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TSR - 3 - The Bridge Over Troubled Water



3. The Bridge Over Troubled Water

 
 Johto, Amarantopoli, casa di Xavier Solomon

“Le immagini non mentono...” diceva Xavier, in piedi dietro a Green, seduto davanti allo schermo, e a Silver, accanto a lui, con le braccia incrociate sul petto.
“Eri qui...” annuì quest’ultimo, sospirando. Vedeva Green abbassare la testa, fissando a intermittenza lo schermo e la fotografia che stringeva tra le mani.
“Non è possibile...”.
“Questo allora chi è?” riprese il fulvo, prendendo l’immagine dalle mani dell’altro e guardandola meglio. Si voltò poi verso Xavier e comparò il volto dell’uomo che aveva davanti con quello che aveva rubato il cristallo.
“Sembrerei io” rispose invece l’uomo di casa, facendo spallucce. Guardò prima il volto asettico di Silver, poi quello preoccupato di Green. Sudava. “Ma non lo sono”.
“Non è possibile!” ribatté Oak, dando un forte pugno sulla scrivania. Respirava con la bocca spalancata, alzandosi in piedi ma tenendo i palmi delle mani piantati sul freddo pannello di ferro del tavolo.
“Si rompe...” fece invece Xavier.
“Sei tu!”.
Green si voltò rapido e strappò la fotografia dalle mani di Silver. Poi tornò a guardare l’altro, avvicinandosi vertiginosamente al suo viso.
“Questo sei tu! Come cazzo hai fatto?!”.
Xavier fece un passo indietro e fece cenno di no con la testa. “Tu sei pazzo...”.
“Hai un gemello?!” riprese Green, gettandosi nuovamente su di lui e sbattendogli l’immagine sul petto. “Eh?!”.
“Sì, e ho anche un robot nell’armadio... Svitato...” sbuffò quello.
Silver invece sospirò, allontanando con delicatezza Green. “Potrebbe essere anche vagamente possibile, una cosa del genere?”.
“No. Sono solo al mondo...”.
“Sei sicuro?”.
“Santo cielo, certo che ne sono sicuro! Avrei vissuto dieci anni di vita con la consapevolezza di esser solo quando non è così?!”.
Il rosso fece spallucce. “Non siamo mai davvero soli... anche se potrebbe sembrarci così...”.
Xavier sorrise a mezza bocca, passando una mano nella chioma bionda.
“Sei molto zen, ragazzo dai capelli rossi, ma non credo che questo assioma sia applicabile a tutti. Ho avuto una vita difficile...”.
Xavier si sedette sulla scrivania, afferrando una bottiglia d’acqua e bevendo qualche sorso.
Silver sorrideva leggermente, divertito. “Beh, non puoi fare questo gioco con me...”.
“Abbiamo un grosso problema, ora!” esclamò di contro, Green, alzando i pugni al cielo. “Quest’oggetto, questa cosa che hanno rubato.... è davvero, davvero importante!”.
“Calmati, amico, ti hanno rubato il Tesseract o cosa?!” chiese Xavier.
Quello dagli occhi verdi portò le mani ai fianchi e si girò su se stesso, prima di urlare nervoso.
Servì a scaricare l’ansia che lo stava corrodendo.
Silver annuì. “Qualcosa di simile, sì...”.
“Thanos sarà difficile da sconfiggere... Ci vorrà, chessò, Red di Biancavilla...”.
Green sorrise sarcastico. “Tra poco arriverà, suppongo. Ora però ho bisogno di sapere con precisione e certezza matematica chi cazzo è questo nella fotografia”.
Xavier sospirò, afferrando la fotografia e spostando leggermente lo sguardo verso destra.
“Beh...” fece. “È probabile, e dico ipoteticamente perché nessuno ancora l’ha dimostrato, che questo nella foto sia davvero io, ma non sia io...”.
Silver sembrava confuso, sicuramente più di Green. Aveva lo sguardo corrucciato e aspettava in silenzio la spiegazione di quelle parole.
Spiegazione che chiese il ricercatore di Biancavilla.
“Ora vi spiego meglio. È possibile che quello possa essere io, ma l’io di un altro universo”.
“Farnetichi?” domandò il fulvo.
“No, no, no, aspetta!” esclamò Xavier, alzandosi rapidamente in piedi, pimpante. Si avvicinò alla lavagna e cancellò delle formule con l’avambraccio. Poi prese il gessetto.
“Pensate a un numero tra lo zero e l’infinito”.
Silver inarcò un sopracciglio mentre Green sbuffò. “Non abbiamo tempo per gli spettacoli di magia...”.
“Non è magia! È scienza!”.
“Non cambia nulla” ribatté Oak.
“Beh, facciamo caso che tu abbia pensato lo stesso a un numero, io adesso avrei potuto scrivere su questa lavagna il risultato. Beh, avrei avuto una possibilità su infinito di fare centro, no?”.
Silver annuì.
“Questo vuol dire che ci sono infinite possibilità di rispondere a questa domanda. La vita, l’universo, ogni cosa funziona secondo lo stesso criterio: ci potrebbero essere infiniti universi, infinite realtà, ognuna discordante da un’altra per un infimo particolare avvenuto nel corso della storia, dalla creazione a oggi; futili minuterie che avrebbero potuto avere un’importanza rilevante per il futuro prossimo dello stesso universo”.
Green annuì, guardando un confuso Silver. “Fin qui ci sono”.
“Ecco, anche se per noi una cosa del genere è ancora fantascienza, magari in qualche altro universo uno Xavier Solomon era interessato a questo particolare oggetto che si trovava soltanto all’interno del nostro universo di riferimento. Ecco perché sarebbe vento qui a rubarlo”.
“Non esiste anche nel suo universo?” chiese Silver.
“Dipende. Ci sono infinite possibilità che in un universo adiacente l’oggetto sia stato distrutto oppure che non abbia le stesse proprietà che ha qui... tuttavia ha anche infinite probabilità che le abbia. È un paradosso, come quello del gatto di Schrödinger; ricordate no?”.
“Sì” annuì Green. “Il gatto è contemporaneamente vivo e morto”.
“Non mi spingerò a spiegare oltre” fece allora Xavier, notando lo stesso un po’ di confusione sul volto del più piccolo.
“Quindi, in pratica, partiamo di nuovo da zero?” chiese Green.
“In pratica sì. Non posso aiutarvi oltre, perché non so di cosa si tratta. Se riuscissi a costruire la mia macchina del tempo...” indicò i disegni che aveva sul tavolo su cui studiava “... riuscirei a tornare indietro nel tempo ed evitare tante brutte cose. Tuttavia non è proprio una passeggiata”.
Silver annuì, stavolta comprendendo ciò che dicesse il padrone di casa. Tuttavia pensò che avere un simile potere fosse necessariamente esclusivo di una persona fornita di grande coscienza e bontà: nelle mani sbagliate sarebbe stato devastante. Fortunatamente era ancora un progetto in fase sperimentale e Solomon sembrava lontano dalla sua realizzazione.
“Perfetto... Siamo costretti ad andare via. Xavier, mi spiace per l’aggressione” disse Green, guardandolo negli occhi. “Normalmente mi sarei trattenuto”.
“Non lo metto in dubbio... bel diretto comunque...” si massaggiò la guancia il biondo.
Silver sorrise per un mezzo secondo e poi seguì l’altro fino al piano superiore, quindi oltre, ritornando sotto il cielo di mezzogiorno di Amarantopoli.
“Siamo nella merda, Silver” fece Oak. “Nella merda più che totale”.

 
Johto, Borgo Foglianova
 
Alla fine Crystal tornò a casa, stanca e sfatta.
Assieme a Blue aveva riassettato l’Osservatorio e cercato meglio qualche traccia, ma non vi era stato alcun passo avanti nelle indagini.
Aprì la porta, Marina era in cucina, cercando di cucinare qualcosa.
“Ehi, Crys” fece lei, sorridente. “Già di ritorno?”.
Erano passati tre anni da quando Marina era diventata il capo della Divisione Ranger di Johto. Ogni mattina si svegliava e sonnecchiante si preparava per andare verso Violapoli, sede dei suoi uffici. Era una bella traversata, avrebbe fatto carte false per potersi trasferire nella città dai tetti viola, ma doveva tener conto anche dell’opinione di Gold.
L’eterno bambino.
Lui non vedeva di buon occhio l’idea di abbandonare la casa dov’era cresciuto coi suoi amici, che, dal canto loro non vedevano la coppia come un ostacolo; un po’ perché Silver un’opinione, bene o male, non ce l’aveva (e se ce l’aveva la teneva per sé), un po’ perché a Crystal faceva comodo un’altra presenza femminile in casa, poco invasiva e gradevole come Marina.
“Sì. In realtà non ci sono andata proprio, in Laboratorio, oggi”.
Marina alzò gli occhi. “Come mai?” domandò nuovamente, guardandola per un attimo prima di tornare a guardare il filetto di merluzzo che stava tagliando a tocchetti.
“Stanotte ci ha chiamati Blue... la Lacrima di Giratina è stata rubata...”.
A quelle parole Marina alzò gli occhi, finendo per distrarsi e tagliarsi leggermente il dito.
“Dannazione!” fece, tirando subito il dito in bocca. Qualche goccia di sangue sporcava il tagliere. “Questo è davvero un bel guaio”.
“Già. Trafugare quell’oggetto, ben nascosto com’era, può significare soltanto che il responsabile fosse stato a conoscenza delle sue proprietà”.
Marina sciacquò il dito e vi avvolse un fazzoletto di carta intorno.
“Potrebbe portare problemi seri?”.
Crystal sfilò le scarpe e sospirò, poggiando i piedi sulle mattonelle di cotto.
Fresche.
“Sai...” fece, sedendosi sul divano, incrociando le gambe. “Io credo che grandi avvenimenti non vengano mai provocati soltanto da una persona... Cioè, se tu in questo momento volessi farmi del male, io potrei impegnarmi per impedirtelo”.
“Logico” rispose Marina, battendo le palpebre un paio di volte. Riprese di nuovo il coltello tra le mani, pulì il tagliere e ritornò a preparare il merluzzo.
“Ma se tu avessi qualcuno che ti aiutasse, il tuo scopo sarebbe più semplice da raggiungere. Cioè, se tu, Silver e Gold vi coalizzaste contro di me avreste molte più probabilità di sconfiggermi. La Lacrima di Giratina è per uno solo, per un uomo e basta. Un leader può utilizzare la Lacrima ma, come nel caso di... di Hoenn, insomma, sarà soltanto lui a poterne usufruire”.
“Quindi ha poca rilevanza?”.
Crystal sorrise, gettando la testa indietro.
“Oh, no... Ho provato sulla mia pelle gli effetti di quel cristallo, e credimi se ti dico che porta all’esasperazione tutto l’odio che covi dentro di te… Io non sono riuscita a gestire quel potere e ho finito col rimanere accecata. Nonostante quello però, la mia forza e la mia determinazione erano più che decuplicati. Un uomo con simili poteri potrebbe distruggere un palazzo usando soltanto i pugni...”.
“E questo è un problema...”.
“Il fatto è che non sappiamo chi abbia preso la Lacrima né per quale motivo lo abbia fatto. Questo brancolare nel buio, purtroppo, ci rende schiavi dell’ansia... Dei nostri ricordi”.
“Assolutamente” sospirò Marina. “Se solo chiudo gli occhi rivedo tutto e… cielo, mi vengono i brividi...”.
“Ora non dobbiamo più pensarci” sorrise Crystal, alzandosi. “Però dobbiamo rimanere concentrati. Hoenn è il passato, ora è stata ricostruita quasi per intero e Rocco la sta gestendo in maniera eccezionale”.
Marina spostò un ciuffo castano dal volto muovendo il collo, dato che le mani erano sporche di pesce e non poteva utilizzarle, quindi mise il merluzzo a bollire.
“Io spero che le cose non degenerino...”.
“Andiamo!” esclamò sorridente la moretta. “Tu non hai di che preoccuparti! Piuttosto, sentito Gold?”.
La Ranger inarcò impercettibilmente un sopracciglio. “Dovrebbe essere a Fiordoropoli, a prendere il necessario per crescere il cucciolo di Exbo...”.
“Ah!” esclamò Crystal. “L’ha fatto accoppiare, allora!”.
“Sì. Tre uova: uno al proprietario della femmina, uno a Gold e un altro dovrebbe essere diretto a Kalos, da Augustine Platan”.
“Ma guarda te...” sorrise di nuovo l’altra.
“Beh, è il suo lavoro, a lui piace. E a me piace vederlo realizzato”.
Crystal annuì, poi si prese qualche secondo. “Non me l’aspettavo, sai?”.
Marina alzò gli occhi e la guardò, poi le si avvicinò, portando sul tavolo un tagliere e delle verdure da tritare. “Cosa?” chiese.
“Non mi aspettavo che si realizzasse. Mi ha sempre dato l’impressione del bambinone mai cresciuto, senza attitudini né speranze”.
“Hoenn ci ha cambiati. Poi, tutto sommato, siamo più vicini ai trenta che ai venti... Queste valutazioni vanno fatte...”.
“Ma sì, ma sì, assolutamente...”.
Passò qualche secondo di silenzio, mitigato soltanto dal rumore del gas che bruciava sotto la pentola, poi Marina riprese a parlare.
“E Silver?”.
“Beh, era con Green ad Amarantopoli, per seguire una pista riguardo il possibile ladro”.
“Lo hanno preso?” domandò l’altra, spostando nuovamente quei capelli dal volto. Pensò che fosse arrivata l’ora di accorciarli di nuovo.
“Non ne ho idea...”.


 Adamanta, Miracielo, Promontorio della Collina

Riapparvero poco lontani da Miracielo, Lionell e il Dottor Solomon, in groppa al grosso Raikou dal pelo scuro. Si erano materializzati sul promontorio in cima alla collina, quello con le vecchie panchine di ferro battuto e le ringhiere che dividevano il passeggio dal pendio scosceso. Il cielo era sereno ma si vedevano in lontananza nuvole che promettevano piogge di braci.
Il viaggio temporale era stato breve ma intenso.
Lionell smontò dal grande Pokémon elettrico col sangue che ormai gli si era incrostato dietro la schiena. Quella malvagia versione di Xavier Solomon sospirò e scese a sua volta da Raikou.
“Ora, Weaves, non hai altre scuse. Non ti ho scelto per le tue manie di grandezza ma perché il tuo nome è legato a quello dell’oracolo. Adesso completa il tuo lavoro, trova il cristallo e portalo a me”.
Lionell passò la mano ossuta nella barba, grattandosi la guancia, quindi rimase qualche secondo in silenzio.
“Ricordati di mantenere la calma” continuò l’uomo dell’altra dimensione. “Se non sei calmo perdi il controllo di te stesso e diventi qualcosa di terribilmente pericoloso. Ora ho questioni importanti da sbrigare”.
“Tutto chiaro, Xavier”.
“Non voglio che succeda nulla di desueto. Arceus non c’entra nulla con la tua mansione, e di sicuro non sarai tu a poterlo sconfiggere”.
“Certo...” annuì il più anziano.
“Se non obbedirai ai miei ordini verrò personalmente ad ucciderti. E ora torna a casa e datti una ripulita... sembri un barbone”.
E non aveva tutti i torti: era magro e smunto in viso, dove la barba ormai candida presentava ancora qualche spruzzo dorato vicino al mento. I capelli mantenevano ancora quel sentore biondo che stava cadendo nel canuto ma nei suoi occhi si leggevano lacrime di sangue, inchiostro per riempire pagine di rabbia e di sofferenza.
Xavier guardò l’apparecchio che aveva al polso e annuì.
“Devo andare” fece, tirando fuori dalla borsa una blusa, bianca come la neve, che aveva rubato a una guardia del tempio. “Tieni”.
Lionell la infilò e il sangue la intrise. “Grazie”.
“Sarò nel tuo universo ancora per qualche giorno, voglio giocare col vostro clima... Se hai bisogno di me lo saprò... basta che verrai qui, su questo promontorio”.
L’altro annuì, poi lo vide poi sparire, lasciandolo lì, solo, nel vento.
Il cuore batteva. Tossì un paio di volte, avanzando un passo verso le ringhiere. Adamanta era davanti ai suoi occhi e lui era tornato. Aveva lasciato quel mondo col potere di chi aveva quasi piegato un dio; in quel momento, invece, era soltanto un uomo di mezza età che una volta possedeva un bell’aspetto e che si era ridotto a essere uno straccio.
“Uno straccione...” ripeté, sospirando.
Ci ripensò.

Per cosa, poi? Per le aspirazioni? Le aspirazioni hanno mandato la mia vita a puttane.

Sbuffò, stringendo i pugni.
Sapeva di essere nel giusto. Stava salvando il mondo, era di nuovo in gioco, e poco importava se per farlo avrebbe dovuto cacciare sua moglie dalla sua vita.
Poco importava se avrebbe dovuto ucciderla.
Poco importava se avrebbe dovuto fare lo stesso con sua figlia.
Lui doveva ucciderle, perché altrimenti Arceus avrebbe distrutto tutto.

Oppure no.
Oppure avrebbe dovuto catturare Arceus, e tutto sarebbe finito.

Il cuore pompava il sangue rapidamente ma riconobbe subito che l’idea fosse malsana. Xavier gli aveva ripetuto chiaramente e quello non era il tipo d’uomo che adorava ripetere le cose.
Xavier non scherzava, Lionell lo sapeva.
E quindi portò le gambe in spalle, e lentamente raggiunse Galeia, dove prese un bus che lo portò a Timea; casa sua era fuori mano, dovette entrare nella metro, sporco di sangue com’era, e scendere alla penultima fermata, almeno secondo i progetti, dato che fu cacciato dal controllore per mancanza di titolo di viaggio a tre fermate dal capolinea.
A dieci chilometri da casa.
Li percorse lentamente, con le gambe che faticavano ancora a prendere confidenza col presente. Erano passati diversi anni da quando aveva mosso più di trenta passi consecutivi e i muscoli facevano male.
Passarono circa due ore prima che Lionell spalancasse il cancelletto di casa sua e si addentrasse nel vialetto. L’erba era cresciuta, nessuno si era preso cura del giardino.
Salì con fatica i quattro scalini che portavano allo zerbino ma si rese conto con orrore che la porta fosse aperta: casa sua era stata depredata dai ladri.
Il cuore batteva. S’avvicinò al camino e afferrò uno degli smorzafuochi, tutto impaurito.
Poteva esserci qualcuno, lì. Controllò che nessuno fosse in casa, trovando soltanto un tossico addormentato sul tavolo della cucina. Dopodiché chiuse la porta d’ingresso, bloccando la maniglia con una sedia. Quindi sospirò.
Non c’era corrente e ormai la sera era scesa impietosa, lasciandolo nel buio più che totale.
Avrebbe dovuto radere barba e capelli, lavarsi e magari mangiare qualcosa di consistente.
Ma era troppo stanco e l’avrebbe fatto l’indomani.

 
Adamanta, Primaluce, Casa Recket

La sera scese e le stelle si affacciarono gentili nel cielo notturno.
Rachel era appena uscita dal bagno, fresca e profumata. I piedi si poggiavano sul pavimento congelato e raggiunsero il tappeto davanti al suo comodino.
Era nuda, nel primo cassetto c’era il suo pigiama. Lo indossò.
“Vieni a letto...” sussurrò Zack, steso nella sua parte del letto.
“Arrivo, un attimo”.
Poco dopo erano l’uno accanto all’altra; Zack era avvinghiato a lei, petto contro schiena, lei, piccola, davanti a lui. Si scambiarono un tenero bacio e si sistemarono meglio sotto le coperte.
“Oggi non ha fatto molto freddo” osservò il ragazzo. “Ma tu hai lo stesso i piedi congelati”.
“Erano nel contratto...”.
“Già, il contratto che ho firmato quando ti ho acquistato... Chi devo chiamare per il reso?”.
Rachel si girò, mordendo la guancia del suo uomo.
“Avresti il coraggio di dare indietro un bocciuolo come me?” aggiunse poi, scatenando una risata nell’altro. Quella si voltò e lo colpì con uno schiaffetto sul volto.
“E non farmi urlare! Che altrimenti Allegra si sveglia ed è finita la pace!”.
Lei si lasciò baciare e stringere ancor più forte, sentendo le mani dell’uomo giocare col bordo della maglietta del pigiama.
“Non cominciamo...” sussurrò Rachel, divertita, ma lui non sembrò dare molto peso alla cosa e salì con le mani più sopra, carezzando l’ombelico e il costato.
“Sicura?”.
“Hai le mani fredde...” sospirò lei, baciandolo. Sentì Zack toccarla ancor più sopra, a stringerle delicatamente il seno sinistro.
“Erano nel contratto...”.
Rachel si voltò e baciò passionalmente il suo uomo, spingendo il corpo contro il suo, fino a sentire dei passi provenire dal corridoio.
Passi di bambino.
Di bambina.
Zack esorcizzò velocemente l’eccitazione e vide Rachel abbassare la maglietta.
“Dormi” disse poi all’uomo, poco prima che la porta si aprisse e la piccola Allegra entrasse in stanza. I due sorridevano, fronte contro fronte, sentendo la ragazzina circumnavigare il letto, prima dalla parte del padre e poi da quella della madre.
“Mamma...” fece quella, con la sua vocina piccola. “C’è un signore nel mio armadio”.
Zack avrebbe voluto prenderla e stringerla tra le sue braccia senza speranza che si liberasse prima che avesse compiuto ventidue anni ma aveva stabilito, assieme a Rachel, di non farle prendere l’abitudine di dormire nel letto con loro.
“Papà... ha gli occhi rossi. Mi guarda”.
Allegra vide che i due non si mossero. Capì che stessero dormendo e sbuffò, prendendo l’iniziativa e inerpicandosi sul letto, facendo sorridere di nuovo suo padre quando, con grinta e cocciutaggine s’infilò tra i due, addormentandosi di colpo.

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