi vuoti,
ma terrorizzati, tremava vistosamente.
I due agenti si
avvicinarono, Kalut
si lasciò raggiungere.
– Che cosa ti viene in
mente, ragazzo?
Cerca di stare un po’ calmo – mormorò il primo.
I due voltarono Kalut in
modo che
desse le spalle alla porta. Il giovane si trovò bloccato dietro un
muro
costituito dai due e incastrato contro l’altra parete. I due
poliziotti
cominciarono a parlare. Diversamente dai momenti in cui lui sentiva le
parole
delle altre persone e qualcosa giungeva al suo cervello facendogli
intendere il
significato delle parole pronunciate dagli altri, solo una massa di
suoni
giunse alle sue orecchie dalle lingue dai due uomini.
“Fermo...”
“Stai...”
“Non...”
“Devi...”
“Muoverti...”
“In...”
“Portiamo...”
“Centrale...”
Sentiva tante parole,
tante parole
per così poco spazio. Il verso della sua specie, che ancora egli non
era stato ancora
capace di emettere, compresso nel minimo spazio in cui egli era
costretto,
mandava la sua testa in sovraccarico.
Qualcosa si strappò da
lui, come un
pezzo di corteccia va a separarsi dal resto dell’albero, egli perse
qualcosa.
– Fermi! Basta! Silenzio!
– gridò a
pieni polmoni il ragazzo.
I due agenti non si
tolsero da lui,
anche se per un minimo istante furono intimoriti dalla sua reazione
improvvisa
e brutale.
Kalut si accorse di
questo, un
meccanismo funzionò alla perfezione dentro di lui, un’intuizione
giunse nella
sua testa.
Il ragazzo alzò le braccia
e spinse
i due agenti. Questi indietreggiarono di qualche passo, il loro fiume
di parole
si interruppe. Kalut ebbe modo di voltarsi e tornare a guardare la
porta. Vide
il rettangolo colorato in legno, vide se stesso alcune ore prima, nel
momento
in cui stava entrando in casa. Vide se stesso entrare in casa dando le
spalle
alla porta e dietro di lui Donald, l’uomo che l’aveva bloccato
sull’uscio e che
poi lo aveva lasciato passare tenere in mano quella strana escrescenza
curva
che sorgeva più o meno verso la metà della porta. Vide se stesso
assopito sul
divano, ad occhi chiusi e poco lontano la donna che sembrava chiamarsi
Mary
prendere quell’escrescenza, e ruotarla, per poi aprire la porta.
Non sapeva di ricordare
tutto ciò,
non sapeva come poteva essere possibile. Ma non si fece domande.
La sua mano corse verso
quel’elemento eccessivo della porta, lo afferrò, lo strinse. La
maniglia,
finalmente ne riesumò il nome da qualche recondito canto della sua
memoria,
ruotò sotto la pressione della sua mano. La porta gli seguì il suo
movimento
compiendo un arco lentamente.
A Kalut si aprì il varco.
Lo spazio
per passare, per uscire fuori. Il ragazzo corse, corse eludendo ogni
possibile
ostacolo. Ma fuori era buio.
Kalut si trovò totalmente
immerso
nelle tenebre, ma non si fermò. Ricordava più o meno anche in quel
caso la
strada da prendere, ma si rese conto che se avesse iniziato a correre
alla
cieca i due uomini molto probabilmente lo avrebbero raggiunto.
Gli agenti uscirono fuori
per
seguire il ragazzo. Kalut se li trovò presto alle spalle.
– Fermati!
Kalut ignorò le loro voci,
continuando la sua corsa e giungendo dall’altra parte della strada.
– Kalut! – esclamò ad un
certo
punto una persona conosciuta.
– Rick fermati! – sentì
pure il
ragazzo dai capelli bianchi.
Rick era sfuggito dai suoi
ed era
corso fuori casa, cercando anche lui di raggiungere il suo amico.
Kalut
sentendo la sua voce si immobilizzò e guardò indietro.
Ricordava l’essere che lo
aveva
letteralmente terrorizzato quando era giunto per la prima volta in
città.
Ricordava il suo ruggito. Un brivido percorse la sua spina dorsale
quando
avvertì di nuovo quel suono assordante.
Due luci intensissime
falciavano il
buio notturno e si muovevano sempre incredibilmente rapide lungo la
strada che
lui aveva appena oltrepassato. Dall’altra parte, intento a correre sul
marciapiede, Rick.
– Rick, fermo! – esclamò
Kalut
perdendo otto battiti.
Un suono acre e
fastidioso, le due
luci che correvano sulla strada si immobilizzarono. Con un po’ di
fatica il suono
si chetò e il ruggito dell’essere meccanico scomparve. I fasci
luminosi no,
però.
E questi erano sufficienti
per
illuminare una scena, una scena che Kalut scolpì all’interno della sua
memoria
perché non se ne andasse mai. Non sapeva quale emozione stesse
provando eppure
era qualcosa di forte.
Uno dei due agenti, dai
riflessi
pronti, aveva bloccato Rick passandogli un braccio attorno al torace,
impedendogli di toccare l’asfalto e salvandolo dall’auto in corsa che,
nonostante la frenata brusca, avrebbe comunque colpito il ragazzino.
Kalut trasse un sospiro.
Rick aveva
il fiatone, i due agenti erano immobili, uno dei due stringeva ancora
il
bambino. I genitori di Rick, ancora lontani, erano rimasti
pietrificati.
Tutto era avvolto in una
densa
gelatina trasparente. Nessun movimento, nessuna scossa.
Ma poi, un altro umano
uscì dalla
creatura metallica che emetteva luce.
Kalut riprese un normale
ritmo
cardiaco, compresa la situazione, insieme a Venipede che si accorse di
avere
accanto, voltò le spalle agli altri e scomparve nel buio.
Celia era davanti al bancone del Centro
Pokémon.
L’infermiera era scomparsa, sparita dietro il corridoio che portava alle
camere
dei pazienti. Erano circa le nove e mezza della mattina del primo
settembre e
la ragazza, appena sveglia, aveva per prima cosa chiesto di ritirare
Gible.
Passarono alcuni minuti, poi la ragazza
ricomparve con
una Cura Ball in mano. La bionda prese la sfera e ringraziò
educatamente.
– Ricordi, niente sforzi eccessivi per un po’ –
ribadì
l’infermiera tornando dietro al bancone.
Ma Celia stava pensando a tutt’altro.
Precisamente al
soprannome per il suo nuovo compagno. E l’illuminazione giunse. In quel
preciso
istante, come segnale indicante l’inizio della giornata, il motivetto
tipico
dei Centri Pokémon di tutto il mondo risuonò, come di consuetudine,
all’interno
dell’edificio.
Celia aprì gli occhi.
Lanciò la sfera facendo uscire il Gible e lo
prese in
braccio, il Pokémon intanto faticava a comprendere ciò che gli accadeva
attorno.
– Il tuo nome è Jingle! – esclamò la bionda
tenendolo
tra le braccia. – O anche Jin, mi hanno detto che diventerai molto
forte!
Xavier era sveglio da poco, immobile sul letto
intento a
stiracchiarsi con le braccia e le gambe tese. Il sedicenne balzò in
piedi. A
torso nudo, passò davanti uno specchio, fermandosi un momento a
guardarsi. Il
suo fisico longilineo ma scolpito stava decisamente meglio dopo la lunga
camminata del giorno prima e una notte di sonno profondo. Si sentiva
sciolto,
si sentiva in forma. Xavier aveva voglia di muoversi, di camminare, di
attraversare Sidera. La regione era calda, ma per fortuna si era già
quasi
svuotata dei turisti confluiti in essa per assistere al Pianto delle
Stelle,
troppa popolazione unita alla temperatura torrida estiva diventava
micidiale, le
famiglie non avevano retto e molti avevano deciso di interrompere le
vacanze
causa “troppa gente”. Il ragazzo giudicava il tutto positivo. Conclusa
la
contemplazione di se stesso, Xavier raggiunse il bagno, fece una doccia,
espletò le sue funzioni primarie, si diede una rinfrescata.
Uscì dalla cuccetta fresco e pulito come un
giglio. Ma
con i capelli ancora bagnati, l’asciugacapelli gli avrebbe fatto sudare
l’anima, con i trenta gradi fissi estivi, i capelli bagnati erano una
benedizione.
Uscì dal Centro Pokémon, nel salone principale
davanti
all’entrata incrociò un paio di Allenatori ma nessuna faccia conosciuta.
Quando
fu fuori capì perché così tante persone si trovavano nel centro
nonostante
fosse un orario abbastanza contenuto, per una mattinata estiva. L’aria
torrida
e soffocante avrebbe ucciso un Camerupt adulto, il sole quel giorno
sembrava
davvero incazzato col mondo, Xavier credeva di sentire i suoi occhi
sfrigolare.
Mosse due passi verso la zona d’ombra, cercò il
punto
più fresco. La sua meta era il laboratorio di Willow, a dire il vero lo
rincuorò la certezza e la speranza in un condizionatore a disposizione
del
prof, ma prima di arrivarci doveva incontrarsi con sua sorella. Tutto
gli tornò
in mente, non la sentiva dal giorno precedente, Celia non rispondeva
alle sue
chiamate e secondo l’ultima ricerca, quella condotta la sera prima, lei
si
trovava ancora a Costa Mirach, a qualche chilometro da lì, e
probabilmente vi
aveva passato la notte. Una noia depressa prese a gravare sulla sua
nuca.
Xavier non aveva voglia di aspettare, ma purtroppo era costretto.
Il ragazzo stava mettendo in conto tutte le
alternative
possibili per passare quelle ore prima dell’arrivo della sorella e fino
a quel
momento l’alternativa migliore era “rimani in catalessi su un divanetto
del
Centro Pokémon e goditi il fresco”.
Quando, come un fulmine a ciel sereno, il suo
PokéNet
squillò.
Kalut aveva corso per
tutta la
notte, non aveva idea di dove si trovasse. Sapeva solo che attorno a
lui
c’erano alberi e davanti a lui una strada. Asfalto, ancora, nero e
ruvido.
Al ragazzo venne in mente
che le
strade, portavano alle città, città come quella di Rick. Inizialmente
non era
completamente propenso a prendere quella via. Mise un piede sulla
strada. Era
scalzo, a casa di Rick gli erano stati dati in prestito dei
pantaloncini e una
t-shirt, ma non calzini o scarpe.
Kalut rifletté per qualche
istante,
con calma, col fiatone, affaticato. Venipede era accanto a lui.
Non sapeva se seguirla o
no. Poi si
accorse di non star ragionando come prima. Aveva capito, aveva in
qualche modo
compreso come interagire con certe cose e con certe persone. Mise il
primo
piede sulla strada, il secondo lo seguì.
Era il momento di
crescere.
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