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Lev - Il Pianto delle Stelle - 36 - Comprensione

Capitolo 36 – Comprensione

‒ Fatto… ‒ mormorò una glaciale Celia con gli occhi scavati nel viso e lo sguardo perso nel nulla. ‒ Ho avvisato Xavier. ‒ proseguì.
‒ È incredibile ‒ borbottò poco avvezzo a certi avvenimenti Antares.
E tutto passò nel giro di uno o due secondi: fu l’avvento di un chirurgo con ancora indosso la cuffia e la mascherina da sala operatoria che chiamò qualcuno con il cognome di Marcos nella hall a rivoltare quella giornata già abbastanza disastrata. Antares cercò di non intromettersi e di mantenere una posizione neutra, Celia sentì invece le parole del medico senza però ascoltarle o decifrarle. Le giunse qualcosa a proposito di una certa “Pneumopatia… qualcosa… cronica… qualcos’altro” e basta. Finché il discorso non troppo chiaro divenne tale per forza di cose.
‒ Ci dispiace, Marcos non ce l’ha fatta…
E Celia, in quel momento, riuscì a pensare ad una cosa soltanto: “Ora chi lo dice a Xavier?” E si fece schifo per questo. Non aveva realmente reso il ragazzo conscio della situazione, aveva finto, si sentiva immotivatamente in colpa per quello che stava succedendo e non ci era riuscita.
Le ore seguenti passarono in poco tempo, lei dovette firmare qualche carta, le chiesero se volesse rivedere Marcos, le chiesero se avesse bisogno di mangiare o bere qualcosa e da quanto tempo non toccasse un letto. La ragazza si ritrovò qualche decina di minuti dopo sola nel corridoio dell’ospedale con la compagnia dell’odore sintetico e della marginale presenza di Antares. Il Campione si sentiva estremamente a disagio in quella situazione, non sapeva come né tantomeno se reagire.
‒ Celia… ‒ mormorò ad un certo punto decidendo di introdursi nel contesto in maniera diagonale.
Quella non diede segni di vita.
‒ Sai che ora, poiché tu hai già firmato le carte per l’assunzione come Allieva, sei legalmente affidata a me?
Non fu delicatissimo, le pupille vuote di lei continuarono ad essere vuote, ma il suo pallore perse un altro grado nella scala dei colori. Si rese conto di essere un ottimo Allenatore, ma un essere umano decisamente mediocre.
‒ Antares, Xavier non sa ancora niente… ‒ sussurrò Celia rivelando al Campione che non aveva fatto ciò che avrebbe dovuto, ma sperando in cuor suo di non essere stata udita.
‒ Cosa? ‒ fece lui sorpreso.
‒ Non l’ho chiamato… ‒ rivelò.
‒ Celia ‒ mormorò lui. ‒ Dovresti farlo immediatamente ‒ asserì.
‒ No… ‒ provò a contestare.
‒ Come no? Celia, è suo padre.
‒ Io… non ci riesco…
La ragazza corse via, fuggì da quel reticolo di corridoi e corsie, uscì dall’ospedale e si ritrovò nel parcheggio mezzo vuoto di quest’ultimo con il fiatone e la mano che aveva ridotto la borsa ad una poltiglia stringendola con le dita.
Karma, il suo Skarmory, fu tirato fuori dalla sfera. La prese in spalla, sbatté le ali e prima che Antares potesse raggiungerla lei era già tra le nuvole. Il Campione però fu lesto. Pochi battiti delle ali squamose del suo Charizard e già la aveva raggiunta, fermare Karma fu facile, trarla fuori dalle sue grinfie un po’ meno. Fortunatamente, quella che sarebbe potuta essere una fuga nervosa che avrebbe portato solo problemi nella situazione, era stata sventata. Celia volava attaccata ad Antares più dalla paura di non cadere che da altro, il suo Pokémon Armuccello seguiva Charizard cercando di reggere il passo.
La discesa fu morbida, atterrarono in mezzo al Bosco Lira, in una radura priva di alberi, come un piccolo cerchio di luce in un cono di oscurità. Karma si mise a limare le sue penne in giro, Charizard sparì nella Ball del Campione. Antares fissò Celia, sconvolta e parzialmente distrutta. Non sembrava riconoscerla, non riusciva ad identificarla. La fece sedere a terra e lo fece anche lui.
Per un attimo, ci fu il silenzio.
Poi la ragazza scoppiò a piangere all’improvviso, proprio sulla spalla di Antares.
 
L’aereo era un mezzo di trasporto estremamente silenzioso. Kalut ne era sorpreso. D’altronde di sicuro il dispendio di energia dei suoi motori era enorme e, come si sa, più è forte un motore, più è forte il casino. Generalmente, almeno.
Il ragazzo rifletteva tra sé e sé, neanche poteva conversare con Xatu, i suoi Pokémon erano stati tutti messi nella stiva-porta-Ball e la telepatia non funzionava dopo una certa distanza. Tuttavia riuscì ad avvertire la presenza di numerosi altri esseri nell’aereo. Il ragazzo chiuse gli occhi: sotto di lui stava un Dragonair, poco più a destra un Accelgor vicino ad un Bronzong e ad un Gloom. Cominciava a distinguerne le forme, i versi e i movimenti, addirittura gli pareva di poterne sentire l’odore. Poi, un piccolo ostacolo sbloccò la sua mente, avvertì una sensazione nuova, sentiva di poter comunicare con loro, di parlare con i Pokémon.
Ovviamente, nessuno di loro rispondeva ai suoi ordini, tutti si trovavano nel sonno artificiale dato dalle Poké Ball, per tale motivo gli stimoli esterni non sembravano toccarli. Eppure, si rese conto che alcuni di loro, quelli più attivi e vivaci, si muovevano appena quando udivano la voce di Kalut. Cercavano di svegliarsi, ricevevano impulsi e li elaboravano anche se non potevano reagire veramente. Si divertì a riconoscere i Pokémon che aveva attorno per tutto il viaggio, qualche volta andò pure in bagno per allungare il raggio della sua ispezione. A fine volo, ne aveva conosciuti parecchi, sapeva cosa gli piaceva e come si comportavano, conosceva la loro natura e le loro capacità.
Le ore erano rapidamente passate, il ragazzo si divertì parecchio quando l’aereo atterrò, quindi imitò gli altri passeggeri e si unì al sonoro applauso collettivo. Pochi minuti e prese la via d’uscita, salutò le hostess e i piloti e mise per la prima volta il piede sul suolo di Holon. Era in aeroporto, edificio da cui uscì non senza una dozzina di problemi dopo aver con fatica ripreso la valigia che aveva messo in stiva sottraendola al nastro trasportatore dei bagagli. Cercò con lo sguardo Kurao, lo trovò tra un gruppetto di uomini colmi di valige e bagagli ma non lo salutò, anche lui lo vide e fece finta di non conoscerlo. Quelli erano gli accordi.
Si ritrovò finalmente in un ambiente nuovo: odori nuovi, suoni nuovi, persone nuove. Sentiva attorno a sé migliaia di presenze, Pokémon in mano alle persone che lo circondavano. Camminò fuori dalla ressa dell’aeroporto, fuggì dalle pericolose strade del parcheggio, riuscì a raggiungere un luogo isolato: un giardinetto mezzo diroccato da cui si potevano ancora udire i rumori emessi dagli aerei in partenza o in atterraggio. In loco tirò fuori la Ball del suo Arcanine, che per abitudine aveva iniziato anche lui a chiamare Gilroy, il Pokémon Leggenda venne fuori scodinzolando per il suo padrone. Xatu invece dormiva ancora silenzioso assieme a Scolipede. Il ragazzo dai capelli bianchi salì in groppa a Gilroy caricandosi in spalla la sua valigia grazie alle bretelle estraibili di quest’ultima. Neanche diede l’ordine, l’Arcanine partì di gran carriera diretto verso il luogo che il suo Allenatore gli aveva indicato senza formulare una sola parola.
 
‒ Ricorda, ragazzo, solamente i membri della Faces possono accedere a queste aree, noi dovrai rivelare a nessuno ciò che vedi o senti qui dentro… ‒ si raccomandò il professor Willow.
L’uomo con gli occhiali aveva condotto il castano nel commissariato della Guardia Statale di Sagittania, un palazzo dal colore triste spostato in disparte rispetto al centro della città, privo di finestre mancanti di sicure inferriate. Il professore poté accedere mostrando una tessera che teneva sigillata nel portafoglio al sicuro da mani indiscrete, quindi spiegò agli addetti alla sicurezza l’identità di Xavier. Due uomini in divisa grigiastra lo circondarono, lo compresero tra le loro spalle e lo scortarono all’interno. Dentro, l’edificio era un normale commissariato di quelli che spesso il ragazzo vedeva nei film: scrivanie, gente seduta davanti ai propri pc circondata da scartoffie e fotocopie, ventilatori impostati sulla massima potenza, luci fredde ma intense, movimento collettivo frenetico e disordinato. Tutti guardavano Xavier. Xavier guardava tutti.
Il ragazzo non si sentiva a disagio, ma si rese conto di una cosa, nella tensione generale che si palpava e che lui aveva incanalato nelle sue vene riuscì a notare una stranezza: le uniche guardie presenti in quel luogo erano quelle due che lo stavano scortando e un altro paio che si innalzavano statuarie vicino alle varie porte, tutti i tipi seduti impegnati a lavorare avevano un fisico inadatto alla mansione di protettore della comune serenità e vestivano per lo più in maniera semplice e quotidiana come Willow, nessuno di loro portava una divisa. La cosa lo inquietò.
Ebbe un tempo relativamente breve per fare le sue considerazioni, il professore che guidava le due guardie che si occupavano di Xavier andava a passo svelto. Xavier fu portato in un ufficio che se ne stava isolato in un cantuccio dell’edificio, una stanza che da fuori poteva anche essere scambiata per il bagno, ma dentro era invece molto differente.
Una delle guardie rimase fuori, l’altra entrò assieme a Xavier e Willow e chiuse la porta alle proprie spalle. Il buio avvolse i tre, quell’ufficio non aveva finestre e non era illuminato da alcuna lampadina. Le pareti erano pure insonorizzate, notò Xavier, poiché oltre alla luce anche i suoni provenienti dal rumoroso ambiente esterno scomparvero.
Silenzio e buio, per alcuni istanti. Quindi fioche lampade di neon blu posizionate tatticamente sul terreno cominciarono a brillare. Più o meno agli occhi di Xavier si delineò una stanza più ampia di quanto pensasse: un grosso ufficio con due scrivanie, una della quali sovrastata da un numero superiore alla mezza dozzina di schermi e un grosso monitor attaccato al muro laterale comparvero davanti a lui. All’angolo della stanza c’era un immancabile macchinetta da caffè, sulla parete di fondo invece una larga proiezione del territorio nazionale. Tutti i monitor presenti nella stanza di accesero lentamente. Solo a quel punto, con quel poco di luce aggiunta, Xavier comprese come mai tutto si fosse impostato su on non appena loro erano entrati: Willow aveva posizionato la sua tessera Faces davanti ad un sensore magnetizzato che stava proprio accanto alla porta, tale gesto aveva dato il via a tutto.
Il prof si sedette alla scrivania, afferrò un mouse, cliccò su un paio di icone e aprì due o tre finestre, quindi si aprì un mondo sul maxi monitor laterale. Letteralmente. Una mappa satellitare ad altissima definizione vi comparve sopra. Willow mise in evidenza una singola area della mappa, l’area di Delfisia. Xavier si stupì. Immediatamente comparve in rilievo un percorso evidenziato sulla mappa costituito da diversi punti presi a pochissima distanza l’uno dall’altro.
‒ Questi ‒ esordì Willow. ‒ sono i movimenti compiuti nell’ultima ora da Celia.
Xavier spalancò gli occhi.
‒ Che cosa? ‒ chiese.
‒ Sì ‒ confermò orgoglioso Willow. ‒ i vostri PokéNet mappano la vostra posizione una volta ogni minuto, l’errore è minimo, ma questa funzione è presente solo nei vostri prototipi, è facoltativa per gli studi di sviluppo.
‒ E che diavolo ci fa Celia dall’altra parte della regione? Non doveva raggiungermi qui?
Willow si allentò per qualche secondo. Avrebbe voluto proseguire con la sua spiegazione illuminata, ma pensò che stare al gioco di Xavier lo avrebbe messo più a suo agio.
‒ Controlliamo subito… ‒ mormorò il prof.
E zoomando entrò più nei dettagli, le strade percorse dalla ragazza nella città di Delfisia partivano da una via di accesso della circonvallazione e continuavano a gran velocità verso il quartiere in cui si trovava casa loro.
‒ Evidentemente era in auto ‒ spiegò Willow.
Quindi i suoi movimenti si fermavano per un breve lasso di tempo davanti alla villetta di Marcos.
‒ Quella è casa nostra… ‒ mormorò Xavier.
I passi di Celia continuarono fino a raggiungere, di nuovo in auto, l’ospedale generale di Delfisia, luogo in cui si era poi fermata per parecchio tempo.
‒ In ospedale? ‒ fece Xavier. ‒ Che diavolo è successo?!
Willow non aspettò neanche la domanda di Xavier, si collegò ad un network interno della Faces e si introdusse nel sistema di telecamere di sorveglianza dell’ospedale. Essendo quest’ultimo quasi vuoto, trovò pressoché subito una ripresa in cui si vedeva la ragazzina.
Xavier si stupì di nuovo, Celia era in compagnia di un uomo alto dai capelli lunghi e disordinati, un soggetto che non aveva mai visto ma che sicuramente non aveva la stessa età di sua sorella. Non riusciva a decifrarne il volto, data la scarsa qualità delle immagini delle telecamere.
‒ Chi diavolo è quello? ‒ si chiese il castano.
‒ Xavier ‒ lo chiamò quindi Willow. ‒ penso che tu abbia altro di cui preoccuparti… ‒ mormorò poi con voce sensibilmente atterrita.
Il ragazzo si posizionò al fianco del professore, il quale lo invitava a guardare i file che aveva aperto su uno dei monitor che aveva a disposizione per la sua postazione. Il castano impiegò qualche istante per comprendere di che cosa si trattasse, finalmente lesse “Cartelle cliniche del giorno 06/09” in cima sulla barra della finestra.
‒ È di oggi… ‒ mormorò.
Willow lo lasciò leggere, comprese che era arrivato alla cartella che voleva mostrargli dal singhiozzo irregolare che interruppe la sua respirazione.
“Marcos Levine, maschio, anni 63, broncopneumopatia cronica ostruttiva, stato attuale: deceduto alle 11:37”

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