Capitolo
9 - Gioco
– Capisci perché sono dovuta rimanere
qui?
– Mh, comprendo, ma quanto ci metti ad arrivare
più o
meno?
Celia parlava con Xavier tramite il PokéNet. La
bionda
era appena uscita dal Centro Pokémon di Costa Mirach e anche lei era
rimasta impressionata
dall’estremo calore della giornata. Xavier invece faceva su e giù lungo
la
fascia d’ombra generata da un palazzo nella via principale di Idresia.
- Non so, penso che per oggi pomeriggio riesco
ad essere
lì...
– Cazzo! Non puoi volare su Karma? – chiese
Xavier.
– Come sai che ho preso Karma? – domandò lei
sbigottita.
– Ah, è grazie ad una funzione del PokéNet,
praticamente
tutti gli Allenatori che possiedono il dispositivo, che per ora siamo
io, te e
Willow, sono schedati. È molto comodo. – spiegò lui.
– Wow, il futuro! – Celia rise. – Comunque no,
se
volassi su Karma, tempo un’ora e bollirei, ti ricordo che le sue ali
sono fatte
d’acciaio e l’acciaio diventa rovente... sai, sedermici
sopra... non è proprio il mio sogno. –
rispose alla precedente domanda la bionda.
Xavier annuì,l ma lei non poté vederlo. –
Capisco... -
mormorò. – E allora come facciamo?
– Eh, che ne so, io mi metto in viaggio e tu mi
aspetti... – disse semplicemente Celia.
– Che rottura... va bene, ma intanto vado da
Willow, che
ne dici? – propose lui.
– Uff... ok, ma anche io vorrei parlarci.
– Eh, ci parli, ci parli – concluse Xavier. –
Vabbè, a
dopo, sbrigati.
– Ciao...
Celia era leggermente infastidita dal
comportamento del
fratello, però un po’ si rendeva conto che il ragazzo aveva ragione, non
poteva
mica aspettarla per una mattinata intera rinchiuso in un Centro Pokémon.
Decise di mettersi in viaggio. Tirò fuori
Karma. Il
Pokémon si strusciò subito all’Allenatrice poiché non la vedeva da
parecchio
tempo, lei ricambiò i convenevoli.
– Senti, Karma, facciamo una cosa, passiamo per
il primo
tratto di viaggio in mezzo alla foresta, tanto il sole non è altissimo,
così
stiamo al fresco. Quando sento che inizi a riscaldarti continuò a piedi.
Che ne
dici? – chiese lei.
Karma emise il suo verso acuto come per
acconsentire
felice.
I due partirono, appena uscita dalla cittadina,
Celia
saltò in groppa al suo Pokémon. L’Armuccello
cominciò a fendere l’aria volando a poco più di un metro da terra, in
mezzo
agli alberi, sotto l’ombra delle fronde evitando con perizia e abilità
ogni
ramo o possibile ostacolo che si presentasse sul percorso.
– L’indirizzo dovrebbe essere questo – disse
tra sé e sé
Xavier guardando il display del Pokénet.
Il ragazzo si voltò, era giunto davanti ad una
palazzina
di cinque piani, grigia e triste, in cemento armato. Ma non doveva
stupirsi,
era nella periferia di Idresia, città interna della regione, non dalla
fama
particolarmente positiva riguardo alle sue attrazioni o alla sua
bellezza.
Xavier raggiunse il citofono. Tra i vari nomi
che
comparivano di fianco ai tasti, “Professor
Jason
Willow” scritto sulla plastica col pennarello indelebile saltava
subito all’occhio. Il ragazzo suonò.
– Chi è? – domandò una voce metallica.
– Sono Xavier Levine, uno dei...
– Xavier! - esclamò il prof dall’altra parte. -
Sali,
sali! Mi fa piacere che tu sia qui!
Con uno stridere acre e fastidioso la porta si
aprì. Il
castano la oltrepassò e cominciò a salire i gradini delle rampe di
scale.
Quando, giunto al quarto piano, notò che uno dei portoni era socchiuso e
lesse
sul campanello nuovamente il nome di Willow, bussò per educazione prima
di
entrare nell’appartamento.
Davanti a lui comparve il mondo. Tutto, tutto
l’intero
locale era pieno di macchinari immersi nel caos, computer, ciabatte e
fili
sparsi a terra. Una volta era stato nella casa di Bill, lo sviluppatore
del
sistema PC dei centri Pokémon di Kanto e Johto. Beh, quella era la
camera di
Light Yagami se messa a confronto con l’appartamento di Jason Willow.
Da dietro una scrivania che era diventata un
muro per
quanta strumentazione aveva sopra comparve un uomo che riconobbe essere
lo
stesso nell’ologramma di introduzione al PokéNet, quindi,
presumibilmente, il
professore.
– Xavier, ragazzo, finalmente ti incontro di
persona! – esclamò
questo.
I due si strinsero la mano. Xavier aveva una
strana
espressione in volto, si era trovato davanti questo strano soggetto di
corporatura minuta con una camicia marrone sbiadita e un paio di jeans
troppo
larghi, con gli occhiali che sembravano dover cadere giù dal suo naso da
un
momento all’altro.
– Allora dimmi, come va il viaggio? – chiese
Willow
prendendo delle scartoffie dalla scrivania.
– Molto bene, devo dire che il PokéNet mi
facilità molto
le cose, ma in realtà avevo io un paio di domande da rivolgerle, ha un
po’ di
tempo? – fece Xavier.
– Oh, beh, presumo di sì, vieni allora, andiamo
nell’altro appartamento – lo esortò il professore.
I due tornarono sul pianerottolo, luogo più
fresco della
casa. Xavier comprese che il tipo aveva due locali e uno di questi era
quell’inferno di macchine adibito solo ed unicamente ad
ufficio/fabbrica.
Willow infilò una chiave nella serratura della porta vicina alla sua, in
ogni
piano vi erano due appartamenti in quella palazzina, e girò facendo
risuonare
il rumore metallico dello scatto dell’otturatore. Aprì la porta.
Il primo appartamento dell’uomo non c’entrava
nulla con
il secondo. I due fecero il loro ingresso in quella che dall’interno
poteva
benissimo essere scambiata per una casa totalmente disabitata. Sembrava
vuota,
priva di mobili o comunque di elementi che facessero intendere che un
qualche
essere umano vivesse al suo interno, anonima e spoglia. Tutto ciò fece
intendere al ragazzo che forse il luogo in cui l’uomo passava la maggior
parte
del suo tempo era il laboratorio improvvisato in cui l’aveva trovato,
persino
il campanello col suo nome corrispondeva a quell’appartamento.
– Xavier, vuoi bere qualcosa? – chiese il
professore
avvicinandosi a quella che sembrava la cucina.
– Uhm, sì grazie – rispose il castano molto
accaldato.
– Succo di frutta, acqua o gassosa? – domandò
Willow.
- Vada per il succo.
Il professore si appoggiò al tavolo, facendo
cenno anche
a Xavier di sedersi, con in mano due bicchieri e un cartone di succo ACE
in
mano. Il giovane si accomodò sulla sedia di plastica bianca e prese il
primo
bicchiere riempito dall’uomo che gli sedeva di fronte e lo gettò in gola
tutto
d’un sorso non con poca difficoltà. Odiava il gusto ACE, ma dopo esser
stato
servito, peraltro per una sua imperizia, gli sembrava brutto stare a
premere su
questo particolare.
– Allora, ragazzo, dove va a parare la tua
curiosità? –
chiese Willow dopo aver bevuto anche lui.
Xavier unì le mani sopra la tavola e cercò una
posizione
più comoda per il didietro, apparentemente inesistente su quelle sedie
infernali. – Beh, prima di tutto mi piacerebbe sapere qual è il preciso
scopo
di questa... ricerca in cui siamo stati coinvolti io e Celia. – gettò
fuori
lui.
– Ah, mi fa piacere notare il tuo interesse,
beh, ecco,
devi sapere che lavoro per una federazione chiamata FACES, l’ente che
gestisce
la sicurezza e la salvaguardia dello stato. Mi è stato chiesto di
brevettare
uno strumento che agisse da guida per gli Allenatori, per questo ho
chiesto a
voi di sperimentare, il PokéNet, raccogliendo dati tramite il Glowe,
riesce ad
imparare cosa fa l’Allenatore tipo viaggiando per una regione, questo lo
aiuta
a sviluppare un’intelligenza di base che possa essere sempre pronta ad
aiutare
chi lo indossa – spiegò l’uomo.
– Capisco, e perché ha scelto proprio noi, me e
Celia? –
aggiunse Xavier.
– Beh, perché voi siete perfetti, non avete né
troppa
esperienza nel campo dell’Allenamento né siete dei novellini, avete già
viaggiato in altre regioni, ma non conoscete ancora Sidera, siete divisi
ma vi
tenete in contatto... voglio che questo dispositivo calzi a pennello per
ognuno
e perché lo faccia deve imparare prima le basi, come comportarsi con un
Allenatore medio. – proseguì il professore.
Xavier poggiò l’occhio per un istante sul
dispositivo
che aveva al polso.
– È interessante tutto questo, pensa che i
PokéNet
saranno presto diffusi in tutto il mondo? - domandò poi.
– Mh... – Willow vacillò un istante. –
...sicuramente
saranno presenti a Sidera molto presto, ma prima ricordate che dovete
completare il vostro viaggio tu e Celia! – ripeté con un’aria lievemente
insicura l’uomo.
Xavier poggiò la schiena alla sedia e rilassò i
muscoli.
Aveva davanti un uomo che non sapeva come interpretare, in alcuni
frangenti
dava un’idea di sé molto paterna, mentre in altri momenti sembrava avere
sott’occhio solo il completamento dei compiti assegnati. Ma il ragazzo
non si
fece troppe domande, poteva sentirsi soddisfatto, aveva ottenuto le
informazioni che cercava, si era confrontato di persona con lo studioso
dal
quale era stato reclutato e con il quale non aveva mai scambiato neanche
una
parola. Eppure qualcosa non gli era particolarmente chiaro.
– Come ha fatto a sceglierci? – chiese di nuovo
il
castano con aria da duro.
Willow nascose una smorfia di dubbio dietro le
sue lenti
bifocali. – Che cosa intendi, ragazzo? – la sua voce era più cupa. – Ti
ho
spiegato il motivo della mia sc...
– Ci ha osservati? Siamo stati spiati in
qualche modo? –
domandò Xavier senza un briciolo della leggerezza che aveva
contraddistinto le
sue precedenti domande. – Come faceva a sapere che “eravamo perfetti”?
Che
calzavamo a pennello per un compito simile? Come si è informato su di
noi? – Lo
sguardo serio e tetro del ragazzo lasciava intuire che in cuor suo un
mucchio
di dubbi circa il progetto in cui era stato coinvolto erano sorti fin
dai primi
giorni.
Willow prese due boccate d’aria profonde. La
domanda non
lo aveva spiazzato, era stato infastidito dal fatto che un così evidente
errore
di calcolo avesse generato in Xavier una questione inaspettata.
–
Ci sono degli
scrutatori – proferì d’un fiato. – Dipendenti della FACES che si
aggirano nelle
città per tenere d’occhio... alcune situazioni... – generalizzò.
– Che tipo di situazioni? – proseguì con
l’interrogatorio da “bad cop” Xavier.
– Beh, devi sapere che, dopo un po’ di tempo,
gli
Allenatori che si sono distinti per bravura o altro vengono schedati e
studiati
dall’organizzazione – chiarì l’uomo. – E tu hai conquistato ben
ventiquattro
medaglie, Xavier – precisò.
Il ragazzo lo fissò scuro in volto per qualche
interminabile secondo. Poi i suoi lineamenti si alleggerirono.
– Ok! – sorrise, togliendo dallo stomaco di
Willow quel
groppo fastidioso. – Ho capito.
Il professore distese i muscoli. – Ma dimmi,
ragazzo,
come mai non è venuta anche tua sorella a farmi visita? – domandò per
sviare il
discorso.
– Lei è dovuta rimanere a Costa Mirach per un
contrattempo con un Pokémon, sarà qui per le... – diede uno sguardo al
PokéNet.
– ...ma sì, le tre o le quattro, penso.
– Ah, e allora che ne dite, vi va di fermarvi a
dormire
qui? Ho giusto due letti liberi – propose l’uomo con gli occhiali.
Xavier annuì scrollando le spalle. – Per me è
ok...
Celia era in viaggio. Aveva percorso gran parte
dell’itinerario volando su Skarmory, ma ad un certo punto muoversi su di
lui
era divenuto insopportabile. La ragazza si trovava più o meno a metà
strada tra
Costa Mirach e Idresia ed erano appena scoccate le undici, il clima si
faceva
sempre più torrido e l’aria meno respirabile, ma la ragazza non
intendeva
fermarsi.
Kalut si muoveva
lentamente
sull’asfalto. Sentiva di non avere la stessa padronanza di sé di
quando si
trovava sull’erba, faceva più attenzione ai suoi passi, guardava a
terra e non
davanti o sopra di sé. Si stava lentamente rendendo conto di quelle
piccole
cose che distinguevano il suo muoversi sul tappeto d’erba e sulla
ruvida tavola
urbana. Il ragazzo contava i passi che muoveva sull’asfalto, uno ad
uno, lo
aveva fatto la prima volta, quando era stato portato in città da Rick
e lo stava
facendo anche in quel momento.
Giunse davanti ad un
cartello e lì
i suoi passi si interruppero. Lesse la scritta sulla banda di metallo
retta da
due pali che aveva davanti.
“Borgo Asterion” vi era
scritto. Si
accorse di saperlo leggere, si rese conto di saper decifrare quegli
strani
simboli che gli umani come lui utilizzavano per dare un nome alle
cose,
probabilmente avrebbe saputo persino imitarli. Capiva molte cose, in
effetti,
senza sapere da dove venisse tutta la sua conoscenza. Ignorò i
pensieri troppo
complessi, la sua meta era proprio trovarla, una meta, quindi riprese
il
cammino. Bastarono pochi altri passi perché si ripresentasse a lui la
città,
quell’ambiente tanto strano e sconosciuto al quale era stato
introdotto dal
ragazzino. Kalut vide un uomo camminare lungo il lato opposto della
strada, il
tipo non si curò affatto di lui. Il ragazzo passò avanti, imitando il
suo
menefreghismo.
Kalut, camminando per
un’altra
mezz’ora, giunse a quello che sembrava essere il centro cittadino.
Aveva
compreso la funzione di quegli ambienti stretti e soffocanti, aveva
incontrato
molti umani muovendosi per quelle che venivano chiamate comunemente
“vie”, era
come se i suoi simili si riunissero tutti insieme per vivere in
agglomerati di
case e abitazioni. L’idea lo eccitava non poco, una sorta di tana
comune per
quelli della sua specie.
Il ragazzo si era
ritrovato in una
piazza, i suoi piedi stavano ancora abituandosi al pavé ma i suoi
occhi
ammiravano colmi di una grande emozione le meravigliose costruzioni
che aveva
attorno. Quegli edifici costruiti in pietra erano così perfetti, così
belli al
suo sguardo da sembrargli quasi tutt’uno con il terreno. Stava in
piedi, fermo
al perfetto centro di quel largo spiazzo, col vento che, confluendo
all’interno
dei vicoli del borgo giungeva fino a lui accarezzandolo e togliendogli
di dosso
quella torrida membrana umida che il clima gli aveva appiccicato
addosso.
Kalut era felice di essere
a Borgo
Asterion.
Si mosse di lì, voleva
vedere ogni
singolo posto, ogni angolo di quel labirinto di pietra e mattoni,
cominciò a
camminare tra le vie guardandosi attorno curioso e affascinato.
Girovagò senza
meta per un bel po’ fin quando non raggiunse l’illuminazione. Volle
osservare
il paese dall’alto. Cominciò quindi a guardarsi attorno per cercare un
luogo
che fosse adatto ad una scalata. A fargli avvistare un punto adatto fu
proprio
Venipede, presenza amica di cui Kalut si era completamente
dimenticato. Il
Pokémon Centipede salì su un muro e gli indicò una protuberanza nella
parete,
continuando a salire, poi, evidenziò al compagno, uno dopo l’altro,
più punti
ove poggiare mani o piedi per tirarsi su, il coleottero raggiunse il
tetto di
un palazzo di tre piani mostrando le indicazioni ad un Kalut che era
intento a
guardarlo ma fregandosene totalmente del percorso. La domanda del
ragazzo era
un’altra, com’era possibile che Venipede conoscesse la sua idea di
salire su di
un edificio?
L’insetto agitò le
antenne, Kalut
smise di porsi dubbi e si avvicinò alla parete che l’amico aveva
risalito, il
primo appiglio fu il davanzale di una finestra del piano terra, seguì
un
mattone che fuoriusciva lievemente dalla sua postazione naturale
permettendogli
di aggrapparsi ad esso senza distruggersi le unghie. In poco tempo,
Kalut
raggiunse le grondaie. Fu un poco più difficile per lui appendersi
alle
ringhiere senza scivolare per salire sul tetto, ma non impossibile, il
ragazzo
fu facilmente sopra.
Davanti a lui si mostrava
Borgo
Asterion illuminato dal sole di mezzogiorno in tutta la sua bellezza.
I tetti delle
case, irregolari ma omogenei sorgevano come funghi all’ombra di una
quercia
superati ogni tanto in altezza da una torre, un campanile, una cupola.
Il
ragazzo ammirava quello scenario catturato e quasi ipnotizzato. Era
senza
parole tanto che quando Venipede salì sulla sua spalla lui neanche se
ne
accorse.
Un lieve acciottolare di
stoviglie
cominciava ad intrufolarsi nel silenzio generale, era ora di pranzo
per gli
uomini della città e Kalut lo aveva capito, sentiva anche lui di
doversi
nutrire, ma a quello avrebbe pensato poi.
La sua mente era persa
nella nebbia
di altri pensieri quando, improvvisamente, udì uno strano suono alle
sue
spalle, molto vicino a lui.
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