Johto, Amarantopoli, casa di Xavier Solomon
“Le immagini
non mentono...” diceva Xavier, in piedi dietro a Green, seduto davanti allo
schermo, e a Silver, accanto a lui, con le braccia incrociate sul petto.
“Eri qui...”
annuì quest’ultimo, sospirando. Vedeva Green abbassare la testa, fissando a
intermittenza lo schermo e la fotografia che stringeva tra le mani.
“Non è
possibile...”.
“Questo
allora chi è?” riprese il fulvo, prendendo l’immagine dalle mani dell’altro e
guardandola meglio. Si voltò poi verso Xavier e comparò il volto dell’uomo che
aveva davanti con quello che aveva rubato il cristallo.
“Sembrerei
io” rispose invece l’uomo di casa, facendo spallucce. Guardò prima il volto
asettico di Silver, poi quello preoccupato di Green. Sudava. “Ma non lo sono”.
“Non è
possibile!” ribatté Oak, dando un forte pugno sulla scrivania. Respirava con la
bocca spalancata, alzandosi in piedi ma tenendo i palmi delle mani piantati sul
freddo pannello di ferro del tavolo.
“Si
rompe...” fece invece Xavier.
“Sei tu!”.
Green si
voltò rapido e strappò la fotografia dalle mani di Silver. Poi tornò a guardare
l’altro, avvicinandosi vertiginosamente al suo viso.
“Questo sei
tu! Come cazzo hai fatto?!”.
Xavier fece
un passo indietro e fece cenno di no con la testa. “Tu sei pazzo...”.
“Hai un
gemello?!” riprese Green, gettandosi nuovamente su di lui e sbattendogli
l’immagine sul petto. “Eh?!”.
“Sì, e ho
anche un robot nell’armadio... Svitato...” sbuffò quello.
Silver
invece sospirò, allontanando con delicatezza Green. “Potrebbe essere anche
vagamente possibile, una cosa del genere?”.
“No. Sono
solo al mondo...”.
“Sei
sicuro?”.
“Santo
cielo, certo che ne sono sicuro! Avrei vissuto dieci anni di vita con la
consapevolezza di esser solo quando non è così?!”.
Il rosso
fece spallucce. “Non siamo mai davvero soli... anche se potrebbe sembrarci
così...”.
Xavier
sorrise a mezza bocca, passando una mano nella chioma bionda.
“Sei molto
zen, ragazzo dai capelli rossi, ma non credo che questo assioma sia applicabile
a tutti. Ho avuto una vita difficile...”.
Xavier si
sedette sulla scrivania, afferrando una bottiglia d’acqua e bevendo qualche
sorso.
Silver
sorrideva leggermente, divertito. “Beh, non puoi fare questo gioco con me...”.
“Abbiamo un
grosso problema, ora!” esclamò di contro, Green, alzando i pugni al cielo.
“Quest’oggetto, questa cosa che hanno rubato.... è davvero, davvero importante!”.
“Calmati,
amico, ti hanno rubato il Tesseract o
cosa?!” chiese Xavier.
Quello dagli
occhi verdi portò le mani ai fianchi e si girò su se stesso, prima di urlare
nervoso.
Servì a
scaricare l’ansia che lo stava corrodendo.
Silver
annuì. “Qualcosa di simile, sì...”.
“Thanos sarà
difficile da sconfiggere... Ci vorrà, chessò,
Red di Biancavilla...”.
Green
sorrise sarcastico. “Tra poco arriverà, suppongo. Ora però ho bisogno di sapere
con precisione e certezza matematica chi cazzo è questo nella fotografia”.
Xavier
sospirò, afferrando la fotografia e spostando leggermente lo sguardo verso
destra.
“Beh...”
fece. “È probabile, e dico ipoteticamente perché nessuno ancora l’ha
dimostrato, che questo nella foto sia davvero io, ma non sia io...”.
Silver
sembrava confuso, sicuramente più di Green. Aveva lo sguardo corrucciato e
aspettava in silenzio la spiegazione di quelle parole.
Spiegazione
che chiese il ricercatore di Biancavilla.
“Ora vi
spiego meglio. È possibile che quello possa essere io, ma l’io di un altro universo”.
“Farnetichi?”
domandò il fulvo.
“No, no, no,
aspetta!” esclamò Xavier, alzandosi rapidamente in piedi, pimpante. Si avvicinò
alla lavagna e cancellò delle formule con l’avambraccio. Poi prese il gessetto.
“Pensate a
un numero tra lo zero e l’infinito”.
Silver
inarcò un sopracciglio mentre Green sbuffò. “Non abbiamo tempo per gli
spettacoli di magia...”.
“Non è
magia! È scienza!”.
“Non cambia
nulla” ribatté Oak.
“Beh,
facciamo caso che tu abbia pensato lo stesso a un numero, io adesso avrei potuto
scrivere su questa lavagna il risultato. Beh, avrei avuto una possibilità su
infinito di fare centro, no?”.
Silver
annuì.
“Questo vuol
dire che ci sono infinite possibilità di rispondere a questa domanda. La vita,
l’universo, ogni cosa funziona secondo lo stesso criterio: ci potrebbero essere
infiniti universi, infinite realtà, ognuna discordante da un’altra per un
infimo particolare avvenuto nel corso della storia, dalla creazione a oggi;
futili minuterie che avrebbero potuto avere un’importanza rilevante per il
futuro prossimo dello stesso universo”.
Green annuì,
guardando un confuso Silver. “Fin qui ci sono”.
“Ecco, anche
se per noi una cosa del genere è ancora fantascienza, magari in qualche altro
universo uno Xavier Solomon era interessato a questo particolare oggetto che si
trovava soltanto all’interno del nostro universo di riferimento. Ecco perché
sarebbe vento qui a rubarlo”.
“Non esiste
anche nel suo universo?” chiese Silver.
“Dipende. Ci
sono infinite possibilità che in un universo adiacente l’oggetto sia stato
distrutto oppure che non abbia le stesse proprietà che ha qui... tuttavia ha
anche infinite probabilità che le abbia. È un paradosso, come quello del gatto
di Schrödinger; ricordate no?”.
“Sì” annuì
Green. “Il gatto è contemporaneamente vivo e morto”.
“Non mi
spingerò a spiegare oltre” fece allora Xavier, notando lo stesso un po’ di
confusione sul volto del più piccolo.
“Quindi, in
pratica, partiamo di nuovo da zero?” chiese Green.
“In pratica
sì. Non posso aiutarvi oltre, perché non so di cosa si tratta. Se riuscissi a
costruire la mia macchina del tempo...” indicò i disegni che aveva sul tavolo
su cui studiava “... riuscirei a tornare indietro nel tempo ed evitare tante
brutte cose. Tuttavia non è proprio una passeggiata”.
Silver
annuì, stavolta comprendendo ciò che dicesse il padrone di casa. Tuttavia pensò
che avere un simile potere fosse necessariamente esclusivo di una persona
fornita di grande coscienza e bontà: nelle mani sbagliate sarebbe stato
devastante. Fortunatamente era ancora un progetto in fase sperimentale e
Solomon sembrava lontano dalla sua realizzazione.
“Perfetto...
Siamo costretti ad andare via. Xavier, mi spiace per l’aggressione” disse
Green, guardandolo negli occhi. “Normalmente mi sarei trattenuto”.
“Non lo
metto in dubbio... bel diretto comunque...” si massaggiò la guancia il biondo.
Silver
sorrise per un mezzo secondo e poi seguì l’altro fino al piano superiore,
quindi oltre, ritornando sotto il cielo di mezzogiorno di Amarantopoli.
“Siamo nella
merda, Silver” fece Oak. “Nella merda più che totale”.
Johto, Borgo Foglianova
Alla fine Crystal
tornò a casa, stanca e sfatta.
Assieme a
Blue aveva riassettato l’Osservatorio e cercato meglio qualche traccia, ma non
vi era stato alcun passo avanti nelle indagini.
Aprì la
porta, Marina era in cucina, cercando di cucinare qualcosa.
“Ehi, Crys”
fece lei, sorridente. “Già di ritorno?”.
Erano
passati tre anni da quando Marina era diventata il capo della Divisione Ranger
di Johto. Ogni mattina si svegliava e sonnecchiante si preparava per andare
verso Violapoli, sede dei suoi uffici. Era una bella traversata, avrebbe fatto
carte false per potersi trasferire nella città dai tetti viola, ma doveva tener
conto anche dell’opinione di Gold.
L’eterno
bambino.
Lui non
vedeva di buon occhio l’idea di abbandonare la casa dov’era cresciuto coi suoi
amici, che, dal canto loro non vedevano la coppia come un ostacolo; un po’
perché Silver un’opinione, bene o male, non ce l’aveva (e se ce l’aveva la
teneva per sé), un po’ perché a Crystal faceva comodo un’altra presenza
femminile in casa, poco invasiva e gradevole come Marina.
“Sì. In
realtà non ci sono andata proprio, in Laboratorio, oggi”.
Marina alzò
gli occhi. “Come mai?” domandò nuovamente, guardandola per un attimo prima di
tornare a guardare il filetto di merluzzo che stava tagliando a tocchetti.
“Stanotte ci
ha chiamati Blue... la Lacrima di Giratina è stata rubata...”.
A quelle
parole Marina alzò gli occhi, finendo per distrarsi e tagliarsi leggermente il
dito.
“Dannazione!”
fece, tirando subito il dito in bocca. Qualche goccia di sangue sporcava il
tagliere. “Questo è davvero un bel guaio”.
“Già.
Trafugare quell’oggetto, ben nascosto com’era, può significare soltanto che il
responsabile fosse stato a conoscenza delle sue proprietà”.
Marina
sciacquò il dito e vi avvolse un fazzoletto di carta intorno.
“Potrebbe
portare problemi seri?”.
Crystal
sfilò le scarpe e sospirò, poggiando i piedi sulle mattonelle di cotto.
Fresche.
“Sai...”
fece, sedendosi sul divano, incrociando le gambe. “Io credo che grandi
avvenimenti non vengano mai provocati soltanto da una persona... Cioè, se tu in
questo momento volessi farmi del male, io potrei impegnarmi per impedirtelo”.
“Logico”
rispose Marina, battendo le palpebre un paio di volte. Riprese di nuovo il
coltello tra le mani, pulì il tagliere e ritornò a preparare il merluzzo.
“Ma se tu
avessi qualcuno che ti aiutasse, il tuo scopo sarebbe più semplice da
raggiungere. Cioè, se tu, Silver e Gold vi coalizzaste contro di me avreste
molte più probabilità di sconfiggermi. La Lacrima di Giratina è per uno solo,
per un uomo e basta. Un leader può utilizzare la Lacrima ma, come nel caso
di... di Hoenn, insomma, sarà soltanto lui a poterne usufruire”.
“Quindi ha
poca rilevanza?”.
Crystal
sorrise, gettando la testa indietro.
“Oh, no...
Ho provato sulla mia pelle gli effetti di quel cristallo, e credimi se ti dico
che porta all’esasperazione tutto l’odio che covi dentro di te… Io non sono
riuscita a gestire quel potere e ho finito col rimanere accecata. Nonostante quello
però, la mia forza e la mia determinazione erano più che decuplicati. Un uomo
con simili poteri potrebbe distruggere un palazzo usando soltanto i pugni...”.
“E questo è
un problema...”.
“Il fatto è
che non sappiamo chi abbia preso la Lacrima né per quale motivo lo abbia fatto.
Questo brancolare nel buio, purtroppo, ci rende schiavi dell’ansia... Dei
nostri ricordi”.
“Assolutamente”
sospirò Marina. “Se solo chiudo gli occhi rivedo tutto e… cielo, mi vengono i
brividi...”.
“Ora non
dobbiamo più pensarci” sorrise Crystal, alzandosi. “Però dobbiamo rimanere
concentrati. Hoenn è il passato, ora è stata ricostruita quasi per intero e
Rocco la sta gestendo in maniera eccezionale”.
Marina
spostò un ciuffo castano dal volto muovendo il collo, dato che le mani erano
sporche di pesce e non poteva utilizzarle, quindi mise il merluzzo a bollire.
“Io spero che
le cose non degenerino...”.
“Andiamo!”
esclamò sorridente la moretta. “Tu non hai di che preoccuparti! Piuttosto,
sentito Gold?”.
La Ranger
inarcò impercettibilmente un sopracciglio. “Dovrebbe essere a Fiordoropoli, a
prendere il necessario per crescere il cucciolo di Exbo...”.
“Ah!”
esclamò Crystal. “L’ha fatto accoppiare, allora!”.
“Sì. Tre
uova: uno al proprietario della femmina, uno a Gold e un altro dovrebbe essere
diretto a Kalos, da Augustine Platan”.
“Ma guarda
te...” sorrise di nuovo l’altra.
“Beh, è il
suo lavoro, a lui piace. E a me piace vederlo realizzato”.
Crystal
annuì, poi si prese qualche secondo. “Non me l’aspettavo, sai?”.
Marina alzò
gli occhi e la guardò, poi le si avvicinò, portando sul tavolo un tagliere e
delle verdure da tritare. “Cosa?” chiese.
“Non mi
aspettavo che si realizzasse. Mi ha sempre dato l’impressione del bambinone mai
cresciuto, senza attitudini né speranze”.
“Hoenn ci ha
cambiati. Poi, tutto sommato, siamo più vicini ai trenta che ai venti... Queste
valutazioni vanno fatte...”.
“Ma sì, ma
sì, assolutamente...”.
Passò
qualche secondo di silenzio, mitigato soltanto dal rumore del gas che bruciava
sotto la pentola, poi Marina riprese a parlare.
“E Silver?”.
“Beh, era
con Green ad Amarantopoli, per seguire una pista riguardo il possibile ladro”.
“Lo hanno
preso?” domandò l’altra, spostando nuovamente quei capelli dal volto. Pensò che
fosse arrivata l’ora di accorciarli di nuovo.
“Non ne ho
idea...”.
Adamanta, Miracielo,
Promontorio della Collina
Riapparvero
poco lontani da Miracielo, Lionell e il Dottor Solomon, in groppa al grosso
Raikou dal pelo scuro. Si erano materializzati sul promontorio in cima alla
collina, quello con le vecchie panchine di ferro battuto e le ringhiere che
dividevano il passeggio dal pendio scosceso. Il cielo era sereno ma si vedevano
in lontananza nuvole che promettevano piogge di braci.
Il viaggio
temporale era stato breve ma intenso.
Lionell
smontò dal grande Pokémon elettrico col sangue che ormai gli si era incrostato
dietro la schiena. Quella malvagia versione di Xavier Solomon sospirò e scese a
sua volta da Raikou.
“Ora,
Weaves, non hai altre scuse. Non ti ho scelto per le tue manie di grandezza ma perché
il tuo nome è legato a quello dell’oracolo. Adesso completa il tuo lavoro,
trova il cristallo e portalo a me”.
Lionell
passò la mano ossuta nella barba, grattandosi la guancia, quindi rimase qualche
secondo in silenzio.
“Ricordati
di mantenere la calma” continuò l’uomo dell’altra dimensione. “Se non sei calmo
perdi il controllo di te stesso e diventi qualcosa di terribilmente pericoloso.
Ora ho questioni importanti da sbrigare”.
“Tutto
chiaro, Xavier”.
“Non voglio
che succeda nulla di desueto. Arceus non c’entra nulla con la tua mansione, e
di sicuro non sarai tu a poterlo sconfiggere”.
“Certo...”
annuì il più anziano.
“Se non obbedirai
ai miei ordini verrò personalmente ad ucciderti. E ora torna a casa e datti una
ripulita... sembri un barbone”.
E non aveva
tutti i torti: era magro e smunto in viso, dove la barba ormai candida
presentava ancora qualche spruzzo dorato vicino al mento. I capelli mantenevano
ancora quel sentore biondo che stava cadendo nel canuto ma nei suoi occhi si
leggevano lacrime di sangue, inchiostro per riempire pagine di rabbia e di
sofferenza.
Xavier
guardò l’apparecchio che aveva al polso e annuì.
“Devo
andare” fece, tirando fuori dalla borsa una blusa, bianca come la neve, che
aveva rubato a una guardia del tempio. “Tieni”.
Lionell la
infilò e il sangue la intrise. “Grazie”.
“Sarò nel
tuo universo ancora per qualche giorno, voglio giocare col vostro clima... Se
hai bisogno di me lo saprò... basta che verrai qui, su questo promontorio”.
L’altro
annuì, poi lo vide poi sparire, lasciandolo lì, solo, nel vento.
Il cuore
batteva. Tossì un paio di volte, avanzando un passo verso le ringhiere.
Adamanta era davanti ai suoi occhi e lui era tornato. Aveva lasciato quel mondo
col potere di chi aveva quasi piegato un dio; in quel momento, invece, era
soltanto un uomo di mezza età che una volta possedeva un bell’aspetto e che si
era ridotto a essere uno straccio.
“Uno
straccione...” ripeté, sospirando.
Ci ripensò.
Per cosa, poi? Per le aspirazioni?
Le aspirazioni hanno mandato la mia vita a puttane.
Sbuffò,
stringendo i pugni.
Sapeva di
essere nel giusto. Stava salvando il mondo, era di nuovo in gioco, e poco
importava se per farlo avrebbe dovuto cacciare sua moglie dalla sua vita.
Poco
importava se avrebbe dovuto ucciderla.
Poco
importava se avrebbe dovuto fare lo stesso con sua figlia.
Lui doveva
ucciderle, perché altrimenti Arceus avrebbe distrutto tutto.
Oppure no.
Oppure
avrebbe dovuto catturare Arceus, e tutto sarebbe finito.
Il cuore
pompava il sangue rapidamente ma riconobbe subito che l’idea fosse malsana.
Xavier gli aveva ripetuto chiaramente e quello non era il tipo d’uomo che
adorava ripetere le cose.
Xavier non
scherzava, Lionell lo sapeva.
E quindi
portò le gambe in spalle, e lentamente raggiunse Galeia, dove prese un bus che
lo portò a Timea; casa sua era fuori mano, dovette entrare nella metro, sporco
di sangue com’era, e scendere alla penultima fermata, almeno secondo i
progetti, dato che fu cacciato dal controllore per mancanza di titolo di
viaggio a tre fermate dal capolinea.
A dieci
chilometri da casa.
Li percorse
lentamente, con le gambe che faticavano ancora a prendere confidenza col
presente. Erano passati diversi anni da quando aveva mosso più di trenta passi
consecutivi e i muscoli facevano male.
Passarono
circa due ore prima che Lionell spalancasse il cancelletto di casa sua e si
addentrasse nel vialetto. L’erba era cresciuta, nessuno si era preso cura del
giardino.
Salì con
fatica i quattro scalini che portavano allo zerbino ma si rese conto con orrore
che la porta fosse aperta: casa sua era stata depredata dai ladri.
Il cuore
batteva. S’avvicinò al camino e afferrò uno degli smorzafuochi, tutto
impaurito.
Poteva
esserci qualcuno, lì. Controllò che nessuno fosse in casa, trovando soltanto un
tossico addormentato sul tavolo della cucina. Dopodiché chiuse la porta
d’ingresso, bloccando la maniglia con una sedia. Quindi sospirò.
Non c’era
corrente e ormai la sera era scesa impietosa, lasciandolo nel buio più che
totale.
Avrebbe
dovuto radere barba e capelli, lavarsi e magari mangiare qualcosa di
consistente.
Ma era
troppo stanco e l’avrebbe fatto l’indomani.
Adamanta, Primaluce, Casa Recket
La sera scese
e le stelle si affacciarono gentili nel cielo notturno.
Rachel era
appena uscita dal bagno, fresca e profumata. I piedi si poggiavano sul
pavimento congelato e raggiunsero il tappeto davanti al suo comodino.
Era nuda,
nel primo cassetto c’era il suo pigiama. Lo indossò.
“Vieni a
letto...” sussurrò Zack, steso nella sua parte del letto.
“Arrivo, un
attimo”.
Poco dopo erano
l’uno accanto all’altra; Zack era avvinghiato a lei, petto contro schiena, lei,
piccola, davanti a lui. Si scambiarono un tenero bacio e si sistemarono meglio
sotto le coperte.
“Oggi non ha
fatto molto freddo” osservò il ragazzo. “Ma tu hai lo stesso i piedi
congelati”.
“Erano nel
contratto...”.
“Già, il
contratto che ho firmato quando ti ho acquistato... Chi devo chiamare per il
reso?”.
Rachel si
girò, mordendo la guancia del suo uomo.
“Avresti il
coraggio di dare indietro un bocciuolo come me?” aggiunse poi,
scatenando una risata nell’altro. Quella si voltò e lo colpì con uno
schiaffetto sul volto.
“E non farmi
urlare! Che altrimenti Allegra si sveglia ed è finita la pace!”.
Lei si
lasciò baciare e stringere ancor più forte, sentendo le mani dell’uomo giocare
col bordo della maglietta del pigiama.
“Non cominciamo...”
sussurrò Rachel, divertita, ma lui non sembrò dare molto peso alla cosa e salì
con le mani più sopra, carezzando l’ombelico e il costato.
“Sicura?”.
“Hai le mani
fredde...” sospirò lei, baciandolo. Sentì Zack toccarla ancor più sopra, a
stringerle delicatamente il seno sinistro.
“Erano nel
contratto...”.
Rachel si
voltò e baciò passionalmente il suo uomo, spingendo il corpo contro il suo,
fino a sentire dei passi provenire dal corridoio.
Passi di
bambino.
Di bambina.
Zack
esorcizzò velocemente l’eccitazione e vide Rachel abbassare la maglietta.
“Dormi”
disse poi all’uomo, poco prima che la porta si aprisse e la piccola Allegra
entrasse in stanza. I due sorridevano, fronte contro fronte, sentendo la
ragazzina circumnavigare il letto, prima dalla parte del padre e poi da quella
della madre.
“Mamma...”
fece quella, con la sua vocina piccola. “C’è un signore nel mio armadio”.
Zack avrebbe
voluto prenderla e stringerla tra le sue braccia senza speranza che si
liberasse prima che avesse compiuto ventidue anni ma aveva stabilito, assieme a
Rachel, di non farle prendere l’abitudine di dormire nel letto con loro.
“Papà... ha
gli occhi rossi. Mi guarda”.
Allegra vide
che i due non si mossero. Capì che stessero dormendo e sbuffò, prendendo
l’iniziativa e inerpicandosi sul letto, facendo sorridere di nuovo suo padre
quando, con grinta e cocciutaggine s’infilò tra i due, addormentandosi di
colpo.
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