- Universo Z -
Tre mandate e si ritrovò all’interno di quella casa che aveva visto di
sfuggita durante i buongiornobuongiorno
che si erano scambiati sul pianerottolo: ordinata al massimo.
Tutto organizzato, tutto al proprio posto.
Così diversa dal caos di casa sua.
“Che ti sei fatto?” le domandò lei, vedendolo barcollare come lei sotto la
sua guida. “Eroina? Hai fumato qualcosa?”. Poi risoluta gli levò il grande
cappotto e gli alzò le maniche, controllando se avesse dei buchi nell’incavo
del gomito.
E ne trovò uno, poco di fianco alla vena, come quelli che aveva lei.
Oddio, più o meno: lei era bucata proprio sulle vene.
“Sei strafatto di qualcosa...” concluse la rossa.
Xavier prese a tremare.
“Aiuto...” disse poi, in un impeto di lucidità. “Ho freddo...” continuò,
cadendo di nuovo, proprio davanti al tavolino di cristallo che c’era accanto al
divano.
“Drogato di merda... Che ti sei buttato in vena?” fece quella, sollevandolo
di nuovo, non senza fatica. “Forza, puliamo questo vomito dal volto e mettiamo
qualcosa di caldo addosso. Poi a letto a riposare...”.
Si risvegliò.
Aveva soltanto una fame immane, e la fronte gli scottava. Ma vedeva tutto
con un estrema nitidezza e l’emicrania che lo aveva attanagliato era mutato in un
piccolo mal di testa, quasi un sollievo in confronto.
Continuava ad avere leggermente freddo.
Fiammetta dormiva accanto a lui, vegliando in posizione rialzata il suo
sonno.
S’era messa sotto le coperte con Xavier, cercando di riscaldarlo quanto più
potesse. Aveva anche acceso i riscaldamenti.
Lui aveva le mani strette nei pugni, vicini tra di loro, sulla pancia della
ragazza. La guardò per un attimo, col volto struccato ed incredibilmente
naturale, bellissima. Le palpebre chiuse, chiare e pulite, il naso all’insù con
un anello nella narice.
Il labbro era stato spaccato, probabilmente da Luke, proprio in
corrispondenza di un altro piercing ad anello.
Il suo respiro era profondo e caldo, lui lo sentiva sulla guancia, avendo
la testa vicino la sua spalla.
Si mosse, l’uomo, allarmando la ragazza; quella si svegliò di colpo,
incrociando le sue iridi rosse.
Sorrise.
“Hey... Ti sei svegliato finalmente...” fece, sollevandosi.
“Tu... tu sei stata vicino a me, stanotte?” domandò lui, con la voce roca.
Quella sorrise di gusto. “Sono tre giorni che sono qui. Ho visto che ti
chiami Xavier, che sei laureato in un bordello di roba... che ci fai in questa
topaia?”.
“Tre giorni?!” esclamò quello, facendo per alzarsi.
Lei annuì, bloccandolo. “Devi stare a letto. Vado a prepararti qualcosa di
caldo, non hai mangiato nulla durante... beh, il tuo sonno”.
Xavier sbatté le palpebre e la vide alzarsi, sculettando in maniera ovvia e
naturale verso la cucina.
La sentiva sferragliare con le pentole, mentre il flusso dell’acqua aperta
terminava nel lavello.
Il ragazzo era col pigiama nel suo letto, stava relativamente bene ed era
sopravvissuto al vaccino. Forse aveva la febbre, ma facendo un paragone a
quando aveva perso i sensi nel pianerottolo, cadendo con la faccia nel vomito,
si sentiva un amore.
“Che ti sei iniettato in vena?” domandò lei, dall’altra stanza.
Il vaccino sperimentale che mi salverà la vita dalla calamità che ho creato in provetta.
“Non era in vena. E comunque nulla, era il vaccino antinfluenzale...”.
“Ed ha l’effetto dell’ebola?”.
Sorrise Xavier. “Sarò allergico a qualche componente, non lo so...”.
“Non lo sai? Non sei quello intelligente, tu?”.
Il ragazzo provò ad alzarsi, anche se la testa girava e le gambe dolevano.
Sbadigliò e stese gli arti, sentendo scricchiolare lo spazio tra le ossa.
Infilò le pantofole ed entrò in cucina, camminando lentamente.
“Che ci fai qui?! Torna a letto!”
s’alterò lei, una volta visto.
“Devo bere...” fece lui, atono.
Fiammetta si voltò ancora e tornò a cucinare. Lui le guardò le spalle, i
capelli, il sedere. “Sto facendo un po’ di brodo. Non hai niente nel
frigorifero”.
“Viaggio molto”.
“Lo so benissimo, infatti questa è una delle prime volte che ti rivolgo la
parola”.
“Io ti... ti dovrei ringraziare...”.
“Mangia... Intanto vado di là, a casa, a farmi una doccia”.
E così lui mangiò e si riposò.
Si sentiva meglio, parecchio meglio, la febbre era quasi del tutto scesa e
poteva cominciare di nuovo a pensare al suo lavoro.
Si vestì, aveva intenzione d’uscire per comprare qualcosa per il frigorifero,
magari anche un mazzo di fiori per Fiammetta.
Per ringraziarla, insomma.
S’era data parecchio da fare in quei giorni, s’era presa cura di lui. Forse
se non fosse stata lì, Xavier sarebbe morto, affogato nel suo stesso vomito.
Era lì che aveva capito d’aver creato un vero e proprio mostro: quei
sintomi, così distruttivi e spossanti, erano portati dalla versione disattivata
del virus.
Cosa sarebbe successo ad un semplice essere umano se infettato dal virus
vero e proprio?
Se avesse avuto un po’ di scrupoli sarebbe rabbrividito al sol pensiero.
Invece si limitò a rimettere il giaccone, a saltare la pozza di vomito
rappreso per terra e a scendere le sei rampe di scale per trovarsi in città.
Quando tornò aveva tra le mani un mazzo di fiori molto colorato.
Per strada avevano provato a derubarlo ma lui aveva mantenuto la calma e
mostrato una Pokéball al malintenzionato, che poi si era girato ed era scappato
via, terrorizzato.
Quel mondo era pieno di feccia puzzolente ed inutile, persone non
all’altezza di dare alcun apporto alla società in cui vivevano.
Rapinatori e malintenzionati erano ovunque, rovinavano la faccia della
Terra col loro semplice respiro.
Gli umani, pensò, così piccoli e modesti nelle loro fantasie e
nei loro desideri. Giocano a fare i grandi con le pistole tra le mani e le
giarrettiere sulle cosce cellulitiche. Tutte puttane e truffatori, in questo
mondo.
Tranne
Fiammetta.
Già, lei lo aveva aiutato senza pretendere nulla in cambio. Senza rubare in
casa sua, senza approfittarsi della situazione, semplicemente per la bontà di
prendersi cura di qualcuno di più bisognoso.
Salì le scale del suo palazzo, pensando alla fialetta di vaccino che aveva
ancora conservato nel suo laboratorio chimico, a pochi chilometri da
Ferrugipoli.
Potrei salvarla
ed andare via con lei, pensò.
Scavalcò la macchia di vomito e posò la spesa a casa, poi, con ancora il
mazzo di fiori in mano uscì.
Scavalcò ancora la macchia di vomito e si fermò davanti alla porta della
sua vicina.
Toc – toc.
Ma la porta era aperta.
Cigolò quando lui la spinse. Una zaffata d’urina raggiunse le sue narici,
disturbandolo non poco.
Si mosse scavalcando buste di plastica bianche sventrate e brandelli
d’abiti. C’erano anche pezzi di vetro e ceramica, parti di piatti e bicchieri
rotti ed un tanga rosa lasciato davanti alla porta.
Xavier se la richiuse alle spalle ed avanzò.
Una siringa usata pendeva da una grossa mano di colore che trasbordava la
spalliera del vecchio divano consunto di pelle ocra.
Luke, pensò lui.
S’avvicinò, l’uomo era con la faccia beata sul divano, nel rilassamento più che
totale. Gli occhi erano semiaperti. O semichiusi, non faceva differenza. Non
indossava i pantaloni, portava la maglietta gialla di qualche giorno prima e
dei calzettoni di spugna bianchi con righe orizzontali rosse sulla sommità
iniziale; le mutande erano sporche sul davanti: era lui che emanava quel grosso
puzzo d’urina.
S’è pisciato
addosso.
Passò oltre, camminando per il corridoio della ragazza, bagno a destra e
stanza a sinistra, intonaco che cadeva dalle pareti ed acqua che sgorgava da un
lavandino aperto.
Entrò nel bagno e chiuse il rubinetto. Il lavabo s’era intasato e l’acqua
era caduta tutta per terra.
Boccette con Xanax e Valium erano poggiate sul lavandino, davanti ad uno
specchio frantumato.
C’era disegnato un cuore con del rossetto, in alto a sinistra.
Questi sono
ansiolitici. Non bisognerebbe assumere questa roba, specialmente se sotto
effetto di droga.
Accanto al gabinetto c’era una vestaglia rosa e poco oltre un reggiseno
bianco dalle coppe rigirate verso l’interno. La finestra era stata murata e ad
illuminare quel piccolo ambiente c’era soltanto un piccolo lampadario a due
bulbi.
Era presente solo una lampadina nell’attacco, e peraltro funzionava ad
intermittenza.
Fece dietrofront ed uscì, entrando poi nella stanza di Fiammetta.
Era sul letto a cosce spalancate, in pantaloncini e top elastico aderente.
Sostava con le braccia allargate, come crocifissa sul materasso.
L’ago era ancora infilato nell’avambraccio.
E Xavier sospirò.
Forse perché dopo la prima grande guerra tra Unima e Kanto, che aveva visto
Hoenn essere razziata totalmente da quest’ultima per le sue risorse fossili,
era l’unica persona che aveva fatto del bene.
L’unica che aveva visto, almeno.
S’avvicinò alla finestre della sua stanza, senza aprirla: l’aria era troppo
inquinata, non era salutare, soprattutto da lì, a pochi metri dalle ciminiere
di Cuordilava.
Vide quel cielo, perennemente grigio, dove non pioveva più da anni. Vide il
deserto che avanza lentamente, a meno di mezzo chilometro; nel giro di qualche
anno avrebbe inglobato anche quella città, ne era sicuro.
Appoggiò la fronte al vetro freddo, guardando giù due ragazzini scappare da
un uomo grasso e pelato, con una canottiera bianca, e poi vide, poco più in là,
il cadavere di un barbone dimenticato da tutti.
Dove vivono
queste persone?
A che serve
essere una persona pulita se poi la merda ti viene buttata addosso?
Potenzialmente Fiammetta sarebbe potuta diventare una grande donna, con
importanti carature morali e bellezza ineguagliabile.
Sicuramente c’erano altre persone come lei, in quel dannato pianeta.
Lui le stava uccidendo tutte, senza distinzione di sesso e di razza.
Ripulire dalla feccia.
Ma forse non doveva uccidere lei. Pensò ancora all’antidoto ma gli occhi si
fissarono sull’ago che quella aveva nel braccio.
Avrebbe salvato una drogata.
Prese il fazzoletto che aveva nella tasca e gettò il mazzo di fiori sul
letto, proprio accanto a lei. Premette il tovagliolo in corrispondenza dell’ago
e lo estrasse, mantenendo la pressione per qualche secondo. La guardò meglio,
poi, con le lacrime nere per il mascara sciolto che le rigavano le guance, la
testa leggermente piegata in avanti e la bocca semischiusa.
Lui le poggiò una mano sul torace, sotto i seni, sentendo il movimento poco
fluido dei polmoni. Troppo lento.
La pelle tendeva al pallido ma era incandescente; le fiamme scorrevano
assieme al sangue, nelle vene.
Le controllò gli occhi: a spillo, così sottili le pupille e così spente le
iridi che quasi quel rosso, proprio come quello di lui che la esaminava, pareva
sbiadito.
Non ci volle molto per capire che fosse andata in overdose.
Serviva un intervento tempestivo quindi uscì velocemente ed andò in cucina,
prendendo un paio di forbici e tagliandole il top stretto per permetterle di
respirare più liberamente.
Doveva evitare il collasso cardiorespiratorio, quindi somministrarle del
naloxone.
E trovare del naloxone in quella casa non doveva essere facile.
Si alzò velocemente e tornò nel bagno, andando verso un armadietto.
Lo aprì, caddero diverse siringhe monouso e lui ne prese due al volo,
mettendole nella tasca. Prese anche dell’ovatta ed un po’ d’alcool.
Con velocità ed una calma che nessuno avrebbe potuto avere fece una rapida
cernita dei medicinali, scartando con velocità le compresse e le bustine,
gettandoli per terra, e concentrandosi sulle boccette, ma nulla.
Allora uscì ed andò da Luke.
La puzza d’urina lo stava per nauseare ma lo prese lo stesso per il collo
della maglietta, scuotendolo con forza. Gli diede poi un forte ceffone sul
volto.
Quello aprì gli occhi quel tanto che bastava per far capire a Xavier
d’averlo portato fuori dal trip mentale. Giusto per qualche istante.
“Mi serve del Narcan, Fiammetta sta morendo”.
“... Brutta... puttana...”.
“Mi serve del Narcan” ripeté Xavier, dandogli un altro ceffone.
“Put... tana...” ripeté, sgorgando un rivolo di bava che terminò per
corrergli lungo la guancia.
Xavier perse la pazienza. “Narcan, cazzo! Narcan!” gli diede poi un pugno
sul volto, rompendogli il setto.
“Put... tana!” ripeteva, con il sangue che sgorgava dalle narici.
“Dimmi dov’è il Narcan!” urlò ancora.
Gli occhi di Luke si rovesciarono ma ebbe il tempo di dire la parola borsa prima di tornare nel trip. Xavier
lo lasciò sul divano a macerarsi il cervello e quindi scattò all’in piedi, alla
ricerca d’una borsa. La prima che vide era sullo snack tra il salotto e la
cucina ed era con ogni probabilità quella di Fiammetta. La rovesciò rapidamente
e cercò ma tra carte di caramelle per la gola, una siringa usata con l’ago
spezzato, la parte spezzata dell’ago della siringa ed un pacchetto vuoto di
Merit non trovò nulla che gli potesse servire. Cadde pure il documento
d’identità, pochi secondi dopo, e lui guardò di sfuggita la data di nascita: 16/12/1987.
Si voltò, con l’ansia che cresceva, sperando che il respiro di Fiammetta non si
fermasse, quindi vide un borsone nero alle spalle del divano.
Era di Luke, se lo sentiva.
Lo aprì e tirò fuori vestiti, vaselina, dei preservativi, una Glock e delle
siringhe nuove. Sopra ad un letto di banconote, tutti tagli da cinquanta belli
impacchettati, vi erano due boccette di Narcan.
Xavier spalancò gli occhi e le prese entrambe. Scartò una delle siringhe
che aveva preso dal bagno e contemporaneamente prese l’alcool e l’ovatta,
poggiandoli sul comodino di rovere.
Il respiro di Fiammetta era ancora più lento, stava per collassare.
Le guardò gli incavi dei gomiti, bucati come un campo minato dismesso, e
notò che aveva le vene totalmente inutilizzabili.
Sospirò, un solo sguardo al volto marmoreo e poi le coprì il petto nudo con
una maglietta che era sul letto. Le prese finalmente la mano ed analizzò il
dorso. Ci volle qualche istante ma individuò la vena, disinfettò con ovatta ed
alcool e lentamente iniettò il Narcan nel corpo di Fiammetta.
Lo fece con molta calma, per non sbagliare e per non crearle crisi
d’astinenza.
Pochi milligrammi e qualche secondo dopo Fiammetta aprì gli occhi.
La voce era roca ed il respiro irregolare.
“Calmati, va tutto bene ora” le
fece.
Le pupille si dilatarono lentamente ed il sangue prese a circolare
nuovamente.
“Xav... Xavier...” ansimava lei, sollevandosi e finendo vittima d’un
attacco di panico. La maglietta cadde, scoprendola nuovamente, ma non sembrò
darci molto peso.
“Calmati. Stai bene adesso. Devi ripetere la puntura di Narcan tra un’ora e
mezza”.
“Nar-narcan?!”.
Xavier la sovrastò, spingendola con le spalle sul materasso. Le avrebbe
dato il Valium trovato nel bagno se non avesse soltanto peggiorato la
situazione.
“Ora è tutto a posto. Sei andata in overdose”.
Non gli pareva vero, aveva salvato una vita. E non per mancanza di fiducia
nei propri mezzi, del genere: proprio io
ho salvato lei, sono un eroe. No, il pensiero fatto fu: ho salvato qualcuno che non conoscevo ed ho
fatto qualcosa per lei. Almeno prima che ammazzi tutti quanti.
“Tu... tu mi hai salvata?” domandò Fiammetta, parecchio confusa.
“Già. Ora devo andare” fece. “Quei fiori erano per te... almeno prima che
ti trovassi seminuda e mezza morta con un ago nel braccio. Non dimenticare la
puntura, tra un’ora e mezza” ribadì.
Lei abbassò gli occhi, assumendo un’espressione a metà tra l’imbarazzo per
la situazione e lo schifo che provava per se stessa. “Mi sto trasferendo e
probabilmente non ci rivedremo più. Tieniti lontana dai guai e appena puoi
raggiungi il posto più isolato possibile. Mangia solo verdure, coltivale tu, e
fallo entro i prossimi due mesi. Sappi che ti salverà la vita”.
“... Grazie...” pianse. Ma lui era già uscito fuori.
Xavier sapeva che Fiammetta non lo avrebbe ascoltato: sarebbe stata infettata
ed uccisa da altri soggetti contagiati, due anni dopo.
Il biondo dagli occhi rossi abbandonò la stanza della donna con in mano le
forbici con cui aveva tagliato il top. Passando davanti al divano si fermò
giusto un attimo a guardare Luke, ancora immerso in quel miscuglio d’urina e
pace dei sensi.
Non sei una
brava persona pensò, ed infilò la punta tagliente delle forbici nella
gola dell’uomo, strattonando e sgozzandolo.
Il sangue si riversò copioso sul divano e poi più giù, sul pavimento lercio.
“Non ringraziarmi, Fiammetta. Non prima che io abbia finito con te...”
sussurrò.
Ci vollero circa venti minuti per raggiungere il laboratorio nel quale le
avrebbe salvato veramente la vita. Posò il giaccone e passò accanto al camice,
snobbandolo.
Non indugiò per nemmeno un secondo davanti all’armadietto con il vaccino,
non avrebbe donato il paradiso ad un’eroinomane.
Aveva capito che se Fiammetta fosse una tossica la colpa era del mondo che
le stava attorno. E l’unico modo per salvarla, per salvarla davvero, era
portare il mondo via da Fiammetta.
E per fare quello avrebbe portato via Fiammetta dal mondo.
Già, si era finalmente convinto; avrebbe consegnato Fiammetta ad un mondo
più pulito.
Un mondo che avrebbe sporcato strada facendo lui stesso, in futuro.
Aprì la porta di una stanza totalmente vuota. Vi era soltanto un tavolo con
due macchinari sopra.
Uno bianco ed uno blu. Prese quest’ultimo ed uscì velocemente, volando in
groppa al suo Salamence verso Cuordilava.
La parte ovest del paesino era ormai ridotta in macerie. Una nebbia tossica
e violacea s’era formata per via dei fumi di scarico delle grosse raffinerie
che producevano carburanti poco lontano da lì.
Cacciò il congegno blu ed impostò su di un piccolo tastierino elettronico
una data.
20/08/1988
–
Universo Z, 20 agosto 1988 –
Dall’apparecchio apparve una luce blu, abbagliantissima. Lui già lo sapeva
e chiuse gli occhi.
Non durò molto ma quando li riaprì qualcuno urlò terrorizzato.
“Da dove sei apparso?!” faceva quel qualcuno.
“Da dove sei apparso?!” faceva quel qualcuno.
Xavier lo guardò, quello era inciampato indietro, col volto terrorizzato.
“Sei un alieno?! Come quelli di Roswell?!”.
“Già. E non dirlo a nessuno altrimenti verrò a prenderti ed ucciderò tua
madre”.
“O-okay...”.
“Sarà il nostro segreto” disse Xavier, muovendosi in avanti.
Era in un vicolo ma arrivò velocemente nella piazza di Cuordilava.
Prima della Grande Guerra Pokémon, Cuordilava era un paesino ridente tra i boschi e le montagne, alle pendici del Monte Camino. L’ultima grande eruzione era avvenuta almeno quarant’anni prima a seguito d’un terremoto con epicentro Brunifoglia.
Prima della Grande Guerra Pokémon, Cuordilava era un paesino ridente tra i boschi e le montagne, alle pendici del Monte Camino. L’ultima grande eruzione era avvenuta almeno quarant’anni prima a seguito d’un terremoto con epicentro Brunifoglia.
Si vociferava che fosse per via dell’ipotetico risveglio di Groudon, il
leggendario Pokémon dei continenti ma nessuno lo aveva mai visto.
Solo le donne anziane, vedove della seconda guerra mondiale, raccontavano
che esistesse un Pokémon che vivesse nel magma, in grado di controllare il
movimento della crosta terrestre.
Controllò la data, era l’ottantotto; ventitre anni dopo tutti avrebbero visto cosa fosse
Groudon. E non contenti lo avrebbero rivisto ancora, quattro anni dopo.
Si guardò attorno e vide due ragazzini correre. Una era femmina, aveva gli
occhi azzurri ed i capelli biondi.
“Piccola” disse Xavier. “È nata quasi sei mesi fa una bambina nel paese,
vero?”.
La ragazzina sorrise, immediatamente. “Sì! Fiammetta! È la figlia di
Flavia!”.
“E dove abita Flavia?”.
“Lì”. Il dito della bambina indicò una casetta molto carina con infissi in
legno e tetto a due falde. Le pareti erano fatte di tufo vivo, grezzo e ruvido.
“Grazie, piccola” annuì Xavier, arruffandole i capelli e sorridendo. Avanzò
poi verso l’abitazione e si fermò davanti alla porta di legno massiccio,
bussando con forza.
Il volto era impenetrabile, nessuna emozione traspariva dagli occhi
vermigli dell’uomo.
Sentì dei passi e pochi secondi dopo la porta si spalancò. Una donna
sorridente si presentò.
Era bella e giovane, particolarmente somigliante a Fiammetta, se non per la
capigliatura scura.
“Buongiorno” fece quella, con ancora il sorriso.
Xavier sorrise poi tornò serio e spinse la donna, facendola cadere per
terra.
Quella urlò, spaventata.
Rapidamente si guardò attorno, Xavier, ma non fu in grado di vedere la
bambina. Osservò poi le scale, pensando che fosse al piano di sopra. Allora si
mosse con rapidità e scattò verso la rampa mentre la donna si rialzava.
“Chi è lei?!” urlava. “Aiuto! Papà, aiuto!”.
“Si calmi” disse Xavier, glaciale.
Flavia gli afferrò il braccio e lui si girò velocemente, spingendola ancora
e facendola cadere sul pavimento di legno. Quella Piangeva, e tanto gli
ricordava sua figlia nella fisionomia.
“Fiammetta!” urlò ancora, correndo a prendere uno degli alari incandescenti
del camino acceso. Non poteva, quell’uomo, raggiungere sua figlia. Aveva paura.
Si stava ustionando le mani ma l’unica cosa che le importava era preservare
la bambina. Lo vedeva salire le scale, il dolore alle mani era incredibile.
Il sangue cadde dai suoi palmi quando, alcuni secondi dopo, usò l’alare
come arma, cercando di spaccare la testa all’uomo che però si divincolò
velocemente scartando a destra, sulla scalinata.
Diede poi una pedata nel petto della donna, nemmeno troppo violenta. Quella
però morì sbattendo la testa.
A lui non interessava.
Forse era meglio così. Levare un bambino alla propria madre è il crimine
peggiore di cui si fosse macchiato ed i residui di quella coscienza che aveva
rispolverato in quei giorni sarebbero stati più distesi sapendo che a quella
donna non sarebbe mancata la figlia, essendo morta.
Forse sarebbe stata la figlia a sentire la mancanza della madre però le
avrebbe fatto un regalo più grande.
Molto più grande.
Il piano superiore constava di tre stanze ed un bagno. Nella più illuminata
si sentiva il pianto leggero di un bambino.
No, era una bambina, lui sapeva già tutto. Entrò in camera, vedendo il sole
illuminare il pavimento passando attraverso le tende rosa. Sulla finestre delle
vetrofanie proiettavano l’ombra di ciucci ed orsacchiotti sul tappeto accanto
ai piedi di Xavier.
Un piccolo armadietto era aperto, con mille vestitini fatti a mano e
bavaglini e scarpine creati col punto croce.
E poi c’era la culla, costruita dal nonno.
Sentì qualcuno entrare in casa, al piano di sotto.
“Flavia! Mi hai chiamato?! Che è successo?”.
Era proprio il nonno di Fiammetta, un eccezionale Capopalestra. Ma Xavier
non si fece prendere dal panico ed osservò ancora per qualche secondo la
creatura bellissima nella culla, rossa per il pianto, con radi capelli foschi
sulla testa e sei denti in bocca.
Xavier la prese in braccio, quella piangeva a dirotto, disperata e subito
dopo la voce dell’uomo al piano di sotto s’incrinò.
“Flavia! Che succede?! Fiammetta!” urlò poi, salendo rapidamente gli
scalini a tre a tre, ma quando arrivò a vedere un estraneo con sua nipote in
braccio quello aveva già premuto il tasto reset
sulla sua strana macchina blu.
–
Universo Z, ventisette anni dopo –
La bambina non piangeva più. Forse era stato il salto temporale a calmarla,
ma rimaneva con gli occhi vigili e fissava ogni movimento che faceva Xavier.
Lui la teneva in braccio, le sue manine poggiavano sulle sue spalle e
carezzavano la barba bionda e rada dell’uomo.
Quest’ultimo poggiò sul tavolo il congegno blu ed afferrò quello bianco. La
tastiera su questo era più grande e comprendeva anche le lettere.
Lui si fermò per un momento, riflettendo.
X, pensò. L’universo più pulito ed ordinato è quello
X. Lì crescerà bene e non morirà per via del mio virus. Sono sicuro anche che
non si farà di eroina.
Gli bastò premere la lettera X sulla tastiera e poi il tasto d’invio per
vedere davanti a sé la creazione d’un piccolo vortice scuro.
Xavier digitò dei dati sulla macchina e poi prese in braccio la bambina.
Il vortice era davvero piccolo. Era un buco nero.
Era stato davvero bravo a modificare la sua macchina per evitare il
collasso dell’intero universo. L’unico gesto che fece fu toccare quel piccolo
puntino nero ed immediatamente sparì.
Non nascose a se stesso che aveva paura, nonostante avesse viaggiato in
quel modo svariate volte. Mise una mano sulla testa di Fiammetta, per
proteggerla da ogni cosa.
Durante quel viaggio spaziotemporale sentiva il vuoto nello stomaco ed una
grande stanchezza; stringeva anche la macchina bianca che intanto calcolava a
velocità massima la situazione dello spazio e del tempo circostante.
Non passò nemmeno un secondo, che durò però delle ore nel suo cuore, e si
ritrovò a Cuordilava, ridente paesino di Hoenn.
“Fiammetta...” sussurrò lui alla
bambina, sollevandola e guardandola negli stessi occhi rossi, prima di
abbandonarla. “Tu devi diventare una donna di cuore ed aiutare chi ne ha
bisogno. Ed un giorno io e te ci rincontreremo. E tu mi fermerai, se ne sarai
capace. Va bene?”.
La bambina lo vide posarla sulle piante e la cenere per poi piangere una
volta che quello fu sparito alla sua vista, dopo un lampo bianco.
–
Universo X, quattro anni prima, pochi minuti dopo –
Era scesa dalle pendici del vulcano.
Generalmente, il sabato, Fiammetta indossava la sua tracolla di iuta ed
andava sul Monte Camino e sul suo pendio scosceso, il Passo Selvaggio, per
cercare erbe medicinali ed altre primizie che la natura regalava.
Quel sabato non fece eccezione. Camminava affondando i grossi stivaloni
nella cenere tra le piante rigogliose quando il brusio del boschetto fu
incrinato dal pianto d’un bambino.
Lei era sola e nessun altro era lì con lei.
I Pokémon selvatici si fermarono d’improvviso, fissando la scena.
Lei riuscì a localizzare il bambino e si avvicinò, curiosa.
Era una bimba, e piangeva disperata con la testa nella cenere. Non aveva
più di sei mesi.
“Guarda tu che... Chi diamine t’ha lasciata qui?”. Si abbassò e raccolse la
piccola, pulendole con la mano la testa. “Ma sei una meraviglia della natura,
tu!” esclamò, facendola calmare. La strinse e scese la fine del passo,
arrivando a Cuordilava.
Due giorni dopo la madre di Fiammetta, Flavia, aveva ottenuto il permesso
di adottare la piccola dagli occhi rossi, come i capelli, con quel ciuffo
rubino sulla fronte.
“Jarica. Si chiamerà Jarica. E la cresceremo come se fosse sempre stata con
noi” diceva Fiammetta a sua madre.
“Già” sorrideva l’altra. “La crescerò come feci con te, sperando che segua
le tue orme”.
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