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TSR - 10 - Gold Ha Sempre Ragione

10. Gold ha sempre ragione


Johto, Borgo Foglianova, casa dei Dexholder

 Sinceramente.

Quel mattino non fu il rumore persistente della pioggia, che  ormai cadeva incessantemente da settimane e che rilassava i più, ma non lui.
Sinceramente non fu nemmeno il rumore dei tuoni, forte e penetrante, e neppure la mancanza di Marina, che coi piedi freddi ogni volta lo faceva sobbalzare, in un rapido salto dal sonno alla morte.
Sinceramente non s’era neppure accorto che, quella mattina, la sua donna si fosse alzata, sbadigliando rumorosamente come faceva sempre, vestendosi di fretta e facendo cadere il cellulare per terra, chiedendo a Shiva per quale motivo tutte quelle cose succedessero sempre a lei.
Esagerava spesso, era fatalista. Lo schermo non s’era neppure graffiato.

Sinceramente, Gold si svegliò perché aveva fame. E non la fame che normalmente prende chiunque si svegli dopo diverse ore di sonno, no; Gold non voleva fare colazione, voleva il pranzo di Natale. Quindi sbadigliò, stese tutti e quattro gli arti più che poteva, sentendo le articolazioni scricchiolare e aprì per la prima volta gli occhi.
Erano le tredici e dodici e anche quel giorno s’era svegliato tardi.
Non era sveglio in orario per la colazione dal duemilatre. Ma, insomma, fu solo un caso.
Sentiva la lingua impastata e quindi immaginò quanto pessimo fosse il suo alito ma poco gl’interessava; mise una mano nei boxer e grattò dove più gli prudeva, poi rimase qualche secondo in totale silenzio, davanti alla finestra, a guardare la tempesta.
“Si è rotto il cielo...”.

Prese coraggio, si alzò e si lavò, per poi scendere al piano inferiore con le ciabatte rosa di Marina, quelle con la palla di peluche sulla sommità. La prima volta che lo vide indossare le sue pantofole, la donna lo ammonì; non voleva che gliele allargasse ma lui rispose con un rapido sono comodissime, mi pare di affondare i piedi in un paio di nuvolette rosa. E poi sono sempre in mezzo ai coglioni, le mie non le trovo dal settembre dell’anno scorso.
Al contrario di Gold, Marina era molto ordinata ma pareva avesse avuto difficoltà nel trovare un posto alle ciabatte e, complice il suo essere quasi sempre di fretta, le lasciava un po’ dove capitava.
Quando fu in cucina puntò diretto il frigorifero, percependo fuori dal campo visivo la presenza di qualcun altro. E quando questo accadeva con la televisione spenta si trattava sicuramente di Silver.
“Ciao, figlio del criminale. Che c’è per colazione?”.
“Non lo so, controlla da te, io sto uscendo”.
“Buongiorno anche a te, primula rossa...” sbuffò, con un pacco di wurstel in mano. Aprì il pacco con in denti e gliene puntò uno contro, mentre quello si voltava senza battere ciglio, sfilandogli silenziosamente davanti e uscendo fuori, tuffandosi nella pioggia torrenziale.
Sbatté la porta, e poco lui era da solo, con un wurstel crudo tra le mani e le pantofole strette della sua donna ai piedi.
Si avvicinò al divano, masticando la sua colazione/pranzo, con lo sguardo di chi stava pensando a qualcosa d’importante.
Cominciò a ragionare.
“Allora... Aristarco il musone è appena uscito, Marina è via a disegnare cerchietti attorno ai Pokémon, Crystal controlla bacche sotto la tempesta e io sono a casa da solo. La cosa migliore da fare, la più responsabile, è accendere la Playstation e cercare di sopravvivere a qualche orda zombie”.
E così fece, col cellulare sulla coscia che sarebbe volato non appena avrebbe dimenticato di ricaricare l’arma e sarebbe morto, il pacco di wurstel aperto sul cuscino del divano e la capigliatura di chi non sapeva che venti minuti dopo sarebbe dovuto correre a prepararsi.
Non appena sfiorò la miglior serie d’uccisioni che avesse mai raggiunto, infatti, il cellulare squillò. Sospirò e guardò lo schermo.
“Sconosciuto...” disse, mettendo il gioco in pausa. Passò una mano tra i capelli e rispose, dopo aver sbuffato.
“Uffà, ti avverto, se è uno scherzo in stile chiamata erotica potrei cascarci e stare veramente al gioco...”.
Sono Xavier Solomon” sorrise l’altro, dall’altra parte della cornetta. “E tu sei sicuramente Gold...”.
“Il tuo nome non mi dice nulla, fratello” ribatté, prendendo il secondo wurstel e infilandolo in bocca in orizzontale.
Quello delle alette, Amarantopoli...”.
“Oh...”.
Non vorrei disturbare ma...”.
“Ho due, anzi...” continuò a masticare. “Anzi, tre domande. Uno, voglio sapere chi ti ha dato il mio numero, due, perché mi hai chiamato e poi...”.
Quello lo interruppe. “Diciamo che sono bravo a cercare qualcosa sugli elenchi telefonici...”.
Gold rimase in silenzio per un attimo. “Il mio numero di cellulare non è sugli elenchi”.
Ti ho hackerato il profilo Instagram. E ti ho chiamato perché mi devi aiutare...”.
Merda! Sapevo che non dovevo cliccare sui link che mi ha inviato quella tipa mezza nuda!”.
“Ti darò qualche dritta per difenderti dagli attacchi online, se vuoi...” sorrise l’altro. “Ma dobbiamo incontrarci”.
Gold rimase in silenzio. Si alzò, facendo cadere il joystick sul pavimento e avvicinandosi alla finestra, totalmente coperta da gocce di pioggia. Lo sfondo era di un grigio assai scuro, mentre il rumore dell’acqua che batteva contro il vetro lo costrinse subito a tornare al centro del salone. Accese la luce e prese a camminare nervosamente sul tappeto seguendone il perimetro con pochi passi.
“Che vuoi da me?” chiese poi quello dagli occhi dorati, serio.
La risposta non tardò ad arrivare. “Io mi rendo conto che tu sia coinvolto nella vicenda ma... credimi, non so davvero a chi altro chiedere, sei l’unico che mi ha mostrato un briciolo d’umanità e in tutta questa storia sto rischiando più dell’antipatia di Green e Silver...”.
“Sì, loro sono dei culi pesanti. Comunque dimmi pure”.
No, non funziona così. I telefoni sono rintracciabili e qualcuno, proprio adesso, potrebbe ascoltare ciò che ho da dirti. Ed è una cosa confidenziale... Credo sia meglio incontrarci di persona...”.
Gold storse il muso. “Ma sta piovendo, ora...”.
Gli ombrelli fanno stile ed eleganza, sai?”.
“È che è rimasto solo un ombrello rosa e...”.
Hai vergogna di uscire con l’ombrello di tua sorella?”.
“Mpf! Vedessi le pantofole che ho ai piedi! Ci vediamo da Harold’s?”.
Percepì l’altro sobbalzare.
“No! No, no, assolutamente no! Cindy e Angelo sono sempre lì dentro e non posso assolutamente fidarmi di loro. Neppure casa mia è sicura, no...” fece, pensando ad alta voce. “Dovremmo vederci da qualche altra parte. Che ne pensi di Azalea?”.
“Odio gli insetti”.
“Fiordoropoli?”.
“Off-limits da quando Chiara ha provato ad assaggiarmi. Sai, sono fidanzato, posso guardare tette solo online, l’accordo con la mia tipa è questo”.
“... Ebanopoli?” chiese poi Xavier, pazientemente.
“Non posso più andare a Ebanopoli dallo scorso giugno. Sandra mi vuole morto...”.
“Come mai?”.
“È intimo e confidenziale, potrebbero intercettarci...”.
“... Dimmi tu...” sbuffò l’altro.
Breve pausa. “Ultimamente un po’ tutti mi vogliono morto. Senti, facciamo Violapoli e non se ne parli più”.
Perché Violapoli?” domandò Xavier.
“Ho un’amica, lì”.
“Ok. E poi?”.
Gold corrucciò lo sguardo. “Poi cosa?”.
“La terza domanda”.
“Ah, già. Puoi formattarmi il tablet? Temo sia zeppo di virus”.
Ehm... dobbiamo organizzarci...”.


- Libecciopoli, Unima, Palestra di Rafan -

 Passo dopo passo, il calore aumentava sempre di più.
La miniera sprofondava nel cuore della montagna, dove la luce esisteva solo grazie a lampade arrugginite collegate da un filo elettrico.
L’odore di umido diventava sempre più forte e la pietra scavata attorno alla scalinata era umida e si assottigliava man mano che si scendeva. Le mani di Fiammetta carezzavano i corrimano incandescenti, li seguiva in tutto il percorso che collegava la miniera di carbone a quella di diamanti.
Quelli erano più in basso, non sapeva quanto. Fatto stava che un minuto dopo la scala s’interruppe. Arrivò al basamento arrugginito e umido, dovette stare attenta a non scivolare.
Il caldo lì era terribile. Non riusciva a respirare, non avrebbe resistito per molto in quelle condizioni. Ma le piaceva.
Avanzò qualche passo, cominciando a sentire in lontananza i rumori dei macchinari che scavavano la roccia in punti specifici. Veniva guidata da quelle lampade consumate dal tempo fino all’ennesimo gate con autorizzazione da badge elettronico.
Non era sicura che la tessera di Britney sarebbe stata utile.
Rise, pensando ai diamanti, e pochi secondi dopo si accorse che la porta fosse aperta.
Furtiva, la spinse cercando di non far rumore. Quei cardini erano interamente arrugginiti e avrebbero fatto voltare chiunque si trovasse nella camera. Quando ci riuscì vide una gola profonda metri e metri, fin dove le luci pallide non riuscivano ad arrivare, e carrelli pieni di pietre che certamente non splendevano come nelle réclame in televisione.
Erano grezze. A lei interessavano quelle già lavorate e trattate.
Un operaio dalla grossa pancia e dalla fronte sudata le apparve davanti. Spalancò gli occhi immediatamente e lasciò cadere il grosso piccone. La sua espressione era allarmatissima.

“È qui! Cazzo, è qui, capo!”.

L’uomo prese a scappare goffamente, nascondendosi dietro a una colonna di roccia.
Fiammetta rise in maniera sinistra: aveva un nuovo obiettivo.
Tirò fuori dalla manica la penna che aveva nascosto prima, con la punta ancora sporca del sangue della receptionist, e la brandì come fosse il più letale dei coltelli militari.
Prima che un attacco Iper Raggio le sfiorasse la mano, andando a finire contro la parete rocciosa in fondo alla galleria.

“Stai ferma, puttanella… Non so cosa ti sia saltato in mente ma il caldo di Hoenn ti ha dato alla testa?”.

Fiammetta si voltò, aggrottando le sopracciglia.
“Rafan…” fece, mentre guardava il Capopalestra di Libecciopoli. L’uomo manteneva la tesa del grosso cappello bianco e intanto digrignava i denti, indossando un’espressione infuriata e acre.
Era nascosto dietro al suo imponente Excadrill, in posizione di combattimento.
“Quando mi hanno detto ciò che è successo su, alla miniera di carbone, sono venuto subito qui”.
“Voglio i diamanti” rispose l’altra, furiosa. Guardò il volto dell’uomo, sudato e contrito. Grattava con le unghie le basette ricciolute, castane, in cui qualche filo bianco cominciava a intravedersi.
Lo vide ridere, divertito. “Vaneggi… Arrenditi”.
Inclinò la testa verso destra, Fiammetta, col sorriso inquietante che stentava a lasciare il suo volto e i sottili e lucidissimi capelli a fare da sipario chiuso.
“I diamanti… dammeli, e ti ucciderò rapidamente”.
“E perché mai li vorresti?” tuonò l’altro. “Rocco Petri non riesce più a soddisfare la tua passerina col suo stipendio da Campione?” chiese poi, provocatorio. Fece poi per continuare.
“No, Fiammetta. Non so per quale motivo una donna al servizio della giustizia abbia deciso di uccidere sessanta uomini in una miniera di diamanti, ma ciò che è certo è che nessun malintenzionato sopravvive, dopo che io decido che muoia”.
Inclinò la testa ancor di più, lei. “Vuoi uccidermi?”. La sua voce era languida, gli occhi parevano pentiti.
“Non prendermi per il culo!” esplose l’uomo, la cui voce rimbombò nell’intera miniera.
Quella parve spegnersi. “Ti ho detto…” sussurrò poi, guardando la mano che brandiva la penna come fosse un machete. “Ti ho detto che devi darmi i diamanti! E se devo passare sul tuo cadavere per prenderli sappi che lo farò senza alcun problema!”.
La donna partì in una corsa forsennata, con gli occhi spalancati e spiritati di sangue, mostrando i denti come fosse una leonessa; Rafan la guardò, impressionato, capendo che qualcosa non andasse in lei.
Fece un passo indietro, lasciando che Excadrill intercedesse, poco prima che quella saltasse, pronta per affondare la punta nell’orbita sinistra dell’uomo. Ma il Pokémon del Capopalestra di Libecciopoli la colpì, allungando il braccio destro e colpendola allo stomaco.
Fiammetta scivolò lenta in giù, lasciando cadere la penna e ghignando sinistra. Dalle labbra spaccate cadeva un rivolo di saliva.
“Sei un fottuto codardo!”.
Gli occhi dell’uomo erano attoniti.
“Che diavolo ti è successo, Fiammetta? Non riesco a capire…”.
La vide poi mettere le mani alla cintura, afferrando una sfera. Se un solo Magmortar aveva avuto l’effetto di cancellare sessanta vite, i suoi Pokémon dovevano essere stati addestrati per bagnarsi le zampe di sangue.
Rafan non capiva. La cosa lo riempiva di rabbia.
“Tu sei una Capopalestra! Hai delle responsabilità!”.
“Tu invece dovresti fare ciò che ti dico!”.
L’uomo sputò per terra. “Mi fai veramente schifo… lurida troia. Excadrill! Mettiamola fuori combattimento!”.
“Blaziken!” fece, ridendo follemente. “Uccidiamoli senza pietà!”.
Sudava, Rafan. La sua fronte era imperlata di sudore, e quando il Pokémon di Fiammetta si gettò nell’incontro non si accorse d’aver mosso qualche passo indietro, involontariamente; scioccato, guardava Blaziken muoversi indemoniato verso il suo Excadrill con le zampe anteriori fiammeggianti. Non erano servite neppure indicazioni da parte della sua Allenatrice che aveva preso a colpire l’avversario con foga immane.
Rafan assisteva alla scena senza capacità di reagire; Blaziken stava colpendo sul volto il suo Pokémon.
“P-proteggiti!” tentennò lui, totalmente stupito dalla sua fame assassina: nonostante avesse assistito e preso parte a migliaia di lotte mai nessuno dei contendenti combatteva con lo scopo preciso di ammazzare l’avversario.
Lì era diverso.
Mentre Excadrill chiudeva il capo all’interno della sua barriera, Blaziken gli colpivo torace e addome, scarnificandolo e bruciandolo. L’odore che si alzava in quella miniera era rivoltante.
“Ammazzalo!” urlava Fiammetta, con gli occhi spalancati e la saliva e il sudore che le colavano dal mente. Rideva divertita e la cosa faceva rabbrividire Rafan, che mai avrebbe immaginato una cosa del genere.
Stava vedendo morire Excadrill davanti ai suoi occhi paralizzati.
“Fermati!” ribatté Rafan. Cercò di far rientrare il suo Pokémon nella sfera ma le dita di Blaziken erano ormai penetrate nel corpo di Excadrill e lo stavano bruciando dall’interno.
“A calci! Prendilo a calci!” fece l’altra, sempre più divertita, e l’assassino eseguì vari Calciardente sullo scudo tanagliato del Pokémon, ormai in fin di vita.
Le mani dell’uomo tremarono, aveva detto addio alla calma e al sangue freddo.
Il caldo infernale strappò una goccia di sudore dalla sua fronte. Questa accarezzò il suo viso ruvido, passò attraverso la barba e si gettò sul labbro inferiore. Incredulo, capì che Excadrill fosse ormai morto quando riuscì a vedere il suo volto esanime tra gli artigli ormai indeboliti.
Blaziken si fermò, affannando, in mezzo a quello spettacolo macabro di sangue e brandelli di carne, e pezzi d’osso totalmente distrutte.
Fiammetta si limitava a ridere.
E ridere davanti a una scena del genere sottolineava quanto in realtà quella fosse deviata.
“Colpiscilo!” sbraitò, e bastò un ultimo, tremendo calcio di Blaziken, per far sì che il corpo di Excadrill fosse diviso a metà, davanti a un inorridito Rafan, che poté soltanto veder la donna partire con furia omicida verso di lui.
Ma quello era scosso.
Correva, lei, gridando come un’amazzone, e poi saltò, colpendo Rafan con un forte pugno al volto. E poco importava che le nocche della donna si fossero rotte contro il naso dell’uomo, che urlò e indietreggiò di qualche piccolo passo, senza cadere.
Quella si massaggiò la mano, detergendo il sangue che era schizzato sulle dita e ridendo ancora.
“Hai sempre la solita faccia tosta! Anche qui...” fece la donna. “Da dove vengo io, ti ho già ucciso una volta”.
Rafan batté le palpebre più di dieci volte in pochi secondi, con le mani sul naso che grondava sangue. Si chiedeva di cosa diamine parlasse. La vedeva avvicinarsi con prepotenza, lentamente, brandendo ancora la Staedler nella mano sana. Subito dopo, la punta attraversò la trachea dell’uomo, che indietreggiò per un’ultima, patetica volta, prima di sbattere con la schiena contro la parete.
I loro occhi stavano intrecciando una trama fitta e profonda di sguardi; in quelli di Rafan girava in loop la scena della furia di Blaziken, ormai mansueto alle spalle di quella donna che lo aveva, di fatto, ucciso.
Il sangue era troppo. Sentiva le forze venir meno, e quando quella lo colpì con un calcio sul ginocchio, non riuscì più a rimanere in piedi.
S’inginocchiò. E la cosa, forse, gli faceva ancor più male.
Quella si piegò davanti a lui, sentendo il suo respiro greve, ormai sempre più distante da quello precedente. Sorrise maliziosa e gli leccò la guancia, interamente ricoperta dal suo sangue.
Si sporcò le labbra e il mento. Poi prese un respiro e parlò, sottovoce.
“Non credo che ci vorrà molto… Se collabori potrei addirittura non farti soffrire molto” fece, ammiccando e poi ridendo con una tale ingenuità da far riaccendere la fiamma della rabbia nel petto del Capopalestra di Libecciopoli che, per tutta risposta, le sputò sangue denso e grumoso sul volto.
L’altra sorrise e Rafan non poté far altro che contare i secondi che gli erano rimasti, mentre il cuore batteva. E l’ansia cresceva, perché sapeva che sarebbe successo qualcosa che avrebbe posto la parola fine ai suoi giorni.
Sempre più lento, faceva per spegnersi, sperando nell’intervento di qualcuno dei suoi minatori, o del padreterno. Bastò un decimo di secondo per rendersi conto del fatto che aveva vissuto la sua vita senza provare alcuna paura per la morte. E poi, quando quella s’era presentata davanti a lui per concludere il tutto, d’improvviso si ravvide.
Voleva vivere.
Lacrime amari cominciarono a rigare il viso rosso sangue.
“Ti… ti darò i diamanti…” fece. Tentennarono tra i denti, quelle parole, mentre Fiammetta tornò seria, continuando a fissarlo in maniera sinistra.
“T-ti prego… Ti darò i diamanti, l’oro… ma devo andare in ospedale!” urlò. Nel caldo della miniera, l’eco delle parole di Rafan parve rimbombare per giorni interi.
“Sei patetico” ribatté l’altra, che gli sputò a sua volta sua viso e, in un frangente, affondò nella tempia sinistra con la penna.

E Rafan ricadde per terra, in una pozza di sangue e urina.
Era morto.

Fiammetta fu quasi chirurgica nell’estrargli rapidamente il grande coltello a serramanico che spuntava dalla tasca destra del Capopalestra. Non ebbe neppure il tempo di apprezzare il rivestimento in pelle di coccodrillo che lo aprì e recise la mano destra dell’uomo, non senza fatica.
Si rialzò, con le ginocchia che grondavano di quel liquido caldo e rosso che ancora fuoriusciva dalla testa di Rafan, e afferrò il grosso indice, attorno al quale era stato infilato un grosso anello d’oro, che sfilò e mise tra il pollice e l’indice della mano con le nocche spaccate.
E pochi secondi dopo era davanti alla porta blindata, alla fine del corridoio; Blaziken la seguiva, col respiro pesante e gli artigli che grondavano sangue. Il corpo di Rafan era immobile diversi metri indietro quando la donna, sinuosa come sempre, poggiò la mano che aveva reciso sullo scanner di sicurezza.

PERMESSO ACCORDATO

La donna entrò nel caveau buio della miniera dove, in grosse montagnole alte più di tre metri, risplendevano dozzine e dozzine di diamanti.

 
- Johto, Violapoli, sede del Centro Ranger di Johto –

“Sei zuppo” osservò Marina, seduta dietro la sua scrivania e otturando col palmo della mano il microfono del telefono. Quando Gold era entrato nel suo ufficio, pochi secondi prima, lei era nel pieno di una conversazione con uno dei suoi sottoposti.
“Me ne sono accorto, Sherlock…” ribatté l’altro, levando le scarpe bagnate e camminando coi calzini fradici sulla moquette. La guardò e sorrise sottecchi: era davvero bella, quando lavorava; forse era per via del tailleur blu che ben le si poggiava sulle spalle.
Le spalle delicate di Marina.
Ripensò per un attimo a qualche notte prima, lei su di lui, lui seduto a stringerle il seno destro e a baciarle la schiena, che faceva da cielo candido ai piccoli nei che lui amava.
Per un attimo si perse nel suo sguardo color nocciola, nascosto dal carré castano.
Ben pettinata, lei, sempre elegante e con l’espressione di chi non avesse tempo da perdere.
Quasi non gli dava neppure più fastidio pensarsi innamorato di lei.
Marina intanto lo guardava con lo sguardo corrucciato, mentre dall’altra parte della cornetta un suo sottoposto continuava a parlare ignaro.
“Cosa c’è?!” sussurrò poi, visibilmente contrariamente. “Sto lavorando!”.
Di tutta risposta, Gold abbassò lo sguardo e si sedette sulla poltrona davanti all’ordinatissima scrivania, levando i calzini e gettandoli accanto alla porta.
La donna si limitò a sospirare, nascondendo gli occhi dietro il palmo della mano libera. Poi annuì.
“Sì, ho capito. Ma ci dobbiamo riaggiornare, adesso devo andare. Ciao”.
Attaccò, sbuffò e lanciò il cellulare accanto al mouse, che si spostò di qualche piccolo centimetro e lasciò che il monitor si riattivasse, illuminandole il volto.
“Gold…” fece poi, alzandosi. “Non puoi presentarti in ufficio così… Avrei potuto avere delle persone davanti”.
Quello fece spallucce. “E allora?”.
“E allora sei entrato, hai lanciato le scarpe lì…” fece, puntando l’indice verso il paio di Adidas accanto al vaso con la zania. “… e hai interrotto la mia telefonata. Non è il modo adatto” concluse, appuntendo il viso.
Gold le fece una smorfia, prima di ruotare gli occhi verso l’alto e fare un gesto con la mano.
“Come no. Sei sempre sola… O sbaglio?” chiese poi, aggrottando la fronte. “Cos’è?! Avevi paura che ti beccassi col tuo amante?!”.
Marina si stropicciò gli occhi e sbuffò, facendo cenno di no con la testa. “Io con un amante… Tu basti e avanzi. Tu piuttosto, con tutto quel tempo libero…” ribatté lasciva, inarcando un sopracciglio.
“Io cosa?”.
“Chiara, Sandra, Jasmine… Yellow”.
“Momento, momento, momento, momento, momento… Io non ho mai fatto nulla con queste donne. Purtroppo”.
Marina, che aveva abbassato lo sguardo, puntò gli occhi increduli sul ragazzo, che fece spallucce.
“Cioè, ho visto solo i mammelloni di Chiara, ma non ci ho fatto davvero nulla”.
“Almeno non chiamarli così…”.
“Sono esattamente come quelli del suo Miltank” aggiunse..
“Gold…”
“Sono pieni di latte… Quelli di Miltank, intendo”.
“Gold!” esclamò l’altra, inarcando un sopracciglio e allargando le braccia. Gli lanciò un blocchetto contro e scatenò in lui una risata divertita. Lo vide alzarsi e girare attorno alla scrivania, per abbracciarla.
E quando lo fece, Marina si ricordò che quello fosse fradicio.
“Ma no! Il tailleur!” esclamò, spintonandolo. “Che cavolo sei venuto a fare?!”.
“Anaffettiva. Ho un appuntamento con un tizio, qui a Violapoli”.
Marina lisciò la camicia e si risistemò sulla sedia. “Chi?”.
“Un tipo…”.
“Un tipo coi mammelloni?”
Gold rimase a fissarla per qualche secondo, quindi storse le labbra.
“Effettivamente è un termine orribile. Aboliamolo”.
“Mi trovi totalmente d’accordo” ribatté quella, spostando i ciuffi corti di capelli dietro le orecchie. Prese un foglio dal primo cassetto e cominciò a leggerlo. “Comunque, chi è?”.
“È una sorta di genio… un inventore”.
“Interessante…” annuì lei, seguendo la lettura del documento con l’indice smaltato..
“Sì, ha un laboratorio ad Amarantopoli e credono che sia lui l’autore del furto del cristallo di Hoenn”.
La donna si bloccò, col dito fisso sul foglio, e lo guardò. “In che senso?”.
Gold alzò leggermente le spalle. “Da Green. Il Cristallo del Caos, o come cavolo si chiama…”.
“Perché devi incontrarlo? Da solo, per giunta… No” fece poi, favorendo il suo concetto scuotendo la testa. “Sei anche da solo, stai per fare una cazzata. Chiamalo e…”.
“Ma lui è innocente!”.
La voce del ragazzo rimbombò nell’ufficio e fu efficace abbastanza da fermare la predica della donna. Lasciò che quello continuasse. “Angelo ha convinto Silver ad approfondire la posizione di Xavier ma tra i due non corre buon sangue...”. interruppe prontamente lui.
“Com’è che lo chiamano? Conflitto d’interessi?” chiese quella.
Gold abbassò lo sguardo. “Non è colpevole. Non è stato lui a rubare la pietra di Crystal...”.
Marina sorrise, riconoscendo in lui della genuinità più che pura. “Come lo sai?”.
“Io... lo so e basta. Lo sento a pelle” fece, sgranando le pepite che aveva al posto degli occhi.
Qualcuno bussò alla porta.
“Avanti” fece Marina, incrociando le braccia sul petto. Entrò un giovane Ranger con dei documenti in mano. Aveva i capelli scuri, ben pettinati sulla destra e gli occhi celesti.
“Buongiorno, Direttrice… questi sono gli ultimi rapporti da Fiorlisopoli e Olivinopoli”.
“Grazie”.
L’uomo uscì e Gold continuò a parlare, ma quella era concentrata sull’incartamento che aveva appena ricevuto, seguendo come faceva sempre la lettura con l’indice.
Poi si fermò.
“Oh… porca puttana…” sussurrò, interrompendo l’altro.
“Ehm… Ti si è rotto il dizionario. Ora parli come me…”.
“No, Gold non è il momento, devi lasciarmi lavorare. Abbiamo un gran bel problema”.
Scattò subito in piedi, girando attorno alla scrivania, raccogliendo le scarpe e sollevandolo di peso. “Ci vediamo dopo a casa” continuò, dirigendolo verso la porta
“Non spingermi, ho capito! Esco!”.
“Ti chiamo io” disse, dandogli un bacio sulle labbra e lasciandolo scalzo davanti alla targa col suo nome.
“Almeno puoi ridarmi i calzini?!”.

Pochi minuti dopo, Gold era per strada.
La pioggia non accennava a diminuire e lui, sotto l’ombrello rosa che aveva trovato a casa, camminava lentamente, con le cuffie nelle orecchie; Travis Scott cantava Goosebumps, mentre una coppia di ragazzine appena uscite da scuola divideva un ombrello e scappava verso casa.
Si chiedeva per quale motivo stesse piovendo da così tanto tempo; guardò il cielo e sospirò, vedendo le nuvole rimestarsi con fame vorace, per poi trasformarsi in un agglomerato nero e denso, illuminato in punti isolati da fulmini in attesa di schiantarsi al suolo.
E poi solo il rumore della pioggia. L’acqua scorreva lungo i canali di scolo laterali, abbondante e veloce, prima di finire nei tombini ormai stracolmi.
Stava per raggiungere il Centro Pokémon quando il suo Pokégear cominciò a suonare. Lo squillo rimbombò lungo l’intera piazza principale, disturbando il canto prepotente della pioggia.
 “Pronto” rispose Gold.
Non è gentile far aspettare una ragazza carina come me al primo appuntamento” faceva Xavier, con la voce disturbata dalle interferenze e dalla pioggia.
Gold sorrise. “Immagino debba offrirti un buon drink, per scusarmi…”.
“Sono più tipa da alette di pollo”.
“Ecco perché volevo uscire con te” ribatté Gold, stringendo il manico dell’ombrello e guardandosi intorno; tutto era buio; nonostante fosse mattino inoltrato il sole stentava a presentarsi.
Xavier sorrise. “Dove sei?”.
“Fuori la sede Ranger, a Violapoli”.
“Dalla tua amica?”.
“Già. Dove ti trovi?”.
Un attimo di pausa.
“Torre Sprout”.
“Il luogo più tetro della città. Meraviglioso. Durante un temporale, poi... la prossima volta scelgo io il posto”.
L’ho scelta soltanto per prendermi qualche abbraccio in più da te. Sai, tu mi dai la tua giacca, io mi metto vicino a te...”.
“Sto arrivando…”.
“E dici alla tua amica che sono gelosa”.

*

Marina era tornata rapidamente alla scrivania.
L’odore di Gold era ancora nell’aria ma lei era del tutto concentrata sui documenti che aveva davanti.
“Incredibile…” sospirò, alzando la cornetta del telefono e reggendola tra l’orecchio e la spalla. Premette il tasto 9 e ritornò a guardare quei dati preoccupanti, prima che il segnale del telefono si trasformasse nella voce di suo fratello.
“M-martino. Ciao”.
Non si rese conto di aver tentennato. La mano destra prese a tremare involontariamente.
“Oi, sorellina. Come stai?”.
Non appena sentì la voce di quello si alzò nuovamente in piedi e si parò davanti alla finestra, come faceva usualmente durante le telefonate. Da lì aveva una perfetta visuale della piazza centrale di Violapoli, inerme sotto la tempesta e svuotata delle persone. Un paio di ragazzine condividevano l’ombrello e si muovevano verso est, mentre quello che doveva essere probabilmente Gold, con l’ombrello rosa, pareva essersi fermato accanto alla grossa statua raffigurante Bellsprout.
“Marina?”.
“Sì. Ti sto prenotando un biglietto nave”.
Un disturbo sulla linea non permise alla ragazza di ascoltare la reazione di sgomento del fratello.
“La perturbazione ha portato problemi?”.
“Ne porterà di più l’uragano che si sta spostando dalle Isole Vorticose...”.
“Quello… quello non è il posto dove è…”.
“Sì. Lì riposa Lugia”.
“Fantastico…”.

*

Xavier attendeva pazientemente Gold all’ingresso della struttura. Indossava un paio d’occhiali da vista con la montatura classica e un cappello con visiera blu. Un paio di ciuffi biondi fuoriuscivano di lato e si univano alla leggera barba, che non radeva da qualche giorno.
Era stretto nel suo soprabito beige, accanto al montante sinistro della porta d’ingresso.
Gold lo vide e gli si avvicinò repentino.
“Sembri il maniaco perfetto” gli disse, stringendogli la mano.
“Eviterei di entrare, questo posto è pieno di svitati. Però è sicuro che nessuno ci disturberà”.

E varcarono la soglia.

Gold mosse i suoi passi in un ambiente parecchio buio, illuminato da torce sul muro e, di tanto in tanto, qualche lampadina ad incandescenza. I monaci che vivevano all’interno di essa avevano deciso di limitare gli interventi di ammodernamento, gestendo minuziosamente gli innesti per il sistemi idraulico e quello elettrico, oltre che per le varie tubature di servizio.
Quella torre era pressoché identica a quando era stata costruita.
“Bene, allora...” Gold fece per parlare, proprio davanti al pilastro nell’atrio, quando Xavier lo interruppe.
“No, qui c’è ancora troppa gente... Saliamo ai piani superiori”.
Gold sgranò gli occhi. “Gli svitati al piano di sopra sono più svitati di quelli del piano di sotto”.
Xavier si limitò ad annuire, prima di aprire la strada. S’incamminarono sul pavimento polveroso di legno, dove milioni di passi s’erano già accalcati. Persone curiose ed Allenatori intenti a lottare guardavano la coppia di ragazzi salire le scale verso il piano superiore e poi quello sopra ancora.
Una volta lì, raggiunsero un grande finestrone, mosaicato, dove anche la fioca e debole luce esterna rischiarava l’ambiente, con un sentore opaco che arrivava fino a un paio di metri da loro.
“Ok” sospirò Gold “Se provassi a molestarmi qui nessuno ci vedrebbe... Puoi dirmi che diamine è successo?”.
“Mi credono colpevole, Gold, ma sono palesemente innocente...”.
Gold scrutò il suo sguardo azzurro e sospirò. “Credo ci vogliano delle... prove, o altra roba del genere...”.
“Ho le mie telecamere, Gold! Ma Angelo sta dirottando la Commissione della Lega contro di me perché gli sto sul cazzo!”.
Il Dexholder sgranò gli occhi e, soltanto con lo sguardo, gli chiese di continuare. Ma Xavier non capiva. “Che vuoi?”.
“Uff... Perché gli stai sul cazzo? Non mi sembra il tipo che si comporta in questo modo”.
“Perché sua moglie è innamorata di me e a lui, chiaramente, la cosa non sta bene”.
Gold spalancò gli occhi. “A-ha! Lo sapevo che c’era qualcosa tra voi due!”.
“È molto complicato, Gold, non voglio perder tempo a spiegare questo fatto”.
“Però potrei capire come mai vi stavate uccidendo, ieri, alla tavola calda”.
“Io e Cindy siamo cresciuti assieme. Ero totalmente innamorato di lei, dieci anni fa. Mi dichiarai, lei mi disse sì ed il giorno dopo andò con Angelo. Poi si pentì. Ora, la cosa è delicata...”.
Xavier guardava in basso e sospirava, con le mani strette nei pugni.
“Sei uno stronzo” ribatté Gold.
L’altro spalancò gli occhi e lo fissò subito. “Prego?”.
“Non fraintendermi, non per giudicarti... anzi sì, sei proprio uno stronzo”.
“... Temo di non comprendere...”.
“Non capisco rovinarsi la vita da soli! Se tu vuoi lei e lei vuole te perché non te la vai a prendere?!”.
L’altro scosse la testa energicamente e levò gli occhiali, fermandoli al colletto della maglietta.
Alzò l’indice della mano destra.
“Punto primo: ho una dignità!” urlò, alterato. “Se mi rifiuti, dopo non ti accetto! È una questione di principio! Punto secondo: non voglio che Angelo mi renda la vita impossibile”.
“Al massimo ti troveresti Linda Blair che ti aspetta nel bagno”.
Xavier sorrise, improvvisamente divertito. “Lui e quei fantasmi…”.
“Sai, avevo intuito non ti stesse simpatico”.
“Arguto. Ma comunque, il suo risentimento sta spingendo Silver e Green a pensare che io possa avere un qualsiasi ruolo in questa vicenda”.
“E tu non vuoi entrarci, ovviamente…” ragionava l’altro, con la mano che si massaggiava la mandibola.
“Nessuno dovrebbe entrarci, se non il responsabile!”.
Respirava profondamente, Xavier. Sgranò gli occhi e deterse il sudore della fronte con la manica. Poi cadde il silenzio.
Gold lo guardava, storcendo le labbra verso destra e incontrando il suo sguardo.
“Io sono innocente…” continuò il biondo. “Non ho fatto nulla, ho le immagini delle videosorveglianza che lo testimoniano, ma temo che Angelo possa andare oltre la sua etica professionale e sabotarmi”.
“Angelo non lo farebbe mai... Se non fosse stato per lui sarei morto qualche anno fa...”.
“Come ti pare, ma credo che se mi avesse sotto mano mi ucciderebbe”.
“Potrebbe farlo anche a distanza, credo. In ogni caso perché sono qui?”.
Xavier annuì e smontò lo zaino dalla spalla. Lo aprì e tirò fuori una chiavetta USB. “Qui dentro c’è una copia delle riprese delle mie telecamere, da due giorni prima del fatto a due giorni dopo”.
Gold la prese, fissandola attentamente. “E perché la dai a me?”.
“Perché se mi succedesse qualcosa, se mi arrestassero, tu potresti scagionarmi. Ed il tuo nome è chiaramente più noto del mio”.
Gold rimase serio per qualche secondo, prima di annuire e infilare il dispositivo nella tasca.

*

Si dileguarono pochi secondi dopo, uno andò a est e l’altro a ovest.
Gold guardò sparire Xavier oltre un angolo e s’incamminò verso lo stazionamento dei pullman. Quello che lo avrebbe portato a casa sarebbe passato sette minuti dopo, ma prima il temporale aveva deciso di aggredire Violapoli e a lui non rimaneva che ripararsi sotto il suo ombrello rosa. Il vento alzava piccole gocce d’acqua da terra, che finivano dritte sul suo volto.
Quando le porte del ventitré si aprirono i suoi jeans erano quasi del tutto impregnati d’acqua. Chiuse l’ombrello e lo trascinò rumorosamente fino al sediolino, sbuffando e sperando che il tragitto che lo avrebbe portato a casa si fosse tutto a un tratto dimezzato.
Non fu così, ovviamente.
Nonostante fosse appena ora di pranzo, la luce era così poca da costringere il pilota ad accendere i neon di servizio all’interno dell’abitacolo. Quell’incontro lo aveva improvvisamente riempito d’angoscia.
Capitava poco spesso, ma ogni tanto vaniva attaccato da quella sensazione così greve e persistente. L’ansia gli riempiva il petto, qualcosa premeva per uscire proprio tra i polmoni.
Stava male.
Poi infilava le cuffiette e tutto si dissipava.
Ripensò a Xavier e alla sua situazione; si fidava di lui e non voleva che venisse incriminato per quella storia.
Durante il tragitto strisciò più volte la mano sulla tasca per accertarsi che la chiavetta fosse ancora lì, e quando arrivò fuori casa, aprì la porta col preciso intento di salire in camera sua e nasconderlo in un posto sicuro.
Sennonché, una volta spalancato l’uscio, si accorse che Green, Red, Blue e Yellow erano seduti sui divani del salotto. Silver era in piedi accanto alla poltrona, mentre Crystal era poggiata al muro accanto al camino.
Tutti lo guardarono.
Gli occhi del ragazzo però si focalizzarono su Red.
“E tu che ci fai qui?”.
Red rimase serio, al contrario di quello dagli occhi d’oro che dipinse un leggero sorriso sul volto. Gli si avvicinò e gli strinse la mano, poi diede un bacio sulla guancia a Yellow.
Gli altri due si limitò a salutarli con un gesto della mano.
E quando il suo sguardo si poggiò su quello di Silver, l’altro sbuffò.
“Dove cazzo eri?”.
Tutti rimasero in silenzio.
“A Violapoli, da…”.

Non poteva rivelarlo. Non a loro.

“… Marina”.
L’altro represse malamente un sorriso stanco e allargò le braccia. “Sono giorni che stiamo sbattendo la testa contro il muro per cercare di capire dove sia finito quel dannatissimo cristallo e tu esci divertirti… Potresti quantomeno aiutare…”.
Sbottava in quel modo, Silver. Senza urlare.
“Guarda che non sono andato a cazzeggiare!”.
“Calmati, Gold” esordì Red. “Non serve a nulla scaldarsi. Stiamo cercando una soluzione…”. Il ragazzo lo guardò e sospirò, portando le mani ai fianchi.
“Il fatto è che non riusciamo a capire quale sia il problema” continuò il primo. “Tutta l’Unione Lega Pokémon sta lavorando su questa storia ma non riusciamo a venirne a capo... Abbiamo rivoltato l’intera Kanto, cercando indizi o almeno qualcosa che gli assomigliasse ma non è servito a nulla. Tu sei sicuro di non avere qualche idea?”.
“Ho provato a dire a Clint Eastwood, lì, che forse un modo per trovare una pista c’era…”.
Green lo fissava serio. “E quale sarebbe?”.
Gold sospirò e gettò l’ombrello bagnato per terra, quindi, sotto gli occhi di tutti, scavalcò Silver ed entrò in cucina, aprendo il frigorifero.
“Sta mangiando?” domandò Yellow, confusa.
Lo videro prendere una lattina di Coca Cola. Tornò in salotto, aprì la bibita e prese un sorso, poi si sedette sul bracciolo della poltrona dove c’era Yellow, scippando il telecomando del televisore dal tavolino.
Lo accese.
Blue sorrideva, estremamente divertita. Silver invece sbuffò, allargando le braccia e voltandosi. “Non ci credo… ora lo ammazzo…”.
 “Ma che fai?!” sbraitò Crystal. Quello cambiò canale tre, quattro volte, prima di sospirare.
Lasciò poi cadere il telecomando tra le mani di Yellow e prese un altro sorso di cola.
“Ecco fatto” fece. “Problema risolto”.

“Qui Tea. Siamo appena arrivati a Libecciopoli, sotto una tremenda tempesta. Come vedete la Palestra di Rafan è accerchiata dalle autorità, che sono entrate più di mezz’ora fa dopo l’allarme dato da uno dei pochi minatori sopravvissuti al grande incendio che imperversa alle mie spalle. L’incendio, pare sia di natura dolosa. Dalle prime indiscrezioni sembra che una persona si sia introdotta fino al livello più basso della Palestra con l’intento di rubare i diamanti...”

Silver spalancò la bocca e portò le mani alle tempie.
“Siete troppo carichi. Pensiero laterale, cocchi…” fece Gold, mentre i quattro più grandi gli si pararono alle spalle
“Silenzio” ribatté Green.

“Tuttavia, quella che doveva essere una rapina si è rivelata essere una strage: il malfattore ha ucciso settantatré persone, distrutto la miniera di carbone e... un momento, ci arrivano altre informazioni: ecco, sembra che anche Rafan sia rimasto ucciso. Rafan è morto, è stato ritrovato il suo cadavere, ve lo confermiamo in esclusiva”.
“Oh porca puttana!” esclamò Green, prendendo immediatamente il cellulare. Spalancò la porta e si gettò sotto la pioggia, allontanandosi.

“Abbiamo appena ricevuto un’immagine dalle riprese del circuito interno della Palestra che mostra il volto dell’autore della rapina ed è...  oh. Non ci posso credere...”.

Tutti i presenti spalancarono occhi e bocca.
“Questo è parecchio strano” sussurrò Gold.

Quella donna assomiglia incredibilmente a Fiammetta Moore...”.

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