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TSR - 8 - Montecristo No. 2

8. Montecristo No. 2


 Adamanta, Timea, Uffici della Omecorp

“Sembra che piova da un anno. In questo posto piove sempre” rideva Fiammetta, quella strana ed emaciata versione stesa sui divanetti degli uffici della Omecorp. Aveva le gambe spalancate e il maglione era salito in alto, scoprendole la pancia. Subito dopo, un tuono preannunciò una nuova fase della tempesta, in cui l’acqua batteva così radente da limitare la visibilità a un palmo del naso.
Nessuno voleva uscire con quel tempo, ma sia le altre due Generali dell’Omega Group che gli stessi Lionell e Linda erano concentrati su quello che sarebbe dovuto accadere nelle ore successive.
Soprattutto l’uomo, che guardava fisso negli occhi Jasmine mentre le spiegava il piano. Delle tre le sembrava la più lucida.
“Non è molto difficile, mie care signore. Volete che vi ripeta qual è la situazione?” domandò. Linda era in piedi accanto a lui, e si limitò a sospirare, prima di eclissare la poca luce che entrava nella stanza dall’esterno. Guardava Jasmine fare cenno di no con la testa, e Fiammetta, una più che infantile Fiammetta, allungare le mani verso l’alto, con la schiena contro i sedili del Plume Blanche. Sandra invece le sembrava non riuscire a mettere a fuoco ciò che aveva davanti agli occhi; rimaneva immobile, con lo sguardo spento e la bocca leggermente schiusa, come se fosse sotto l’effetto di un potente allucinogeno.
“Il chip…” sussurrò poi, attirando a sé lo sguardo di Jasmine. Distolse subito lo sguardo e strinse i pugni, ritirando le belle labbra nella bocca.
La Capopalestra di Olivinopoli distolse poi lo sguardo dalla collaboratrice del nuovo capo e sospirò.
“Sì, è tutto chiaro” fece, facendosi portavoce delle tre.
Fiammetta si mise a sedere e sputò per terra.
“Per recuperare il cristallo abbiamo bisogno di… com’è che l’ha chiamato?” sorrise, divertita.
“Personale operativo” ripeté Lionell. “Uomini, per riuscire a lavorare in maniera veloce ed efficace”.
“Basto da sola per ammazzare quei quattro stronzi” ribatté.
“Quei quattro stronzi, come li chiami tu, sono Allenatori fin troppo abili… Già hanno sventato il mio piano una volta, e sono stato catturato e imprigionato. Non voglio che riaccada, e non lo permetterò”.
“Ha bisogno di mercenari” ribatté Jasmine, con una delicatezza totalmente fuori luogo.
“I mercenari sono stronzi!” urlò Fiammetta, ridendo istericamente.
Linda sospirò e gli si avvicinò.
“Loro troveranno i soldati?” domandò poi, catturando lo sguardo dell’uomo, che fece cenno di no con la testa, più serio che mai.
“Loro troveranno i soldi con cui li pagheremo”.
“Rubare…” esordì Sandra, battendo subito dopo le palpebre, come se fosse resuscitata in quell’istante. Il suo volto e il suo sguardo, da distesi e obnubilati che erano, s’incresparono, indurendosi: gli occhi si celarono dietro le palpebre stanche, tranne che per una linea sottile, mentre la fronte si corrucciava e richiamava le sopracciglia ad avvicinarsi tra loro.
“Esattamente. Tre rapine ben congegnate” replicò Lionell.
Jasmine fece cenno di no, incrociando le braccia sotto al piccolo seno.
“Non cadrò così in basso”.
Fiammetta invece scattò in piedi, saltellando divertita. I lunghi e curatissimi capelli danzavano sinuosi. “Sì! Mi piace! Rubiamo tutto!”.
Linda si avvicinò alla stampante e raccolse i tre fogli che aveva precedentemente stampato, distribuendoli alle tre. Con Fiammetta fu più cauta.
Jasmine guardò i fogli e assunse un’espressione di marmo. Lionell catturò poi la sua attenzione.
“Ci sono tre punti cardine su cui focalizzare le nostre operazioni, e adesso ve li illustrerò…”.
“Punti cardine…” ripeté Sandra.
“Il primo luogo da ripulire è la Miniera di diamanti di Libecciopoli… Quella è anche una Palestra, il responsabile è Rafan…” continuò Linda. Lionell si lisciò i capelli con le mani e sospirò.
“Non sarà semplice ma il rischio è proporzionato alla resa”.
“Preso!” urlò subito Fiammetta, alzandosi in piedi e saltellando felice. Concluse con uno yoohoo euforico.
“Il secondo colpo…” continuò Linda, fissando la rossa di Cuordilava “… è il Museo delle Rovine d’Alfa, tra Violapoli e Azalina, a Johto. Vi sono antichissimi bassorilievi molto richiesti sul mercato nero e potremmo intascare facilmente qualche milione”.
“Jasmine” ribatté subito Lionell, guardandola. “Qui ci muoviamo nella tua regione… le tue conoscenze del luogo credo che facciano di te la candidata migliore…”.
“E sia”.
Linda concluse. “A Sandra credo rimango la banca d’Aranciopoli, una delle più ricche dell’intera nazione”.
“Devo rubare dei soldi?”.
“Sì. Non avrete alcun tipo di appoggio finanziario ma sarete messe in condizione di gestire le singole operazioni a modo vostro. Al termine di queste ci concentreremo su come prendere il cristallo di Arceus. Tutto chiaro?”.
Linda le vide annuire, tutte. Lionell le congedò e sorrise, chiudendo gli occhi per provare a recuperare un po’ di pace, quindi allargò il nodo alla cravatta e aprì i primi due bottoni della camicia.
Respirò. Era piacevole.
Poi si alzò, avvicinandosi al divanetto dove era stesa Fiammetta, e si sedette lentamente. Le gambe erano indolenzite e lui riuscì a stare per poco tempo teso in avanti, cercando con lo sguardo una scatola di mogano finemente intarsiata. La raccolse e si abbandonò contro il morbido schienale. Vi era rimasto l’odore pungente di Fiammetta. Linda invece si mosse lentamente, andando a sedersi dietro la scrivania, al posto del capo. Vide Lionell aprire la scatola ed estrarne un grosso e aromatico sigaro. Il profumo profondo s’espanse rapido per tutto l’ufficio.
“Spero che vada tutto per il meglio. Ti va di fumare?”.
“No” ribatté l’altra, fissandolo mentre mozzava la testa del lungo sigaro con un tagliasigari in platino. LW era inciso sulla superficie splendente.
“Come profuma… Ricordi di altri tempi”.
Inserì l’estremità del preziosissimo sigaro nel mozzatore e la tagliò via, permettendo lo sprigionarsi dell’aroma di tabacco assieme a quella del legno.
“Sai... questo sigaro è l’espressione della vita. Immagina, un Montecristo numero due, proveniente dall’America Centrale, una di quelle isolette piene di belle donne e palme da cocco, con la sabbia bianca e il mare cristallino. Il mio sogno era imparare a pescare, trasferirmi lì, magari  fare lo scrittore, ma sto divagando... questo sigaro è unico. Ogni pezzo viene rollato a mano da professionisti. Lo chiamano Montecristo perché per anni è stato letto proprio Il Conte di Montecristo ai roladores, e questi adorano quel libro”.
Linda spostò una ciocca dallo sguardo e cercò di comprendere il nesso con tutta quella faccenda, ma non riusciva a trovare il cardine di tutto ciò che ascoltava. Lo sentì continuare.
“Anni fa avere tra le mani questo bastoncino di tabacco aromatizzato significava partire per un viaggio che ti avrebbe cambiato per sempre; un number two era assolutamente il miglior sigaro in circolazione. E tutti cominciarono a capire che, se davvero volevano apparire i migliori, dovevano mostrarsi con questo sigaro tra le labbra. Sai che significa ciò?”.
Linda fece cenno di no, alzando le spalle.
“Significa che la domanda crebbe, e quella che prima era una piccola baracca dietro una grande piantagione di tabacco nella Repubblica Dominicana diventò una fabbrica. I soldi affogarono quella lentezza di produzione quasi mistica e spirituale, le macchine aumentarono la lavorazione e il risultato di oggi è che un due appena comprato sa di merda”.
“E quindi?” ribatté quella.
“Beh, quindi capita che ti ritrovi tra le mani una situazione complessa e dall’alto potenziale, qualcosa che ti potrebbe cambiare la vita. Ma, proprio come per questo sigaro, delle volte potresti ritrovarti con del tabacco puzzolente a bruciarti nei polmoni”.
La donna sorrise divertita. “E nonostante ciò tu rischi e continui a comprare quei Montecristo?”.
“No” emulò il sorriso lui. “Questi sigari sono conservati in questa scatola da più di vent’anni, quando ancora non c’era tutta questa disponibilità. Oggi un numero due puoi trovarlo anche in bocca ad un benzinaio. No, no... Venti, trent’anni fa, un numero due era soltanto per le persone che frequentavano alti ambienti. Quindi, tesoro, questo Montecristo è perfetto. Già so che adesso, accendendolo, sentirei il legno aromatizzato, il tabacco speziato e quel leggero sentore di cuoio, che fa di questo sigaro il migliore del mondo. Ma, cara mia, questo significa che bisogna analizzare ogni situazione e comprendere, quando davvero ce n’è bisogno, che anche l’occasione più vantaggiosa, alla fin fine, possa essere un flop terribile”.
Linda lo vide prendere un grosso accendisigari dalla scatola di legno e bruciare la prima parte, tirando ampie boccate. Lionell sentiva tra le guance quell’aroma inconfondibile, pastoso sulla lingua e leggero nei polmoni. Tirò fuori quella boccata, con velocità, creando una nuvola di fumo grigio davanti agli occhi color verdi della donna.
“Profuma molto...”.
“Lo so. Ma non a tutti piace”.
“Tu temi che tutta l’operazione possa essere un flop?”.
“Forse sì. O forse no. Magari il Montecristo Numero Due sarà davvero perfetto se aspirato da quelle tre giovani bocche. Altrimenti sarà il solito mucchio di tabacco scaduto marcito tra le dita di qualche pazza. Vedremo il tempo che ci dirà”.


 Kanto, Zafferanopoli, Circumvallazione Esterna

Yellow era nata nel Bosco Smeraldo, e ci aveva vissuto fino a una certa età, prima di spostarsi a Smeraldopoli, che era comunque una grande città. Ma Zafferanopoli era differente.
Ogni volta che attraversava il varco d’ingresso della città, rimaneva sempre un po’ stranita, per via dei grattacieli, che mano a mano si avvicinavano al centro della città diventavano sempre più alti. Il Bosco Smeraldo era differente: lì i palazzi si chiamavano querce, al massimo pioppi, e non c’erano marciapiedi ricolmi di spazzatura ma prati verdi ricchi di fiori e cespugli di bacche.
Lì non si vedevano Pokémon. Quello non era posto per loro.
Quello era un contenitore di esseri umani, che giocavano a vivere in cubicoli di poco più di cento metri quadri senza mai realmente sapere cosa significasse ascoltare il rumore del vento che pettinava l’erba alta o sentire l’odore della salsedine.
Lì nessuno la guardava in faccia, la gente era troppo indaffarata per accorgersi del suo spaesamento. Calpestavano famelici quei marciapiedi e sfrecciavano via, come se stessero scappando da qualcosa.
Come se stessero correndo per raggiungerla.
Red la stringeva, fiancheggiandola a ogni passo e stringendo assieme a lei il manico dell’ombrello, per non bagnarsi. Seguivano l’altra coppia, formata da Green e Blue, e si fermavano solo quando lo facevano loro. Li guardava, fissava le mani della donna e il volto granitico dell’uomo. Poi sospirava; in fondo capiva i motivi per cui Green non riuscisse a placare quel prurito che aveva dentro, tra lo stomaco e la pancia.
Lo aveva avuto anche lei, per mesi. Forse erano stati anni, fortunatamente non ricordava.
Sapeva soltanto che per mesi o anni era stata esattamente come lui, quasi sempre su di un filo sottile legato tra le due estremità di un baratro, che spesso aveva rischiato di toccare.
La depressione era buia. La depressione era fredda.
Contemporaneamente però, la depressione era qualcosa in cui pareva sicuro rifugiarsi, nascondersi da un mondo esterno fin troppo caustico, e più veloce di quello che ci si aspettava.
Lei aveva sentito il gelo sulla pelle, aveva rischiato di non uscirne più, fino a quando non cominciò a chiedersi per chi si stesse deprimendo. Per un uomo che l’aveva tradita e per le sue decisioni scellerate?
No. Non poteva funzionare in quel modo.
Lei lo aveva capito molto prima di lui, ma entrambi viaggiavano nella stessa direzione, seppur su due barche diverse, e col tempo avevano imparato a distinguere il giorno dalla notte, il caldo dal freddo.
Inquieto, lo vedeva camminare lungo le strade di Zafferanopoli senza riuscire a capire dove guardare, cosa cercare. Voleva una pista, o forse voleva soltanto distrarsi dalla presenza di Red.
Lo capiva bene: anche Blue le provocava quello strano effetto di repulsione, e se pensava a quanto avesse voluto bene a quella donna in passato la cosa le faceva strano. Ma tant’era, il passato era passato, e nonostante avessero perdonato alcuni tradimenti a dispetto di altri, quella riunione portava con sé degli strascichi che le due vittime non erano riuscite a evitare.
Quindi, mentre Yellow si limitava a chiudersi in se stessa, a sopportare e a cercare continuamente in Red lo sguardo che tanto la rassicurava, Green tentava di assopire la rabbia che cresceva ogni secondo. Con pessimi esiti.
I marciapiedi parevano sempre più stretti, e uomini in doppiopetto e donne in tailleur camminavano rapide, stringendo la ventiquattrore con una mano e il manico dell’ombrello con l’altra. Tornavano a casa, forse. Forse no. Blue entrava nelle vite di quelle persone per un attimo, stringeva con loro un piccolo legame attraverso un semplice sguardo, osservava le loro vite dall’esterno, poi li perdeva, non appena la oltrepassavano. Ignari, tutti loro, del pericolo che correvano.
Green invece sentiva paura e responsabilità avanzare esponenzialmente di pari passo. E il fegato marciva, per il veleno che stava ingoiando, e la fronte scottava.
E il cuore batteva, e il panico lo affogava, imbeveva i polmoni di quel liquido salmastro e scuro. Nero come la pece.
Salato come l’oceano.
Freddo come il ghiaccio.
Ogni tanto si voltava e guardava Blue, lei non se ne accorgeva, o forse sì, ma lasciava fare, limitandosi a fermarsi saltuariamente a fissare una vetrina. Guardava i vestiti, le scarpe, le borse.
La pioggia aumentava, e intanto la pazienza di Green si consumava.
“Allora?” domandò, guardando la donna con cui condivideva l’ombrello. “Qualche novità?”.
Blue prese il cellulare e guardò lo schermo.
“Niente. Niente di niente, i miei vecchi contatti stanno monitorando il mercato nero ma non c’è alcuna traccia del cristallo”.
Un tuono fece tremare i vetri dei palazzi. Yellow alzò il volto e sospirò.
“Sta diventando buio” fece.
“Chiamali” continuò Green, rivolto all’altra.
Quella spalancò gli occhi. “Non sono persone che puoi chiamare quando vuoi, Green... Conviene aspettare”.
L’altro sbuffò e fece cenno di no con la testa. Un nuovo tuono riverberò nell’aria, prima che la via che percorrevano si tuffasse nella piazza principale della città. Se la tempesta non fosse imperversata decine e decine di persone avrebbero occupato le panchine dagli schienali imbrattati dai graffiti, attorno alla grande fontana in marmo che raffigurava un Lapras.
Con quella pioggia, nessuno avrebbe apprezzato i giochi d’acqua.
Red portò una mano al fianco e annuì.
“Ogni volta che vengo qui non mi capacito di quanto alti siano questi palazzi. Contengono soltanto uffici, vero?”.
Blue annuì. “Sì. Qui ci sono le sedi delle società più importanti di Kanto...”.
Un portone si aprì scricchiolando, facendoli voltare rapidamente. Dal primo palazzo sulla destra uscì un uomo alto e ben piazzato, stretto nel suo cappotto blu. Salì su di una limousine e sparì.
“Qui circolano un sacco di soldi...” ribatté Red.
Blue sorrise. “Non mi sorprenderei se riuscissimo a scoprire che uno di questi pezzi grosso goda di un canale preferenziale con l’uomo che ci ha sottratto il cristallo”.
“Plausibile” sorrise quello dagli occhi rossi. “Magari domani potremmo andare da Sabrina e farle fare una delle sue cose strane... potremmo capire se qualcuno di questi uomini in doppiopetto è coinvolto”.
Green lo fissava torvo, Red lo vedeva.
“Cosa c’è?” chiese.
“Domani potrebbero esser già morte milioni di persone, Red”.
L’ennesimo tuono fece tremare Zafferanopoli. L’antifurto di un auto cominciò a suonare.
“Lo so, ma ora è buio e credo sia meglio aspettare di poter avere notizie concrete da qualcuno dei ricettatori che abbiamo contattato... Intanto faremo bene ad andarci a riposare, tutti...”.
Green sembrava contrario e rimase dietro al gruppo, mentre i tre raggiungevano con calma il Grand Hotel Sheraton, che svettava tra due grossi palazzi. L’intera facciata era illuminata da luci gialle, calde, meravigliose, e l’intera hall dell’albergo era stata lasciata a vista, tramite delle ampie finestrate che permettevano alla luce d’illuminare la lunga passerella coperta.
La raggiunsero, un giovane uomo in divisa blu con particolari dorati fece loro un cenno col capo, mentre li vedeva chiudere gli ombrelli.
“Potremmo pernottare qui” disse Red, guardando prima Yellow e poi Blue. “Che dite?” concluse, fissando Green.
Quello ricambiava lo sguardo, rimanendo immobile e analizzando la sua sporca figura, bagnata dalla pioggia. Vedeva i capelli, poi un altro flash del suo torace nudo che aderiva sul petto di Blue, quindi gli occhi, rossi e accesi, e l’immagine nitida delle sue mani che stringevano le natiche della sua donna.
E infine il sorriso. Lo stesso sorriso che indossava quella notte, mentre toccava il paradiso.
“Tu non dovresti neppure essere qui, Red. E voi due...” rimbeccò, puntando il dito prima sulla sua donna e poi su quella dai capelli biondi. “... voi due, se avete intenzione di darmi una mano non dovreste starlo a sentire”.
Red avanzò leggermente.
“Capisco lo stress, ma al momento la cosa più saggia è fermarsi e aspettare che accada qualcosa, Green. Non sei lucido, altrimenti lo sapresti anche tu...”.
Blue guardava il volto del suo uomo, visibilmente provato e carente di quel sonno che tanto gli serviva, che mutava forma, trasformandosi in una maschera in grado di accogliere la rabbia e il dolore che covava dentro.
“Non sono lucido perché tu sei uno stronzo!” urlò. Il facchino si voltò rapido, con lo sguardo che non riusciva a celare la preoccupazione. Si chiedeva perché quei due urlassero. Lui stesso vide quello dai capelli e gli occhi rossi abbassare lo sguardo e muovere un passo in avanti.
La pioggia continuava a battere sull’asfalto, suonando una melodia intensa e profonda, che forse in un altro momento li avrebbe rilassati. Gli animi, però, erano totalmente tesi.
“Credo che sia arrivato il momento di finirla...”.
La voce di Red rimbalzò contro un muro ottuso e rabbioso dagli occhi verdi. La solita indifferenza, autoctona nell’espressione di Green, era ormai fuggita via.
Brace nei suoi occhi, il sangue gli ribolliva nelle vene.
“Cosa dovrei finire?!”.
“Basta. Davvero”.
La risposta arrivò netta, e fece male come uno schiaffo sulla pelle ustionata.
“Basta?!”. Green sorrise, nevrotico. “Credi che basti chiedere di smetterla?!”.
Red sbuffò e abbassò lo sguardo.
“So che non basta…”.
“Già! Non basta!” puntò poi il dito verso Blue, continuando a guardare lui. “Per te è stata una scopata, niente di più! Per me è stato vedere le persone che amavo mettersi d’accordo per pugnalarmi alle spalle!”.
Red sospirò, dopo un secondo storse le labbra.
“So che non deve esser stato facile”.
Yellow, dietro di lui, piangeva silenziosamente. Blue non poteva vederla.
“No! Non lo è stato! Io mi fidavo di voi!  Io mi fidavo di te!”.
Red rimase immobile. Green era orfano, schivo e perennemente incazzato anche prima di quella brutta storia. Aveva mantenuto l’equilibrio per troppo tempo, prima che la realtà dei fatti, che l’ira e tutta la sua voglia di giustizia bussassero nel petto.
“Lo so… e abbiamo sbagliato… Io. Io ho sbagliato, più di tutti, perché ero il tuo migliore amico, e non ho giustificazioni”.
Poi fece un errore, perché si avvicinò a lui in cerca di quella riconciliazione che tanto agognava. Continuò a parlare, con Green che lo guardava mentre invadeva il suo spazio personale.
“Però, quando ti chiedo di smetterla, è perché adesso non contiamo, né tu né io, né tutta questa situazione di merda, paradossale, che ci ha solo procurato dolore…”.
“A te?! A te avrebbe procurato dolore?! Da quando il corpo della mia fidanzata provocherebbe dolore?!”.
“Green, cazzo! Ascoltami!” lo dribblò l’altro, afferrandogli i polsi.
“Non toccarmi…”.
“Questa storia è più importante di noi! Dobbiamo far fronte comune per…”.
“Ti ho detto di non toccarmi!” urlò il nipote di Samuel Oak, strattonandolo e liberando le mani dalla stretta dell’altro. E poi tutto trascese, perché Green non riuscì più a sopportare quell’impeto.
L’istinto fece il resto: lo colpì con così tanta forza allo stomaco da farlo piegare in due. Quello sputò saliva e sangue, inginocchiandosi subito dopo, e poggiando i palmi delle mani sul freddo marmo dell’albergo.
Il facchino rimase immobile, mentre Yellow scattò immediatamente contro Green. Lo spinse via, in lacrime, colpendolo con deboli pugni sul petto.
“Che cazzo stai facendo?!” piangeva lei. “Non dovete litigare! Dobbiamo trovare il cristallo!”.
Blue invece non sapeva cosa fare. La paura e lo svilimento parevano averle bloccato le caviglie al pavimento.
Gli occhi di Green erano freddi, glaciali, totalmente bianchi, mentre l’aria entrava all’interno dei polmoni e pareva non bastare mai. Il cuore batteva ad un ritmo indecente, la mano doleva e la mente sembrava essere entrata in un loop senza via d’uscita, in cui lui colpiva il nemico fraterno una volta in più ogni volta.
E poi incrociò lo sguardo di Blue. Vulnerabile, ancora colpevole.
Instabile, volubile come un cielo di febbraio.
“G-green…” singhiozzava Yellow. La vide, lui, col debole trucco sciolto sul viso pallido, che impiastrava i capelli biondi che le finivano sul viso e andavano oltre, sulle guance e sul mento. Gli occhi gialli della donna erano ricolmi di lacrime e le labbra tremavano, incapaci di rimanere ferme.
“Andatevene” rincarò la dose Oak. “Sparite”.
“No” rispose Red. “Spero che questo gesto ti abbia fatto stare meglio… ma noi non molleremo la presa…”. Aiutato da Yellow si rimise in piedi, sputando ancora grumi di sangue, prima che l’ennesimo tuono urlasse nel cielo della sera. Il cielo continuava a crollare mentre la bionda cercava con lo sguardo il facchino.
“Può-può… p-può dar…” singhiozzò. “P-può darmi un-n-na… una ma-mano?” singhiozzava quella, con le mani tremanti che stentavano a reggere l’altro.
Il giovane si precipitò ad aiutarla, sollevando di peso Red e aiutandolo a rimanere dritto.
“Sto bene… grazie…” fece quello. Alzò poi gli occhi, guardando Green indossare una maschera di cera. “Noi non andremo via. Ora è anche nostra responsabilità, troppe persone sono in pericolo, e a confronto, ciò che ci è capitato non ha alcun valore. Spero che un giorno potrai fidarti di nuovo di me, ma per il momento io e Yellow andiamo a riposare”.
Sputò ancora saliva e sangue e poi si voltò, stringendo il fianco di Yellow.
“Ce la faccio…” disse, prima di sparire oltre la porta girevole.

Blue era ancora lì.

I loro occhi s’incrociarono, freddi e duri come l’acciaio.
“Vuoi colpire anche me, ora?”.
Green stringeva ancora il pugno, l’arma del delitto. Cercò poi di rilassare i muscoli, riuscendoci, ma solo a metà.
Digrignò i denti, la pioggia cadeva e il respiro ormai pesava una tonnellata.
“Non potrei. Mai”.
“Io non voglio più sentirmi così” fece l’altra, stretta tra le braccia. Il vento ululò, soffiando qualche goccia di pioggia sui loro volti. “Colpevole. Sono stata per anni immersa in quella merda, e non ne vado fiera. Ma pensavo che fossimo andati avanti”.
Green evitava i suoi occhi. Non capiva perché gli parlasse in quel modo. In fin dei conti era lui la vera vittima di tutto.
“Non puoi immaginare” lei rispose, dopo qualche secondo dove soltanto la pioggia fu protagonista. “Non puoi minimamente immaginare”.
“Stai trascinando questa storia troppo a lungo. Dividiti: se vuoi odiare lui, o anche me, fallo pure, ma non mentre sei nel pieno delle tue funzioni. Torna a casa e distruggi ogni cosa, spara lui nel petto e affoga me, se credi che sia la cosa giusta… Ma lui ci serve, e lo sai…”.
“Lui non ci serve!” gridò, mentre la sua voce sbatteva forte contro la vetrata dell’albergo.
“Sì che ci serve, cazzo!” rispose a tono Blue. “E ci serve Yellow! E quello che abbiamo fatto non deve condannare nessuno che non sia qualcuno di noi quattro!”.
La gente ormai li fissava da lontano. Qualcuno li riprendeva col cellulare e la cosa infastidiva la ragazza, che abbassava il volto nel vano tentativo di nasconderlo.
“Vorrei che tutto questo finisse nel tempo di un attimo…”.
“E nello spazio di un atomo…” concluse lei.
Si avvicinarono l’uno all’altra, le loro fronti combaciarono come fossero chiave e serratura. Sul volto di Green c’era stanchezza, su quello di Blue le lacrime.
“Andiamo a riposare” disse quest’ultima, prendendolo per mano ed entrando nell’albergo. 


Hoenn, Verdeazzupoli, Villa Petri, un paio d’ore più tardi
                               
Rocco Petri s’affrettava lungo la grossa scalinata che precedeva l’ingresso di casa sua, cercando riparo dalla pioggia. Aprì la porta, sospirando. Era tutto bagnato.
Si chiedeva come fosse possibile che nell’arco d’un giorno il tempo fosse mutato in quel modo e in meno d’un secondo rivisse gli avvenimenti delle ultime ore, cominciando dalla telefonata che aveva ricevuto dal Centro Meteorologico di Hoenn, poco fuori Forestopoli; gli avevano spiegato di un estesissimo addensamento nuvoloso creatosi dal nulla, all’improvviso.

“È un uragano, Signor Petri. Questa tempesta comincerà a soffiare venti fortissimi, estendendosi per diversi chilometri e comprendendo anche altre zone della nazione”.
“Non solo Hoenn?”.
“No. Tuttavia, per via del clima, qui ad Hoenn la sua natura è di molto peggiore. Bisogna diramare lo stato di pre-allerta”.

Aveva accolto la notizia con un velo di paura, alzandosi di scatto dalla poltroncina del suo ufficio e guardando fuori l’ampio finestrone che aveva alle spalle e ai lati della scrivania. Vide il cielo che crollava giù, fondendosi col mare di Iridopoli.
Subito dopo aveva telefonato a Fiammetta e le aveva comunicato in anteprima la notizia. Le ordinò poi di dare l’allarme e avvertire i Centri Pokémon di Cuordilava. Fu perentorio, poi, quando le chiese di chiudere la Palestra il prima possibile e di avviarsi verso casa, da sua sorella Jarica e da Leslie, la sua tata. Dopo aver chiesto ed ottenuto spiegazioni, Fiammetta seppe che qualche ora dopo Pat le avrebbe raggiunte per portarle a Verdeazzupoli, a Villa Petri, dove contava fossero più al sicuro.
Attaccato il telefono con Fiammetta, chiese alla segreteria della Lega di comunicare a tutti gli altri Capipalestra la stessa cosa, specialmente a Rudi di Bluruvia, dato che il luogo era isolata e maggiormente esposto al pericolo uragano. Quello avrebbe dovuto mettere in pratica il Protocollo Sicurezza 00, ovvero avrebbe dovuto organizzare un’evacuazione preventiva, convogliando la popolazione nel punto di raccolta più sicuro in attesa che Alice, con il suo Flying Ferryboat, un grosso aereo che serviva apposta per situazioni del genere, dirigesse le persone a Ferrugipoli, nel sud della città, dove avrebbero trovato pronti gli alloggi popolari. Li avrebbero divisi con la gente di Orocea, precedentemente già evacuata dalla Capopalestra di Forestopoli.
In terza battuta aveva comunicato ad Adriano la notizia, anche se Ceneride non gli destava particolari preoccupazioni, dato che veniva protetta già dall’alta corona delle pendici del vulcano nel quale sorgeva. Tuttavia gli aveva fatto una domanda ben precisa.

“Kyogre è ancora in stato di riposo?”

E fino a quando Adriano non avesse avuto la certezza che il gigante della pioggia fosse ancora in stato di quiete, Rocco non si era ritirato a casa.

Dorme”.
“Bene. Riguardati”.

Lasciò Iridopoli subito dopo, anche se non avrebbe dovuto sfidare l’uragano così incoscientemente. Attraversò il mare impetuoso in groppa al suo Skarmory, pregando che nessuno fulmine lo incontrasse a metà strada. Sotto di sé il mare pareva così agitato e irrequieto da dargli l’impressione di potersi alzare in qualsiasi momento e catturarli, tirandoli giù da decine di metri di altezza.
Invece andò tutto bene.

Quando il cielo era grigio, casa sua era sempre buia. L’atrio profumava di legno e gelsomino, mentre l’odore della pioggia faceva il suo ingresso assieme a lui. Appese il giubbino all’appendiabiti e passò una mano sul volto, sospirando. Si guardò allo specchio, leggermente stanco, ma la sua giornata non era ancora finita: doveva sincerarsi che Fiammetta e la piccola Jarica stessero bene.
Da lì poteva vedere il salotto illuminato dal fuoco del camino.
Niente luci. Soltanto le fiamme.
Vi si avvicinò, cambiando stanza.
Il salone era parecchio ampio, e due grosse vetrate, interrotte soltanto da una credenza in stile vittoriano nel mezzo, e illuminavano i due lati brevi. Il primo vedeva protagonista una coppia di poltrone, che calpestavano entrambe un tappeto persiano dalla fantasia azzurra.
Tra di loro vi era un tavolino di marmo, molto bello, che manteneva un vassoio d’argento e un set d’alta di bicchieri di cristallo d’alta classe. E poi una bottiglia di Remy Martin.
Suo padre amava quel cognac, e quando lo andava a trovare voleva sempre sorseggiarne un bicchiere.
Il secondo lato breve del salone invece vedeva protagonista proprio il camino, e un divano ad angolo con penisola, di velluto grigio. E una donna bellissima dai capelli rossi spettinati, ipnotizzata dalle fiamme.
Sorrise, lui. Quella visione non poteva essere rovinata da nessuna giornata pesante.
“Ciao” la salutò, camminando lentamente. I suoi passi bagnati producevano uno stridio fastidioso sul parquet di mogano. La vide voltarsi leggermente, con quel sorriso dolce di cui si era innamorato stampato sul viso. Gli baciò una guancia e tirò i piedi freddi sotto le natiche.
“Ciao, amore” sussurrò impercettibilmente.
“Hai freddo?” osservò lui. “Ti prendo una coperta”.
Lei però fece cenno di fare silenzio, indicando con gli occhi Jarica, che dormiva stesa accanto a lei. Rocco alzò le mani e ritirò le labbra, prima di farle segno di allontanarsi leggermente da lì, per poter parlare senza svegliarla. La vide alzarsi lentamente e poi girare attorno al divano.
Assieme si avvicinarono a una delle due finestre, poi si scambiarono un altro bacio.
“Sei bagnatissimo…”.
Rocco guardò il giardino sotto la tempesta e annuì. “Ho volato qui fin da Iridopoli”.
“Sei un incosciente”.
“Che facevi qui, in silenzio?” chiese poi.
Fiammetta sorrise e tornò a guardare Jarica, prima di voltarsi e riprendere la mira negli occhi del suo uomo.
“Ma nulla… Leslie è salita a fare una doccia e così io sono rimasta qui a tenere d’occhio la piccola peste…”.
“È incredibile quanto ti assomigli…”.
“Lo so, lo dici ogni volta. Ma ti giuro che l’abbiamo adottata”.
“Lo so. Scusa”.
Lei sorrise ancora. Amava quell’animo gentile e nobile. Gli baciò nuovamente le labbra, forse un po’ più passionalmente, assaporando il suo aroma, che reputava fantastico.
“Mettiti qualcosa di caldo addosso…”.
“Sì” annuì il Campione. “Vado a fare una doccia e poi mangiamo qualcosa”.
Fiammetta annuì e guardò verso l’ingresso.
“Ho già messo a preparare qualcosa, e ho aperto una bottiglia di vino. Spero non ti dispiaccia”.
Rocco alzò le spalle. “No, tranquilla, hai fatto bene… Io vado”.
“Non farti trovare nudo con Leslie” ribatté l’altra, voltandosi e suscitando una risata silenziosa anche nel padrone di casa, che certamente non era interessato a una signora sformata di mezz’età non proprio piacente.
Salì le scale in silenzio, sentendo i piedi scivolare sul marmo. Afferrò con energia il corrimano di mogano fino a quando non raggiunse la camera da letto.
La stanza era ben ordinata e pulita. Profumava di buono. Probabilmente Fiammetta si era stesa al suo posto, perché lì le lenzuola erano sgualcite, mentre dall’altra parte erano ben tirate.
Chiuse la porta e sbottonò lentamente la camicia, fischiettando A Gentle Awakening. Liberò gli addominali e i pettorali scolpiti, poi guardò la sua figura, coi capelli argentati bagnati da quella pioggia inesorabile. Rimase a petto nudo e sentì la voce di Fiammetta, che parlava di cartoni animati come giusta merce di scambio per aver mangiato l’intera cena.
Probabilmente Jarica si era svegliata. Quella bambina era davvero pestifera.
Da piccolo, lui era molto più tranquillo. Più timido, più concentrato sugli studi.
Troppo responsabile, con ogni probabilità avrebbe rivisto alcuni lati del suo carattere se avesse potuto tornare indietro. Smise di pensarci, slacciò la cintura e svuotò le tasche dei pantaloni da qualche centesimo, resto di un caffè al cinnamomo preso al Centro Pokémon quel mattino, scontrino annesso. Poi levò anche quelli, raccolse i vestiti bagnati ed entrò in bagno, dove legno e marmo s’avvicendavano elegantemente. Le luci gialle illuminarono il pavimento, gelido sotto i suoi piedi umidi.
Gettò i panni nella cesta e impostò l’acqua della doccia. Ci avrebbe messo qualche secondo per arrivare a temperatura, quindi si avvicinò allo specchio e guardò la propria figura.
Passò una mano tra i capelli bagnati, disegnando tre solchi profondi tra quei fili argentati, e poi grattò una guancia, sentendo le dita sfregare contro la barba, la stessa che aveva raso quella mattina, come faceva ogni giorno.
A Fiammetta piaceva la sua pelle liscia.
Gli occhi poi si adagiarono sul petto e sull’addome, e guardavano i muscoli ricoperti dalle cicatrici subite quando aveva assaggiato la morte, anni prima.
La cosa lo aveva segnato; aveva passato l’intero anno successivo a riequilibrare la psiche, perché non era una cosa semplice da gestire, un viaggio nell’aldilà con biglietto di ritorno. Spesso Fiammetta gli chiedeva di quegli attimi di vuoto, di assenza assoluta, ma lui si limitava a fare spallucce, perché non voleva dirle che, una volta che gli occhi smettevano di trasmettere immagini al cervello, e che i suoni si ovattavano, tutto ciò che rimaneva era un buio sempre più esteso, che t’inglobava e t’isolava.
Fino a quando dimenticavi di pensare.
Da quando riaprì gli occhi riuscì a guardare il mondo con occhi diversi. Forse diventò più pragmatico ma capì che il popolo di Hoenn era il suo popolo e che avrebbe dovuto proteggerlo con tutte le sue forze.
Imparò ad amare se stesso e gli altri.
Aveva accolto Fiammetta nella sua vita, anche se rappresentava totalmente il suo opposto, con quel carattere forte, con quel suo essere eccessivamente rumorosa e cocciuta.
Era terribilmente polemica, e quando non era giornata, beh, semplicemente non era giornata. Donna focosa, del resto. Ma per la gran parte del suo tempo, Fiammetta sorrideva. E avere accanto una donna gioiosa, e così bella, faceva diventare i giorni no nel giusto prezzo da pagare per costruirsi una vita assieme.
Amava quella donna dai capelli rossi con tutto se stesso, e quando era nel suo ufficio, e alle sue spalle il cielo cominciava a farsi buio, e i suoi collaboratori bussavano alla sua porta per salutarlo, perché ormai era tardi e volevano far ritorno alle proprie case, lui pensava al fuoco del camino, alle cosce della sua donna tirate sul divano, al vino rosso nel calice che stringeva, al suo cuore che pompava sangue bollente nelle vene, ai capelli legati, al profumo sul suo collo, a quello dei suoi seni, al suo sapore.
Spesso cedeva alla tentazione di vederla, spegneva la luce, chiudeva a chiave la porta dell’ufficio e tornava a casa. E lei era lì, e tutti i pianeti tornavano nella propria posizione.
Erano passati due minuti, in cui si era immerso nei meandri della sua mente, ma il bagno si stava riempiendo di vapore e l’acqua della doccia era arrivata a temperatura.
Sospirò, quindi si gettò sotto il getto caldo, lasciando che l’acqua gli massaggiasse il corpo, massacrato dallo stress di quella giornata, impregnando i capelli e scivolando in basso, sul volto.
Gli occhi erano chiusi, le mani toccavano i bicipiti e i pettorali, scivolando sulla schiuma profumata. L’esperienza era totale e coinvolgeva tutti i sensi, in maniera assidua e profonda, tanto che si rese conto soltanto dopo che qualcun altro era nella doccia accanto a lui.
E di certo non era lì per fargli del male: altre due mani si aggiunsero a massaggiare il corpo dell’uomo, e lo facevano in un modo così tanto familiare da non destargli la minima preoccupazione: rimase in silenzio, sorrise, poi sentì i seni di Fiammetta premergli sulla schiena, mentre una mano stringeva la natica e l’altra brandiva l’addome come fosse di sua proprietà.
Poco dopo stavano facendo l’amore.

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