- Kanto, Celestopoli
Aveva smesso
di piovere da pochi minuti ma, a differenza di Biancavilla, Celestopoli non si
era fermata un minuto. I Dexholder camminavano sui pulitissimi marciapiedi,
dove non era stata gettata neppure una cicca di sigaretta. Tutt’intorno il
vociare era quasi assordante.
Green, che
viveva in un paese molto più tranquillo, rimaneva per qualche secondo a fissare
in silenzio le cime degli alti palazzi, mentre Blue si fermava a guardare le
offerte nelle vetrine delle boutique.
Il Centro
Pokémon svettava alto e luminoso, sullo sfondo grigio di quella giornata
uggiosa, mentre Allenatori dalle belle speranze correvano verso gli ingressi,
con Pokémon in fin di vita e sfide da organizzare alla Palestra di Misty.
I quattro
decisero di fermarsi a mangiare qualcosa alla mensa della struttura.
“Sto morendo
di fame” commentò Red, vedendo Yellow sorridere gentile, come suo solito.
Seduti al
tavolo, i ragazzi avevano smontato cappotti e giubbini, e poggiato le borse per
terra.
Non Green. Lui
aveva legato la cinghia della tracolla al bordo dello schienale della sedia.
Ordinarono un
piatto di ramen caldo, che non aveva ovviamente l’appeal dell’arrosto.
“Ci
riscalderà dall’interno” aveva detto Yellow. Lui si limitò ad annuire e ad
assistere silenzioso agli scambi tra i tre, da esterno, palesando così il fatto
che non volesse partecipare a quella riunione tra i pupilli di suo nonno.
Vedeva Red e
Yellow mantenere un sorriso dolce e gioviale, tra di loro parve non esser mai
accaduto nulla. E anche Blue era serena, al contrario suo, che pareva non
riuscire a trovare pace.
E ovviamente
il motivo aveva i capelli neri e gli occhi rossi; la presenza di Red lo
indispettiva, così sereno, forse troppo, e quasi incolpava Yellow per il
sorriso che mostrava fiero. Le zuppe arrivarono poco dopo, fumanti, in tegami
di terracotta imbrunita. Red vi si avventò famelico, mentre gli altri tre
mantennero dei toni più aggraziati.
Nella mente
ancora quelle immagini orribili. Abbassò la testa, il vapore gli baciò il viso
e nascosero per un attimo il suo sconforto, prima che la razionalità gli
ricordasse che lui avesse bisogno che Red e Yellow fossero seduti lì: il
cristallo era più importante di ogni altra cosa. Anche più del suo orgoglio.
Sospirò,
spinse il vapore verso il centro del tavolo e per un attimo capì che non stesse
adottando l’atteggiamento giusto.
L’orgoglio
non era altro che aria. Come i sogni.
La gente
doveva essere più concreta, e quella concretezza lo obbligava a stare seduto al
tavolo dell’uomo che aveva distrutto legami d’amicizia sacri e ventennali. Per
del sesso, poi, con la donna che aveva desiderato timidamente fin da ragazzino.
Non lo
giustificava.
Pensava al
cambiamento, rivedeva le immagini nella mente di quei due che si leccavano le
labbra, guardava il ramen, sentiva la paura e la responsabilità e la necessità
di quel bicchiere di whiskey che aveva promesso di non alzare più ma il cui
vuoto bruciava come un marchio a fuoco, delle volte. Blue e Red avevano
cominciato a parlare, il suo cuore però batteva così forte da superare il
volume delle parole. Vedeva soltanto Yellow, che li ascoltava silenziosa, e
che, di tanto in tanto, gli gettava un’occhiata.
Lo aveva
fatto quattro volte, ma alla quinta rimase a fissarlo.
“Stai avendo
un attacco di panico…” sussurrò, e quelle parole bastarono per far bloccare gli
altri due. Tutti e tre guardavano l’uomo, che non si accorse di essere in balia
delle emozioni.
“Mi serve un
po’ d’aria…” fece, alzandosi a fatica. Sentiva il cuore battere sempre più
forte, e la testa girava. Il respiro si faceva greve, gli occhi sbiadivano i
contorni delle cose che guardava.
Yellow gli
si avventò addosso, prima che lo facesse Blue, e lo fece appoggiare a lei.
“Lo porto a
prendere una boccata d’aria”.
“No, Yellow,
faccio io…” disse l’altra, afferrando il braccio del suo fidanzato. L’allontanò
con una rapida mossa del bacino e accompagnò Green verso l’uscita.
E la bionda
rimase lì, in silenzio, a guardare il suo fidanzato, ancora seduto. Le
bacchette erano sfuggite dalla sua presa ed erano atterrate negli udon.
“Cosa?” si
limitò a domandare quello.
Yellow annuì
quasi impercettibilmente, accompagnando con un sospiro pesante ed eloquente.
Lo capiva.
Anche lei
viveva quei momenti d’insicurezza e di fragilità, e l’aver rincontrato Blue
aveva risvegliato quegli spettri che spesso l’avevano messa in ginocchio nel
corso degli anni. E anche Green viveva quella storia con Red.
Non era
sola.
- Adamanta, Primaluce, Casa Recket
Il vento
soffiava più lieve, da qualche minuto a quella parte, e Rachel decise di uscire
di casa e raggiungere suo marito, ancora alle prese col gazebo. Allegra correva
alle sue spalle, inseguendo Arcanine.
“Credo che
per oggi tu ti possa riposare…”.
Zack annuì,
respirando a pieni polmoni. L’aria era fredda, la trachea bruciava. Calò
lentamente il trapano utilizzando il filo, lo poggiò sull’erba secca e si
avvicinò di qualche passo alla donna.
“Allegra,
non correre…” disse poi, portando le mani ai fianchi. La felpa che indossava,
sdrucita, era sporca di segatura.
“Sta venendo
bene…”. Rachel guardava il gazebo, a braccia conserte, con la poker face
migliore che avesse a disposizione.
“Menti”
rispose suo marito, che alzò il cappuccio della felpa. Guardava Allegra
avvicinarsi alla siepe, mantenendo un Wurmple sul dorso della mano.
“Non è vero”
sorrise dolcemente l’altra.
“Spudoratamente”.
“Cioè… Ora è
in fase embrionale, verrà su bene. Sappiamo entrambi che tutto ciò che tocchi
si trasforma in oro…”.
“Certo… Che
si mangia?”.
“Le patatine
fritte?” urlò Allegra, raggiungendo subito i genitori., con gli occhioni
azzurri spalancati.
“Non
possiamo mangiare sempre patatine…” le rispose Rachel.
Allegra mise
il broncio e sbuffò, e poi guardò suo padre. Il silenzio verdeggiò per pochi
secondi, prima che l’uomo rapprendesse le labbra e sospirasse.
“Certo che
però un bel piatto di patate…” ragionò Zack, facendo spalancare gli occhi alla
moglie.
“Non potete
mangiare solamente schifezze! E se lei sta avendo quest’atteggiamento è per via
tua, che non ti sforzi nel darle il buon esempio!”.
La donna le
puntò il dito sul petto ma l’espressione di Allegra non mutò minimamente.
“Tu non lo
vorresti un bel piatto di patate?” protestò lui.
“Io sì!”
riprese invece la bambina, prima che Rachel le mettesse una mano sulla testa.
“Assolutamente
no! Oggi pesce e insalata! Per tutti quanti!”.
“Io non la
voglio!” ribatté Allegra.
“Invece vedi
di volerla, altrimenti niente più Pokémon!”.
Ma… papà!”
esclamò, chiamando la cavalleria. “Il pesce non mi piace!”.
Zack sorrise
e si accovacciò sulle ginocchia, prendendo le sue mani. “Invece è buonissimo.
Servirà a farti diventare grande e forte. Proprio come la mamma”. Si avvicinò
poi a Rachel e le baciò la guancia. “Mamma ha mangiato sempre tanto pesce e
tanta insalata, e guarda com’è bella”.
Allegra
rimase immobile, con le braccia conserte e il labbro inferiore pronunciato.
“Io una
volta l’ho vista mangiare una crostatina…”.
Entrambi i
genitori esplosero in una risata fragorosa. “Che capolavoro che abbiamo fatto…”
sorrise la donna, molto divertita. Si abbassò verso di lei e catturò il suo
sguardo. “E mangiare sano non significa non poter più fare uno strappo alla
regola, una volta tanto”.
Allegra non
mutava espressione.
“E diventerò
bella come te?”.
“Diventerai
proprio come me”.
- Kanto, Celestopoli, esterno del
Centro Pokémon
“Un fottuto
attacco di panico…”.
Green
sorrise a mezza bocca, sbuffò, tirò dalla sigaretta che stringeva tra le labbra
e mise le mani in tasca.
Blue era
accanto a lui, infreddolita, rinchiusa in un abbraccio che si stava dando da
sola. Il vento soffiava sui loro visi, consumando la sigaretta dell’uomo e
spettinando la bella.
“Perché sei
stato male?”.
“Non ne ho
idea” rispose l’altro, continuando a guardare dritto. “Forse non ero pronto per
questa cosa. E non venirmi a dire che siamo costretti dalle circostanze, perché
loro ci servono eccetera... È come se avessi continuamente una pistola puntata
alla tempia destra”.
Gli occhi
blu della donna lo scrutavano, denudandolo di ogni sicurezza residua.
Sorrise
leggermente. Non lo aveva mai visto così debole e senza difese.
Gli cinse il
braccio e poggiò la testa sulla sua spalla.
“Puzzi di
fumo”.
“Non me ne
fotte”.
“Forse non
dovresti fumare”.
“Invece
dovrei”.
Blue storse
le labbra.
“Sei sempre
il solito”.
Piccole
gocce di pioggia presero a cadere sulle loro teste.
“Questa
giornata è nata storta”.
La sigaretta
bruciava, le labbra carnose dell’uomo dagli occhi verdi stringevano il filtro e
si allargavano per emettere una cortina di fumo, che s’elevava per un metro o
poco più, prima di venire bucato da quei proiettili d’acqua gentili.
“Senza un
po’ di pioggia la vita sarebbe troppo arida...”.
“Sai cosa
intendo, donna”.
Quella
ridacchiò. “Non chiamarmi così”.
Lui sorrise,
di contro, poi afferrò la sigaretta tra l’indice e il pollice e prese un altro
sorso. “Non credevo che vederlo mi avrebbe fatto questo effetto”.
“Beh, non
sei morto, almeno...”.
Sbuffò,
Green. “Non ancora”.
“E non
succederà”.
Fumava
ancora, lui. “So che ora come ora dovrei azzerare, ricominciare... dimenticare.
Ma non è così semplice. Ci sono dei momenti in cui vorrei strappargli la testa
dal collo. E anche a te”.
Blue abbassò
lo sguardo, lasciando andare la presa dal braccio dell’uomo.
“Odio questa
puzza di fumo”.
“Lo so. Ma
ora ne ho bisogno”.
“Immagino.
Rientriamo?”.
“No. Ancora
un po’. Non ho ancora finito...”.
Riportò la
Camel tra le labbra e aspirò quel veleno. Gli riempì i polmoni, distendendolo.
Poi un
ombrello blu si aprì sulla sua testa. La donna gli mise tra le mani il manico
in legno e quindi si voltò, in silenzio, sbattendo la porta alle sue spalle.
- Johto, Borgo Foglianova
“Ci vediamo,
allora” aveva detto Crystal. Aveva poi smontato il camice bianco, quello con la
manica sporca di succo di bacca, e lo aveva appeso al suo posto, accanto alla
grossa credenza con le provette e i vetrini per il microscopio.
Il Professor
Elm la salutò alzando distrattamente la mano, mentre Maris, la sua assistente,
le aveva sorriso cordialmente. Aprì la porta e vide che una tempesta aveva
cominciato a imperversare.
La
visibilità era ridotta a tre, quattro metri, e ovviamente lei non aveva
l’ombrello.
Non ne
avrebbe chiesto uno al Professore. Non stava bene.
Quindi
sospirò, si chiuse la porta alle spalle e afferrò le chiavi di casa, prima
ancora di arrivare davanti al portone.
Un balzo e
si trovò sotto il temporale. Correva rapida verso nord, superando il negozio
d’alimentari aperto, accanto alla casa del vecchio signor Kaguya. Era un
tipetto piuttosto arzillo, lui e Gold passavano parecchio tempo a parlare di
una particolare ballerina che spesso compariva in televisione.
Lei non ci
faceva caso, non ricordava neppure come si chiamasse.
Proseguì
fino alla piazza centrale, cercando riparo sotto ai balconcini delle piccole
case. Quando pioveva, quel paese si svuotava totalmente.
Casa sua non
era lontana, la vedeva, a una cinquantina di metri o poco più, e decise di
sprintare, stringendo con la mano destra la borsa, spingendola contro il
fianco, e tenendo sempre pronte le chiavi in quella sinistra. Le sue ballerine
affondavano in pozzanghere profonde, all’interno dei prati che delimitavano le
stradine sterrate di Borgo Foglianova e che lei stava attraversando per evitare
la polmonite.
Ma quando
arrivò davanti alla porta era già inzuppata. E continuava a bagnarsi anche
sotto la piccola pensilina, dato che il vento di qualche settimana prima aveva
spostato una tegola. Aveva chiesto proprio a Gold di metterla a posto il giorno
dopo ma lui aveva procrastinato più e più volte.
Del resto,
di quella disciplina era un campione.
L’acqua
quindi le cadeva sulla testa, e lei imprecava, cercando di infilare le chiavi nella
toppa, senza mai riuscirci al primo colpo.
“Dannazione!”.
Quando poi
la serratura scattò, spinse rapidamente la porta, venendo inondata dalla luce
del suo salotto. Sbuffò, agitando le mani per asciugarle. Levò gli stivaletti
di pelle neri, che a poco erano serviti contro le pozzanghere, dato che i
calzini erano totalmente zuppi. Poi chiuse la porta e sfilò anche i pantaloni,
rimanendo in slip sull’uscio.
“Che
diamine…” disse, tra i denti, dopo aver sbuffato. Sciolse i capelli e sospirò,
guardandosi attorno. Il salotto era silenzioso e soltanto l’orologio sul camino
disturbava la quiete, coi suoi deboli ticchettii. La penombra respingeva
qualsiasi prepotenza della fioca luce che proveniva dall’esterno, e regnava
imperiosa sulla stanza.
Non che le
spiacesse, ma Crystal aveva freddo; salì al piano superiore con flemma,
rimuginando ad alta voce sulla tempesta, senza riuscire a capire quando quella
giornata, partita con un sole bianco e pallido, ma pur sempre fisso sulla tela
azzurra del cielo, avesse lasciato il posto al marmo e all’alabastro di quella
tempesta.
Sapeva di
esser sola, e quindi, arrivata fuori alla porta del bagno, levò la maglietta e
sbottonò il reggiseno, cercando di asciugare il petto con una parte asciutta
dei vestiti che aveva appena levato da dosso, anche se inutilmente. Entrò in
camera, aprì il primo cassetto, quello delle mutande, e ne prese una, viola.
Sculettò fino alla porta, prima di fermarsi e guardare il letto: era ben
ordinato, con le coperte tese ed entrambi i pigiami piegati sui cuscini.
Prima di
uscire per allenarsi, Silver aveva ordinato la stanza, il suo profumo aleggiava
ovunque, rubandole un sorriso. Voleva averlo lì, ma lui non c’era, e quindi
pensò che indossando un suo maglione avrebbe potuto spezzare quella nostalgia.
Si avvicinò al suo armadio e lo aprì, venendo investita dal suo odore.
Lo amava.
Sulla
mensola del guardaroba c’erano tutti i suoi pullover, ordinati per colore.
Prese il primo della pila, grigio e morbido, e proprio mentre fece per chiudere
la porta dell’armadio i suoi occhi furono rapita dalla figura nello specchio.
La sua.
Guardava la
propria figura nuda, i capelli bagnati, corti, che cadevano freddi sulle spalle
e gli occhi azzurri, unici fari in quella stanza grigia. Pensò che si piacesse,
prima di rendersi conto del freddo di quell’inverno, che la stava aggredendo.
Quindi cedette al caldo abbraccio della doccia.
“Solo la
pioggia, ci mancava!” aveva sbuffato Marina, al piano di sotto. La pioggia
imperversava alle sue spalle, prima che col tallone sbattesse la porta
d’ingresso. L’ombrello era servito a poco, i capelli color caramello erano
totalmente bagnati. Abbassò la testa e vide le impronte bagnate segnare un
percorso che portava alle scale.
Rimase per
un attimo a rimuginare al fatto che né Crystal né Silver avrebbero mai lasciato
il pavimento in quello stato, quindi portò le mani ai fianchi e sospirò.
“Gold!”
chiamò.
Sentiva
qualcuno canticchiare nella doccia, al piano superiore, con voce delicata e
gentile. E a meno che non stesse facendo l’imitazione di Lauryn Hill, Gold non
cantava in quel modo.
Neppure quando imita Lauryn Hill, in
effetti… pensò la
Ranger, sbuffando. Al pavimento avrebbe pensato dopo, quando i suoi capelli si
sarebbero asciugati.
Arrivata davanti
alla porta del bagno, le nocche batterono con fermezza.
“Crystal?”.
La doccia
continuava a scrosciare, e copriva la voce della donna.
“Sono Crystal, Mari…”.
La donna
annuì, conscia che l’altra non potesse vederla, e si voltò, entrando
silenziosamente nella sua stanza. L’aria era viziata, lì, leggermente
dolciastra, dato che Gold non apriva mai le finestre. Il letto era totalmente
sfatto, con le lenzuola in fondo al materasso e il caldo piumone gettato sul
pavimento. L’intero pavimento era ricoperto di vestiti, sporchi e puliti,
impilati in mucchi disordinati.
“Dannato…”
sbuffò la giovane, sbottonando la camicetta bianca, partendo dal basso e
sfilandola. La sistemò ordinatamente sullo schienale della sedia e slacciò il
reggiseno, infilando una maglietta intima bianca. Sgusciò fuori dalla gonna senza
aprire la zip e sgambettò nuovamente fuori alla porta del bagno.
“Crys!
Aprimi! Devo asciugare i capelli o mi verrà un accidente!”.
Pochi
secondi dopo quella la fece entrare, voltandosi subito dopo e mostrando la
schiena nuda alla fidanzata di Gold.
“Scusami”
disse quest’ultima, chiudendosi la porta alle spalle e facendo scattare la
chiave nella serratura. Il vapore aleggiava e rendeva il piccolo servizio
fumoso e caldo.
“Figurati”
rispose l’altra, girando solo il viso sorridente. Rientrò nella doccia,
nascondendosi dietro la tendina opaca, che lasciava intravedere la sua sagoma.
Marina pensò che Crystal avesse delle gambe bellissime. Cancellò poi dalla
testa l’immagine della coinquilina e prese il phon, accendendolo e cominciando
ad asciugare i capelli.
“Ruby ha
risvegliato Kyogre, quell’infame! Quanta pioggia!” esclamò Gold, spalancando la
porta con un calcio e levando immediatamente le scarpe e il maglioncino,
liberando l’addome tonico. Silver, che lo seguiva, rimase fermo per un secondo,
guardando i passi bagnati di due persone che salivano al primo piano. Azzerò il
respiro e poggiò una mano sulla spalla dell’altro.
Quello si
voltò torvo, guardandolo con un grosso punto interrogativo sul volto.
“Cosa?”.
“Le ragazze
sono sopra”.
Gold inarcò
un sopracciglio e sospirò. “Non ci voleva molto per capirlo, Poirot... Lì c’è la borsa di Marina e
Crystal è più precisa del ciclo di Margaret Thatcher, e a quest’ora di solito è
a casa” rispose. Gettò la maglietta sul bordo delle scale e calciò via le
scarpe, facendole finire accanto al divano, alla sua destra.
“Ho fame,
mangerei un brontosauro...” fece poi, andando verso la cucina e aprendo il
frigorifero. Lo fece lentamente, perché ogni volta che tirava forte il maniglione
del frigo le calamite più pesanti cadevano per terra. Spesso si rompevano e
Crystal ci rimaneva male.
“Sono ricordi!”.
“Questi ricordi non possono cadermi
sui piedi ogni volta che voglio una birra!”.
“... Stavi prendendo una birra,
ora?”.
“No. Ora prendevo il latte.
Perché?”.
“Perché sono le nove e mezza del
mattino, Gold. Se avessi preso una birra adesso avrei ragione a pensare che tu
sia un alcolizzato”.
“Oh, se stessi prendendo una birra
alle nove e mezza del mattino sarei Surge... Ma non sono Surge. Cazzo, se fossi
Surge sarei biondo. Come starei, da biondo?”.
“Imbecille...”.
“Sarei tipo come ora, ma Super
Sayan!”.
I discorsi
tra i due cominciavano e finivano sempre in quel modo.
Prese la
Pepsi Cola e si attaccò alla bottiglia, prendendo due grosse sorsate e ruttando
rumorosamente. Chiuse poi il frigorifero con l’anca, e una calamita presa a
Ponentopoli cadde sul pavimento.
“Fanculo”.
“Sembri
appena uscito da Oxford...” commentò Silver, sospirando e portando le mani ai
fianchi bagnati. “E sono sorpreso che tu sappia chi sia Margaret Thatcher”.
“Già. Beh,
non sorprenderti, so un sacco di cose… mi servono per fare riferimenti
semi-offensivi contro le persone”.
“Interessante...”.
“Ho un
catalogo enorme”.
“Lo
immagino” concluse Silver, levando la maglietta a sua volta e voltandosi,
salendo le scale e lasciando il ragazzo dagli occhi dorati da solo.
“Oh, no...”
sorrise il ragazzo. “Non immagini nulla”.
- Adamanta, Collina Miracielo, Il
Promontorio -
“Tra un po’
verrà a piovere...”
L’ombrello
di Linda era color cipria. Uscendo dagli uffici della Omecorp aveva visto il
cielo minacciare tempesta e si era premunita. Avevano diviso un taxi che li
aveva portati fino alla stazione centrale di Primaluce. Questa era davvero
piccola, ma ben curata, come tutto il paesino del resto; Una grande ringhiera
di ferro battuta, elegante, quasi artistica, in estate era totalmente ricoperta
dei fiori viola di una grossa pianta di glicine. Quell’inverno però il freddo
aveva mangiato i colori del rampicante, lasciando soltanto rami secchi a
coprire le barriere.
Presero un
biglietto per Miracielo, pagò lei, con la paura di non sapere come tornare a
casa, e una volta scesi dal treno Lionell si avviò con passo svelto verso la
strada in salita che portava verso la collina. Per l’intero tragitto furono
aggrediti dal vento, Linda giurò di aver percepito qualche gocciolina baciarle
il viso.
Ma la
tempesta non si scatenò.
Una volta
arrivati sulla cima misero piede nella piazzetta. Una ventina di panchine,
altrettanti lampioni – spenti – e una grande fontana che zampillava acqua
congelata proprio nel mezzo. C’era solo una coppietta di tredicenni, che si
baciavano dolcemente appoggiati alle balaustre che proteggevano dalla caduta
nella valle. Lionell li guardò per un secondo, sorridendo lievemente e pensando
che avessero marinato la scuola, per essere lì.
Andarono
nella direzione opposta, per non disturbarli. Il nord della regione di Adamanta
era davanti a loro, e dall’alto della collina riuscirono a vedere la tempesta
abbattersi sulle tremila anime di Miracielo. Lionell sorrise, guardando la
furia di quello spettacolo.
“È
incredibile...”.
“Perché
siamo qui?”.
L’uomo
sorrise, impettito. Il vento faceva svolazzare la coda del suo soprabito nero.
“Tempo al tempo”.
E per una
terza volta, il sorriso si allargò sul suo volto.
“Cosa c’è
che ti fa ridere così tanto?” chiese lei, stringendosi nelle spalle. Lionell
fece cenno i no con la testa e poi guardò in alto.
“La bufera...”
indicò con un cenno del capo. “Arceus sembra furioso. Piove forte... sembra una
di quelle tempeste che spesso mi svegliava quando ero prigioniero, mille anni
fa. Se ripenso che sono passati soltanto pochi giorni da quando...”.
Non completò
la frase; si limitò a voltarsi, quello, guardando la grande montagna che
imperava maestosa alle loro spalle, a distanza. Attorno alla cima vi era una
corona scura di nuvole.
“Spesso
piove, lassù, Linda... Durante gli anni che ho passato in quella cella ho visto
il sole soltanto tredici volte...”.
Sorrise ancora,
chiudendo gli occhi ed enfatizzando, facendo cenno di no con la testa. “Tredici
volte”.
La donna
rapprese le labbra e guardò in basso. Pensò che non dovette esser stato facile
rimanere lucidi, soprattutto quando non si aveva più speranza.
“C’era una guardia...”
continuò Lionell, alzando gli occhi al cielo. “Questa guardia era più gentile
delle altre. Vedi, i Templari sono uomini duri e senza scrupoli, e vivono la
propria vita per servire Arceus e appagare il proprio senso del dovere nei
confronti dell’Oracolo del tempio. Di tanto in tanto, soprattutto la notte,
riuscivo a scambiare quattro parole con lui, si chiamava Tullio, aveva le
lentiggini, era molto giovane...”.
“Ti avrà
aiutato a non perdere la ragione, parlargli...”.
“Assolutamente.
Non succedeva sempre e non nascondo che ormai vivevo per questo, e aspettavo
con ansia che scendesse la notte, solo per quel quarto d’ora d’umanità”.
“Un quarto
d’ora” fece l’altra, inarcando leggermente le sopracciglia e addolcendo lo
sguardo.
“Mi bastava
poco. La mia giornata era pressoché sempre uguale, incatenato con la faccia
contro la parete, trenta frustate quando veniva sera, il sale che bruciava le
ferite e le urla. Tutto nel nome dell’essere più stronzo che abbia mai mosso la
mente umana...”.
“Arceus”.
“Già. Una
notte chiesi a Tullio come mai piovesse sempre. E lui mi disse che non fosse
così, che piovesse soltanto lì, sul tetto del tempio, perché pieno di
peccatori. E pioveva veramente forte, l’acqua spesso mi bagnava i piedi, o la
schiena, quando le guardie erano più generose e mi permettevano di non dormire
in piedi. Tullio mi diceva che era quella pioggia a lavare l’anima dei blasfemi
e dei peccatori, delle prostitute e degli assassini, e più forte era la
tempesta, più grande era lira di Arceus, determinato a pulire l’anima dei
prigionieri da ogni peccato”.
Linda non
sapeva cosa dire. Rimase in silenzio, fino a quando una goccia di pioggia le si
infranse sul morbido labbro inferiore. Leccò via l’acqua con la lingua e aprì
rapidamente l’ombrello, includendo sotto il suo abbraccio anche Lionell.
Quello
continuava a guardare il paesino al di sotto della continua, sorridendo.
“Si vede che
tra la poche persone che abitano Miracielo, ci dev’essere qualche peccatore.
Del resto chi non ha peccato...”.
“Scagli la
prima pietra...”.
“Nessuno
potrà mai dichiararsi non peccatore.
Perché hai peccato già col fatto di esser nato, frutto dell’unione peccaminosa
dei tuoi genitori. Tu sei figlio del peccato, tu sei un peccatore, è la tua
natura”.
“Non credevi
alle parole di Tullio”.
“Non l’ho
mai fatto. Neppure per un minuto”.
“E hai fatto
bene” s’inserì qualcun altro, prima che la luce di un lampo illuminasse i loro
volti. Quello di Linda era inquieto, mentre Lionell pareva felice. Sorrideva, e
non si curava del fatto che il mondo attorno a lui pareva affogare nella
bufera. Si voltarono immediatamente, vedendo un uomo misterioso, alto e snello,
dai capelli biondi ben pettinati e dai profondi occhi rossi. Era chiuso in un
lungo soprabito di pelle, nero, proprio come i boots che aveva ai piedi.
“Xavier...”
disse Lionell, avanzando e scappando dalla protezione dell’ombrello.
Pioveva su
di lui, pioveva sull’uomo dagli occhi rossi. Rimasero a pochi metri l’uno
dall’altro, con Linda immobile al suo posto che assisteva alla scena. Si
chiedeva dove fossero andati a finire i due ragazzini che si baciavano,
dall’altra parte del promontorio.
“Lei
dev’essere Linda” tuonò l’uomo misterioso, facendole spalancare gli occhi.
“Conosce, cosa ti è successo?”.
Lionell
annuì. “Certo. Linda è a parte di tutto. È la mia più fedele collaboratrice”.
Xavier
sorrise e si avvicinò lentamente a lei, muovendo sette passi verso le
balaustre. Poté ammirare la pelle diafana della donna dall’ombrello color
cipria, gli occhi verdi e le labbra rosee e carnose. Lei rimaneva immobile a
fissare lo sguardo fiammeggiante dell’uomo. Non sembrava attratto da lei ma dal
suo sguardo.
“Hai paura?”
domandò poi, divertito.
Gli occhi da
cerbiatta di Linda scapparono, inseguiti dallo sguardo inquisitore dell’uomo
dalla giacca di pelle nera.
“Non
rispondi?”.
“Sì. Ho
paura”.
Rise,
Xavier, voltandosi e tornando accanto a Lionell.
“Fa bene...”
sussurrò, facendo in modo che soltanto l’altro potesse sentirlo. “Che ti
serve?”.
“Uomini...”.
“Uomini? Non
puoi comprarteli da solo? Non eri ricco?” replicò l’uomo dagli occhi rossi,
alzando il volto verso la pioggia, noncurante.
“Sono
passati diversi anni e la Omecorp non è stata gestita a dovere...”.
Xavier
abbassò il viso e lo guardò.
“È stata
lei?”.
“È stata
lei. Mi servono uomini. Senza mercenari non riuscirò a raggiungere il nostro
obiettivo”.
L’altro
passò le mani tra i capelli e li tirò indietro.
“E quanti te
ne servirebbero?”.
Lionell si
voltò e guardò Linda, che avanzò lentamente.
“Quanti
uomini ci servirebbero?” le domandò. Quella lo affiancò, facendogli spazio
sotto l’ombrello.
“Mille”.
“Mille
uomini?!” esclamò Xavier, divertito.
Lionell
annuì, con l’acqua che gli colava dal mento. “Mille uomini”.
Xavier fece
cenno di no con la testa. “Voi siete quel tipo di persone che credono che la
quantità sia meglio della qualità. E io vi insegnerò che sbagliate. Non vi darò
mille uomini. Ve ne darò tre”.
“Tre?!”
esclamò Linda, stringendo con vigore il manico dell’ombrello.
“Anzi. Ti
darò qualcosa di gran lunga migliore di tre uomini”.
Lionell e la
donna si stringevano sotto l’ombrello. Non capivano bene di cosa stesse
parlando Xavier. Rimasero giustamente in silenzio per permettergli di
completare la frase, e lo guardarono come per spingerlo a farlo.
“Voltatevi”.
Un lampo
cadde proprio lì accanto, e squarciò il cielo, lasciando che la pioggia cadesse
ancor più pesante. Il tuono li assordò e quando ruotarono sul proprio asse si
spaventarono, alla vista di tre donne, messe in fila, a un metro esatto di
distanza l’una dall’altra.
“Donne?”
chiese Lionell, accigliato e poi divertito.
“Sì” annuì
Xavier.”Tre donne provenienti da universi incredibilmente violenti...”. L’uomo
si mosse poi molto lentamente in loro direzione, avvicinandosi alla prima. Come
Xavier, né lei né le altre sembravano turbate dalla pioggia, anzi. L’acqua
bagnava il suo viso di porcellana, delicato, e impregnava i capelli, di quel
castano chiaro che Linda spesso aveva voluto testare.
“Lei è
Jasmine” continuò. “La Capopalestra di Olivinopoli”.
Indossava un
pantalone cargo color verde militare, con l’aggiunta di una grossa giacca di
pelle nera e un paio di doppi stivaloni dall’alta suola di gomma. Manteneva la
mani stese lungo i fianchi stretti e fissava dritto davanti a sé.
La cintura
che le girava attorno alla vita sottile conteneva tre Pokéball lucenti.
Il fatto di
avere davanti agli occhi quella donna sconvolgeva Linda e Lionell, e Xavier lo
capiva dal loro sguardo.
“Ovviamente
non è la Jasmine che conoscete voi, ma quella dell’Universo Kappa…”.
“Universo…
Kappa?” continuò la donna con l’ombrello tra le mani. Un altro tuono la fece
sobbalzare, mentre la pioggia batteva radente sulle piastrelle del promontorio.
“Non perderò
tempo a spiegarti cos’è, ma ti posso dire che lì il Team Rocket ha conquistato
Johto. La piccola Jasmine, dapprima capo di una minuscola cellula della
resistenza popolare, ha fatto di Olivinopoli una fortezza inespugnabile, da cui
è partito il piano di liberazione della regione…”.
“Una donna
di carattere” sorrise Lionell.
“No, una
terribile genocida: da liberazione che doveva essere, Jasmine la trasformò in
una campagna di conquista. Sette settimane dopo, Johto era sotto il suo
dominio”.
“Dalla
padella alla brace, in pratica”.
“Peggio,
perché questa donna è senza scrupoli. I Domadraghi di Ebanopoli hanno provato a
fermarla, quando la sua armata ha attraversato la Via Gelata, la notte di
Natale. Il suo impeto ha provocato la distruzione dell’intera città, e la
strage di innocenti più grandi che quel posto avesse mai visto”.
“È una
dittatrice…” sospirò Linda, fissandola attentamente. I suoi occhi erano
leggermente intimoriti.
“Sì. Ma è
anche una vera guerriera, e una psicopatica. Diciamo che…” ridacchiò Xavier,
infilando le mani nelle tasche, per poi continuare. “… beh, sì, diciamo che non
ha proprio tutte le rotelle al proprio posto. Ha commesso migliaia di omicidi e
distrutto l’intera porzione orientale di Johto. Non lasciatevi ingannare dalla
dolcezza del suo viso. Passiamo avanti?” domandò poi a Lionell, che annuì
serio.
“Passiamo
avanti. Il secondo gioiello che ho per voi viene dall’Universo Z”.
“Questa è
Sandra” continuò il capo dell’Omega Group. “Capopalestra di Ebanopoli…”.
“Esattamente”.
Gli occhi di
Linda analizzarono per bene anche lei, e si focalizzarono sul corpo deperito e
le guance scavate sul viso di quella che doveva essere una delle donne più
forte e rappresentative dell’intera Unione Lega Pokémon. Gli occhi erano
spalancati, e vene rosse di sangue partivano dalle iridi, inquinandole lo
sguardo, nascosto parzialmente dalla frangetta di quell’insolito color
turchese, di quel carré spettinato e a tratti deturpato. Guardò poi le mani
della donna, con la pioggia che lavava macchie incrostate di sangue dalla mano
destra, orfana di due dita.
L’altra mano
stringeva una singola unica Pokéball, da cui grondava altro sangue. Niente
cinturone attorno alla vita, soltanto un’unica sfera, stretta con energia.
“Anche nel
suo universo la sua città non ha fatto una bella fine: è l’unica superstite
della sua città, l’unica persona rimasta in vita tra la sua gente. Li ha visti
morire tutti”.
Al contrario
di Jasmine, sul volto di Sandra vi era paura. Mosse rapida gli occhi verso
Lionell, che s’impressiono e indietreggiò di un passo. Guardò con paura la
cicatrice sulla guancia destra che le deturpava il volto.
“Questa
versione di Sandra è un’abile ladra, dotata d’istinto omicida e alta
resilienza. Sandra saprà gestire al meglio situazioni estremamente complicate,
con la sua aggressività. Non statele troppo vicino, e non abbassate la guardia:
è una sociopatica. E poi abbiamo il fiore all’occhiello…” continuò Xavier,
scalando verso l’ultimo dei suoi regali.
“Lei la
consociamo” sorrise Lionell. Xavier annuì, portando ancora indietro i capelli
fradici.
Linda poté
poggiare lo sguardo su quella che era certamente una copia malriuscita di
Fiammetta Moore, dai capelli lisci e molto lunghi. Coprivano lo sguardo cinabro
e il sorriso incontrollato e intermittente, compulsivo, orfano di un premolare.
Somigliava alla bellissima Capopalestra di Cuordilava soltanto per il volto,
perché il corpo era smunto e scarno, coperto abbondantemente dal maglioncino
beige. Le maniche erano troppo lunghe, insanguinate verso la punta, e
contenevano i pugni della donna. La pelle del volto era chiazzata da macchie
scure
“Un vero e
proprio angelo della morte, dall’Universo
M”.
“Qual è la
sua storia?” domandò Linda, che continuava a stare immobile. Xavier annuì,
perché conosceva quella risposta, e sorrise.
“In realtà è
più semplice di quello che dovrebbe essere: questa donna è semplicemente folle.
Pazza, indisciplinata e autolesionista. Ovviamente è una piromane”.
Lionell
sorrise, abbassando il volto.
“Ovviamente”
ripeté.
“I suoi
Pokémon hanno dato fuoco a intere città e incenerito persone innocenti…”.
“È
incredibile la differenza. Qui, Fiammetta Moore è…”.
“Lo so, è
una donna bellissima. Nel suo universo il Team Magma ha vinto la battaglia
contro il Team Idro, e ha allontanato Hoenn dal mare per diverse migliaia di
chilometri. Sono morte molte persone e lei è stata ovviamente catturata…”.
Xavier poi
si voltò, guardandola per un secondo. La pioggia rovinava il silenzio.
“È stata
stuprata e torturata, ed è diventata la cavia di esperimenti biomedici che
l’hanno trasformata in un mostro. La bellezza di questa donna sta nella sua
forza: non ha una rotella in testa ma è riuscita a scappare e a dar fuoco al
centro di redenzione dove la tenevano prigioniera, e da lì non sono mai
riuscita a fermarla. Quando ha una sfera tra le mani, bisogna stare lontani da
lei”.
Linda rimase
immobile, col braccio destro a tenere l’ombrello e il sinistro a stringere la
tracolla della borsetta. Era immobile.
“Non ti vedo
convinta” ribatté Xavier Solomon, inclinando la testa e sorridendo.
“Le hai
descritte come delle schizofreniche, delle sociopatiche… Come mai ora sono
calme?”.
Annuì
nuovamente, Xavier, voltandosi e muovendo ampi passi verso Jasmine.
“Voltati…”
fece poi. La condottiera eseguì rapida e rimase immobile, mostrando ai due la
treccia, le spalle strette e il fondoschiena tonico. Xavier poi la colpì con
una manata al fianco.
“In
ginocchio” ringhiò, e la vide abbassarsi rapida sui sanpietrini.
Le afferrò
la treccia e la tirò in su. Era doloroso ma la donna non faceva una piega.
Lionell
aguzzò la vista, vedendo un piccolo punto scuro dietro al collo.
“Ma… è…”.
“Un chip.
Una piccola macchinetta di mia creazione che stimola il rilascio di endorfine e
che le tiene calme, oltre a renderle totalmente soggiogabili al mio volere. E
al vostro. Sono programmate per fare ciò che volete voi… Ma…” ridacchiò ancora.
“Io non mi fiderei troppo…”.
Lionell
sorrise e sospirò, guardando poi Fiammetta e rimanendo affascinato dagli occhi
spiritati di sangue di quella. Stringeva i pugni con forza, il sangue colava
sul pavimento e spariva nell’acqua che cadeva dal cielo.
“Ora hai
quello che ti serve” tuonò Xavier. “Non mi deludere”.
Un lampo
accecò i loro occhi, e un secondo dopo quello era sparito.
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