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The Sinner's Recall - Overtura


0 - Overtura

Universo X, mille anni prima

 
Faceva freddo.
La cima del Monte Trave si stagliava nella tempesta di neve, alta e coraggiosa. Il forte vento brandiva i fiocchi ghiacciati e li disperdeva in piroette eleganti e gelide.
Il cielo era totalmente nero. Solo le fiaccole, attorno alla grande costruzione di pietra viva, donavano qualche lume al buio di quella notte. Il tempio illuminava la notte, almeno un po’.
Il vento si lamentava, la neve entrava nella seconda cella a destra attraverso le finestre con le sbarre.
Era la diciassettesima tempesta che contava, Lionell, con le mani e i piedi incatenati e il volto contro il muro.

Il rumore della frusta.

Sentiva il rumore della frusta battere sulla vecchia pietra della pavimentazione che i templari calpestavano dall'alba dei tempi.
Aveva fame, non mangiava dal giorno prima, e comunque quella piccola porzione di pane raffermo non faceva altro che aumentargli il buco in pancia.
Sentì il rumore della cella accanto alla sua, la prima della lunga fila, in cui vi era rinchiuso un assassino che aveva avuto il coraggio di ammazzare una guardia del tempio. Il cancello fu trascinato sul pavimento, emettendo un rumore stridulo. Lionell sentì poi il prigioniero, legato al muro proprio come lui, cominciare a supplicare il carnefice.
“Ti prego! No! Ti prego, non farmi più del male!”.
Lo scudiscio sibilò di nuovo sul pavimento, causando nell’uomo ancor più paura. Nella sua voce traspariva per intero la sua disperazione.
Sospirò, Lionell, sentendo l’ansia crescere. Trenta frustate dopo gli sarebbe toccata la stessa sorte.

Ancora quel rumore.
Le urla dell'assassino nella cella accanto rimbombarono nelle fredde pareti di mattoni grigi.
“Basta!” gridava.

Ancora.
Chiedi scusa ad Arceus per i tuoi peccati!” ribatteva il templare che brandiva la frusta.
“Scusa!”.

Ancora.
“Scusa a chi?!”.

Ancora.
“Scusa! Arceus, scusa!”.

Ancora.
“Scusa ad Arceus per cosa?!”.

Ancora.
“Per... i miei... Fermati!”.

Ancora.
“Scusa ad Arceus per cosa?!” ripeté la prima voce.
“Scusa Arceus! Per i miei peccati!” urlò infine l'assassino. Ci furono altre ventitré frustate ma la vittima smise di urlare intorno alla ventesima.
Lo scudiscio sibilò sul pavimento per altre due volte prima che Lionell sentisse il cancello della prima cella chiudersi, sbattendo forte sul montante di ferro battuto e rimbombando nuovamente per l'intero corridoio.

Ancora il rumore della frusta.

Pochi secondi e sarebbe stato il suo turno.
Poche volte aveva perso coscienza, come invece accadeva al suo vicino di cella. E quando succedeva ringraziava il cielo in quanto, dopo la tortura, il carnefice gettava del sale sulla schiena dei fustigati. Ogni volta che succedeva era costretto a continui spasmi di dolore.
Portò gli occhi verso il basso, mentre i capelli lunghi e la barba incolta raccoglievano le lacrime che sfuggivano ai suoi esami di coscienza.
Pensò che se non avesse mai incontrato Xavier Solomon non sarebbe finito in quella situazione.
Non ne capiva il motivo. Lui era un fautore del bene, aveva anteposto la sopravvivenza del mondo alla vita di sua figlia ed era stato punito in quel modo.
Ripensò a quell’eretica di sua figlia Rachel, di Zackary Recket, a quel traditore di Ryan Livingstone e a quella ficcanaso di Alma Ramìz. Tutti avrebbero pagato, se soltanto fosse riuscito a tornare avanti nel tempo, nel futuro.
Sentì un'altra frustata ringhiare sul pavimento prima che la cancellata della sua cella gemesse come aveva fatto quella accanto.
Aveva paura, era arrivato il suo turno.

 
Universo X, mille anni dopo, il 05 Gennaio alle 03:25

Il vortice temporale lo aveva portato esattamente dove voleva.
Biancavilla. Xavier Solomon poggiò qualche passo sul sentiero principale del paesino delle leggende e si guardò attorno: c’era la tranquillità più che totale, e una leggera brezza lasciava volteggiare qualche foglia secca attorno alle case coi tetti rossi.
I lampioni illuminavano di luce gialla la notte. Addolcivano il cammino dell’avventore.
Xavier si perse a guardare le abitazioni e sorrise nel ricordare come, da dove veniva lui, Biancavilla fosse diventata una discarica a cielo aperto.
Invece lì c’erano le case natali di Red e Blue. Più in fondo s’intravedeva il giardino di casa di Margi Oak.
Accanto viveva Green Oak.
Alzò quindi gli occhi, guardando la grossa collina che si ergeva poco lontana dalla spiaggetta.
L’Osservatorio imperava silenzioso, mentre le pale del mulino giravano tranquille.
S’avviò lì, sapendo perfettamente ciò che dovesse fare.
Aprì il cancelletto del giardino dell’Osservatorio, dove piccole siepi lasciavano spazio ad un’altissima quercia. Un Pidgey sonnecchiava placido nel suo nido, tra i rami più bassi .
Se Xavier non fosse stato un dannato avrebbe passato la vita a consumarsi sotto il sole di quel posto.
Cacciò una piccola sfera d'acciaio dalla tasca del lungo giaccone nero e la poggiò davanti alla serratura. Quella si attacco magneticamente alla porta e cominciò a fare il proprio dovere.
Non gli ci volle molto per entrare. Guardandosi attorno si ritrovò in quello che sembrava essere un posto dall’aria monumentale.
Ci pensò: grandi Allenatori aveva cominciato il proprio percorso proprio in quello studio.
Scrutò meglio l’ambiente, un fascio di luce proveniente da un lampione all’esterno attraversava la finestra modello vittoriano e illuminava l’anticamera, arredata con grossi scaffali carichi di libri.
Camminò lentamente, entrando nella camera a destra. Vi era un tavolo da lavoro, una saldatrice portatile e il progetto di un nuovo Pokédex. Un vecchio Packard-Bell era acceso, messo in standby, con la ventola che produceva un rumore di sottofondo abbastanza fastidioso. Xavier mosse il mouse e lo schermo s’illuminò, mostrando un manuale di montaggio per la nuova versione dell’enciclopedia Pokémon che qualcuno stava assemblando. Lo analizzò per un attimo, quindi bollò il progetto come di bassa tecnologia e sorpassò la scrivania. Altri tomi erano impilati al fianco della poltroncina in una colonna, sulla cui cima vi era una bottiglia d'acqua a metà.
Non vi guardò e proseguì oltre, vedendo il macchinario adibito al ripristino della salute dei Pokémon. Tecnologia antiquata. Infine, in fondo alla stanza, vi erano tre piedistalli vuoti. Davanti c'era una targhetta: 


BULBASAUR     -     CHARMANDER     -     SQUIRTLE

Xavier li superò rapidamente e si voltò, entrando poi nell’altra stanza, molto più ordinata. Qui, sulla moquette brunastra, era poggiata una grossa scrivania in pesantissimo legno d’ebano.
La stanza era parecchio più buia e Xavier non si fece problemi nell’accendere le luci, noncurante di Green Oak che, dalla finestra di casa sua, vide tutto. L'antifurto perimetrale lo aveva destato dal suo sonno.
Quello si vestì e corse in osservatorio, ma non prima che Xavier aprisse tutti i cassetti, scartando fogli, fascicoli e un grosso malloppo di banconote. Cercava un'altra cosa.
Si allontanò dalla scrivania e si rivolse verso un alto mobile alle sue spalle, spalancando tutte le ante e gettando per terra qualsiasi cosa vi trovasse all’interno.
“Non è qui...” sospirò. Ma lo sentiva: la Pietra del Caos era lì.
Si voltò e vide una grande fotografia incorniciata di Samuel Oak attaccata, a una parete. Xavier sospirò e capì, quindi la sollevò, scoprendo la grande cassaforte che celava.
“Combinazione?” si chiese, prendendo un macchinario dalla borsa e attaccandolo alla pulsantiera d’apertura. I quattro numeri apparvero sullo schermo e a Xavier non restò che digitarli. La serratura scattò immediatamente.
Quando la porta si aprì, producendo un cigolio sinistro, uno strano odore di plastica si diffuse.
“Okay” fece di nuovo il biondo dagli occhi rossi, infilando un paio di guanti di pelle nera. Raccolse la Pietra nel Caos e la infilò in una busta rivestita d’alluminio, quindi sentì la porta d’ingresso spalancarsi.
“Chi c’è?!” urlò Green Oak, correndo a perdifiato verso la stanza.
Xavier si smaterializzò proprio nel momento in cui il Dexholder dagli occhi verdi entrò nello studio. Vide il ladro sorridere soddisfatto, prima di svanire nel nulla.
“Porca puttana!” urlò, battendo un forte pugno sulla scrivania, guardando il vuoto all’interno della cassaforte. “Ora saranno cazzi amari per tutti! Per tutti!”.
Blue entrò nell’Osservatorio, spaventata e sorpresa. “Green!” lo chiamò. "Ti sto inseguendo da cinque minuti!".
Quello rimaneva immobile, con le mani ai fianchi e la testa bassa. “C’è da avvertire Crystal ed Elm, quel cristallo è troppo pericoloso”.
La donna avanzò, stringendo la grossa giacca a vento sulla camicia da notte turchese. Aveva gli occhi spenti e struccati e i capelli spettinati, risultando lo stesso la donna più bella del mondo.
“Che cos'è successo?” chiese, confusa.
Green camminava freneticamente da una parte all'altra dell'ufficio. Solo dopo qualche secondo prese il telefono, componendo un numero. Snobbò totalmente la voce della donna.
“Rispondimi!” urlò quella.
“Hanno rubato il Cristallo del Caos, Blue”.
“E cos’era?”.
“Non c’è tempo ora... Elm! Pronto, Elm! Scusami l’orario, sono Green Oak. Sì, ripeto, scusami l’orario, ma abbiamo un grosso problema”.

 
Universo X, mille anni prima, sei secondi dopo

 
Lionell vide l’ombra della mano del templare alzarsi mentre la sua schiena, dilaniata dalle frustate del giorno precedente, era stata liberata, pronta per essere nuovamente colpita.
Non tutti sopravvivevano a quel trattamento.
Non era semplice tirare avanti e molto spesso non era neppure così voluto: avrebbe preferito morire, piuttosto che esser frustato trenta volta al giorno, come succedeva da tre anni a quella parte.

Ancora, colpi di frusta.

Il sadico torturatore s’avvicinava. Lionell sentiva nelle tempie rimbombare ogni passo dell’uomo all’interno di quella cella così umida e buia. Quando non riuscì più a percepire alcun rumore, però, si preoccupò.

"Che succede?".

Un lamento silenzioso, breve, poi la frusta cadde per terra.
Seguì un tonfo sordo.
Il torturatore era morto, perdeva sangue dalla nuca. Riusciva a vederlo con la coda dell’occhio.
E poi una voce tagliò quel silenzio come una lama di coltello.
“Lionell... Come diavolo sei finito qui?!” esclamò quella. Era un uomo; quasi sorrideva, alle sue spalle.
Aveva capito, il prigioniero. Spalancò gli occhi e la bocca e per la prima volta dopo tre anni il suo cuore si riempì di speranza.
“Xavier! Xavier, sei tu! Aiutami!”.
L'altro si fermò, poggiando la schiena al muro, con le braccia incrociate, accanto a lui.
“Sì, ti aiuterò... ma facciamo prima un breve riassunto di quello che è successo in questi ventitré anni, ti va? Allora, sono venuto a casa tua per farti capire che tua figlia Rachel fosse il male maggiore di questo mondo, tu hai cercato di catturarla e di prendere anche Arceus quando, chiaramente, non ti spettava. Il tuo compito era soltanto prendere tua figlia e ucciderla, conservando il corpo. A quel punto sarei venuto io e avrei preso il cadavere e tu saresti tornato alla tua vita. Invece no, hai voluto strafare. Hai pensato davvero, anche solo per un momento, di poter sconfiggere Arceus?! Con le tue sole forze?! Sei un illuso, Lionell”.
“Liberami, ti prego!” piangeva quello. “Non ce la faccio più!”.
“Ti ho detto che ti aiuterò... ma ora stai calmo, sto finendo di parlare” tuonò cupa la sua voce, che rimbalzò sulla pietra delle pareti della cella. “Sai cos’è successo, intanto?! Che il mondo non è stato distrutto ma che Rachel è ancora a piede libero e tu hai fallito. Per altro sei rimasto imprigionato a più di mille anni dal tuo tempo, condannato a prendere frustate, legato e bloccato come un maiale sul girarrosto” rise. “Dov’è finita la tua grande dignità? Dovrei ammazzarti, Lionell”.
“No!” urlò quello. “Io voglio vivere! Portami di nuovo nel mio tempo, ti farò vedere che prenderò Rachel e la ammazzerò! Questa volta sarò perfetto, credimi!”.
“Sì, lo spero per te. Perché non avrai altre occasioni per andare avanti... Credimi tu”.
Lionell rimase in silenzio e vide Xavier staccarsi dalla parete, muovere alcuni passi e calciare con forza il cadavere del torturatore che, come un pesante sacco di farina, si spostò di pochi centimetri. Lo sentì passare le sue mani sulle ferite che aveva sulla schiena, provocate dalle frustate senza pietà infertegli dall’uomo esanime per terra.
Bruciavano al contatto, sentiva il dolore divorare le sue carni vive.
Sorrise e smise di toccarlo. Mise poi una mano nella tasca del soprabito di pelle nera, tirando fuori il grosso cristallo nero.
Lo poggiò giusto al centro della schiena e quindi sorrise.
“C-cosa stai facendo?!” pianse Lionell, quando l’uomo senza catene spinse con forza il cristallo nelle profondità del corpo dell’altro.
Un urlo sovraumano si levò nelle prigioni del tempio.
Il sangue colava sui fianchi di Lionell ma lentamente il dolore veniva sostituito da una stanchezza quasi fisiologica.
Stava per morire, lui, se lo sentiva.
Xavier poi gli si avvicinò, poggiando la mano sulla sua nuca, passando le dita tra i capelli ormai più bianchi che biondi, e sorrise nuovamente.
“Voglio vedere il tuo orgoglio. Voglio che mi mostri la tua dignità. Fammi vedere l’uomo che vuoi essere” concluse, afferrandolo infine per la chioma sudata e sbattendogli il volto contro il muro, con violenza immane.
Il labbro si spaccò, una ferita sulla fronte si aprì e altro sangue colò sul suo petto, poi ancor più giù, al torace, finendo per intridere i calzoni neri.
“Voglio vedere il tuo orgoglio!” ripeté Xavier, lasciandogli la testa e voltandosi, dando un altro calcio al torturatore e sparendo.

Stanco.
Lionell era stanco.
Era stanco nel corpo, perché era rimasto incatenato per troppo tempo a quel muro, e il poco sangue che gli era rimasto in corpo non gli consentiva di sfruttare appieno la forza residua.
Aveva ridotto anche la sua voglia di lottare, perché visibilmente avvilito dalla situazione.
Era avvilito nello spirito.
Ed era così deluso da se stesso che quasi sentiva la piccola fiammella che si stava spegnendo in lui riaccendersi, per la rabbia. Perché viveva una vita perfetta prima di conoscere quell’uomo che veniva dal futuro, dal passato, da un’altra realtà di un altro universo: aveva una moglie bellissima che amava alla follia, studiava, aveva i soldi per garantirle una vita tranquilla e aspettava una bambina che avrebbe cresciuto con amore.
Almeno prima che il suo cervello fosse riempito di parole e cose giuste da fare.
Sua moglie era una bugiarda, sua figlia era un pericolo, i suoi soldi erano solo l’illusione di una vita vana.
Avrebbe dovuto limitarsi ad ascoltarlo, forse, senza sfidare Arceus.
Senza lottare contro Recket, senza lasciare sua figlia in vita per tutto quel tempo, bastevole a lasciarle spazio di manovra per sconfiggerlo e lasciarlo lì, mille anni prima, incatenato a una parete sporca di sangue.
Aveva tutto e lui l’aveva gettato alle ortiche.
Sentiva la rabbia premere sotto lo stomaco, costringerlo a spalancare la bocca e ad urlare.
L’odio cominciava a fluire nelle vene e l’adrenalina gli aveva donato una forza che non credeva di avere prima. Strinse i pugni e tirò forte i polsi verso il corpo, spezzando le catene.
Fece lo stesso con le cavigliere, staccandole dal muro, e urlò ancora.
“Basta!” piangeva, mentre gli anelli di ferro che strusciavano sul pavimento rimbombavano in un’eco agghiacciante.
Camminava, nemmeno s’accorse di quanti cadaveri Xavier avesse lasciato sul pavimento; affondava i piedi nudi nel sangue bollente dei templari che avevano provato a difendersi. Prima, l’Oracolo, non era lì già da tempo, altrimenti avrebbe approfittato di lei per prendere il cristallo.
Avrebbe dovuto sfogare la sua rabbia in qualche modo.
Urlò ancora, la schiena bruciava, il sangue continuava a scendere copioso e, una volta arrivato fuori al tempio, un uomo in groppa a un grosso Raikou di colore nero lo aspettava sorridente.
Batté le mani tre volte, Xavier.
“Bravissimo. Ora torniamo nel tuo presente”.


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