6. A Discapito Degli Altri
- Johto, Amarantopoli -
“Non sa cosa
sia successo”.
Non appena
pronunciate quelle parole, la testa di Silver si lasciò cadere indietro, a fissare
il cielo che lo sovrastava. Era seduto su di una panchina, con le gambe stese e
le caviglie incrociate.
Gold invece
era davanti a lui, in piedi, a scorrere la home di Instagram.
“Ovviamente
nega di avere qualsiasi coinvolgimento nei fatti, né riesce a immaginare come
sia stato possibile che quell’uomo sia scomparso nel nulla. Ha parlato di
molecole che si smaterializzano ma Angelo ha voluto puntargli lo stesso il dito
contro. Tuttavia non sembrava molto lucido…”.
Gold sorrise
e si avvicinò a lui, mostrandogli una foto di Amber Rose, distesa di pancia su
di una sdraio. “Lei è tipo la mucca sacra” sorrise, sedendosi sullo schienale
della panchina, accanto a lui.
Silver però
era ancora impegnato nella conversazione.
“Bene,
terremo gli occhi aperti” rispose, chiudendo la conversazione. Ripose il
cellulare e sospirò.
“Che brutta
storia…”.
“Già” annuì
rapido l’altro. “Se un bocciuolo di rosa
come Crystal è riuscita a diventare pericolosa con quella pietra in mano,
figuriamoci quali potrebbero essere le conseguenze se a possederlo adesso fosse
una persona già forte di suo. Tipo Hulk Hogan”.
Silver
sbuffò e spostò gli occhi lentamente in sua direzione. “Dovresti cominciare a
prendere questa cosa seriamente”. La testa gli ricadde tra le mani, prima che
Gold lo spintonasse.
“Se lo facessi
non vi darei spazio” bofonchiò, tamburellando con le dita sul ferro della
panchina.
Lo sguardo
argenteo di Silver venne nascosto dalle palpebre, e per un momento il vento si
alzò, graffiando le guance del giovane.
“Non
riuscirò mai a capire ciò che dici…”.
Si alzò e si
sistemò la giacca, seguito subito dopo da Gold, che balzò agilmente dalla
panchina e gli atterrò accanto.
“Non c’è
nulla da capire, Sheila… Dico semplicemente che io riesco a ragionare in modi
differenti da vostri. Io gioco in un’altra lega, vedo altre soluzioni”.
“Tu non
ragioni, tu sragioni. Quello che fai non è costruttivo”.
Gold fece
una smorfia e sospirò, prendendo le cuffiette e infilandole nelle orecchie.
“Io non credo che sia così. Avrei già la soluzione per trovare una pista…”.
“Io non credo che sia così. Avrei già la soluzione per trovare una pista…”.
Silver
sbuffò e infilò le mani in tasca. “Non la voglio neppure sentire. Meglio tornare
a casa, potrebbe esser successo qualcosa”.
- Adamanta, Timea, Ufficio della
Omecorp -
I numeri
della Omecorp s’avvicendavano rapidi, pagina dopo pagina.
Schermata dopo
schermata.
Tra estratti
conto e bilanci, gli occhi di Lionell parevano zirconi incastonati in un volto
granitico.
Soldi.
Soltanto
soldi.
“Linda…”.
La
collaboratrice era seduta davanti a lui, e sprofondava stanca nelle poltroncine
di pelle rossa. L’uomo spostò lo sguardo dal monitor, indugiando su di lei: gli
occhi della donna, verdi come giada, erano spenti e mortificati.
La risposta
scappò dalla sua bocca, quasi rassegnata.
“Sì...”.
“Hai
letteralmente dilapidato un patrimonio...” osservò, fissandola negli occhi con
calma glaciale. “Siamo alla mercé del mercato: un qualsiasi scossone, un
pagamento incassato in ritardo... tutto, anche il più piccolo imprevisto e
questa società chiuderebbe i battenti”.
Linda
guardava in basso, annuendo lentamente. Teneva le mani incrociate sulle
ginocchia, le gambe accavallate una sull’altra, accarezzate dal velluto bianco
del pantalone che indossava. I primi due bottoni della camicetta blu erano
aperti, lasciando intravedere la parte superiore del seno.
“Mi spiace
molto”.
“La gestione
non è il tuo forte” continuò quello, allargando il nodo della cravatta grigia.
Respirò profondamente, e Linda lo vedeva, col volto illuminato dalla luce blu
dello schermo, che non esprimeva alcuna emozione. Era contrito, concentrato.
Analizzava.
“Direi di
no…”.
“Non è un
problema” fece poi, sorridendo leggermente. Si alzò dalla scrivania e liberò il
collo dal cappio della cravatta. Girò attorno alla scrivania e la raggiunse,
tendendole la mano.
La donna
l’afferrò e si alzò, sorridendo.
Lui le carezzò
la morbida guancia con l’indice e le sorrise. Quella parve sciogliersi.
“So che hai
provato con tutte le tue forze ad andare avanti, e te ne do atto. Avresti
potuto prendere i soldi e scappare… Ma tu sei rimasta fedele. Hai conservato
anche tutti i piani per… per quell’altra cosa”. L’uomo sorrise gentilmente,
vedendola avvampare.
Abbassò lo
sguardo, Linda, dagli occhi dell’uomo alle sue labbra.
“Ma alla
società penseremo con calma”.
Quella annuì
lentamente, vedendolo allontanarsi da lei.
La donna rimase
in piedi a guardarlo, silenziosa.
“Che
succede?”.
“Alzati”.
Quella lo
fece, anche se non capiva bene. Lo raggiunse verso la finestra e lo guardò,
spostando una ciocca di capelli castani dal volto e attendendo che cominciasse
a parlare.
“Dobbiamo
riprovarci, Linda”.
Manteneva le
mani basse, quello, stese lungo i
fianchi e strette nei pugni. Guardava fisso davanti a sé, mentre il
libeccio spazzava il cortile della Omecorp.
“Dobb…
dobbiamo riprovarci?”.
“Dobbiamo
prendere Rachel. Lo ha detto Xavier”.
La donna
sospirò, abbassando lo sguardo e facendo cenno di no con la testa.
“Di nuovo
questo fantomatico Xavier…” sussurrò.
“Non
prendermi per pazzo”. Lionell si voltò, fissandola profondamente negli occhi.
“So che sembrerà strano ma non è una persona che adora farsi vedere… Però è
grazie a lui che sono tornato qui, avanti nel futuro…”.
Linda rimase
immobile, con le braccia lungo i fianchi.
“Forse
sarebbe…”.
“No, niente
forse” disse lui, voltandosi e prendendole entrambe le mani. Era penetrato
nella sua testa attraverso lo sguardo, che l’aveva ipnotizzata, rapita,
costretta a soccombere a quel desiderio rimasto sopito, sotterrato dalla realtà
che ogni giorno le imponeva di percorrere gli stessi passi che aveva tracciato
quello.
E la paura
di averlo perso per sempre, la susseguente rassegnazione, non fecero altro che
aumentare il desiderio nel suo cuore di poterlo rivedere.
Perché lo
amava, ed entrambi lo sapevano.
“Io… sono
con te”.
Lui sorrise
e si avvicinò a lei, aderendo al suo corpo delicato. La baciò, lei chiuse gli
occhi per godersi quel momento, gustando il sapore delle sue labbra, il calore
della lingua che poi le carezzava il collo, e che l’accendeva, costringendola a
piegare la testa verso le spalle, liberando l’accesso al petto, liberato poco
dopo dalla gabbia del reggiseno.
Si baciarono
ancora, Linda lo spogliò lentamente, assaporando ogni brivido che le dava il
sapere che, a ogni bottone della camicia dell’uomo che fuggiva dall’asola, il
momento che tanto aveva aspettato si avvicinava.
Aderì ancora
di più a lui, accogliendo la coscia dell’uomo tra le sue, stringendola e
baciandogli lo sterno, da cui un ciuffo di peli candidi spuntava orgoglioso.
“Piano…”
sospirò lui, che premeva il bacino contro di lei.
Quella alzò
lo sguardo verso di lui, attendendo un altro bacio. Le mani correvano sul suo
corpo, ignare di ciò che toccavano.
Sì, perché
si rese conto solo dopo del fatto che stesse carezzando piaghe curate e
cicatrici messe in fila, dietro la sua schiena.
Spalancò gli
occhi e fece un passo indietro.
Quello
sospirò e a raccolse lo sguardo della donna, annuendo subito dopo.
“Lui mi
ha…”.
Sfilò la
camicia da dosso e sospirò, lasciandola cadere per terra, mostrando il petto
pieno di ferite rimarginate.
Lei era
inorridita; sbatteva le palpebre a ripetizione, quasi a voler cancellare con
ogni sguardo l’immagine che gli occhi consegnavano alla mente.
“Cosa… cosa
hai fatto?” sussurrò, con la voce sparita.
Poggiò
lentamente la mano sull’addome, avvicinandosi e inclinando la testa. Cominciò a
tramontare, e i loro visi furono inondati da una luce calda e rosea.
“Fai
piano…”.
Linda non lo
ricordava così magro. Si avvicinò alle cicatrici, studiandole minuziosamente:
alcune erano recenti, rosee, quasi violacee, di contro alcune erano solo linee
candide, sensazioni, spettri sulla pelle dell’uomo.
“Rispondimi”.
Quello
annuì. “Sono stato fustigato, legato e percosso. Per tre anni”.
Gli occhi
verdi della bella si spalancarono, poi si abbassarono.
“Ma la cosa
più dolorosa l’ho provata soltanto una volta liberato”.
Rialzò lo
sguardo, Linda, in attesa.
Lionell
sorrise e poi si voltò, guardando oltre la finestra e mostrandole il grosso
cristallo nero incastonato tra le sue scapole.
La donna
osservava inorridita. Fece un passo indietro.
“Tu…”
Lui si
voltò, lento, osservando il suo sguardo. “Stai tranquilla”.
“Cosa sei?”.
La sue voce
era nervosa, vibrava docile e spingeva contro i vetri delle finestre.
“Non so
niente… e forse sono tutto…” rise quello, guardando in basso. Questo è un
cristallo assai potente, fratello di quello contenuto nel corpo di mia figlia,
Rachel…”.
Linda
aggrottò le sopracciglia.
Le palpebre
sbatterono un paio di volte, celando gli occhi spaventati, verdi e vividi,
mentre Lionell continuava a parlare.
“A
differenza di quella pietra, però, questa ha una proprietà più particolare:
dona un potere incredibile a chi è accecato dall’ira. E io non ne ho poca”.
Linda annuì,
lo vedeva sorridere.
“Ma sto
bene. Sono sempre io, ora, qui”.
Quella fece
un passo avanti, guardinga, afferrandogli il braccio. Toccava la sua pelle e lo
spingeva a voltarsi.
Poi le sue
dita fecero per allungarsi, quando lui tuonò.
“Non
toccarlo. Non farlo mai. Ti ucciderebbe”.
Ritirò le
mani, lei, facendole cadere lungo i fianchi. Il cuore batteva, respirava con la
bocca, a labbra schiuse.
“E… ora?”.
E la
percepiva, Lionell, quell’elettricità che avvolgeva il corpo candido della
donna. Sentiva sulla pelle la sua stanchezza, provocata da anni passati a farsi
domande che non avrebbero avuto alcuna risposta, a incassare colpi e a fare un
lavoro che, sostanzialmente, non era mai stata preparata a fare. E il risultato
erano i creditori che bussavano alla porta con le fatture da incassare nelle
ventiquattrore. Riusciva a sentire anche la sua paura, perché sapeva di essersi
posto davanti a lei non come l’uomo che aveva visto scomparire anni prima, ma
come un essere del tutto diverso, un mostro pieno di rabbia con una pietra
incastonata nella schiena; ma su tutto, Lionell percepiva l’eccitazione, espulsa
dai grandi occhi smeraldini, perché si sentiva pronta a ingaggiare quella sfida
al suo fianco.
E la cosa
gli faceva sesso.
“E ora vieni
qui” le rispose, afferrandola per i fianchi e aderendo col corpo al suo, per
poi stringerle le natiche. La sollevò e la fece sedere sulla scrivania.
Spalancò le
gambe.
Le mutandine
scivolarono via poco dopo.
- Kanto, Celestopoli, Grotta Celeste
–
Erano le
sedici, ma la pioggia continuava a stendersi su tutta Kanto, delicata e molesta
allo stesso tempo. La Grotta Celeste guardava Celestopoli negli occhi, calma e
tranquilla, col canale fluviale che li separava giusto nel mezzo.
Yellow
riusciva a percepire la potenza di quel Pokémon già da fuori, e il fatto che
gli abitanti della vicina città non temessero la sua presenza la sconcertava.
Alcuni,
forse, neppure lo sapevano. Probabilmente era meglio così.
Atterrarono
coi loro Pokémon proprio davanti all’ingresso dell’antro, in un ciuffo umido
d’erba alta.
Il mare non
era lontano, e l’odore della salsedine si univa a quello della pioggia. Il
rumore dell’acqua che correva verso la foce riempiva le loro teste e li
rilassava, nonostante sapessero di andare incontro a uno dei Pokémon più
potenti che avessero mai visto. La prima a entrare nella Grotta Celeste fu
Blue, mai veramente impaurita dal Pokémon che viveva lì. Era curiosa, meravigliata
da ciò che vedeva, con quei giochi di luce riflessi sui muri della grotta e
quei rumori profondi, gutturali, che provenivano dal fondo della grotta.
Luce lì non
ne passava. Soltanto dei grossi cristalli azzurri donavano un bagliore turchese
alla zona, come fossero tante piccola torce incastonate nelle pareti umide
della montagna.
Yellow era
intimorita, ma continuò ad avanzare coi pugni stretti, giusto un passo dietro a
un Green dal volto granitico, proprio accanto a Red, che camminava concentrato,
cercando di non scivolare sulla roccia umida che componeva il pavimento della
grotta.
Un Golbat
sbatté le ali, lei alzò lo sguardo e lo vide spostarsi in un’insenature nella
parete di pietra.
Blue
rallentò per un momento.
“Odio i
pipistrelli…” disse, tra i denti.
“Io no”
rispose Oak, girando attorno a una stalagmite. Respirò profondamente, gratto il
mento e annuì. “Dobbiamo scendere più giù”.
Yellow vide
Red annuire. Scrutava lo spazio buio che aveva attorno.
“Da quella
parte” sussurrò il Campione, avanzando nel buio, proprio dove i cristalli
diminuivano la loro luminosità.
E avanzarono
spediti, col Blastoise di Blue piazzato come bastione, a fronteggiare i
Graveler più coraggiosi che si mettevano sulla loro strada.
La strada
diventava impervia nella sua parte più profonda, in cui aumentava la pendenza
in discesa. L’acqua che filtrava dalle rocce veniva convogliata in un sottile
rivolo che col tempo si era scavato un corso nella pietra della pavimentazione
scivolosa, fino a terminare in un fosso nel pavimento, creato proprio
dall’acqua, stretto abbastanza ma largo quanto servisse per lasciar passare una
persona.
“State
attenti…” sussurrò Yellow, vedendo Green abbassarsi e saltare agilmente giù.
Il tonfo del
suo atterraggio rimbombò sordo, seguito da un’eco.
“Vieni”
disse lui, verso Blue, che emulò il suo uomo finendo tra le sue braccia.
Poco dopo
tutti furono al livello inferiore.
Il buio era
ancora più denso lì, ma veniva mitigato dalla luce azzurra degli stessi
cristalli che spuntavano dalle pareti del tunnel che avevano appena finito di
attraversare.
Alcuni di
questi erano davvero grossi, e spuntavano dal grande lago sotterraneo che
riempiva interamente quella stanza umidissima.
Ritmicamente,
gocce d’acqua filtrata attraverso la pietra cadevano nella pozza cristallina e
il suono riverberava massivo sulle pareti di pietra.
Era magico,
lì sotto. Mewtwo fluttuava su di un’isoletta, al centro dello specchio
cristallino., avvolto da un’aura violacea, che sovrastava la luce cerulea che
creava l’atmosfera mistica di quel posto.
Erano tutti
fermi.
Red guardò
Green, che annuì lentamente, con lo sguardo concentrato, quindi mosse un passo
in avanti, vedendo il Pokémon spalancare gli occhi.
“Siete arrivati…” sentì, soltanto lui. “Ho cercato di illuminare il vostro cammino,
non appena ho percepito i vostri pensieri”.
“Grazie,
Mewtwo… Ti trovo bene” disse invece Red. Blue capì che i due stessero
intrattenendo una conversazione telepatica.
“Per quale motivo siete qui?"
“Non è
passato nessuno, qui, vero?”.
Gli occhi di
Red fissavano la figura del Pokémon, quasi liquida per via della patina
d’energia che lo avvolgeva.
“Nessuno che cercasse me,
perlomeno…”.
Red annuì,
con lo sguardo contrito e le labbra rapprese. Green lo vide e lo spintonò.
“Che dice?”.
“Non è
passato nessuno?”.
Oak sbuffò e
portò le mani ai fianchi. “Cazzo”.
Mewtwo mosse
le mani lentamente, spalancando le dita e provocando un rilascio d’energia
molto forte. I Golbat volarono via e i cristalli al di sotto della superfice
del lago divennero ancora più luminosi.
“Calmo,
Green…” lo ammonì Yellow.
“Sì, lo so…
È che…” si voltò poi verso il Pokémon. “È stata rubata una cosa importante”.
“Tutto è importante, per voi umani,
e questo fa sì che nulla lo sia realmente. Il reale valore di qualcosa lo
capirete soltanto quando verrete messi di fronte a una scelta”.
Green sbuffò
e alzò la mano.
“Grazie,
Mewtwo”. Si voltò e fece per andarsene, poco interessato dalla prosopopea
apocalittica. La luce mano a mano si spense, lasciando il tempo ai ragazzi di
seguire il capo dell’Osservatorio di Biancavilla, fino a quando la luce del
giorno non li assorbì nuovamente.
Gli occhi
bruciavano, Green li aspettava sulla riva, lanciando sassi nel fiume; la
corrente era forte e rapiva i ciottoli, portandoli verso est.
Li percepì
lì, si abbassò e raccolse un altro sassolino.
“Siamo di
nuovo col culo nell’acqua!” urlò, lanciandolo con forza, il più lontano
possibile.
Blue fece
spallucce.
“C’è un lato
positivo, almeno”.
“Già”
rispose Yellow.
Red annuì a
sua volta. “Mewtwo è qui e sta bene, e fortunatamente a nessuno è passato per
la mente di andare a catturarlo. Sono trascorse già diverse ora dal furto,
quindi suppongo che se fosse dovuto succedere qualcosa qui, beh…”.
“Sarebbe già
successo” riprese la donna dai capelli castani, incrociando le braccia sotto al
seno. Il vento soffiava forte e la pioggia non accennava a diminuire. Sorrise
ancora, lei, quasi imbarazzata. “Certe cose si fanno con una… ecco…” arrossì.
“… con una certa metodologia”.
“Tu ne sai
qualcosa, Fujiko. Illuminaci” schernì
Green, con le mani ai fianchi.
“Non è
difficile da capire…” ridacchiò maliziosamente la bella castana. “Se tu, che
possiedi una cosa preziosa, vieni a conoscenza del fatto di esser diventato un
obiettivo, prenderai delle precauzioni per evitare che ti rapinino. Motivo per
cui le operazioni a incastro vanno fatte di seguito…”.
Red annuì.
Aveva senso. “Quindi se il loro obiettivo fosse stato Mewtwo…”.
“Lo
avrebbero già preso…” interruppe Green, facendo cenno di no con la testa. “Non
è lui, l’obiettivo. Che suggerisci, Blue?”.
Quella
annuì, pronta. “O rivenderanno l’oggetto oppure lo utilizzeranno per qualcosa
di più grosso”.
“Mercato
nero” osservò Yellow.
Green annuì
e guardò in basso. “Già. E dobbiamo tenere aperti i contatti con le Palestre
delle altre città, di tutte le regioni. Qualsiasi cosa succeda dovremmo andare
a controllare”.
- Adamanta, Timea, Ufficio della
Omecorp -
Era quel
preciso istante, che seguiva il piacere e cheti lasciava tuffare in un vuoto
infinito, ma bugiardo, che Linda stava vivendo.
Era nuda,
totalmente, stesa sui fogli, inumiditi dal sudore della sua schiena, e della
fronte di Lionell, il suo capo, il suo uomo, che amava e che aveva aspettato.
Lui
sorrideva, sedendosi sulla poltroncina che aveva alle spalle, godendosi lo
spettacolo di quel corpo spogliato da ogni straccio e freno, consumato per quei
minuti di frenesia e sesso.
Lui le
guardava le gambe, lunghe e lisce. Poi sorrideva, ripercorreva quell’autostrada
che portava ai seni, che si muovevano sotto il respiro ansimante della donna.
Rovesciò al
testa indietro, lui.
Voleva un
sigaro. O forse voleva dormire, e godersi quel torpore che lo avrebbe
accompagnato al giusto riposo.
“Mi mancava…”
sussurrò lei, voltando la testa dall’altra parte e sorridendo beatamente.
“Serviva,
vero…”.
Lui sospirò,
lei cercò di calmare il respiro. Lo guardava, nudo, seduto educatamente sulla
poltroncina. Le sue mani affondavano nei morbidi braccioli rossi. Avrebbe
voluto andare da lui, stendersi sul suo corpo, prendersi un abbraccio.
Essere una
persona normale.
Ma Lionell
non era una persona normale. Guardò il soffitto e sospirò, accavallando le
gambe. Un dubbio le solleticava la mente.
“Ora che si
fa?”.
Lionell
sorrise, infilando i boxer e avvicinandosi a lei, sollevandola di peso. La
poggiò per terra, accanto a lui.
La vide
rivestirsi lentamente.
“Ora
mettiamo in moto il nostro piano”.
“Come?”.
“Uomini”
sorrise. “Ci servono uomini”.
Linda inarcò
le sopracciglia e sospirò, chiudendo il reggiseno merlettato nero. “C’è un
problema…”.
“Lo so. Ma i
soldi non sono un problema”.
Quella
ridacchiò, infilandosi anche gli slip. Si guardò attorno, cercando la
camicetta, quindi sospirò. “Invece sono il problema principale. La gestione non
è stata delle più felici, lo so… ma non possiamo pagare i fornitori… come
faremo a ingaggiare cento uomini”.
“Mille” s’inserì
l’altro.
“… cosa?”.
I due si
guardarono per un profondo istante, prima che quello sorridesse.
“Mille
uomini”.
Non capiva,
lei. Si voltò, con un moto d’ira, e cominciò a cercare sulla scrivania dei fogli
che aveva ben ordinato, prima di stendervisi sopra. Li trovò e li pose a pochi
centimetri dal volto di Lionell.
“Questi sono
tutti ultimi avvisi per i pagamenti delle fatture! Minacciano di adire a vie
legali!”.
Gli occhi
stanchi di Lionell Weaves non si poggiarono neppure per un secondo su quei
documenti; si limitò a poggiare le mani su quelle di Linda e a guidarle, mentre
la carta si strappava irreparabilmente. Dietro ai fogli c’era il volto della
donna, sconcertato.
Il cuore
batteva. Non capiva.
“Avremo i
soldi per tutto”.
“E come?”.
“Finalmente
incontrerai Xavier Solomon”.
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