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TSR - 4 - Ground Zero

4. Ground Zero


Adamanta, Timea, Uffici della Omecorp

“La fornitura degli impianti di videosorveglianza potrà essere... Sì, assolutamente ma... No, un momento, il pagamento dell’acconto è strettamente legato all’ordine e se non...”.
Linda odiava Eric Leminoff; questi non era altro che un omino di oltre ottant’anni, basso e rachitico, dalla barba candida e folta. Gestiva un supermercato nei pressi di Ondalta e aveva tirato sul prezzo fino a spolpare all’osso la rendita della società.
D’altronde era un periodo di magra e Linda, che lo sapeva, non poteva lasciarsi sfuggire un lavoro come quello. In cuor suo, Linda avrebbe sollevato quell’uomo con l’aiuto dei suoi Pokémon e l’avrebbe bersagliato di pugni sul volto.
Si chiedeva perché tirasse sul prezzo, dato che di lì a poco avrebbe tirato le cuoia.

I soldi non servono a nulla, nella tomba.

“Va beh, senta, dovremmo rivederci per discutere meglio delle clausole del contratto…” disse la donna, sperando che quello demordesse e le lasciasse un po’ di respiro. In quel momento l’interfono suonò, Melissa reclamava la sua attenzione; Linda si alzò rapida e corse verso la porta del suo ufficio, spalancandola e facendo capire a gesti alla sua segretaria che fosse al telefono e che non dovesse essere disturbata.
Tornò indietro. Sbuffò quando il vecchio cominciò a lamentarsi del ritardo per l’inizio dei lavori causati dalle scartoffie e dalla burocrazia.
Continuava a ripetere con insistenza che, ai suoi tempi, le carte si facessero dopo il lavoro.
“Se non firma il contratto i lavori non possono cominciare! Dobbiamo pur tutelarci in qualche modo!” esclamò lei, avvicinandosi alla finestra. Il Monte Trave sostava imperioso davanti al suo sguardo. “No... non intendo dire che non mi fidi di lei ma che, semplicemente... Sì, però c’è bisogno che lei...”.
E l’interfono suonò ancora un paio di volte, prima che la porta del suo ufficio si spalancasse.
“Sì, un attimo… Melissa, ti ho già detto che sto…” disse quella, girandosi rapida, con la mano sul microfono del telefono. Tuttavia, la sua espressione contrita mutò rapidamente.
Le sopracciglia si sollevarono lentamente, il cuore prese a battere forte. Gli occhi si spalancarono, increduli di ciò che vedevano.
Riavvicinò il telefono all’orecchio e levò la mano dal microfono.
“Signor Leminoff, la chiamo io…”.
Attaccò, sbattendo le palpebre e respirando più profondamente che potesse.
“S-sign…” ricucì poi le labbra
Anzi no.
“Signor… Weaves. Lionell…” sussurrò, avvicinandosi lentamente a lei.
Fu quello l’esatto istante in cui cominciò a dubitare della sua salute mentale. Lo vedeva, così posato ed elegante, con i capelli lunghi, tirati indietro e ben pettinati, e il volto fresco di rasatura. Era impettito, nel suo solito completo blu, panciotto incluso a nascondere la camicia bianca.
Quella con le cifre sul costato, che in quel momento non poteva vedere.
Lui rimase immobile a guardare il volto a sua volta smagrito della giovane collaboratrice. Era davanti a lei, quella la fissava come fosse uno spettro.
Le carezzò la guancia destra, poi le sorrise. Quella rimase immobile.
Lionell poté riconoscere nel suo sguardo l’enorme coltre di stanchezza che la sovrastava.
“Sei vivo…” sussurrò ancora, quella. Sorrise leggermente, stringendo la mano, fredda, che ancora le toccava il viso. “Credevo che…”.
Gli occhi di Linda si riempirono di lacrime e la felicità che la colse quasi la costrinse ad abbracciarlo.
“Stai attenta alla schiena”.
“Sì, Lionell… Signor Weaves, intendevo…” rispose lei, liberandolo dalla stretta commossa.
L’uomo le sorrise e le diede un bacio candido sulle labbra, lasciandola totalmente immobile.
Pochi secondi eterni in cui poté assaporare il sapore della donna, per poi staccarsi da lei e muoversi lentamente verso la scrivania. Si sedette.
La prima cosa che fece fu guardare il cassetto sulla destra; lo aprì e controllò che tutto l’incartamento fosse ancora lì, come lo aveva lasciato.
“C’è tutto…” disse la donna, spostando il ciuffo che le copriva lo sguardo dietro l’orecchio destro. “Ho controllato ogni giorno…”.
Lionell la guardò per un attimo, poi annui, quasi impercettibilmente. Afferrò i documenti e li poggiò sulla scrivania, silenzioso.
Quella attendeva con le mani congiunte sull’addome, in silenzio. Timorosa.
Quando il viso dell’uomo si alzò e i suoi bellissimi occhi blu si posarono sulla pelle candida della bella.
“Abbiamo un po’ di cose da spiegarci, io e te”.


Adamanta, Primaluce, Casa Recket

Quando Zack si svegliò, quel mattino, Rachel era già in piedi.
Come quasi ogni volta.
Da quando era entrato nel periodo di ferie come consulente per la Lega di Adamanta, Zack e Rachel avevano cambiato ritmi.
Lei era sempre occupata, con la casa e il resto. Almeno fino a mezzogiorno circa, fino a quando usciva con Marianne o andava a trovare Alma.
Oppure si chiudeva nella mansardina, dove dipingeva. Ultimamente amava farlo, la connetteva al mondo, diceva.
Il ruolo di Zack, invece, era domare Allegra e, a volte, progettare la costruzione del gazebo che ben vedeva nel giardino. Ne aveva parlato a Rachel poco dopo essere andati a vivere in quella casa.

“Mio padre…” disse quella volta “… aveva costruito un gazebo bellissimo, quando ero piccolo: aveva otto alti pali di legno, che aveva dipinto con quella vernice... sai, quella lì scura...”.
“Quella per il legno” aveva ribattuto Rachel.
“Sì, quella. Insomma, base ottagonale, sopraelevato, avevamo fatto gettare un massetto di cemento in modo da essere più in alto rispetto al terreno... Sai, animali vari, insetti e umidità”.
Lei aveva annuito.
“Poi montò altrettante travi che andavano ad incontrarsi su di un pilastro centrale. Ricordo che lo aiutai a mettere le tegole, perché ero leggero e piccolo e mi muoveva agilmente sul tetto. Mia madre aveva una paura terribile che cadessi ma lui si faceva una risata e faceva finta di niente…”.
“Ora so da hai ereditato la tua incoscienza”.
Zack aveva preso a ridere.
“Mi piacerebbe riprodurlo anche qui. Sarebbe bellissimo, proprio lì, accanto alla piccola quercia che abbiamo piantato qualche tempo fa”.
Rachel aveva annuito, sorridendogli dolcemente. “Sembra proprio una buona idea”.
“Che dici?”.
“Va bene”.
“Allora ci lavorerò su…”.

Quel giorno il tempo era abbastanza mite da permettergli di pensare di riprendere in mano i progetti che aveva stipato nel cassetto.
Allegra dormiva ancora e quindi avrebbe dovuto approfittarne. Sfilò fuori dalle coperte e si preparò, per poi scendere al piano inferiore.
Rachel era seduta sul divano, col portatile sulle gambe e una grossa tazza tra le mani. Al suo interno, qualcosa rilasciava caldo fumo. Ne bevve un sorso, poco prima che Zack, alle spalle del divano, saltasse agilmente la spalliera e le atterrasse accanto.
Lei rimase impassibile, abituata a quelle scene.
“Buongiorno, bionda” le disse, baciandole la guancia.
“Non sono bionda”.
“Lo so”.
“Allegra dorme ancora?”.
Zack gettò un’occhiata allo schermo, vedendo la schermata dell’Huff Post.
“Esatto. Siamo solo io e te, finalmente”.
La mano dell’uomo si mosse verso la spalla della donna, spostando delicatamente una ciocca corvina di capelli e liberando il collo candido. Vi poggiò delicatamente le labbra, scendendo con la mano verso il seno.
Rachel però si spostò.
“Lasciami perdere stamattina, marpione. Stavo leggendo le notizie”.
Lui però non parve cogliere. Non demordeva.
“Novità?” chiese, continuando a baciarla e a palparla.
“Sì... sembra che a Hoenn riaprirà a breve il museo di Porto Alghepoli...”.
“Che palle...”.
S’inginocchiò sul divano e le afferrò la tazza da mano, poggiandola per terra. Rachel sorrise.
“Sei un cretino... l’arte è bella...”.
“Tu sei più bella dell’arte...”.
Si allungò nuovamente, prendendole il computer che aveva poggiato sulle gambe e chiudendolo. Poi tirò la ragazza a sé, facendosi sovrastare. Lei sorrideva.
“Non ti arrendi mai, vero?”.
“Sei mi fossi arreso ora non saremmo qui”.
Rachel fece una smorfia e allungò il sorriso, poi lo baciò una, due, tre volte, mentre le mani tastavano il corpo bollente del marito. Amava i suoi addominali, ancora tonici nonostante lo stile di vita più sedentario.
Al contrario, lei si era leggermente riempita. Certo, colpa della gravidanza. Zack però non poté fare altro che apprezzare quelle morbidezze, da donna vera.
“Va bene, va bene...” disse quella, rubando fiato ai baci. “Ma non facciamo troppo rumore... e non spogliamoci totalmente...”.
“Venduto...”.

Kanto, Biancavilla, Piazza Centrale

Blue non aveva mai visto una giornata più grigia di quella.
Grosse nuvole aggressive, cariche di rabbia e pioggia, stazionavano sul cielo di Biancavilla.
Un po’ per il vento, che soffiava gelido e batteva i viottoli del paesino, un po’ per la minaccia dell’imminente tempesta, la gente cercava di non uscire di casa.
Nella piazza centrale, quella con la grande fontana di marmo, la gente si salutava rapida per poi infilarsi nei vicoletti che si diramavano lungo la via principale.
Blue e Green erano arrivati da qualche minuto, lì. Tre, per la precisione. Lui era nervoso e non faceva altro che guardare l’orologio.
“Cerca di calmarti, tesoro…” aveva fatto quella, avvicinandosi a lui, poggiato a uno dei quattro alberi posti attorno alla fontana. Gli sistemò meglio la cravatta nera e gli lisciò il risvolto sul petto. Provò poi a catturare lo sguardo di giada dell’uomo, che sfuggevole evitava di tuffarsi nel blu di quello della bella, nascosto dietro la frangetta castana.
Stringeva la cinghia della tracolla di pelle marrone, Green, che pesante gli si poggiava sulla gamba. Fissava altro, a intervalli regolari di pochi secondi: prima i comignoli sui tetti, poi un vecchio balconcino con le balaustre in ferro battuto dipinte di nero, poi le sue persiane chiuse. Dopo, sulla destra, un giovane camminava con le mani nelle tasche. Indossava delle Vans, manteneva lo skateboard tra sotto al braccio perché i sanpietrini della piazza non gli consentivano di fare due metri senza inciampare.
Guardò la pavimentazione stradale, composta da piccoli cubetti sconnessi di pietra, poi le punte degli stivali di Blue. Le gambe erano fasciate dagli stretti fuson.
Quelle stesse gambe.
Ripensò a quando Red le aveva strette, nude, tra le mani.
“Li chiamo?” domandò la donna. “Almeno ti calmi un po’…”.
Green fissò le sue labbra.
Le mani di Red stringevano ancora le gambe di Blue. Sui loro volti c’era l’estasi, mentre lui era dentro di lei.
“Allora?”.
La voce di Blue lo fece trasalire.
“Sì. Sì… sì, chiama Yellow e vedi dove sono”.
“Spero mi risponda...” fece quella, voltandosi e allontanandosi leggermente, disturbata dallo scroscio dell’acqua della fontana.
Green sospirò, guardandola. Era così naturale mentre si muoveva, facendo piccoli passi avanti e indietro ma rimanendo sostanzialmente sempre nello stesso punto. Cominciò a parlare, non sentì di preciso le parole che utilizzò ma il suo volto pareva felice.
Era elettrizzata, lo si vedeva a pelle; incontrare di nuovo gli amici di sempre la stava caricando d’adrenalina, e a Green la cosa non poteva fare che piacere.
Se la cosa si fosse limitata soltanto a Yellow forse anche lui sarebbe stato contento di quella riunione. Ma ovviamente c’era anche Red, l’amico di sempre.
Da cui non ci si poteva aspettare l’inaspettabile. Ma la vita, imparò, spesso non è d’accordo.
“Perfetto” sorrise nuovamente Blue, grattandosi il collo con le unghie smaltate. “Allora vi aspettiamo in piazza. Fate presto”.
Quella si meritava un po’ di felicità, pensò. Soprattutto nell’ultimo periodo, in cui il sonno le aveva dipinto sul volto una maschera di stanchezza e di preoccupazioni, portate dalla situazione del Cristallo del Caos. Avrebbe soltanto voluto, Green, che quella felicità non dovesse provenire da quelle due persone, con cui non voleva avere niente a che fare.
La vide avvicinarsi a lui, con lo stesso sorriso, forse leggermente smorzato.
“Stanno arrivando”.
“Come?”.
“I ragazzi. Stanno arrivando”.
Green annuì, proiettando l’immagine gioiosa del ragazzo dagli occhi rossi e della bionda compagna che avanzavano lungo il corso principale. Ma no, non c’erano ancora.
Eppure li percepiva, li sentiva nell’aria.
Perso nei suoi pensieri, non si accorse che Blue lo stesse scrutando. Ed erano poche, le cose di cui Blue non si accorgeva.
“Che succede?”.
Trasalì.
“Uh? Nulla...”.
Quella lo fissava, sorridente, quasi a dirgli tu non abbindoli nessuno. Ma lui non colse. Non volle cogliere.
“Avanti”.
“Cosa?”.
“Dimmi”.
“Cosa dovrei dirti?” sospirò poi quello, ancora con le mani strette attorno alla cinghia della tracolla. Il vento, soffiando, alzò un gruppetto di foglie dalle strade, che vorticarono lontano.
“Dovresti dirmi cosa succede” ribatté l’altra.
I loro occhi crearono un ponte immaginario, in cui entrambi si sarebbero dovuti avviare, per incontrarsi a metà strada. Ma quando quello distolse lo sguardo la vide crollare giù.
Blue sospirò. Un po’ aveva capito ma non sapeva come affrontare la cosa. Inoltre non voleva sbagliarsi e non aveva nessuna voglia di riaprire quell’argomento. Aveva affrontato cose ben peggiori, aveva visto la morte con gli occhi ma quando la vedeva negli occhi di Green non riusciva a fare nulla.
Quello, dal canto suo, non poteva fare altro che stare fermo, in balia delle onde, sperando che quella buriana interiore finisse in fretta. Non riusciva a fare a meno, però, di restare a pensare alla faccenda. Al fatto che la donna che amava non fosse sempre stata sua, almeno non fin dall’inizio, e la cosa gli creava una rabbia immensa, che non riusciva a sfogare.
Ricordava la pioggia di quella sera, nella radura poco fuori Celestopoli. Condivideva l’ombrello con Yellow ma quella non gli si accostava troppo, col risultato che preferì evitare che quella si bagnasse, coprendo lei più di quanto non preferì fare con se stesso. L’erba alta gli sporcava i cargo beige ed erano finiti più di una volta in una pozzanghera, col risultato che avrebbe dovuto buttare le Fila di tela l’indomani.
“Allora?”.
Blue continuava a fissarlo ma nelle sue orecchie c’era soltanto il rumore della pioggia. Quasi sentiva il profumo delicato di Yellow accanto a lui. Quasi percepiva il suo imbarazzo quando per sbaglio le loro mani si toccavano.
“Mi rispondi?!” si alterò infine la sua donna.
Fu riportato aggressivamente su quel piano dell’esistenza; sbatté le palpebre un paio di volte di troppo, e Blue si rese conto di ciò che stava succedendo.
Fece un passo indietro, distolse lo sguardo. Poi sospirò.
“Che cosa?” chiese Green, rispondendo a una domanda che la sua donna gli aveva posto soltanto con gli occhi.
“Ho capito...” fece lei, sorridendo. Indietreggiò ancora, sedendosi sulle balaustre di ferro battuto della fontana. “Ma devi calmarti”.
“Sono calmo”.
“Non è così, non prendermi in giro”.
Green sbuffò, lasciando finalmente la presa dalla tracolla e passando una mano nei capelli.
“Tutta... questa storia...”.
“Lo so, tesoro, è dura”.
“Se qualcuno prendesse il cristallo e lo utilizzasse per scopi malvagi non so se riusciremo a fermarlo”.
Blue rimase in silenzio. Abbassò lo sguardo e si sedimentò un secondo di silenzio, che bastò all’uomo per ripiombare in quell’incubo.
La tenda era davanti a loro, la pioggia batteva.
E Blue ansimava. Urlava.
Green rallentò il passo, col sangue che cominciò rapido a raggelarsi. Riconobbe subito la voce della sua donna e capì cosa stesse succedendo un secondo prima di Yellow, che poté godere del beneficio del dubbio fino a quando la paura sul volto dell’altro la investì.
Quando aprì la tenda li vide. Fu come ricevere una coltellata.
“Ci riusciremo” rispose poi Blue, salutando con la mano la loro vicina di casa, la signora Aoyake. Il suo roseto era il più bello di Biancavilla.
“Non ne ho idea”.
“Avanti!” esclamò poi la donna. “Siamo di nuovo insieme! Tutti e quattro!”.
“Già...”.
Lo guardò poi, e lui si accorse che il sorriso che le vestiva il viso andava lentamente a sfiorire. Nutriva rancore verso di lei, ed erano passati anni da quando aveva deciso di metterci una pietra sopra, ma continuava a sentire che, dietro la superfice dorata c’erano crepe profonde come l’universo.
Riusciva a percepire la stanchezza deturpare la sua bellezza infinita, figlia di quei giorni dove il sonno aveva lasciato posto alla preoccupazione.
La vide sbuffare, tornare indietro, incrociare le braccia e allungare lo sguardo verso l’altra parte della piazza. Sperava che da un momento all’altro Red e Yellow spuntassero da qualche vicolo e colorassero un po’ quella mattinata grigia.
Eppure, Green era perso senza di lei; era una cosa così difficile da metabolizzare che sfidava chiunque altro non fosse se stesso a comprenderla. Quando tornarono a casa, dopo quella notte sciagurata alle porte di Celestopoli, lui era rimasto per gran parte del tempo a leggere Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, con un bicchiere di Lagavulin, riempito e svuotato diverse volte, fino a quando la bottiglia non cadde e si ruppe.
Tanto era vuota.
Ricordava perfettamente quel momento: era seduto sulla sua poltrona e il parquet era interamente inzaccherato. Con ogni probabilità, avrebbe spazzato male e si sarebbe ferito ai piedi. Automaticamente ricordò quando la serratura, qualche ora dopo, scattò. Blue entrò, a testa bassa.
Mortificata.
Io…” fece, cercando di giustificare quel gesto. Alzò la testa, guardò gli occhi di Green che la giudicavano. Vide anche la bottiglia rotta per terra, e il bicchiere vuoto stretto tra le sue mani. Il libro era chiuso sulle sue gambe.
“Zitta” le aveva detto. “Prendi la tua roba, mettilo in un sacco della spazzatura e vai via da questa casa. Questo non è più il tuo posto”.
E così successe: sentiva armeggiare al piano di sopra, la ragazza scese un’ora dopo con le valige tra le mani e lo sguardo di chi aveva subito una violenza, che indugiava su quel carnefice che tanto amava.
Ma i ruoli erano inversi.
Respirò profondamente, lei, poggiò una valigia per terra e portò la mano libera verso la maniglia. Pareva incandescente. Cercò il perdono con gli occhi audaci. Cercò le sue parole, e le trovò quando, dopo qualche secondo, la mano non si decideva ad aprire la porta
“Vattene” chiosò lui ogni tentativo di ragionamento.
“Green…”.
“Ho detto vattene!” aveva urlato, tirandole contro il bicchiere. Quello esplose sulla porta, accanto alla sua testa, ricoprendole la testa di schegge trasparenti e taglienti come lame affilate.
Non gli fece alcun effetto vederla in lacrime.
Non gli fece alcun effetto vederla uscire.
Non gli fece alcun effetto sentire il rumore della porta, accostata con calma quasi irreale nel suo loco.
Blue era uscita dalla sua vita come una ladra, proprio come quando vi era entrata.

Da lì in poi, il silenzio in quella casa lo divorò, e lo fece per quasi otto mesi, in cui le finestre rimasero chiuse. In cui il letto era freddo e vuoto, giorno dopo giorno, diventando il palcoscenico degli incubi che tesseva la sua mente di notte, e che si trasformavano in realtà durante il giorno.

Era nella ragione.
Ma era solo.
Era solo però nella ragione.

E poi un giorno cedette al lato oscuro, convincendosi a smontare quella triste impalcatura d’orgoglio; Perché, tanto, comunque fosse andata, avrebbe perso lo stesso
Una notte, una di quelle gelide, di quell’inverno di qualche anno prima che non avrebbe perdonato chiunque non fosse stato vicino a qualcosa che donava calore, Green chiuse gli occhi e uscì dal suo corpo.
Si alzò, vedendosi steso sul letto, al suo posto, nella parte destra del letto. Non riusciva a dormire dove riposava Blue. Riusciva ancora a sentire il suo odore, e riconduceva il tutto a quella notte maledetta.
Spostò il pantalone dalla poltrona e si sedette, accavallando le gambe. Guardava la sua figura, col volto contrito durante il sonno, probabilmente stava sognando qualcosa di brutto.
Non gli importava assai, onestamente.
Di se stesso, e la cosa cominciò a sconcertarlo, tutto a un tratto.
Si grattò la barba sul mento, sbadigliò, forse non doveva alzarsi a quell’ora; la sveglia segnava le tre e trentaquattro. A quell’ora le persone dormivano.
Eppure la sua mente gli aveva chiesto di alzarsi, con modi così gentili da rendergli quasi impossibile dirgli di no, e quindi si era ritrovato a fare una lenta analisi sulla sua vita.

Di merda.

Si trovava a camminare su di un sottile e fragile corridoio, a metà strada tra un baratro e l’altro, e non c’era una soluzione semplice e pratica per evitare almeno i graffi.
No, i graffi doveva prenderseli. Almeno quelli.

Se guardava avanti c’era la sua rocca, il suo castello erto contro i mali e le ingiustizie in cui solo il suo volere era rispettato, in cui la sua dignità era stata eletta unica sovrana, regina madre. Unica ragione di vita.
Il guardiano di quella rocca però non lasciava passare nessuno. Motivo per cui, lì dentro, poteva entrare solo lui, che era architetto dell’orgoglio e padrone di quello che sarebbe diventato il silenzio che lo avrebbe consumato.

Se invece guardava alle spalle vedeva il temporale, le persone che lo guardavano, la tenda chiusa nel prato, il calore umano, Blue che ansimava, i regali di Natale, il tradimento, il cuore che si spezzava, la possibilità di crescere un bambino e tutto ciò che comportava essere umano: la contraddizione.
Perché Green lo sapeva che se fosse rimasto lì, in mezzo a quello stretto corridoio fatto di carta, prima o poi sarebbe caduto e sarebbe morto. Sarebbe diventato il guscio vuoto di un uomo che un tempo riempiva le proprie giornate di colori e parole. Certo, con pessimi modi, ma era pur sempre umano.
E umano sarebbe rimasto, andando dritto, chiudendo a Blue ogni possibilità di saltare con lui sul carro dei vincitori. Perché per lui quello era, tutta quella situazione, col corridoio in mezzo alle due colonne su di un mare di lava che ti uccideva.
Era un me contro te, una sfida mortale che vedeva un vincitore e un vinto.
E in quel momento, in bilico, la carta vincente ce l’aveva Green. Sì, perché Blue aspettava invano una sua chiamata da mesi, cercava il suo sguardo quando s’incontravano e provava in ogni modo a parlargli, senza mai riuscirci.
Lei stava soffrendo e lui, lentamente, le stava restituendo tutto il male che aveva subito.

Che ancora subiva.

La cosa però non lo rinfrancava, perché nonostante tutto non voleva vederla soffrire. Perché l’amava, l’amava ancora. Non fu quel gesto sciagurato di Blue a cancellare anni di sorrisi, di sospiri grevi, di notti gelate diventate bollenti.
Di progetti.
E quindi la cosa giusta da fare sarebbe stata tornare indietro sui propri passi, ricominciare senza mai menzionare l’accaduto.
Bastava coprire le cicatrici con un po’ di phard e non si vedevano più.
Avrebbe ricominciato la sua vita con una nuova linfa, con la consapevolezza che il perdono rende uomini superiori.

Green si guardava ancora, mentre dormiva, con le gambe fasciate nel pigiama e le mani a stringere i braccioli della poltrona.
Sorrideva.
Il perdono rende gli uomini esseri superiori.
Se lo ripeteva e la cosa gli suonava male.

Nessuno perdona mai davvero qualcuno. Nessuno è superiore agli altri. Siamo sacchi di sangue troppo caldo, ossa a volte rotte e merda che infestano un mondo che non ci siamo mai meritato.

Siamo umani.

E anche Green lo era. Anche Green era umano.
La questione era pura e semplice, quasi divertente: se decideva di tornare indietro da lei, cosa che voleva fare e che gli avrebbe donato un po’ di riposo alle sue notti, aveva ufficialmente perso quella battaglia.
Almeno sulla carta, l’avrebbe perdonata. Ma nel loro letto si sarebbe addormentata ogni sera una bomba, sempre pronta a detonare.
Perché nessuno dimentica il male subito, specialmente da chi amiamo.
Se invece decideva di proseguire il percorso oltre i rovi, oltre i muri spessi e i ricordi assassini, avrebbe probabilmente annientato quei ricordi e si sarebbe negato l’occasione di essere felice.
Era una vittoria di Pirro. Arrivare al primo posto non lo avrebbe visto vincitore.
Il minore dei male era adattarsi. Resilienza. Resiliente, lui.
Tornò nel suo corpo, rimase sveglio tutta la notte e l’indomani telefonò a Blue, s’incontrarono e tornarono assieme, e lei riprese a riempire di sorrisi le sue giornate ma non c’era una volta, una singola volta, in cui non si voltava indietro e guardasse da lontano i passi fatti.

E se avessi sbagliato?

Non credeva di essere così insicuro.
Ma poi si rendeva conto, quando si svegliava al mattino, di non esser stato totalmente stupido a fare quell’affare; nonostante tutto era sempre il viso della donna che amava, la prima cosa che vedeva al mattino.
E doveva ammettere a se stesso che sentirla cantare sotto la doccia era la realizzazione di una vita.  Però era tutto sciupato, come un foglio di carta appallottolato e gettato, poi ripreso e steso di nuovo. Quelle piegature lo infastidivano e non andavano via.

“Da dove cominceremo le ricerche? Smeraldopoli?”.
Gli occhi di Green ridiedero colore alle cose che aveva attorno, che i suoi ricordi avevano sbiadito. Blue lo fissava.
“Dall’Osservatorio”.
“Forse è meglio, c’è anche Yellow” ragionò quella, avvicinandosi a lui e mettendo una mano sul suo braccio.
“Lei riesce a parlare coi Pokémon. Stanotte qualcuno probabilmente era sveglio e ha visto tutto…”.
La vide annuire, poi abbassò lo sguardo. Non riusciva più a sostenerlo come un tempo.

Bella e maledetta.

Solo quello ebbe il tempo di pensare, prima che da un vicolo, a distanza, si presentassero le due figure amiche. Blue li vide e annuì sommessamente.
“Stanno arrivando. Hai pochi secondi per dirmi che ti prende”.
E quella frase lo colpì, non poco.
Per la prima volta da quando erano arrivati in piazza, Green si staccò dall’albero che lo reggeva. Le si avvicinò, guardando le sagome di Red e Yellow per un secondo.
Spostò lo sguardo su di lei, sorridendole a mezza bocca, ma con gli occhi tristi.

Che dovrei dirti? Che ti ho perdonato e non è vero?
Che ho accettato di riprenderti con me ma che non sopporto di vederti nel mio stesso letto, al mattino?
Che però senza di te sarei un uomo distrutto? Cosa cazzo dovrei dirti?
Cosa si dice a una persona che odi con tutto te stesso ma che ami, e che non vuoi vedere andar via?

“Niente, Blue. Non mi prende niente”.
Gli occhi della donna si spensero dietro le palpebre, per un secondo molto lungo. Espirò, cercò di svuotare quel bicchiere di rabbia che si riempiva nella pancia e quindi sorrise, torva.
“Non la vincerai, in questo modo”.
Green inarcò le sopracciglia. “Non c’è nulla da vincere”.
“Infatti c’è solo da perdere”.
“Smettila”.
“Guarda che ho capito tutto”.
“Finiscila, Blue” si sovrappose l’uomo.
“Non fare finta di niente, perché non ci riesci...”.
Green le si scagliò contro, afferrandola per i polsi. “Non voglio che questa discussione avvenga in questo momento”.
“Io ho sbagliato!” prese a sbraitare quella, energica. “E ho pagato! Ho lasciato la nostra casa! Ho lasciato te, che sei l’uomo che amo! E sono rimasta da sola, a cuocermi nel mio brodo di autocommiserazione!”.
“Nessuna autocommiserazione...” sussurrò quello. “Hai sempre fatto ciò che volevi...”.
“Ciò che dovevo! Il problema è questo!”.
Una folata di vento le arruffò la frangetta. I suoi occhi si abbassarono e un respiro, pesante come il piombo, le cadde sui piedi.
“Che cazzo, Green, conosci la mia storia...”.
“La conosco... ma non puoi usarla ogni volta come scusa per le tue cazzate”.
Blue li rialzò.
“Sei uno stronzo”.
Lo vide poi sbuffare. “Sì, lo so. Ora indossa il sorriso della domenica e cerca di mettere la rabbia repressa in tasca, perché sono qui”.
Entrambi si voltarono verso destra, la fontana scrosciava e il vento continuava a strappare lamentarsi.
E dopo cinque anni, quei quattro erano di nuovo insieme, faccia a faccia.
Faccia a faccia.

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Frammenti - Orizzonte Frammenti. Deboli soffi di vita nella violenta tempesta che è l’esistenza. A volte destinati a sparire, a volte pronti a moltiplicare. Come un soffio di vento trasporta il polline che andrà a fecondare un'altra pianta dalla quale nascerà la vita, alcuni momenti, per quanto brevi, danno il via a qualcos’altro, qualcosa di più grande.   L’aria era fredda, il gelido inverno era alle porte e i sempreverdi costellavano i boschi innevati che circondavano la cittadina di Nevepoli. Quell’anno, le grandi nevicate erano arrivate prima e già, il ventesimo giorno di dicembre, i fiocchi di neve scendevano copiosi sui tetti della città. Lo spettacolo che davano quelle minuscole e complesse opere d’arte di cristalli di ghiaccio, passando di notte sotto la luce dei lampioni per poi andare a posarsi a terra sciogliendosi, era qualcosa di meravigliosamente inquietante. Un gelido calore pervadeva le strade, ridotte ormai a soffici torrenti di neve. Nell’attimo

Quindicesimo Capitolo - 15

Salve ragassuoli, mi dispiaccio ogni volta per il ritardo nella pubblicazione, e mi rendo conto che sta diventando un disagio. Ecco perchè, dalla settimana prossima, per problemi di lavoro, la fan fiction sarà pubblicata il MARTEDì. Chiedo ancora scusa, e spero di non aver recato disagio. Ringrazio tutti quelli che hanno messo mi piace alla pagina   Pokémon Adventures ITA . Vedere il seguito crescere ogni giorno di più è una grande soddisfazione. Sei su EFP? Vieni a recensirci anche lì!  Andy Black, autore su EFP Ricordo sempre che il nostro progetto, Pokémon Courage ha bisogno di sostegno da parte vostra...niente soldi, tranquilli, basta solamente un po' di partecipazione. Siamo davvero così pochi a leggere questa bellissima storia? Entrate anche voi a far parte della famiglia di Pokémon Courage . Ho finito con le raccomandazioni. Cominciamo. Stay Ready...Go! Andy $   “Rachel...sei davvero tu?” chiese sgomento Ryan, quasi commosso. Zorua fece un