Capitolo
14
– Dolore
Kalut
aprì
gli occhi nell’oscurità dell’angolino in cui si era rinchiuso. Il
tronco
cavo di un albero nel quale, dopo essere sceso dal ramo per rubare un
lenzuolo
steso ad asciugare da una casetta vicina, si era rannicchiato per
dormire. La
notte era scorsa in fretta, Venipede si era appisolato sulla corteccia
dell’albero vicino e Xatu che mai avvertiva la morsa del sonno aveva
vegliato
sui due compagni. Il silenzio era comune, tutti e tre lasciavano che
nelle loro
orecchie scorresse calmo il brusio che era il rumore di fondo del
paese che in
quell’istante apriva gli occhi. Il sole mattutino estivo già picchiava
violento
sull’umido pavé e sui corpi ancora non desti dal torpore.
Kalut
per
primo stirò i muscoli, portava ancora addosso i vestiti datigli a casa
di
Rick, i bermuda e la t-shirt, e i capelli bianchissimi, scompigliati e
caotici.
Poco
gradevole il gracidare
della sveglia la mattina dopo la sera in cui non si è chiuso occhio.
Almeno per
Xavier, Celia era caduta fra le braccia di Hypno poco dopo aver messo
piede
nella stanza ed essersi gettata sul letto. Il castano, dal canto suo,
sfoggiava
un grosso livido che mascherava il suo sguardo nervoso dagli occhi
arrossati e
doloranti.
‒
Dio… ‒ mugolò il ragazzo
zittendo la suoneria del PokéNet. Poi guardò sua sorella.
Dormiente,
beata, senza
pensieri in testa e senza problemi dietro. Xavier sospirò. Sua sorella,
rifletté. Non era sua sorella, ma le voleva bene; peraltro, lei stessa
era
cresciuta nella casa di suo padre, aveva festeggiato i compleanni nella
casa di
suo padre, aveva scartato i regali sotto l’albero nella casa di suo
padre, era
diventata signorina nella casa di suo padre, si era trasferita nella
nuova casa
di suo padre. Era sempre stata sua sorella.
Ripensava
al giorno precedente,
alla scena di Celia più ubriaca che lucida che rovistava nella sua borsa
in
cerca di soldi necessari al pagamento di qualcosa che né era adatto ad
una
ragazzina né le era piaciuto. E ne era certo il fratellone X, non si è
biologicamente portati per gradire l’alcool prima di una certa età.
Persino la
sua esperienza personale associava lo champagne di capodanno bevuto per
sembrare adulto al rigurgito fastidioso causato dal bruciare della gola.
Aveva
bevuto due cocktail di
grossa taglia, la bionda. A quattordici anni. Da sola. In un locale in
cui i
meglio intenzionati sono solo gli accompagnatori di un qualche amico che
si
trova lì con lo scopo di curare le proprie piaghe fisiologiche, nella
peggiore
delle aspettative, con il cavo orale di qualche infermiera del luogo.
Il
senso di colpa si affacciò nella
coscienza di Xavier timido e silenzioso come un ragazzino nello scrutare
da
dietro la porta della cucina sua madre che viene schiaffeggiata dal
compagno.
Che fratello di merda si era dimostrato, l’aveva abbandonata subito dopo
essere
entrato. Non sapeva che cosa avesse combinato quella sera, ma solo in
quel
momento capiva che forse non aveva fatto la cosa migliore di tutte.
Immaginava
come fossero andate le cose, magari qualcuno ci aveva pure provato con
lei. Ma
uscito dal locale non aveva avuto l’audacia di domandarglielo, il suo
buon
senso era stato momentaneamente zittito dagli shot e dalla brutta
avventura.
Senza
neanche accorgersene, il
castano si era già vestito e aveva ricomposto alla meno peggio il suo
zaino, il
suo flusso di coscienza era durato abbastanza.
Starsene
a letto ancora un po’
gli era sembrata una prospettiva troppo luculliana: nella fase più
spinta del
masochista che in lui si nascondeva come in ogni individuo della sua
specie,
aveva deciso di alzarsi.
‒
Facciamo che vado da
Cassandra? ‒ si chiese.
Riflessione
breve e concisa.
Xavier
tolse i vestiti e decise
di eseguire quella pratica denominata in quel caso “lavarsi per sicurezza, magari emano un odore non proprio di pino
silvestre e devo far bella figura” più che “doccia”. Tempo venti
minuti ed
era fuori: capelli che sfidavano la forza di gravità grazie al solo
ausilio
dell’asciugacapelli benevolo e innalzatore di anime, zaino in spalla,
PokéNet
al polso e vestiti appena tirati fuori dall’asciugatrice del Centro
Pokémon.
Era uscito dopo aver controllato che sua sorella dormisse ancora e aver
lasciato un biglietto con un paio di rassicurazioni sul tavolino della
camera.
‒
Nove e cinquantatré, orario a
dir poco perfetto ‒ commentò muovendo i primi passi della giornata al
tenore
sapido del sole. L’aria era frizzante, i turisti cominciavano in quel
momento a
spuntare ai lati delle strade con i loro cappelli e gli occhiali da
sole. Era
un buon due settembre.
Nel
frattempo, nella camera del
Centro Pokémon, una ragazza era sdraiata sul letto a braccia conserte e
con gli
occhi fissi sul foglio scritto a penna da suo fratello che ricambiava il
suo
sguardo sottile da sopra il tavolo.
Si
era svegliata col rumore
dell’acqua prodotto da Xavier e non si era mossa dalla sua posizione.
Aveva
seguito le azioni del castano senza far intendere di essere sveglia e lo
aveva
visto uscire, sempre a occhi semiaperti e nervi distesi.
“Non
va bene, Celia” diceva
Avril.
“Sono
stanca pure io” ribatté
Celia.
“Non
intendevo quello…”
“Ah…”
La
ragazza balzò in piedi,
rovinosamente cascò a terra a peso morto. Capogiro infido come un
Seviper che
attende nascosto nella sua tana la preda ignara. Bernoccolo sul lato
destro
della fronte.
‒
Ahia ‒ mugolò la bionda.
Con
ben poca voglia prese il foglietto
e lo lesse mentalmente.
“Sono
andato alla palestra… sì,
sì… ok, vorrei chiederti di non raggiungermi…? Poi ti spiego.”
Inizialmente non
comprese, ma poi pensò che effettivamente il castano era suo fratello.
Magari
aveva un motivo valido, teorizzò che era meglio fargli il favore e
rimanere nel
suo gineceo per quella mattinata, o magari avrebbe potuto uscire e
comprarsi
qualcosa. Ah, no… soldi finiti.
“Sì,
la lettera l’hai letta,
ok. Il brutto arriva ora…” le ricordò Avril poco intercettabile e quasi
muta
dentro di lei.
“Zitta.”
Con
la questione dei soldi le
era tornato in mente un frammento di ciò che era accaduto la sera prima.
Aveva
visto Xavier pagare qualcuno al posto suo. Molto vago come indizio.
“Allora?
Io non c’ero e ho
ritrovato tutto a soqquadro stamattina, che diavolo hai combinato ieri?”
“Caspita,
non riesco a
ricordarmelo…”
“Celia…
dai!”
“Non
riesco ti ho detto!”
Avril
non ribatté.
‒
Diario ‒ le venne in mente.
La
ragazza cercò tra le sue
cose l’agendina-barretta di cioccolato e la trovò, ma aprendola e
leggendo le
ultime righe scritte comprese che nessuna informazione sarebbe permeata
da lei.
Decise comunque di mettere in mezzo pure la sua coscienza cartacea e
cominciò a
scrivere. Trenta secondi contati. Poi la matita interruppe il suo
Indianapolis
tra le curve sinuose della scrittura tipicamente femminile della bionda
e tutto
tornò nella borsa nel caotico ordine iniziale.
“Avril,
non ricordo cosa è
accaduto ieri sera e un vuoto non è mai un bene. Aiutiamoci a vicenda e
recuperiamo informazioni prima che Xavier torni.” E inconsapevolmente la
ragazza aveva trovato un diversivo e un’arma anti-noia per quella
mattinata, la
facevano solo male le serie TV di Fox.
‒
Non ti credevo così
determinato.
‒
Non perdo mai di vista la
palla.
Pavimento
nero opaco, pareti
nero opaco, soffitto nero opaco. Sottili strisce di luci al neon color
fiamma
viva solcavano le facce di quella stanza formando perfetti poligoni
regolari e
rilasciando una fioca luce all’interno della stanza. Da un lato, sul suo
trono
morbido e soffice illuminato alla base da luci simili a quelle che erano
sulle
pareti e sul pavimento, sedeva Cassandra: gambe accavallate a coprire
ciò che
una minigonna di pelle nera avrebbe rivelato e col busto rilassato nella
magliettina leggera e aderente.
Gli
occhi dello Xavier che era
appena entrato in quella fattispecie di covo di cattivi dal retrogusto
cyberpunk erano storditi dal buio sopraggiunto improvvisamente dopo
l’accecante
sole ancora estivo; ma vennero mandati al tappeto dalla vista della femme fatale che lo attendeva
con degli
occhi di un predatore pronto a scorticare vivo, non la preda, ma il
predatore
più grosso di lui.
‒
Allora sei proprio deciso a
farti mangiare vivo… ‒
Il
castano, che alla prima
domanda della Capopalestra aveva risposto prontamente poiché ancora i
suoi
occhi dovevano trovar la luce in quel dedalo di ombre, si trovò a
mormorare un
inadattissimo “sì” in
risposta alla
seconda.
‒
Ah, va bene allora, via con
la carneficina. ‒ Cassandra si alzò gloriosamente in piedi e prese in
mano tre
delle sfere che contenevano i suoi Pokémon.
La
catena di montaggio “stimolo-reazione”
regolante le
relazioni con l’ambiente esterno del ragazzo passò dalla sede delle
gonadi a
quella del cervello, era pronto a ragionare e a lottare.
‒ Ti
do il vantaggio: in campo,
Magmortar! ‒ convocò lei.
Un
gigante dal corpo che
emanava calore al solo guardarlo comparve sul campo dal lato di chi
giocava in
casa. Quel Pokémon Fiamma non era propriamente uno stinco di santo, gli
occhi
assassini ce li aveva, magari pure le mani.
‒
Eelektross ‒ chiamò Xavier
non poco intimorito dal mostro che il suo team leader avrebbe dovuto
fronteggiare.
Pokémon
Elettropesce contro
Pokémon Esplosivo, la lotta ebbe inizio. Un delicato Fuocobomba dalla parte dei casalinghi creò la luce all’interno
della stanza esplodendo in una stella di fiamme a pochi metri da
Eelektross.
Quest’ultimo riuscì a non rimanervi arrostito e rispose con Falcecannone.
Punto, Magmortar era fatto
per colpire, ma schivare non era proprio il suo forte.
Eelektross,
su ordine del suo
Allenatore, proseguì l’assalto intervenendo con Scarica. Altro punto.
Il
gigante di magma non se la
prese così tanto, Stordiraggio,
dal
canto suo. Eelektross confuso. Xavier comprese che quello si sarebbe
potuto
rivelare un problemino bello grosso.
Altro
ordine di Cassandra,
altro Fuocobomba di
Magmortar. Anche
questo esplose poco lontano dal nemico e rinfrescò l’aria innalzando per
un
istante la temperatura di qualcosa come duecento gradi Celsius. A
Eelektross
girava la testa. Gli ordini di Xavier erano per lui voci poco
decifrabili e
messaggi in codice, lanciò un Falcecannone
che si schiantò a terra goffo e impreciso. Intanto, l’altro piatto
della
bilancia alzava il punteggio ancora e ancora, Lavasbuffo. Lingue di fuoco scarlatte si riversarono sulla metà
campo avversaria maligne e sinistre. La Sodoma da quattro soldi terminò
con un
Eelektross sfinito ma ancora in piedi e un Magmortar che soffiava
teatralmente
il fumo dalla punta del cannone micidiale che aveva al posto del
braccio.
Xavier
in quel momento si rese
conto di essere stato preso per i fondelli dalla ragazza che lo fissava
con
occhi strafottenti dall’altro lato della stanza. Le Fuocobomba erano esplose senza danneggiare il suo Pokémon e il Lavasbuffo
aveva fatto terra bruciata ma
lasciando illeso l’avversario.
In
quel momento Eelektross
scosse la testa e riprese coscienza di sé e il gesto fu abbastanza
esplicito da
far comprendere al suo Allenatore che non aveva preso di vista il
bersaglio e
non era rimasto violentemente scosso dagli avvenimenti.
‒ Ma
che cazzo…? ‒ borbottò lui
ancora annebbiato nella percezione reale dei fatti.
Cassandra
scoppiò a ridere.
‒
Magmortar, finiscilo ‒ disse
soltanto.
Fuocobomba.
Eelektross non riuscì a
reagire contro una granata devastante che lo colpì in pieno senza
esplodere
poco prima come le altre, Xavier non fece in tempo a ordinargli di
spostarsi o
di cercare un diversivo. Uno a zero, palla al centro.
“Ti
ha ingannato, l’esca erano
le mosse imprecise e la guardia bassa e l’amo era il calore che non
permette a
Eelektross movimenti rapidi, come punge, eh fratello?” rifletté tra sé e
sé il
castano.
‒
Era.
Tornato
nella sfera Eelektross,
sulla metà campo degli sfidanti comparve fiero e pronto a combattere un
Noivern
parecchio minaccioso. Il dragone ruggì. Violento, scatenato.
La sua presenza non intimorì Magmortar, ma
alzò l’attenzione di Cassandra. La Capopalestra sapeva riconoscere un
Pokémon
forte quando lo aveva davanti.
‒ Lo
sai, spero che lo scontro
si faccia più interessante… ‒ lo provocò lei.
Xavier
non commentò, voleva far
parlare i fatti. ‒ Tifone ‒
disse soltanto.
Il
Pokémon Esplosivo era troppo
sicuro di sé, gli attacchi elettrici dell’avversario precedente lo
avevano
scalfito, ma il gigantesco vortice di venti concentrici evocato dal
lucertolone
con le ali che aveva davanti iniziò a smuoverlo davvero.
‒
Usa Lavasbuffo! ‒ Niente da fare.
Il
vento sfaldò le fiamme in
men che non si dica e cancellò il colpo, Magmortar era in trappola.
‒
Eliminalo, Dragopulsar ‒
proseguì di nuovo atono
Xavier.
Il
Pokémon Ondasonora si infilò
nell’occhio del ciclone, raggiungendo subito il nemico che era bloccato
tra il
forte vento.
Da
fuori, i due Allenatori
videro ben poco. Solo un lampo che sferzò il grigiore del tifone e
un’onda
d’urto che cancellò la sua forza cinetica annullandolo. Poi un Magmortar
KO e
un Noivern illeso e con le fauci ancora infiammate di lingue di fuoco
violacee.
‒
Wow, che ripresa… ‒ commentò
lievemente disturbata la ragazza.
‒ Lo
scontro si è fatto
abbastanza interessante per te? ‒ Fu la domanda sarcastica e pungente
del
castano.
Niente
ribattute, niente
insulti, uno sguardo tra i due che esprimeva sfida sanguinaria e
agonismo da
tutti i pori. Xavier aveva rincarato la sua dose di “so’ cazzuto e me ne vanto” quotidiana, Cassandra si sentiva in
mano l’avversario e in mano all’avversario allo stesso tempo e questa
cosa la
eccitava. Secondo Pokémon anche per la Capopalestra.
‒
Xatu? ‒ chiamò il ragazzo.
“Dimmi,
Kalut.”
‒
Che cosa si fa oggi?
“Oggi?
Niente…”
‒
Niente?
“Hai
sentito
bene, niente.”
‒ E che cosa vuol dire?
‒ E che cosa vuol dire?
“…”
‒
Xatu?
“Dimmi,
Kalut.”
‒
Perché non puoi parlarmi, tu?
Il
pennuto si voltò a guardarlo.
“Sai
bene
la risposta, Kalut.”
Il
ragazzo si era alzato, col caldo e col silenzio, i suoi muscoli
avevano ripreso
a funzionare e mentre parlava con Xatu sedeva sul tetto di un antica
casa di pietra.
“Perché
mi
fai domande di cui sai già la risposta?”
Venipede
stava
vicino a lui, aderente alle tegole, e fissava il vuoto con il proprio
compagno. Silenzio, silenzio e un lieve sottofondo di vita cittadina
tra il
morto e il vivo, ovattata dal silenzio. E ancora silenzio.
‒
Devo sapere la risposta…
“Kalut,
che
cosa sei tu?”
‒
Che cosa sono?
“Che
cosa
sei tu?”
‒
Io sono un umano.
“Credi
di
esserne certo?”
‒
Sì.
“Va
bene,
allora…”
Lentamente,
in
silenzio, Kalut cominciò a piangere.
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