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TSR - 1 - Quel che conta davvero è se ti senti realizzato

1. Quel che conta davvero è se ti senti realizzato







“Ho fame” diceva la ragazza.
“Non c’è tempo. I Salamence saranno arrivati da più di dieci minuti li sopra!”.
“Uff, hai ragione... Andiamo...”.
Absol rizzava il pelo. Lui lo guardava. “Sta per succedere qualcosa” diceva poi.
“Non sta per succedere niente! Finiscila di mettere il tuo destino in mano ad Absol!
Affronta la vita come capita!”.
“Smettila di dirmi queste cose! Io mi fido dei miei Pokémon!”.
“Appena hai visto questo Absol ti sei dimenticato di tutto il resto del mondo!”.
“Emily, smettila!”.
“Adesso che vorrà mai?!”.
Absol ringhiava. Lui lo vedeva camminare verso sinistra: il pavimento era gravemente danneggiato e un enorme foro buco le assi del pavimento proprio al centro.
Era una voragine e due piccoli viottoli passavano alla destra e alla sinistra di esso.
Absol abbaiava, avviandosi verso sinistra. Lui guardò Emily.
“Di qua” faceva lui, prendendola per mano.
“Non seguirò quel cagnaccio!”.
Lui non capiva i motivi di quella rabbia. “Calma i toni” le diceva.
“Io parlo come mi pare, di chi mi pare!”.
“Sei arrogante! Io sto cercando di rendere le cose più veloci e sicure!”.
“E lo fai mettendo in campo un Pokémon che non ti da sicurezza in tal senso?!”.
“Ma che ne sai?! Ovunque si parla della capacità premonitoria degli Absol!”.
“Ovunque... Sono solo leggende... e poi non sono neanche ventiquattro ore che hai catturato quest’Absol e già fai l’esperto”.
“Vieni di qua” esortava lui, nuovamente, portando le mani ai fianchi.
“No. Ti dimostrerò che ti sbagli. Il pavimento qui è sicuro”.
Lui ribolliva di rabbia. “Mmmhaaaaa! Fai come ti pare! Ma non dire che non te l’avevo detto!”.
“E certo! Anzi, faresti bene a seguirmi!”.
“Io mi fido del mio Absol! Perché so riconoscere il vero potenziale dei Pokémon!”.
“Non sai riconoscere una ceppa!” rispondeva a tono lei. Camminava lentamente lungo la lingua di pavimento alla destra della tromba delle scale, osservando Zack fare altrettanto ma dall’altra parte. Sentivano entrambi dei forti scricchiolii.
Emily si fermava proprio al centro quindi si voltava verso di lui, incrociando le braccia.
Lui invece continuava, passando inerme, preceduto da Absol, fino ad arrivare alla scalinata.
“Avanti. Vieni!” le urlava, con la voce colma d’ansia.
“Vengo! Ti dimostro che questa parte di pavimento non cederà”.
La vedeva avanzare fino alla scala, col volto pieno di sé e quel sorrisino che lui contemporaneamente odiava ed amava. Emily, dal canto suo, era fiera di se stessa: aveva sfidato il fato ed aveva vinto.

Anzi no.

Zack la vedeva poggiare per l’ennesima volta il peso sulla gamba destra, e uno scricchiolio impercettibile si trasformava in una rottura fragorosa del pavimento. Emily spalancava gli occhi e cadeva giù, sepolta da quintali di legno marcio e roccia umida.
“Emily! No!” urlava Zack.










Adamanta, Primaluce, notte fonda.

Generalmente, l’incubo finiva in quel modo.
E ogni volta si svegliava boccheggiando, Zack, spalancando gli occhi e cercando di
respirare quanto più possibile. Quella volta affondò le dita nel materasso, con le coperte alle caviglie e il freddo a mangiargli la pelle.
Guardò sua moglie Rachel dormire alla sua sinistra, ben avvolta nel piumone che avevano acquistato qualche anno prima a Timea; i suoi occhi erano aperti, in due piccole fessure.
Lo guardava, stanca, nel buio. Una linea di luce lunare penetrava dalle persiane chiuse.
“Amore...” mormorò quella. Lo vedeva rigido e impanicato. Si mosse leggermente verso il comodino, cercando a tentoni il tasto dell’abat-jour.
Quando lo trovò, un lume giallastro e caldo  inondò la camera, mostrandole suo marito, quello che aveva viaggiato in lungo e in largo e aveva sfidato il mondo, col cuore fuori dal petto.
Lo vedeva ansimare, col volto umidiccio e il cuore che batteva un charleston scalmanato nel petto.
“Che succede?” domandò poi, avvicinandosi a lui e carezzandogli i capelli sudati.
“Tutto... tutto a posto...” cercò di rincuorarla lui. Respirava a pieni polmoni, guardando il soffitto, dritto davanti agli occhi.
“Sei sicuro?”.
“Sì, sì…” Stai tranquilla”.
La donna appuntì il viso, storcendo le labbra e assumendo un’espressione corrucciata, quindi sospirò. Si sollevò e si portò a sedere, poggiando la testa allo schienale del letto.
La mano stringeva quella del marito.
“Ancora quel sogno?” chiese.
Lui annuì. Percepiva il cuore perdere giri e il respiro tornare normale.
“Sì. Mi spiace molto…”.
“Non preoccuparti” sorrise l’altra. “È stato un trauma, non sono gelosa…”.
Zack annuì e sorrise leggermente, più sollevato. “Vieni qui” le disse, tirandola a sé.
Quella si piegò su di lui, baciandogli dolcemente le labbra e passando la mano calda nella barba rada.
Poi si stese, lei, poggiando la testa sul suo petto. Sentiva il cuore battere forte.
“La rivedo ogni volta che…” faceva, guardando sul soffitto la proiezione dei ricordi più oscuri che la sua mente custodiva gelosamente, fino a quando i suoi occhi si chiudevano. Sbuffò, affondò la testa nei suoi capelli profumati e fece cenno di no con la testa. “Io dovevo fare qualcosa” concluse.
“Mi spiace molto”.
Lo strinse con più vigore, sentendo come il suo corpo fosse stato divorato dal freddo di quell’inverno. Rachel sospirò e guardò l’orologio, che segnava le quattro e quarantasei del mattino. Tirò su le coperte e s’addormentarono così, con lei che lo stringeva forte e lui col profumo dei suoi capelli che lentamente rilassava i suoi nervi.


Kalos, Luminopoli, qualche minuto dopo.

Erano le cinque da qualche paio di paia di minuti e Malva cercava di fare quanto meno rumore possibile, coi tacchi dei suoi stivali. La grande palazzina da cui stava uscendo era uno degli edifici più antichi dell'intera città, coi suoi scalini di marmo e le ringhiere di ferro battuto finemente intarsiate.
Il portiere del palazzo sonnecchiava placidamente con la testa poggiata sui palmi delle mani, e i gomiti puntellati sulla scrivania all'interno della guardiola.
Non si svegliò, quello, neppure quando il portone d'ingresso cigolò. Malva s'immise nella fredda notte della capitale, dove le occhiate dei tipi loschi si alternavano ai freddi soffi del vento. Si strinse meglio nella sua lunga giacca di pelle nera, sentendo i capelli danzare sospinti dal forte vento, che portava qualche goccia di pioggia.
Stava per scatenarsi una bufera su Kalos.
Aprì l’ombrello e si pulì la faccia con la mano guantata, sorridendo soddisfatta. Chiunque l'avesse guardata, in quel momento, avrebbe riconosciuto in lei il solito accenno di malizia che da sempre le riempiva lo sguardo.
Il rosso carminio dei suoi occhi scrutava la strada che macinava avaramente, fino ad arrivare a un taxi che aspettava silenzioso e a fari spenti accanto al kiosque à journaux.
Pareva stesse aspettando lei.
Salì rapida, allungando prima una gamba e poi l'altra all'interno della Renault Espace.
"Rue des Bourguignon, s'il vous plait".

Otto.
Furono otto i minuti che passò a guardare la sua borsa, con costanza e attenzione, prima che l'aprisse per estrarre due banconote da dieci.
Entrò nel suo appartamento subito dopo, chiudendosi alle spalle serrature e chiavistelli e levando gli stivali e posando la borsa sul tavolino. Sorrise a se stessa, guardandosi allo specchio, pensando che non avesse impiegato troppo tempo per strappare dalla bocca di Narciso il contenuto di quella riunione straordinaria a quello aveva preso parte, assieme a tutta l'Unione Lega Pokémon.
Narciso aveva sempre avuto un debole per lei; da quando aveva messo piede nella Lega Pokémon di Kalos, non era mai riuscito a staccarle gli occhi da dosso.
Lei sapeva quando il suo aereo sarebbe atterrato, e casualmente lo incontrò all'esterno della zona ristoro.
"Narcisse... Depuis combien de temps ne nous sommes-nous pas vus?!".
Quello aveva spalancato gli occhi nel vederla lì. Le aveva sorriso e si era passato una mano nei capelli, stringendo nell'altra una valigetta di pelle. Dopo che quella gli aveva chiesto da quanto tempo non si vedessero annuì.
"Beacuop...".
Era tanto, lei lo sapeva. Inizialmente imbarazzato, lui, quella era la prima volta che i due si rincontravano dopo lo scandalo che aveva visto Malva affiliata al Team Flare.
Parlarono lì, per qualche secondo, prima che a lei cadesse la borsetta.
Scenografici, entrambi si abbassarono e si sfiorarono le mani. Arrossirono entrambi, finirono a letto assieme, dopo esser corsi a casa sua. S'erano spogliati lentamente, avevano fatto lavorare muscoli e polmoni e lui ricadde sfinito diverse spinte dopo, addormentandosi su di un fianco.
Lei s'era alzata per cercare la valigetta e, una volta trovata, sbirciò gli appunti che quello aveva preso durante la riunione.
Parlavano d'un potentissimo cristallo.
Ed era proprio ciò che cercava.


Kanto, Biancavilla, notte fonda, qualche minuto dopo ancora.

“Fermati un minuto” diceva Blue, spinta dalla furia di Green verso la finestra che dava sul cortile. Quello però non era minimamente interessato a lei: vorticava all’interno del suo studio come un uragano, in cerca di qualche possibile prova.
Aveva spostato tutti gli oggetti dalla sua scrivania, spalancato tutti i cassetti e controllato anche sugli scaffali più alti.
Fu tuttavia una ricerca a vuoto.
“Non c’è nulla, qui!” aveva esclamato, avvicinandosi al centro della stanza. Blue lo guardava preoccupata, con le braccia incrociate sotto al seno e il volto contrito.
“Calmati…”.
Green si voltò verso di lei, furibondo, quindi diede un grosso pugno sulla scrivania.
“Perché cazzo dovrei calmarmi?! Siamo nella merda, Blue!”.
Quella abbassò lo sguardo ceruleo ma spento, figlio della stanchezza del sonno interrotto di quella e altre mille notti. Non sapeva molto del cristallo che avevano trafugato ma la preoccupazione sul volto del suo uomo non la tranquillizzava.
Lo guardava, coi capelli ancora spettinati dal cuscino e le mani ai fianchi.
“Siamo in pericolo” concluse Green.
“Lo so, lo hai ripetuto trenta volte…” sbuffò l’altra, innervosita dalla situazione.
“Non fare così! Pare quasi che tu voglia biasimarmi!”.
“Non è questa la mia intenzione!” ribatté a tono Blue. “Ma non è spaccando le cose che risolveremo la situazione!”.
Green si avvicinò a lei e sospirò. Poi deglutì e abbassò lo sguardo, allungando la mano verso la lavagna appesa accanto alla porta. “Quel cristallo ha… ha proprietà distruttive. Nelle mani sbagliate potrebbe essere la causa della nostra fine!”.
“Lo so… ma insieme riusciremo a risolvere la situazione”.
Green parve non sentirla. “La causa della fine di tutto!”.
“Calmati!”.
“Dovresti essere tu ad allarmarti! Perché non capisci!” la fronteggiò lui, avvicinandosi a pochi centimetri dal suo volto. Blue però gli afferrò le spalle e lo allontanò.
“Perché non siamo ancora in pericolo! Possiamo fronteggiare la situazione soltanto quando sarà davvero un pericolo!”.
Le parole della donna lo acquietarono.
“Dobbiamo fermarci e pensare lucidamente. Un passo alla volta”.
Quello abbassò lo sguardo e annuì, portando nuovamente le mani ai fianchi.
“Insieme ce la faremo” concluse Blue. Tirandolo a se e posandogli un casto bacio sulla guancia.
Green però pareva essere da tutt’altra parte. Pensava.
Si chiedeva cos’altro sarebbe potuto succedere, di lì a breve. Elaborava i dati più velocemente che poteva, silenzioso e col respiro disturbato.
“Abbiamo perso il cristallo…”.
“E lo ritroveremo!”.
L’uomo sbuffò, si voltò e raggiunse il centro della stanza.
Blue sospirò.
Poi lo vide annuire.
“Senti, so che è tardi… ma per favore, chiama Silver”.
La donna spalancò gli occhi, stupita. Annuì, poi.
“Dammi il cellulare…”.
“Assieme riusciremo a trovare sicuramente qualcosa”.
Blue sospirò e si allontanò, col cellulare all’orecchio.
Poi Green alzò gli occhi.
Vide la telecamera poggiata nell’angolo sulla porta.

Se qualcuno è entrato qui dentro deve per forza esserci passato davanti.

Si chiese come mai non ci avesse pensato prima.
Scattò verso il pc e lo accese.
Pensò per un attimo al fatto che quel ladro fosse entrato lì e avesse preso soltanto il cristallo, lasciando denaro, macchinari e pc al loro posto.
Eppure erano irresponsabilmente alla portata di chiunque. Del resto Biancavilla affondava in una tranquillità quasi soporifera dove chiunque conosceva l’altro, vivendo in un’armonia quasi fiabesca.
Ritornò al suo dubbio, capendo che chiunque fosse penetrato nell’Osservatorio lo aveva fatto proprio per quell’oggetto. E levando Elm e il team che qualche anno prima aveva preso parte alla missione a Hoenn, nessuno poteva sapere della sua esistenza.
Tuttavia escludeva categoricamente che Dexholder e Ranger, che avevano rischiato di morire sotto le macerie, potessero aver fatto una cosa del genere.
Erano brave persone, quelle, lo sapeva.
Quando Blue tornò stringeva il cellulare tra le mani. Si sedette di fronte a Green, che intanto aveva lo sguardo concentrato, e alzò le caviglie sul tavolo, sospirando.
Il sonno la stava rapendo e forse riuscì a perdersi nel riposo meritato per qualche minuto, prima che il campanello suonasse.
“Vai tu?” domandò Green, senza neppure staccare gli occhi dal monitor.
Quella annuì, lui non lo vide, e uscì dallo studio, percorrendo il corridoio e aprendo la porta, senza neppure chiedere chi fosse.
Tanto sapeva che suo fratello si sarebbe catapultato lì il prima possibile.
Difatti era lui.
“Silver…” sorrise lei, baciandogli la guancia. I suoi occhi si riempirono d’una dolcezza quasi commovente quando suo fratello la strinse in un abbraccio colmo d’affetto.
“Blue. Come stai?” domandò quello, affondando il naso nei suoi capelli.
“Beh… non bene…” rispose lei.
Crystal era alle spalle dei ragazzi e teneva lo sguardo basso, un po’ imbarazzata. Indossava un lungo maglione di filo bordeaux, che la copriva fino alle ginocchia. I capelli erano legati alla bene e meglio in una coda alta dietro la testa.
“Che è successo?” chiese poi.
Blue li fece entrare e chiuse la porta dell’Osservatorio, facendo loro strada fino allo studio, dove Green continuava a spostare il cursore del programma di videoregistrazione, per trovare il momento adatto.
Non appena Crystal incrociò lo sguardo smeraldino dell’uomo quello sospirò.
“L’hanno rubata” disse Green.
Crystal spalancò gli occhi e strinse involontariamente il braccio di Silver.
“Come?!”.
“Sto dicendo che il Cristallo del Caos è stato trafugato, questa notte”.
La ragazza sbatté le palpebre qualche volta di troppo e sorrise, amareggiata. “Siamo nei casini...”.
“Fino al collo, Crystal”.
“E chi l’ha preso?” esordì Silver.
“Dovremmo scoprire questo” ribatté il padrone di casa.
Il fulvo e sospirò, incrociando le braccia. “Da cosa cominciamo?” domandò.
Blue si mosse lentamente e spostò con la mano il volto del ragazzo dagli occhi d’argento, mostrandogli la telecamera, ben nascosta nell’angolo in altro sopra la porta.
“Oh. Ottimo”.


Adamanta, Primaluce, finalmente giorno.

“Papà! Sveglia, papà! Dobbiamo montare lo scivolo!”.
Zack aprì lentamente gli occhi, guardando la testolina mora di Allegra che saltellava accanto al letto. Lui sorrise e la prese in braccio, stringendola a sé.
“Gnn… Buongiorno, amore di papà... Dormito bene?” domandò, stropicciato.
Quella, ancora in pigiama e con i capelli raccolti in una treccia, si divincolò dalla presa e prese a saltare sul materasso.
“Sì! Ma dobbiamo montare lo scivolo ora! Quindi alzati!”.
“Allegra, fa’ piano... Papà ha dormito poco, stanotte” intervenne in soccorso dell’uomo Rachel, a pochi metri da loro, mentre sistemava delle camice nell’armadio spalancato.
“Già... papà ha dormito poco…” ripeté quello, voltandosi dall’altra parte e sbadigliando, nel torpore delle lenzuola e del sole della domenica mattina.
“Ma... ma papà! Me lo avevi promesso!”.
“Sì, due minuti soltanto...”.
“Uno e due! Forza!”.
Rachel sorrise. “Quelli sono i secondi, bimba...”.
Eddai!” si lamentò lei, mettendosi a sedere con braccia e gambe incrociate e il broncio. Zack aprì un occhio e la guardò, per poi sorridere.
“Ok...” sospirò, sollevandosi. “Ok... andiamo”.
“Dove vorreste andare così?!” esclamò Rachel. “Fate colazione, lavatevi i denti e vestitevi altrimenti non andrete da nessuna parte”.
“Ok, mamma” risposero in coro, facendo sorridere la donna. Poi Zack si alzò e prese Allegra sulle spalle, scendendo al piano di sotto urlando a squarciagola la sigla di un cartone animato.
Rachel guardò il letto sfatto e sorrise, con le mani ai fianchi. Aprì la finestra e pensò che la sua vita fosse totalmente cambiata da quando sua figlia era stata messa al mondo. Si guardò allo specchio e ripercorse gli ultimi anni della sua vita con la mente; nonostante fosse molto giovane, scoprì d’essere incinta qualche mese dopo la fine del periodo peggiore della sua vita, quando aveva visto suo padre venire incatenato e portato via.
Quello vero, quello biologico. La vita era strana, delle volte; lei aveva avuto due padri. Il primo, quello che l’aveva cresciuta e le aveva regalato carezze amorevoli, era in realtà suo zio.
Ma non lo seppe fino a pochi anni prima, quando tutto cadde, per poi rialzarsi solido e monumentale.
Non fu di certo grazie al suo padre biologico che aveva trovato la forza per costruirsi una famiglia. Quello era un uomo senza scrupoli, senza etica.
Un uomo che aveva provato a ucciderla.
Era ferma, immobile, quando un soffio di vento freddo le baciò il volto, penetrando attraverso la finestra aperta.
Pensò che Zack non sarebbe mai stato in grado di uccidere la loro bambina; amava lei più di ogni altra cosa.
Sorrise e scacciò il pensiero. Tirò le coperte e rifece il letto, e intanto capì che Zack era tanto un buon marito quanto un ottimo papà. Allegra adorava stare con lui.
Amava quando li trovava a giocare.
Adorava quando li vedeva dormire l’uno accanto all’altra.
Tra i due vi era un forte legame, tant’era vero che lui le stava trasmettendo la passione per i Pokémon. Con ogni probabilità sarebbe stato il fautore del suo viaggio, quando Allegra avrebbe avuto l’età.
Zack già parlava di regalarle il primo Pokémon. Pensava a qualcosa di piccolo ma che col tempo sarebbe diventato potente, come uno Squirtle o un Chicorita.
Zack aveva addirittura proposto un Onix, memore della figura epica che aveva fatto Jasmine a Olivinopoli, ma Rachel aveva opposto una strenua resistenza.
Lui aveva detto di stare scherzando, per poi voltarsi e sospirare.
Era diventato padre ma era rimasto il solito incosciente. E Allegra si stava avviando ad assomigliargli in tutto e per tutto.
Caratterialmente soltanto, certo. Lei e sua figlia erano due gocce d’acqua.
Quando ebbe finito di sistemare il letto andò verso la finestra, la chiuse e lasciò che le tende toccassero il pavimento, inondando di un sentore candido l’intero ambiente.
Si fermò davanti allo specchio e sospirò, col volto più stanco e provato rispetto a quattro anni prima. La gioia però le pervadeva il corpo.
Era sempre stata un tipo di poche parole, lei. Era naturale che un uomo come il suo dovesse avere la capacità di riempire i buchi che lei lasciava. Legò i capelli in una strana pettinatura di trincea e scese al piano di sotto.
Zack era al tavolo con Allegra, bevevano il latte e mangiavano cereali.
Passò in cucina, carezzò la testa della piccola e rispose al telefono, che aveva cominciato a squillare.
“Pronto?” fece.
“Rachel... sono Marianne”.
“Ciao, buona domenica”.
Allora, vi raggiungeremo per ora di pranzo. Thomas mi ha chiesto di dirti che tarderà un pochino, stanotte il bimbo ha ballato parecchio e Alma sta riposando ancora”.
“Cielo, poverina... immagino... Comunque non c’è problema, qui siamo ancora in alto mare... Zack s’è svegliato da poco e sta badando ad Allegra mentre io rassetto un po’...”.
“Anche Ryan è con Lenny. Sono andati a giocare con i Pokémon”.
“Uomini e ragazzini...”.
“Tutti uguali!” esclamò quella. Risero entrambe, poi attaccarono. Vide Zack portare le tazze nel lavandino. Le aveva riempite d’acqua, poi aveva preso Allegra per il pigiama, trasportandola come una valigetta, ed era salito al piano superiore.
Si lavarono, si vestirono e andarono in giardino.

E la vita scorreva tranquilla.

Di tanto in tanto uscivano, andavano a prendersi un gelato, talvolta lasciavano Allegra a Marianne, o ad Alma, e lei e Zack andavano in giro, passando qualche ora da marito e moglie.
Ricordava il giorno del suo matrimonio, Rachel.
Niente d’eccezionale. In cuor suo sapeva che Zack fosse legato molto alla tradizione e che avrebbe voluto una cerimonia in grande stile, in chiesa e con ogni sorta di ricevimento imponente, ma lei non se la sentiva. Il tasto famiglia era abbastanza dolente.
Lui avrebbe voluto qualcosa di magnifico, anche se non era abituato a vivere nel lusso; nonostante fosse stato il Campione di quella regione per assai tempo era un nomade della Pokéball e continuava a viaggiare, presentandosi in Lega soltanto durante le riunioni obbligate e le sfide dei pochi che superavano i Superquattro.
Pensò poi a quei quattro Allenatori. Credeva che fossero tipi molto strani. Sapeva che fossero tutti coetanei, tutti nati lo stesso giorno dello stesso anno. Tutti differenti.
Ebbe l’opportunità di averli come ospiti a cena qualche tempo dopo le nozze, celebrate in municipio e con un banchetto per pochi intimi, nel giardino di casa sua.
Stava divagando troppo, sciacquò le tazze e svolse gli ultimi servizietti per casa, quando poi decise di rilassarsi. Prese un libro e raggiunse gli altri due fuori, nel giardino, dove il resto dell’allegra brigata era già alle prese con il montaggio dello scivolo.
Zack stringeva dadi e bulloni e Allegra manteneva il disegno delle istruzioni.
Quel ragazzo non era propriamente un maestro con gli attrezzi tra le mani, al contrario di suo fratello Ryan.
“Ma il disegno è al contrario!” esclamò l’uomo, guardando il pessimo risultato che aveva ottenuto. Allegra fissò le istruzioni e prese a ridere, capovolgendolo.
Zack la guardò sorridendo e la prese in braccio, baciandole le guance. “Io ti mangio, per quanto sei bella!”.
La bimba strillò e cercò di divincolarsi, prima che Zack la solleticasse e la facesse ridere.
Rachel amava quelle scene.

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