10. Gold ha sempre ragione
Johto, Borgo Foglianova, casa dei
Dexholder
Sinceramente.
Quel mattino
non fu il rumore persistente della pioggia, che
ormai cadeva incessantemente da settimane e che rilassava i più, ma non
lui.
Sinceramente
non fu nemmeno il rumore dei tuoni, forte e penetrante, e neppure la mancanza
di Marina, che coi piedi freddi ogni volta lo faceva sobbalzare, in un rapido
salto dal sonno alla morte.
Sinceramente
non s’era neppure accorto che, quella mattina, la sua donna si fosse alzata,
sbadigliando rumorosamente come faceva sempre, vestendosi di fretta e facendo
cadere il cellulare per terra, chiedendo a Shiva per quale motivo tutte quelle
cose succedessero sempre a lei.
Esagerava
spesso, era fatalista. Lo schermo non s’era neppure graffiato.
Sinceramente,
Gold si svegliò perché aveva fame. E non la fame che normalmente prende
chiunque si svegli dopo diverse ore di sonno, no; Gold non voleva fare
colazione, voleva il pranzo di Natale. Quindi sbadigliò, stese tutti e quattro
gli arti più che poteva, sentendo le articolazioni scricchiolare e aprì per la
prima volta gli occhi.
Erano le
tredici e dodici e anche quel giorno s’era svegliato tardi.
Non era
sveglio in orario per la colazione dal duemilatre. Ma, insomma, fu solo un caso.
Sentiva la
lingua impastata e quindi immaginò quanto pessimo fosse il suo alito ma poco
gl’interessava; mise una mano nei boxer e grattò dove più gli prudeva, poi
rimase qualche secondo in totale silenzio, davanti alla finestra, a guardare la
tempesta.
“Si è rotto
il cielo...”.
Prese
coraggio, si alzò e si lavò, per poi scendere al piano inferiore con le
ciabatte rosa di Marina, quelle con la palla di peluche sulla sommità. La prima
volta che lo vide indossare le sue pantofole, la donna lo ammonì; non voleva
che gliele allargasse ma lui rispose con un rapido sono comodissime, mi pare di affondare i piedi in un paio di nuvolette
rosa. E poi sono sempre in mezzo ai coglioni, le mie non le trovo dal settembre
dell’anno scorso.
Al contrario
di Gold, Marina era molto ordinata ma pareva avesse avuto difficoltà nel
trovare un posto alle ciabatte e, complice il suo essere quasi sempre di
fretta, le lasciava un po’ dove capitava.
Quando fu in
cucina puntò diretto il frigorifero, percependo fuori dal campo visivo la
presenza di qualcun altro. E quando questo accadeva con la televisione spenta
si trattava sicuramente di Silver.
“Ciao, figlio del criminale. Che c’è per
colazione?”.
“Non lo so,
controlla da te, io sto uscendo”.
“Buongiorno
anche a te, primula rossa...” sbuffò,
con un pacco di wurstel in mano. Aprì il pacco con in denti e gliene puntò uno
contro, mentre quello si voltava senza battere ciglio, sfilandogli
silenziosamente davanti e uscendo fuori, tuffandosi nella pioggia torrenziale.
Sbatté la
porta, e poco lui era da solo, con un wurstel crudo tra le mani e le pantofole
strette della sua donna ai piedi.
Si avvicinò
al divano, masticando la sua colazione/pranzo, con lo sguardo di chi stava
pensando a qualcosa d’importante.
Cominciò a
ragionare.
“Allora... Aristarco il musone è appena uscito, Marina è via a disegnare cerchietti attorno ai
Pokémon, Crystal controlla bacche sotto la tempesta e io sono a casa da solo.
La cosa migliore da fare, la più responsabile, è accendere la Playstation e
cercare di sopravvivere a qualche orda zombie”.
E così fece,
col cellulare sulla coscia che sarebbe volato non appena avrebbe dimenticato di
ricaricare l’arma e sarebbe morto, il pacco di wurstel aperto sul cuscino del
divano e la capigliatura di chi non sapeva che venti minuti dopo sarebbe dovuto
correre a prepararsi.
Non appena
sfiorò la miglior serie d’uccisioni che avesse mai raggiunto, infatti, il
cellulare squillò. Sospirò e guardò lo schermo.
“Sconosciuto...”
disse, mettendo il gioco in pausa. Passò una mano tra i capelli e rispose, dopo
aver sbuffato.
“Uffà, ti
avverto, se è uno scherzo in stile chiamata erotica potrei cascarci e stare
veramente al gioco...”.
“Sono Xavier Solomon” sorrise l’altro,
dall’altra parte della cornetta. “E tu
sei sicuramente Gold...”.
“Il tuo nome
non mi dice nulla, fratello” ribatté, prendendo il secondo wurstel e
infilandolo in bocca in orizzontale.
“Quello delle alette, Amarantopoli...”.
“Oh...”.
“Non vorrei disturbare ma...”.
“Ho due,
anzi...” continuò a masticare. “Anzi, tre domande. Uno, voglio sapere chi ti ha
dato il mio numero, due, perché mi hai chiamato e poi...”.
Quello lo
interruppe. “Diciamo che sono bravo a
cercare qualcosa sugli elenchi telefonici...”.
Gold rimase
in silenzio per un attimo. “Il mio numero di cellulare non è sugli elenchi”.
“Ti ho hackerato il profilo Instagram. E ti
ho chiamato perché mi devi aiutare...”.
“Merda! Sapevo che non dovevo cliccare sui link che mi
ha inviato quella tipa mezza nuda!”.
“Ti darò qualche dritta per
difenderti dagli attacchi online, se vuoi...” sorrise l’altro. “Ma
dobbiamo incontrarci”.
Gold rimase
in silenzio. Si alzò, facendo cadere il joystick sul pavimento e avvicinandosi
alla finestra, totalmente coperta da gocce di pioggia. Lo sfondo era di un
grigio assai scuro, mentre il rumore dell’acqua che batteva contro il vetro lo
costrinse subito a tornare al centro del salone. Accese la luce e prese a
camminare nervosamente sul tappeto seguendone il perimetro con pochi passi.
“Che vuoi da
me?” chiese poi quello dagli occhi dorati, serio.
La risposta
non tardò ad arrivare. “Io mi rendo conto
che tu sia coinvolto nella vicenda ma... credimi, non so davvero a chi altro
chiedere, sei l’unico che mi ha mostrato un briciolo d’umanità e in tutta
questa storia sto rischiando più dell’antipatia di Green e Silver...”.
“Sì, loro
sono dei culi pesanti. Comunque dimmi pure”.
“No, non funziona così. I telefoni sono
rintracciabili e qualcuno, proprio adesso, potrebbe ascoltare ciò che ho da
dirti. Ed è una cosa confidenziale... Credo sia meglio incontrarci di
persona...”.
Gold storse
il muso. “Ma sta piovendo, ora...”.
“Gli ombrelli fanno stile ed eleganza, sai?”.
“È che è
rimasto solo un ombrello rosa e...”.
“Hai vergogna di uscire con l’ombrello di tua
sorella?”.
“Mpf!
Vedessi le pantofole che ho ai piedi! Ci vediamo da Harold’s?”.
Percepì
l’altro sobbalzare.
“No! No, no, assolutamente no! Cindy
e Angelo sono sempre lì dentro e non posso assolutamente fidarmi di loro.
Neppure casa mia è sicura, no...” fece, pensando ad alta voce. “Dovremmo vederci da qualche altra parte. Che ne pensi di Azalea?”.
“Odio gli
insetti”.
“Fiordoropoli?”.
“Off-limits
da quando Chiara ha provato ad assaggiarmi. Sai, sono fidanzato, posso guardare
tette solo online, l’accordo con la mia tipa è questo”.
“... Ebanopoli?” chiese poi Xavier, pazientemente.
“Non posso
più andare a Ebanopoli dallo scorso giugno. Sandra mi vuole morto...”.
“Come mai?”.
“È intimo e
confidenziale, potrebbero intercettarci...”.
“... Dimmi tu...” sbuffò l’altro.
Breve pausa.
“Ultimamente un po’ tutti mi vogliono morto. Senti, facciamo Violapoli e non se
ne parli più”.
“Perché Violapoli?” domandò Xavier.
“Ho
un’amica, lì”.
“Ok. E poi?”.
Gold corrucciò
lo sguardo. “Poi cosa?”.
“La terza domanda”.
“Ah, già.
Puoi formattarmi il tablet? Temo sia zeppo di virus”.
“Ehm... dobbiamo organizzarci...”.
- Libecciopoli, Unima, Palestra di
Rafan -
Passo
dopo passo, il calore aumentava sempre di più.
La miniera
sprofondava nel cuore della montagna, dove la luce esisteva solo grazie a
lampade arrugginite collegate da un filo elettrico.
L’odore di
umido diventava sempre più forte e la pietra scavata attorno alla scalinata era
umida e si assottigliava man mano che si scendeva. Le mani di Fiammetta
carezzavano i corrimano incandescenti, li seguiva in tutto il percorso che
collegava la miniera di carbone a quella di diamanti.
Quelli erano
più in basso, non sapeva quanto. Fatto stava che un minuto dopo la scala
s’interruppe. Arrivò al basamento arrugginito e umido, dovette stare attenta a
non scivolare.
Il caldo lì
era terribile. Non riusciva a respirare, non avrebbe resistito per molto in
quelle condizioni. Ma le piaceva.
Avanzò
qualche passo, cominciando a sentire in lontananza i rumori dei macchinari che
scavavano la roccia in punti specifici. Veniva guidata da quelle lampade
consumate dal tempo fino all’ennesimo gate con autorizzazione da badge
elettronico.
Non era
sicura che la tessera di Britney sarebbe stata utile.
Rise,
pensando ai diamanti, e pochi secondi dopo si accorse che la porta fosse
aperta.
Furtiva, la
spinse cercando di non far rumore. Quei cardini erano interamente arrugginiti e
avrebbero fatto voltare chiunque si trovasse nella camera. Quando ci riuscì
vide una gola profonda metri e metri, fin dove le luci pallide non riuscivano
ad arrivare, e carrelli pieni di pietre che certamente non splendevano come
nelle réclame in televisione.
Erano
grezze. A lei interessavano quelle già lavorate e trattate.
Un operaio
dalla grossa pancia e dalla fronte sudata le apparve davanti. Spalancò gli
occhi immediatamente e lasciò cadere il grosso piccone. La sua espressione era
allarmatissima.
“È qui!
Cazzo, è qui, capo!”.
L’uomo prese
a scappare goffamente, nascondendosi dietro a una colonna di roccia.
Fiammetta
rise in maniera sinistra: aveva un nuovo obiettivo.
Tirò fuori
dalla manica la penna che aveva nascosto prima, con la punta ancora sporca del
sangue della receptionist, e la brandì come fosse il più letale dei coltelli
militari.
Prima che un
attacco Iper Raggio le sfiorasse la
mano, andando a finire contro la parete rocciosa in fondo alla galleria.
“Stai ferma,
puttanella… Non so cosa ti sia saltato in mente ma il caldo di Hoenn ti ha dato
alla testa?”.
Fiammetta si
voltò, aggrottando le sopracciglia.
“Rafan…”
fece, mentre guardava il Capopalestra di Libecciopoli. L’uomo manteneva la tesa
del grosso cappello bianco e intanto digrignava i denti, indossando
un’espressione infuriata e acre.
Era nascosto
dietro al suo imponente Excadrill, in posizione di combattimento.
“Quando mi
hanno detto ciò che è successo su, alla miniera di carbone, sono venuto subito
qui”.
“Voglio i
diamanti” rispose l’altra, furiosa. Guardò il volto dell’uomo, sudato e
contrito. Grattava con le unghie le basette ricciolute, castane, in cui qualche
filo bianco cominciava a intravedersi.
Lo vide
ridere, divertito. “Vaneggi… Arrenditi”.
Inclinò la
testa verso destra, Fiammetta, col sorriso inquietante che stentava a lasciare
il suo volto e i sottili e lucidissimi capelli a fare da sipario chiuso.
“I diamanti…
dammeli, e ti ucciderò rapidamente”.
“E perché
mai li vorresti?” tuonò l’altro. “Rocco Petri non riesce più a soddisfare la
tua passerina col suo stipendio da Campione?” chiese poi, provocatorio. Fece
poi per continuare.
“No,
Fiammetta. Non so per quale motivo una donna al servizio della giustizia abbia
deciso di uccidere sessanta uomini in una miniera di diamanti, ma ciò che è
certo è che nessun malintenzionato sopravvive, dopo che io decido che muoia”.
Inclinò la
testa ancor di più, lei. “Vuoi uccidermi?”. La sua voce era languida, gli occhi
parevano pentiti.
“Non
prendermi per il culo!” esplose l’uomo, la cui voce rimbombò nell’intera
miniera.
Quella parve
spegnersi. “Ti ho detto…” sussurrò poi, guardando la mano che brandiva la penna
come fosse un machete. “Ti ho detto che devi darmi i diamanti! E se devo
passare sul tuo cadavere per prenderli sappi che lo farò senza alcun problema!”.
La donna
partì in una corsa forsennata, con gli occhi spalancati e spiritati di sangue,
mostrando i denti come fosse una leonessa; Rafan la guardò, impressionato,
capendo che qualcosa non andasse in lei.
Fece un
passo indietro, lasciando che Excadrill intercedesse, poco prima che quella
saltasse, pronta per affondare la punta nell’orbita sinistra dell’uomo. Ma il
Pokémon del Capopalestra di Libecciopoli la colpì, allungando il braccio destro
e colpendola allo stomaco.
Fiammetta
scivolò lenta in giù, lasciando cadere la penna e ghignando sinistra. Dalle
labbra spaccate cadeva un rivolo di saliva.
“Sei un
fottuto codardo!”.
Gli occhi
dell’uomo erano attoniti.
“Che diavolo
ti è successo, Fiammetta? Non riesco a capire…”.
La vide poi
mettere le mani alla cintura, afferrando una sfera. Se un solo Magmortar aveva
avuto l’effetto di cancellare sessanta vite, i suoi Pokémon dovevano essere
stati addestrati per bagnarsi le zampe di sangue.
Rafan non
capiva. La cosa lo riempiva di rabbia.
“Tu sei una
Capopalestra! Hai delle responsabilità!”.
“Tu invece
dovresti fare ciò che ti dico!”.
L’uomo sputò
per terra. “Mi fai veramente schifo… lurida troia. Excadrill! Mettiamola fuori
combattimento!”.
“Blaziken!”
fece, ridendo follemente. “Uccidiamoli senza pietà!”.
Sudava,
Rafan. La sua fronte era imperlata di sudore, e quando il Pokémon di Fiammetta
si gettò nell’incontro non si accorse d’aver mosso qualche passo indietro,
involontariamente; scioccato, guardava Blaziken muoversi indemoniato verso il
suo Excadrill con le zampe anteriori fiammeggianti. Non erano servite neppure
indicazioni da parte della sua Allenatrice che aveva preso a colpire
l’avversario con foga immane.
Rafan
assisteva alla scena senza capacità di reagire; Blaziken stava colpendo sul
volto il suo Pokémon.
“P-proteggiti!”
tentennò lui, totalmente stupito dalla sua fame assassina: nonostante avesse
assistito e preso parte a migliaia di lotte mai nessuno dei contendenti
combatteva con lo scopo preciso di ammazzare l’avversario.
Lì era
diverso.
Mentre
Excadrill chiudeva il capo all’interno della sua barriera, Blaziken gli colpivo
torace e addome, scarnificandolo e bruciandolo. L’odore che si alzava in quella
miniera era rivoltante.
“Ammazzalo!”
urlava Fiammetta, con gli occhi spalancati e la saliva e il sudore che le
colavano dal mente. Rideva divertita e la cosa faceva rabbrividire Rafan, che
mai avrebbe immaginato una cosa del genere.
Stava
vedendo morire Excadrill davanti ai suoi occhi paralizzati.
“Fermati!”
ribatté Rafan. Cercò di far rientrare il suo Pokémon nella sfera ma le dita di
Blaziken erano ormai penetrate nel corpo di Excadrill e lo stavano bruciando
dall’interno.
“A calci!
Prendilo a calci!” fece l’altra, sempre più divertita, e l’assassino eseguì
vari Calciardente sullo scudo
tanagliato del Pokémon, ormai in fin di vita.
Le mani
dell’uomo tremarono, aveva detto addio alla calma e al sangue freddo.
Il caldo
infernale strappò una goccia di sudore dalla sua fronte. Questa accarezzò il
suo viso ruvido, passò attraverso la barba e si gettò sul labbro inferiore.
Incredulo, capì che Excadrill fosse ormai morto quando riuscì a vedere il suo
volto esanime tra gli artigli ormai indeboliti.
Blaziken si
fermò, affannando, in mezzo a quello spettacolo macabro di sangue e brandelli
di carne, e pezzi d’osso totalmente distrutte.
Fiammetta si
limitava a ridere.
E ridere
davanti a una scena del genere sottolineava quanto in realtà quella fosse
deviata.
“Colpiscilo!”
sbraitò, e bastò un ultimo, tremendo calcio di Blaziken, per far sì che il
corpo di Excadrill fosse diviso a metà, davanti a un inorridito Rafan, che poté
soltanto veder la donna partire con furia omicida verso di lui.
Ma quello
era scosso.
Correva,
lei, gridando come un’amazzone, e poi saltò, colpendo Rafan con un forte pugno
al volto. E poco importava che le nocche della donna si fossero rotte contro il
naso dell’uomo, che urlò e indietreggiò di qualche piccolo passo, senza cadere.
Quella si
massaggiò la mano, detergendo il sangue che era schizzato sulle dita e ridendo
ancora.
“Hai sempre
la solita faccia tosta! Anche qui...” fece la donna. “Da dove vengo io, ti ho
già ucciso una volta”.
Rafan batté
le palpebre più di dieci volte in pochi secondi, con le mani sul naso che
grondava sangue. Si chiedeva di cosa diamine parlasse. La vedeva avvicinarsi
con prepotenza, lentamente, brandendo ancora la Staedler nella mano sana.
Subito dopo, la punta attraversò la trachea dell’uomo, che indietreggiò per
un’ultima, patetica volta, prima di sbattere con la schiena contro la parete.
I loro occhi
stavano intrecciando una trama fitta e profonda di sguardi; in quelli di Rafan
girava in loop la scena della furia di Blaziken, ormai mansueto alle spalle di
quella donna che lo aveva, di fatto, ucciso.
Il sangue
era troppo. Sentiva le forze venir meno, e quando quella lo colpì con un calcio
sul ginocchio, non riuscì più a rimanere in piedi.
S’inginocchiò.
E la cosa, forse, gli faceva ancor più male.
Quella si
piegò davanti a lui, sentendo il suo respiro greve, ormai sempre più distante
da quello precedente. Sorrise maliziosa e gli leccò la guancia, interamente
ricoperta dal suo sangue.
Si sporcò le
labbra e il mento. Poi prese un respiro e parlò, sottovoce.
“Non credo
che ci vorrà molto… Se collabori potrei addirittura non farti soffrire molto”
fece, ammiccando e poi ridendo con una tale ingenuità da far riaccendere la
fiamma della rabbia nel petto del Capopalestra di Libecciopoli che, per tutta
risposta, le sputò sangue denso e grumoso sul volto.
L’altra
sorrise e Rafan non poté far altro che contare i secondi che gli erano rimasti,
mentre il cuore batteva. E l’ansia cresceva, perché sapeva che sarebbe successo
qualcosa che avrebbe posto la parola fine
ai suoi giorni.
Sempre più
lento, faceva per spegnersi, sperando nell’intervento di qualcuno dei suoi
minatori, o del padreterno. Bastò un decimo di secondo per rendersi conto del
fatto che aveva vissuto la sua vita senza provare alcuna paura per la morte. E
poi, quando quella s’era presentata davanti a lui per concludere il tutto,
d’improvviso si ravvide.
Voleva
vivere.
Lacrime
amari cominciarono a rigare il viso rosso sangue.
“Ti… ti darò
i diamanti…” fece. Tentennarono tra i denti, quelle parole, mentre Fiammetta
tornò seria, continuando a fissarlo in maniera sinistra.
“T-ti prego…
Ti darò i diamanti, l’oro… ma devo andare in ospedale!” urlò. Nel caldo della
miniera, l’eco delle parole di Rafan parve rimbombare per giorni interi.
“Sei
patetico” ribatté l’altra, che gli sputò a sua volta sua viso e, in un
frangente, affondò nella tempia sinistra con la penna.
E Rafan
ricadde per terra, in una pozza di sangue e urina.
Era morto.
Fiammetta fu
quasi chirurgica nell’estrargli rapidamente il grande coltello a serramanico
che spuntava dalla tasca destra del Capopalestra. Non ebbe neppure il tempo di
apprezzare il rivestimento in pelle di coccodrillo che lo aprì e recise la mano
destra dell’uomo, non senza fatica.
Si rialzò,
con le ginocchia che grondavano di quel liquido caldo e rosso che ancora
fuoriusciva dalla testa di Rafan, e afferrò il grosso indice, attorno al quale
era stato infilato un grosso anello d’oro, che sfilò e mise tra il pollice e
l’indice della mano con le nocche spaccate.
E pochi
secondi dopo era davanti alla porta blindata, alla fine del corridoio; Blaziken
la seguiva, col respiro pesante e gli artigli che grondavano sangue. Il corpo
di Rafan era immobile diversi metri indietro quando la donna, sinuosa come
sempre, poggiò la mano che aveva reciso sullo scanner di sicurezza.
PERMESSO ACCORDATO
La donna
entrò nel caveau buio della miniera dove, in grosse montagnole alte più di tre
metri, risplendevano dozzine e dozzine di diamanti.
- Johto, Violapoli, sede del Centro
Ranger di Johto –
“Sei zuppo”
osservò Marina, seduta dietro la sua scrivania e otturando col palmo della mano
il microfono del telefono. Quando Gold era entrato nel suo ufficio, pochi
secondi prima, lei era nel pieno di una conversazione con uno dei suoi
sottoposti.
“Me ne sono
accorto, Sherlock…” ribatté l’altro, levando le scarpe bagnate e camminando coi
calzini fradici sulla moquette. La guardò e sorrise sottecchi: era davvero
bella, quando lavorava; forse era per via del tailleur blu che ben le si
poggiava sulle spalle.
Le spalle
delicate di Marina.
Ripensò per
un attimo a qualche notte prima, lei su di lui, lui seduto a stringerle il seno
destro e a baciarle la schiena, che faceva da cielo candido ai piccoli nei che
lui amava.
Per un
attimo si perse nel suo sguardo color nocciola, nascosto dal carré castano.
Ben
pettinata, lei, sempre elegante e con l’espressione di chi non avesse tempo da
perdere.
Quasi non
gli dava neppure più fastidio pensarsi innamorato di lei.
Marina
intanto lo guardava con lo sguardo corrucciato, mentre dall’altra parte della
cornetta un suo sottoposto continuava a parlare ignaro.
“Cosa c’è?!”
sussurrò poi, visibilmente contrariamente. “Sto lavorando!”.
Di tutta
risposta, Gold abbassò lo sguardo e si sedette sulla poltrona davanti
all’ordinatissima scrivania, levando i calzini e gettandoli accanto alla porta.
La donna si
limitò a sospirare, nascondendo gli occhi dietro il palmo della mano libera.
Poi annuì.
“Sì, ho
capito. Ma ci dobbiamo riaggiornare, adesso devo andare. Ciao”.
Attaccò,
sbuffò e lanciò il cellulare accanto al mouse, che si spostò di qualche piccolo
centimetro e lasciò che il monitor si riattivasse, illuminandole il volto.
“Gold…” fece
poi, alzandosi. “Non puoi presentarti in ufficio così… Avrei potuto avere delle
persone davanti”.
Quello fece
spallucce. “E allora?”.
“E allora
sei entrato, hai lanciato le scarpe lì…” fece, puntando l’indice verso il paio
di Adidas accanto al vaso con la zania. “… e hai interrotto la mia telefonata.
Non è il modo adatto” concluse, appuntendo il viso.
Gold le fece
una smorfia, prima di ruotare gli occhi verso l’alto e fare un gesto con la
mano.
“Come no.
Sei sempre sola… O sbaglio?” chiese poi, aggrottando la fronte. “Cos’è?! Avevi
paura che ti beccassi col tuo amante?!”.
Marina si
stropicciò gli occhi e sbuffò, facendo cenno di no con la testa. “Io con un
amante… Tu basti e avanzi. Tu piuttosto, con tutto quel tempo libero…” ribatté
lasciva, inarcando un sopracciglio.
“Io cosa?”.
“Chiara,
Sandra, Jasmine… Yellow”.
“Momento,
momento, momento, momento, momento… Io non ho mai fatto nulla con queste donne.
Purtroppo”.
Marina, che
aveva abbassato lo sguardo, puntò gli occhi increduli sul ragazzo, che fece
spallucce.
“Cioè, ho
visto solo i mammelloni di Chiara, ma
non ci ho fatto davvero nulla”.
“Almeno non chiamarli
così…”.
“Sono
esattamente come quelli del suo Miltank” aggiunse..
“Gold…”
“Sono pieni
di latte… Quelli di Miltank, intendo”.
“Gold!”
esclamò l’altra, inarcando un sopracciglio e allargando le braccia. Gli lanciò
un blocchetto contro e scatenò in lui una risata divertita. Lo vide alzarsi e
girare attorno alla scrivania, per abbracciarla.
E quando lo
fece, Marina si ricordò che quello fosse fradicio.
“Ma no! Il
tailleur!” esclamò, spintonandolo. “Che cavolo sei venuto a fare?!”.
“Anaffettiva.
Ho un appuntamento con un tizio, qui a Violapoli”.
Marina lisciò
la camicia e si risistemò sulla sedia. “Chi?”.
“Un tipo…”.
“Un tipo coi
mammelloni?”
Gold rimase
a fissarla per qualche secondo, quindi storse le labbra.
“Effettivamente
è un termine orribile. Aboliamolo”.
“Mi trovi
totalmente d’accordo” ribatté quella, spostando i ciuffi corti di capelli
dietro le orecchie. Prese un foglio dal primo cassetto e cominciò a leggerlo.
“Comunque, chi è?”.
“È una sorta
di genio… un inventore”.
“Interessante…”
annuì lei, seguendo la lettura del documento con l’indice smaltato..
“Sì, ha un
laboratorio ad Amarantopoli e credono che sia lui l’autore del furto del
cristallo di Hoenn”.
La donna si
bloccò, col dito fisso sul foglio, e lo guardò. “In che senso?”.
Gold alzò
leggermente le spalle. “Da Green. Il Cristallo
del Caos, o come cavolo si chiama…”.
“Perché devi
incontrarlo? Da solo, per giunta… No” fece poi, favorendo il suo concetto
scuotendo la testa. “Sei anche da solo, stai per fare una cazzata. Chiamalo
e…”.
“Ma lui è
innocente!”.
La voce del
ragazzo rimbombò nell’ufficio e fu efficace abbastanza da fermare la predica
della donna. Lasciò che quello continuasse. “Angelo ha convinto Silver ad
approfondire la posizione di Xavier ma tra i due non corre buon sangue...”.
interruppe prontamente lui.
“Com’è che
lo chiamano? Conflitto d’interessi?” chiese quella.
Gold abbassò
lo sguardo. “Non è colpevole. Non è stato lui a rubare la pietra di
Crystal...”.
Marina
sorrise, riconoscendo in lui della genuinità più che pura. “Come lo sai?”.
“Io... lo so
e basta. Lo sento a pelle” fece, sgranando le pepite che aveva al posto degli
occhi.
Qualcuno
bussò alla porta.
“Avanti”
fece Marina, incrociando le braccia sul petto. Entrò un giovane Ranger con dei
documenti in mano. Aveva i capelli scuri, ben pettinati sulla destra e gli
occhi celesti.
“Buongiorno,
Direttrice… questi sono gli ultimi rapporti da Fiorlisopoli e Olivinopoli”.
“Grazie”.
L’uomo uscì
e Gold continuò a parlare, ma quella era concentrata sull’incartamento che
aveva appena ricevuto, seguendo come faceva sempre la lettura con l’indice.
Poi si
fermò.
“Oh… porca
puttana…” sussurrò, interrompendo l’altro.
“Ehm… Ti si
è rotto il dizionario. Ora parli come me…”.
“No, Gold
non è il momento, devi lasciarmi lavorare. Abbiamo un gran bel problema”.
Scattò
subito in piedi, girando attorno alla scrivania, raccogliendo le scarpe e
sollevandolo di peso. “Ci vediamo dopo a casa” continuò, dirigendolo verso la
porta
“Non
spingermi, ho capito! Esco!”.
“Ti chiamo
io” disse, dandogli un bacio sulle labbra e lasciandolo scalzo davanti alla
targa col suo nome.
“Almeno puoi
ridarmi i calzini?!”.
Pochi minuti
dopo, Gold era per strada.
La pioggia
non accennava a diminuire e lui, sotto l’ombrello rosa che aveva trovato a
casa, camminava lentamente, con le cuffie nelle orecchie; Travis Scott cantava Goosebumps, mentre una coppia di
ragazzine appena uscite da scuola divideva un ombrello e scappava verso casa.
Si chiedeva
per quale motivo stesse piovendo da così tanto tempo; guardò il cielo e
sospirò, vedendo le nuvole rimestarsi con fame vorace, per poi trasformarsi in
un agglomerato nero e denso, illuminato in punti isolati da fulmini in attesa
di schiantarsi al suolo.
E poi solo
il rumore della pioggia. L’acqua scorreva lungo i canali di scolo laterali,
abbondante e veloce, prima di finire nei tombini ormai stracolmi.
Stava per
raggiungere il Centro Pokémon quando il suo Pokégear cominciò a suonare. Lo
squillo rimbombò lungo l’intera piazza principale, disturbando il canto
prepotente della pioggia.
“Pronto” rispose Gold.
“Non è gentile far aspettare una ragazza
carina come me al primo appuntamento” faceva Xavier, con la voce disturbata
dalle interferenze e dalla pioggia.
Gold
sorrise. “Immagino debba offrirti un buon drink, per scusarmi…”.
“Sono più tipa da alette di pollo”.
“Ecco perché
volevo uscire con te” ribatté Gold, stringendo il manico dell’ombrello e
guardandosi intorno; tutto era buio; nonostante fosse mattino inoltrato il sole
stentava a presentarsi.
Xavier
sorrise. “Dove sei?”.
“Fuori la
sede Ranger, a Violapoli”.
“Dalla tua amica?”.
“Già. Dove
ti trovi?”.
Un attimo di
pausa.
“Torre Sprout”.
“Il luogo
più tetro della città. Meraviglioso. Durante un temporale, poi... la prossima
volta scelgo io il posto”.
“L’ho scelta soltanto per prendermi qualche
abbraccio in più da te. Sai, tu mi dai la tua giacca, io mi metto vicino a
te...”.
“Sto arrivando…”.
“E dici alla tua amica che sono
gelosa”.
*
Marina era
tornata rapidamente alla scrivania.
L’odore di
Gold era ancora nell’aria ma lei era del tutto concentrata sui documenti che
aveva davanti.
“Incredibile…”
sospirò, alzando la cornetta del telefono e reggendola tra l’orecchio e la
spalla. Premette il tasto 9 e ritornò a guardare quei dati preoccupanti, prima
che il segnale del telefono si trasformasse nella voce di suo fratello.
“M-martino.
Ciao”.
Non si rese
conto di aver tentennato. La mano destra prese a tremare involontariamente.
“Oi, sorellina. Come stai?”.
Non appena
sentì la voce di quello si alzò nuovamente in piedi e si parò davanti alla
finestra, come faceva usualmente durante le telefonate. Da lì aveva una
perfetta visuale della piazza centrale di Violapoli, inerme sotto la tempesta e
svuotata delle persone. Un paio di ragazzine condividevano l’ombrello e si
muovevano verso est, mentre quello che doveva essere probabilmente Gold, con
l’ombrello rosa, pareva essersi fermato accanto alla grossa statua raffigurante
Bellsprout.
“Marina?”.
“Sì. Ti sto
prenotando un biglietto nave”.
Un disturbo
sulla linea non permise alla ragazza di ascoltare la reazione di sgomento del
fratello.
“La
perturbazione ha portato problemi?”.
“Ne porterà
di più l’uragano che si sta spostando dalle Isole Vorticose...”.
“Quello…
quello non è il posto dove è…”.
“Sì. Lì
riposa Lugia”.
“Fantastico…”.
*
Xavier
attendeva pazientemente Gold all’ingresso della struttura. Indossava un paio
d’occhiali da vista con la montatura classica e un cappello con visiera blu. Un
paio di ciuffi biondi fuoriuscivano di lato e si univano alla leggera barba,
che non radeva da qualche giorno.
Era stretto
nel suo soprabito beige, accanto al montante sinistro della porta d’ingresso.
Gold lo vide
e gli si avvicinò repentino.
“Sembri il
maniaco perfetto” gli disse, stringendogli la mano.
“Eviterei di
entrare, questo posto è pieno di svitati. Però è sicuro che nessuno ci
disturberà”.
E varcarono
la soglia.
Gold mosse i
suoi passi in un ambiente parecchio buio, illuminato da torce sul muro e, di
tanto in tanto, qualche lampadina ad incandescenza. I monaci che vivevano
all’interno di essa avevano deciso di limitare gli interventi di
ammodernamento, gestendo minuziosamente gli innesti per il sistemi idraulico e
quello elettrico, oltre che per le varie tubature di servizio.
Quella torre
era pressoché identica a quando era stata costruita.
“Bene,
allora...” Gold fece per parlare, proprio davanti al pilastro nell’atrio,
quando Xavier lo interruppe.
“No, qui c’è
ancora troppa gente... Saliamo ai piani superiori”.
Gold sgranò
gli occhi. “Gli svitati al piano di sopra sono più svitati di quelli del piano
di sotto”.
Xavier si
limitò ad annuire, prima di aprire la strada. S’incamminarono sul pavimento
polveroso di legno, dove milioni di passi s’erano già accalcati. Persone
curiose ed Allenatori intenti a lottare guardavano la coppia di ragazzi salire
le scale verso il piano superiore e poi quello sopra ancora.
Una volta
lì, raggiunsero un grande finestrone, mosaicato, dove anche la fioca e debole
luce esterna rischiarava l’ambiente, con un sentore opaco che arrivava fino a
un paio di metri da loro.
“Ok” sospirò
Gold “Se provassi a molestarmi qui nessuno ci vedrebbe... Puoi dirmi che
diamine è successo?”.
“Mi credono
colpevole, Gold, ma sono palesemente innocente...”.
Gold scrutò
il suo sguardo azzurro e sospirò. “Credo ci vogliano delle... prove, o altra
roba del genere...”.
“Ho le mie
telecamere, Gold! Ma Angelo sta dirottando la Commissione della Lega contro di
me perché gli sto sul cazzo!”.
Il Dexholder
sgranò gli occhi e, soltanto con lo sguardo, gli chiese di continuare. Ma
Xavier non capiva. “Che vuoi?”.
“Uff...
Perché gli stai sul cazzo? Non mi sembra il tipo che si comporta in questo
modo”.
“Perché sua
moglie è innamorata di me e a lui, chiaramente, la cosa non sta bene”.
Gold
spalancò gli occhi. “A-ha! Lo sapevo che c’era qualcosa tra voi due!”.
“È molto
complicato, Gold, non voglio perder tempo a spiegare questo fatto”.
“Però potrei
capire come mai vi stavate uccidendo, ieri, alla tavola calda”.
“Io e Cindy
siamo cresciuti assieme. Ero totalmente innamorato di lei, dieci anni fa. Mi
dichiarai, lei mi disse sì ed il giorno dopo andò con Angelo. Poi si pentì.
Ora, la cosa è delicata...”.
Xavier guardava
in basso e sospirava, con le mani strette nei pugni.
“Sei uno
stronzo” ribatté Gold.
L’altro
spalancò gli occhi e lo fissò subito. “Prego?”.
“Non
fraintendermi, non per giudicarti... anzi sì, sei proprio uno stronzo”.
“... Temo di
non comprendere...”.
“Non capisco
rovinarsi la vita da soli! Se tu vuoi lei e lei vuole te perché non te la vai a
prendere?!”.
L’altro
scosse la testa energicamente e levò gli occhiali, fermandoli al colletto della
maglietta.
Alzò
l’indice della mano destra.
“Punto
primo: ho una dignità!” urlò, alterato. “Se mi rifiuti, dopo non ti accetto! È
una questione di principio! Punto secondo: non voglio che Angelo mi renda la
vita impossibile”.
“Al massimo
ti troveresti Linda Blair che ti aspetta nel bagno”.
Xavier sorrise,
improvvisamente divertito. “Lui e quei fantasmi…”.
“Sai, avevo
intuito non ti stesse simpatico”.
“Arguto. Ma
comunque, il suo risentimento sta spingendo Silver e Green a pensare che io
possa avere un qualsiasi ruolo in questa vicenda”.
“E tu non
vuoi entrarci, ovviamente…” ragionava l’altro, con la mano che si massaggiava
la mandibola.
“Nessuno
dovrebbe entrarci, se non il responsabile!”.
Respirava
profondamente, Xavier. Sgranò gli occhi e deterse il sudore della fronte con la
manica. Poi cadde il silenzio.
Gold lo
guardava, storcendo le labbra verso destra e incontrando il suo sguardo.
“Io sono
innocente…” continuò il biondo. “Non ho fatto nulla, ho le immagini delle
videosorveglianza che lo testimoniano, ma temo che Angelo possa andare oltre la
sua etica professionale e sabotarmi”.
“Angelo non
lo farebbe mai... Se non fosse stato per lui sarei morto qualche anno fa...”.
“Come ti
pare, ma credo che se mi avesse sotto mano mi ucciderebbe”.
“Potrebbe
farlo anche a distanza, credo. In ogni caso perché sono qui?”.
Xavier annuì
e smontò lo zaino dalla spalla. Lo aprì e tirò fuori una chiavetta USB. “Qui
dentro c’è una copia delle riprese delle mie telecamere, da due giorni prima
del fatto a due giorni dopo”.
Gold la
prese, fissandola attentamente. “E perché la dai a me?”.
“Perché se
mi succedesse qualcosa, se mi arrestassero, tu potresti scagionarmi. Ed il tuo
nome è chiaramente più noto del mio”.
Gold rimase
serio per qualche secondo, prima di annuire e infilare il dispositivo nella
tasca.
*
Si dileguarono
pochi secondi dopo, uno andò a est e l’altro a ovest.
Gold guardò
sparire Xavier oltre un angolo e s’incamminò verso lo stazionamento dei
pullman. Quello che lo avrebbe portato a casa sarebbe passato sette minuti
dopo, ma prima il temporale aveva deciso di aggredire Violapoli e a lui non
rimaneva che ripararsi sotto il suo ombrello rosa. Il vento alzava piccole
gocce d’acqua da terra, che finivano dritte sul suo volto.
Quando le
porte del ventitré si aprirono i suoi jeans erano quasi del tutto impregnati
d’acqua. Chiuse l’ombrello e lo trascinò rumorosamente fino al sediolino,
sbuffando e sperando che il tragitto che lo avrebbe portato a casa si fosse
tutto a un tratto dimezzato.
Non fu così,
ovviamente.
Nonostante
fosse appena ora di pranzo, la luce era così poca da costringere il pilota ad
accendere i neon di servizio all’interno dell’abitacolo. Quell’incontro lo
aveva improvvisamente riempito d’angoscia.
Capitava
poco spesso, ma ogni tanto vaniva attaccato da quella sensazione così greve e
persistente. L’ansia gli riempiva il petto, qualcosa premeva per uscire proprio
tra i polmoni.
Stava male.
Poi infilava
le cuffiette e tutto si dissipava.
Ripensò a
Xavier e alla sua situazione; si fidava di lui e non voleva che venisse
incriminato per quella storia.
Durante il
tragitto strisciò più volte la mano sulla tasca per accertarsi che la chiavetta
fosse ancora lì, e quando arrivò fuori casa, aprì la porta col preciso intento
di salire in camera sua e nasconderlo in un posto sicuro.
Sennonché,
una volta spalancato l’uscio, si accorse che Green, Red, Blue e Yellow erano
seduti sui divani del salotto. Silver era in piedi accanto alla poltrona,
mentre Crystal era poggiata al muro accanto al camino.
Tutti lo
guardarono.
Gli occhi
del ragazzo però si focalizzarono su Red.
“E tu che ci
fai qui?”.
Red rimase
serio, al contrario di quello dagli occhi d’oro che dipinse un leggero sorriso
sul volto. Gli si avvicinò e gli strinse la mano, poi diede un bacio sulla
guancia a Yellow.
Gli altri
due si limitò a salutarli con un gesto della mano.
E quando il
suo sguardo si poggiò su quello di Silver, l’altro sbuffò.
“Dove cazzo
eri?”.
Tutti
rimasero in silenzio.
“A
Violapoli, da…”.
Non poteva
rivelarlo. Non a loro.
“… Marina”.
L’altro
represse malamente un sorriso stanco e allargò le braccia. “Sono giorni che
stiamo sbattendo la testa contro il muro per cercare di capire dove sia finito
quel dannatissimo cristallo e tu esci divertirti… Potresti quantomeno aiutare…”.
Sbottava in
quel modo, Silver. Senza urlare.
“Guarda che
non sono andato a cazzeggiare!”.
“Calmati,
Gold” esordì Red. “Non serve a nulla scaldarsi. Stiamo cercando una
soluzione…”. Il ragazzo
lo guardò e sospirò, portando le mani ai fianchi.
“Il fatto è
che non riusciamo a capire quale sia il problema” continuò il primo. “Tutta
l’Unione Lega Pokémon sta lavorando su questa storia ma non riusciamo a venirne
a capo... Abbiamo rivoltato l’intera Kanto, cercando indizi o almeno qualcosa
che gli assomigliasse ma non è servito a nulla. Tu sei sicuro di non avere
qualche idea?”.
“Ho provato
a dire a Clint Eastwood, lì, che forse un modo per trovare una pista c’era…”.
Green lo
fissava serio. “E quale sarebbe?”.
Gold sospirò
e gettò l’ombrello bagnato per terra, quindi, sotto gli occhi di tutti, scavalcò
Silver ed entrò in cucina, aprendo il frigorifero.
“Sta
mangiando?” domandò Yellow, confusa.
Lo videro
prendere una lattina di Coca Cola. Tornò in salotto, aprì la bibita e prese un
sorso, poi si sedette sul bracciolo della poltrona dove c’era Yellow, scippando
il telecomando del televisore dal tavolino.
Lo accese.
Blue
sorrideva, estremamente divertita. Silver invece sbuffò, allargando le braccia
e voltandosi. “Non ci credo… ora lo ammazzo…”.
“Ma che fai?!” sbraitò Crystal. Quello cambiò
canale tre, quattro volte, prima di sospirare.
Lasciò poi
cadere il telecomando tra le mani di Yellow e prese un altro sorso di cola.
“Ecco fatto”
fece. “Problema risolto”.
“Qui Tea.
Siamo appena arrivati a Libecciopoli, sotto una tremenda tempesta. Come vedete
la Palestra di Rafan è accerchiata dalle autorità, che sono entrate più di
mezz’ora fa dopo l’allarme dato da uno dei pochi minatori sopravvissuti al
grande incendio che imperversa alle mie spalle. L’incendio, pare sia di natura dolosa.
Dalle prime indiscrezioni sembra che una persona si sia introdotta fino al
livello più basso della Palestra con l’intento di rubare i diamanti...”
Silver spalancò
la bocca e portò le mani alle tempie.
“Siete
troppo carichi. Pensiero laterale, cocchi…” fece Gold, mentre i quattro più
grandi gli si pararono alle spalle
“Silenzio”
ribatté Green.
“Tuttavia,
quella che doveva essere una rapina si è rivelata essere una strage: il
malfattore ha ucciso settantatré persone, distrutto la miniera di carbone e...
un momento, ci arrivano altre informazioni: ecco, sembra che anche Rafan sia
rimasto ucciso. Rafan è morto, è stato ritrovato il suo cadavere, ve lo
confermiamo in esclusiva”.
“Oh porca
puttana!” esclamò Green, prendendo immediatamente il cellulare. Spalancò la
porta e si gettò sotto la pioggia, allontanandosi.
“Abbiamo
appena ricevuto un’immagine dalle riprese del circuito interno della Palestra
che mostra il volto dell’autore della rapina ed è... oh. Non ci posso credere...”.
Tutti i
presenti spalancarono occhi e bocca.
“Questo è parecchio
strano” sussurrò Gold.
“Quella
donna assomiglia incredibilmente a Fiammetta Moore...”.
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