9. Moto perpetuo
Johto,
Olivinopoli, Il faro
L’ennesimo
tuono rombò e fece vibrare le finestre. Riempì le sue orecchie e lo costrinse a
schiudere gli occhi, sospirando.
La luce
c’era. E non era quella del faro, perché ormai era arrivato il giorno.
Con una
velocità impressionante.
Era ancora
stanco, Corrado, che irrigidì tutti i muscoli e sbadigliò, respirando
profondamente e rilassando i muscoli, affondando la testa nei guanciali. Quei
cuscini erano troppo sottili, forse anche il materasso. Il letto non aveva
doghe, ma era una tavola di legno rigida su cui si poggiavano le coperte. Si
mosse leggermente, la schiena doleva un po’ ma niente che una corsetta non
avrebbe sistemato.
Se solo
avesse avuto voglia di farlo.
Rifletté,
pensando che forse quel dolore era frutto delle tante ore di viaggio che aveva
affrontato per mare; insomma, Arenipoli e Aranciopoli erano lontane, e
nonostante lo sbarco al porto in tarda serata preferì prendere subito il bus
per Zafferanopoli, invece che pernottare in qualche alberghetto di fortuna. Una
ragazza lo riconobbe, sul pullman: scattarono una foto, lui le sorrise
educatamente poi rialzò le cuffie e ascoltò i Pink Floyd fino al suo arrivo.
Il treno era
leggermente in ritardo, ma Kanto era caotica, lo sapeva, si era preparato e
rimase in silenzio ad aspettare, con le mani in tasca, la schiena già doleva, e
una voglia eccessiva di spiedini di calamaro.
No, forse
era la salsa agrodolce che usavano ad Arenipoli, in quel piccolo localino
accanto al mercato, che forse conosceva soltanto lui e che preparava i veri
piatti della tradizione, come piacevano a lui. Che poi non era neppure legato
al cibo tradizionale.
Gli
piacevano gli spiedini.
No, quella
salsa.
Sì, la
salsa.
Il treno lo
sorprese, le sue porte si chiusero nella città gialla e si riaprirono un’ora
dopo, a Fiordoropoli, con Chiara che aspettava con le braccia incrociate, il
ciuffo arruffato sulla fronte e gli occhi stanchi. Indossava una giacca a vento
bianca, forse un po’ troppo stretta.
L’aveva
salutata, lei era sempre troppo affettuosa con lui, con quella sua mania di
toccargli i capelli. Tuttavia era il prezzo da pagare, per un passaggio in auto
fino a Olivinopoli.
Arrivò a
notte fonda, salutò la donna e s’incamminò verso la spiaggia.
Il mare non
pareva tranquillo, e il suo continuo sbattere contro i pilastri del pontile che
portava verso il faro non faceva altro che fargli desiderare di arrivare in
cima al promontorio.
Poi arrivò,
poche moine, s’addormentò quasi subito.
S’alzò,
sforzando la stessa schiena che gli chiedeva di ristendersi e gettò un occhio
oltre la finestra polverosa: il mare era in burrasca, e il cielo pareva una
lunga lastra marmorea, così scura da non rendere semplice la linea
dell’orizzonte. Pioveva molto forte, da nuvole così vaste ed estese che non
riusciva a localizzarne gli estremi.
Sospirò,
massaggiandosi con la mano destra la clavicola sinistra. Sbadigliò, poi fissò
il riflesso sul vetro, che mostrava un uomo stanco e dal volto stropicciato,
dai profondi occhi blu e dai capelli spettinati.
Come sempre,
del resto. Forse quella mattina di più.
La sua
capigliatura era il classico esempio di ciò che avrebbe definito caos organizzato, cioè so che sono in disordine ma c’è un motivo se è così. In ogni caso
sbadigliò nuovamente, li riavviò con l’altra mano e poi, coi piedi scalzi,
scese le scale di quel soppalco.
C’era
Jasmine, lì, con lo sguardo assopito, una tazza fumante tra le mani e un caldo
maglione di lana, molto voluminoso, a baciarle la pelle. Era seduta sul bordo
del davanzale, con le gambe piegate e i piedi tirati sotto le natiche; non
pareva essersi accorta della presenza dell’uomo.
“È caffè?”
domandò poi, facendola voltare. Spalancò gli occhi, dato che credeva di esser
sola, lì giù. Poi sorrise dolcemente, illuminando lo sguardo ambrato e facendo
cenno di no con la testa.
“È
cioccolata calda. Vuoi?” chiese a sua volta, porgendogli la tazza.
L’uomo non
rispose, le si avvicinò e le diede un casto bacio sulle labbra.
“No, grazie”
rispose poi. “Prima di mezzogiorno solo caffè”.
La donna
aggrottò la fronte. “Ecco perché sei sempre di pessimo umore…”.
L’altro si
limitò ad annuire, guardando all’esterno.
Erano
parecchio in alto, rispetto al livello del mare. Più in generale, il faro di
Olivinopoli era più alto di quello di Arenipoli. Non era così importante, dato
che non vi erano rotte commerciali tra la Via Vittoria e la città dell’ultima
medaglia e gli unici che prendevano quella strada erano Allenatori forti e
preparati. Ciononostante sovente qualcuno finiva all’ospedale, per via delle
forti correnti del canale e per i grossi scogli acuminati disseminati lungo
l’intero passaggio marittimo.
Non passava
quasi mai del tempo lì, nonostante quel faro fosse ricco di silenzio e
permettesse di trascorrere in solitudine qualche pomeriggio uggioso. Del resto
era un tipo particolare, Corrado; gli piaceva ritagliarsi i suoi spazi di nulla
all’interno di qualcosa di ben definito. Al contrario, Jasmine reputava quel
luogo un po’ come una seconda casa, e dormiva nella piccola stanzetta che
quella notte avevano utilizzato lei e Corrado per fare l’amore.
Generalmente
era lì a godersi il rumore del mare e la compagnia dei suoi Pokémon mentre lo
spettro verde del sonar roteava lentamente all’interno dello schermo.
L’uomo la
guardò per un attimo, posando gli occhi sul libro che aveva poggiato sulle
gambe, vecchio e consunto. Il titolo era stato strappato via dal tempo, ed era
rimasta soltanto una leggera patina dorata sulla copertina in pelle beige. I
capelli castani erano insolitamente sciolti e coprivano gli occhi, motivo per
cui li raccolse con la mano, grossa e ruvida, e li sistemò dietro le orecchie.
Quella
sorrise. Si sentiva amata. “Hai dormito bene?” gli domandò poi.
“Nah. Per
niente. Non hai freddo?”.
Jasmine
allargò il sorriso e fece spallucce. “Mi piace il freddo sulla pelle”.
“Ti
prenderai un accidente…” ringhiò quello, sbuffando e voltandosi. Si avvicinò al
piccolo cucinino e prese la brocca piena di caffè. “Quanto tempo fa lo hai
preparato, ‘sto caffè?”.
La voce
dell’uomo era sempre fredda e tagliente, colma di un’aggressività latente.
“Stamattina”
rispose invece l’altra, con una dolcezza senza paragoni. “So quanto ami il
caffè, appena sveglio…”.
Si voltò e
lo vide sorridere a mezza bocca, mentre ne versava in un bicchiere.
“Tu invece?
Non sei stanca?”.
Quella annuì
lentamente, col sorriso che sfioriva. “Sì… ho un po’ di sonno, in effetti… ma
tu sei qui, e non voglio dormire mentre potremmo stare assieme”.
“Vai a
dormire” ribatté roccioso l’uomo, di spalle. Fece cadere un po’ di zucchero nel
caffè e lo girò con la punta di un coltello.
“Sei stata in piedi tutta la notte…”.
“È il mio
lavoro…”.
“Non è così,
e lo sai. È il lavoro del tuo Ampharos, tu puoi tranquillamente riposare e, nel
caso, svegliarti se gli allarmi cominciano a suonare. Sei un supervisore”.
La ragazza
si mosse rapida e scese dal davanzale, facendo cenno di no con la testa.
“Amphy ormai è vecchiotto, per tutto questo lavoro… In più
mi sembra un’esagerazione lasciare che stia sveglio da solo per tutta la
notte”.
La vide
avvicinarsi e strappargli il caffè dalle mani. Ne prese un sorso e storse il
muso. “È ancora amaro”.
“È caffè…”.
Storse le
labbra e sospirò, poi tornò a guardarlo negli occhi. “Ti propongo una cosa”
disse, salendogli sulle pantofole.
“Sentiamo”.
“Dormirò
oggi pomeriggio, e tu lo farai con me. E stanotte mi terrai compagnia”.
Corrado si
limitò ad annuire, mantenendo sempre la stessa espressione sul volto. Prese un
sorso di caffè e poi Jasmine lo baciò, appassionatamente.
Unima, Libecciopoli, periferia Nord della città
Il volo di
linea era durato davvero molte ore. Del resto Unima non era dietro l’angolo.
Fortuna
voleva che le nuvole di pioggia fossero rimaste ad Adamanta e, a quanto pare,
in tutto il continente. Non interessava molto del meteo, a quella versione di
Fiammetta, nella sua testa c’era sempre un rumore persistente e continuo,
figlio della follia che la possedeva.
Aveva
passato l’intero viaggio sotto l’effetto massiccio del calmante, che veniva
rilasciato automaticamente quando il livello di stress saliva.
E otto ore
di aereo non furono propriamente una passeggiata sulla spiaggia. Passò la gran
parte del viaggio a dormire, mentre le parole di Lionell continuavano a
rimbombarle nelle tempie.
“Non menti a nessuno quando dici di essere
Fiammetta Moore. Sei una Capopalestra, e visitare la Palestra d’un tuo collega
è assolutamente normale. Quindi vai spedita, entra e fa’ la magia…”.
Linda aveva
cercato d’illustrarle una sorta di piano d’azione per un paio d’ore, ma quella
aveva finito per riderle in faccia. Le fece capire chiaramente che non le
serviva alcun piano, avrebbe rapinato una miniera di diamanti, si sarebbe
divertita e avrebbe utilizzato l’unico metodo già rodato che reputava efficace:
la follia.
Una volta
scesa dall’aereo, Anemone l’aveva portata da Ponentopoli a Libecciopoli in
elicottero. Nel mentre aveva provato a sostenere un po’ di conversazione ma quella vedendo Fiammetta
molto silenziosa, nonostante il sorriso divertito sul volto si convinse che
forse era meglio lasciar passare quell’ora di volo nel silenzio più che totale.
L’eliporto
si trovava a sud della città, poco lontano il Deposito Frigo. Anemone la salutò
con un gesto della mano e sparì oltre le nuvole, lasciandola davanti al porto.
Guardò attenta decine di capannoni dai tetti rossi, tutti in fila indiana,
brulicanti di uomini grossi e di mezzi pesanti. Tante aziende si occupavano di
trasportare in tutta Unima i prodotti della cava, caricandoli in grossi
container e piazzandoli poi su mercantili dai nomi più disparati.
“Backbreaker” lesse su una di queste, che
accoglieva enormi autoarticolati e piccoli furgoni.
Avanzò,
attirata poi dal rumore del mare. Si gettò contro le staccionate di protezione,
felice come una bambina, e si sporse sullo strapiombo per guardare le onde
furiose che si rigiravano su se stesse, tuffarsi in piroette acrobatiche e
terminare sfinite sul bagnasciuga.
Raggiunse
subito dopo il centro della città: lo sguardo era basso, il sorriso invece
intermittente. Gli occhi tendevano a poggiarsi nei vuoti della pavimentazione
stradale, dove qualche sampietrino era saltato per via dell’usura, proprio
nella zona dei grandi alberghi. Quando si voltò verso est vide la sagoma del Ponte Charizard, che svettava in primo
piano sul cielo azzurro e sulle nuvole d’ovatta. Poi un paio di signore le
tagliarono la strada, entrando subito nel mercato.
Era rimasta
immobile, per un attimo. Quel posto non le piaceva.
Lei però
sorrideva.
Proseguì
verso nord, fischiettando con lo sguardo perso tra le nuvole.
Kanto, Zafferanopoli, Centro Pokémon
Aveva preso
sonno quasi subito, Red.
Aveva dato
la buonanotte a Yellow ed era sprofondato in un sonno così pesante da non
essersi neppure accorto di quando quella s’era alzata per andare in bagno.
Quando la pioggia bussò alle finestre, non poté fare altro che svegliarsi,
schiudendo gli occhi rossi. Sentì forte il profumo dei capelli biondi della
donna: la stava stringendo in un abbraccio affettuoso, e dovette essere
parecchio delicato per svincolarsi dalla sua stretta ed evitare di svegliarla.
A piedi scalzi andò in bagno e aprì l’acqua della doccia, che cominciò a
scrosciare calda e a creare nuvole di vapore che finivano per attaccarsi allo
specchio, nascondendo il suo viso dietro una patina di condensa.
Si gettò
sotto il getto caldo e sospirò.
Non era
stata una giornata semplice, quella trascorsa. L’acqua gli pervadeva il corpo,
bagnava polsi e caviglie, gli stessi che spesso facevano male. Il Monte Argento cura tutte le ferite
gli aveva detto Sabrina, anni addietro. Stare lì gli servì, riallineò le idee.
Ci salì
anche quando dovette pagare pegno per le sue debolezze, con Blue.
Proprio lei
dormiva con Green nella camera di fronte alla sua, in quella suite esclusiva
che occupava gran parte del penultimo piano e che comprendeva un ampio salotto
proprio tra le due matrimoniali.
Lui però non
lo sapeva, e neppure ci pensava più di tanto; terminò la doccia, indossò
l’accappatoio e coi capelli ancora bagnati decise di meritarsi un po’ latte. Lo
avrebbe fatto arrivare in camera, e avrebbe utilizzato il telefono piazzato
accanto alla porta della stanza, per non svegliare Yellow.
“Sì,
penultimo piano” aveva detto, prima di riattaccare. Si voltò, poi vedendo la
figura di Blue avvolta nell’accappatoio bianco dell’hotel. Proiettili d’acqua
continuavano a tintinnare contro le ringhiere dei balconi, portando lo sguardo
dell’uomo a viaggiare dal viso bello e pulito della donna al cielo nero alle
sue spalle.
Alzò poi la
mano, abbassando la testa, in segno di scusa. “Non volevo svegliarti” si
giustificò.
Quella
sorrise a mezza bocca e fece cenno di no con la testa.
“Tranquillo.
Stanotte abbiamo dormito pochissimo”.
“I nervi?”.
“No” ribatté
l’altra, muovendo i piedi nudi fino alla finestra. La sua ombra s’allungò al
centro della sala. “In realtà questa notte Green ha deciso di tagliare i tempi
e andare da Sabrina per… quella cosa”.
Red appuntì
il viso.
“Avreste
dovuto svegliarci”.
“Forse è
stato meglio così. Green ha sbollito, anche se Sabrina non ci ha fornito
nessuna traccia. A Zafferanopoli, il cristallo non c’è”.
Le si
avvicinò e sospirò.
“Un altro
buco nell’acqua”.
Blue annuì,
lui non la vide. Davanti alla loro finestra qualcuno faceva jogging indossando
un k-way blu. Passarono pochi secondi, lei poggiò la mano sul vetro e sospirò.
“Come hai
dormito?” chiese poi Red, per interrompere quel silenzio imbarazzante.
Quella si
voltò verso di lui e sospirò. “Sei serio? Dopo quello che è successo ieri sera
vuoi davvero parlare di come ho dormito?”.
Fu lì che
l’uomo si perse per un attimo nei suoi occhi blu, profondi, quasi infiniti. La
frangetta castana a stento nascondevano la lucentezza delle iridi, mentre la
coda impreziosiva il collo e lo risaltava. Il volto era niveo, pulito dal
trucco che utilizzava.
Ma era
bellissima lo stesso, e lui lo sapeva.
Le guardò
per un attimo le labbra, quindi batté le palpebre per qualche istante.
“Non ho
molta voglia di parlare di ieri, Blue…”.
“In tal caso
ho dormito su di un fianco, grazie. Però tu dimmi perché ti sei lasciato
colpire”.
Tornò
pesante quel silenzio, e lo sguardo tenace della donna riprese a scandagliare
il fondo delle sue emozioni.
Il ragazzo
fece spallucce e guardò ancora in basso. “Non lo so”.
“Sembra
quasi che tu voglia punirti per ciò che è successo. Come se il Monte Argento
non fosse stato abbastanza”.
“Il Monte
Argento non è stata una punizione…”
“Solo, sotto
la neve, al freddo. No, ma continua a dirmi cazzate, che io ti ascolto…”.
Red sorrise,
dolcemente. Blue continuò.
“Ti senti
ancora in colpa, vero?”.
La guardò,
dopo un lungo sospiro. “Perché? Tu no?”.
Un tuono
squarciò il cielo e l’acqua prese a cadere ancor più ferocemente. Blue non
rispondeva, guardava oltre la finestra per cercare un appiglio, un qualsiasi
motivo per non rispondere. E non perché non avesse la risposta dato che, in un
modo o nell’altro, Blue rispondeva sempre. Vedeva gli ombrelli di mille colori
scambiarsi rapidi di posizione, scontrarsi, andare via.
“Dove vanno,
tutti così di fretta, quando il mondo sta per finire?”.
“Non
cambiare discorso”.
Si voltò,
lei, e lo guardò negli occhi. Lo afferrò per le spalle quindi annuì.
“Il fatto è
uno, ed è molto, molto semplice: io sento di esser stata perdonata. E anche tu
sei stato perdonato da Yellow”.
“Io la
sento, la sua sofferenza. Di tanto in tanto” riprese lui. “Certe volte fissa il
vuoto ed è come se rivedesse quelle cose. E io sto male, perché non lo merita
assolutamente”.
“È normale.
Anche Green soffre, quando ci ripensa. È rimasto deluso”.
Annuirono
entrambi.
“Ma bisogna
andare avanti” continuò. “Sono cose che fanno parte della vita… Dopo un
tradimento si analizzano molte cose, si comprendono le proprie debolezze… i
propri punti di forza… Si cresce”.
“Io mi sento
soltanto sporco”.
“Anche io mi
sono sentita così” annuì, sciogliendo la coda e ricomponendola, più ordinata.
“La prima persona che deve perdonarti devi essere tu. Il resto è passato”.
“Forse per
te. Quel pugno, ieri, mi ha ricordato quanto male abbia fatto a loro due e…”.
“Senti” lo
interruppe. “Dovremmo essere qui a cercare quel dannatissimo cristallo. Basta
rivangare questa situazione, prima finirai tu e prima finiranno loro…”.
Red annuì,
quindi sospirò. Non gli mancava la sua risolutezza.
Poi qualcuno
bussò alla porta.
“È la mia
colazione” fece il ragazzo, voltandosi repentino e andando alla porta. Prese il
carrello, lasciò una mancia e si voltò.
E Blue non
c’era più.
Rimase a
guardare la porta della sua stanza per qualche secondo, prima di pronunciare le
labbra, sospirare, e avvicinarsi alla poltrona col rivestimento di velluto
azzurro.
I suoi
pensieri restarono avvolti in una coltre grigiastra, la stessa che divorava il
cielo di Zafferanopoli.
Blue non
poteva vederlo, s’era rinchiusa nella propria camera, quasi a volersi salvare
da quella situazione. Lì era tutto buio, perché le finestre erano chiuse e Green
doveva riposare, dopo quella notte insonne.
Le spalle
della donna erano ancora contro il muro, le mani pure, l’accappatoio s’era
aperto e aveva mostrato la camicia da notte. Il respiro era greve e lo sguardo
non poteva non poggiarsi sull’uomo che occupava la metà calda del letto.
E sembrava
così tranquillo che le pareva un peccato doverlo svegliare, più tardi.
Gli si
avvicinò e lo vide inerme, come non lo vedeva da tempo.
Calmo, come
non lo vedeva da tempo.
“La tua mente ti sta divorando” sussurrò, fissandolo. Vedeva le sue labbra leggermente
schiuse, i capelli spettinati sul cuscino e la fronte non contrita.
Come un
tempo, quando di tanto in tanto sorrideva con lo sguardo pulito.
Le cose
erano cambiate, lo percepiva. Lui s’era indurito, la vita lo stava torchiando.
Girò attorno
al letto, coi piedi scalzi, poi lasciò cadere l’accappatoio sulla moquette e
quindi sospirò. Ripensava allo sguardo di Red, alla sua espressione contrita.
Lui si
sentiva in colpa.
Lui ci
pensava ancora.
Lui pensava
ancora a lei.
Si sedette
sul letto e tirò leggermente le coperte a sé, rannicchiata nella sua parte del
letto, quella fredda, dando le spalle alla tempesta e all’uomo che tanto vi
assomigliava.
Unima, Libecciopoli, Palestra di Rafan
Le porte si
erano aperte silenziosamente, producendo soltanto un soffio lascivo. Il volto
di Fiammetta fu assalito da uno spiffero d’aria bollente.
Lì faceva
caldo. Faceva definitivamente caldo.
Con lucidità
ritrovata si avvicinò rapida al banco d’accettazione, sorridendo in maniera
finta e battendo qualche volta di troppo le palpebre.
“Moore.
Fiammetta Moore” rispose, quando una biondissima receptionist di nome Britney
le aveva chiesto chi fosse.
“Oh. Ma è la
Capopalestra di Hoenn?”.
Fiammetta
annuì, grattandosi una guancia e afferrando con forza il manico della borsa,
vedendo la donna disegnare col dito una linea sul foglio delle prenotazioni.
“È che…”
sorrise. “Beh, non me l’aspettavo proprio…” concluse, alzando lo sguardo
ceruleo. “Non ha prenotato, vero?”.
“No. Ero in
città per cose personali e mi sono detta che forse avrei potuto fare un salto
qui per vedere come i colleghi di Unima organizzavano le cose”.
Fiammetta
vide Britney annuire. Il suo cellulare vibrò, la donna lo guardò rapida, per
poi distogliere subito lo sguardo. In cuor suo sperava che fosse arrivata la
risposta di Arthur al messaggio che gli aveva inviato qualche minuto prima. Si
assopì per un istante, lungo pochi secondi ma che pesavano come tutti e tre gli
anni in cui aveva conosciuto quell’uomo, in cui aveva imparato ad amare lui, il
vino rosso e il buon sesso. Pensava spesso che le loro conversazioni gravassero
troppo sul presente, sul loro lavoro e su quanto lo definissero stupido e poco edificante, e mai sul
futuro. Lui era lontano, chilometri e chilometri di distanza, e si vedevano
soltanto durante le feste programmate e le vacanze estive. Spesso Arthur gli
chiedeva del suo capo, Rafan, di che tipo di persona fosse, che musica
ascoltasse e cosa gli piacesse mangiare, ma non riusciva a discostarsi dalla
realtà dei fatti: era un texano esaltato che aveva ereditato dal nonno un grande
intuito per gli affari e aveva investito il proprio denaro nelle miniere. Lì ad
Unima era riuscito nell’intento di trovare un luogo perfetto per scavare,
cercando e rivendendo preziosi diamanti al miglior offerente. Indossava sempre
il cappello a tesa larga, era xenofobo e razzista, maschilista, amava il
country e la carne di manzo. Indossava tutti i giorni sempre la stessa
puzzolentissima colonia, e nonostante ciò la puzza di sigaro lo seguiva come un
cagnolino fedele.
“Ci sono
problemi?” domandò Fiammetta, battendo le palpebre qualche volta di troppo e
sorridendo. Vide la segretaria scorrere col dito tremulo lungo il foglio degli
appuntamenti.
“Lei non ha
un appuntamento…”.
Fiammetta
sorrise e spalancò gli occhi, lasciando quasi andare quella vena di follia che
stava trattenendo; si diede un contegno, riprendendo la situazione tra le mani.
“Io e il suo
capo siamo colleghi… Sono sicura che riuscirà a garantirmi un canale
preferenziale, se glielo chiede…”.
Britney vide
quella donna meravigliosa, forse un po’ troppo smagrita rispetto alle foto dei
tabloid, mentre passava le mani nei lunghi capelli rossi. Poi puntò gli occhi
su di lei.
“Vuole
che…”.
“Chiamami
Rafan, per favore”.
Era tutto
perfetto. La segretaria annuì, malcelando il tentennamento. Un nuovo messaggio
fece vibrare il telefono.
“Vuole
rispondere prima?” domandò Fiammetta, guardando la donna distratta.
“No! Ma che
dice, no! Il problema è che…”.
“Cosa c’è?”
chiese Fiammetta, diventando inquietantemente seria.
“Il signor
Rafan è impegnato e ha espressamente chiesto di non…”.
“Devi fare
quel che dico” ribatté immediatamente l’altra. Gli occhi di brace della donna
ardevano, catturando lo sguardo ignaro dell’altra. Aggrottò la fronte, Britney,
non sicura di ciò che avesse sentito. Vide Fiammetta sorridere, poi si sporse
oltre il bancone e diede un’occhiata.
Cominciò a
ridere compulsivamente.
Britney si
spaventò.
“Signorina
Moore, stia indietro altrimenti mi costringe a chiamare la sicurezza”.
Non la
sentì, quella folle copia della Capopalestra di Cuordilava; si limitò ad
afferrare una Staedler e a infilare la donna ai lati del collo, vedendola
morire in silenzio, pochi secondi dopo, in un lago di sangue.
Si sentì
subito bene, come se avesse dovuto sopprimere per anni la sua reale natura.
Furono i due
minuti più lunghi della sua vita. Il sorriso che non andava via, quello
compulsivo, pareva un quadro le cui labbra carnose, screpolate sotto il
rossetto rosso e macchiate di sangue, facevano da cornice.
Riacquisì
poi un attimo di lucidità, brandì la penna come fosse un coltello a serramanico
e si guardò attorno.
Era
totalmente sola, con una musichetta adatta più a un ascensore che a una sala
d’aspetto in sottofondo e l’odore acre del sangue che si univa a quello del
tabacco. Le telecamere a circuito chiuso la riprendevano mentre puliva mani e
volto sull’impermeabile che indossava, e che abbandonò prontamente. Le guardò,
sorridendo soddisfatta e alzando il dito medio, determinata a raggiungere
Rafan. Il passo successivo fu staccare dal collo martoriato di Britney un badge
a piastrina, che indossò rapidamente non appena mise piede nel corridoio della
Palestra.
La prima
porta sulla destra era accessibile a tutti e portava gli sfidanti da Rafan, ma
lei la superò, andando oltre, dato che cercava il cartello col divieto
d’accesso al personale senza targhetta, non autorizzato.
A lei
interessava la miniera, non la Palestra: l’ultima porta sulla sinistra. Quando
la raggiunse si avvicinò al lettore di badge, strisciò quello di Britney e dopo
sentì la serratura scattare. Aprì la porta e quando se la chiusa alle spalle
sentì le orecchie fischiare: il corridoio che le si presentò davanti era lungo
più di duecento metri ed era sicuramente pressurizzato. Stava per raggiungere
il suo obiettivo. Brandiva con energia la penna e avanzava a passo svelto
all’interno della montagna alle spalle della Palestra. Ogni venti metri circa,
neon bianchi ronzavano e illuminavano la passerella fatta di marmo bianco e nero,
talvolta sporca di polvere e terreno.
Due minuti
dopo arrivò all’altro capo del corridoio. Altra porta, altro lettore di badge,
superò anche quella e quando spalancò la porta un forte getto d’aria calda le
investì il volto.
A lei il
calore piaceva.
Chiuse anche
la seconda porta dietro di sé, che rispose con un cigolio sinistro. Il piolo
scattò nella serratura emettendo un rimbombo possente, che si propagò in basso
nelle profondità della montagna, dove quella lunga scalinata bordeaux
arrugginita scendeva.
Lei prese a
percorrerla, accorgendosi di come la roccia viva attorno a lei diventasse
sempre più calda.
Amava quel
tepore. La caricava.
Scese ancor
più giù, venti, trenta piani, forse quaranta, perse il conto, ma quando toccò
terrà, aprendo l’ennesima porta col badge di Britney, si ritrovò in una caverna
enorme, attorniata da centinaia di minatori dai caschetti gialli e grosse tute
azzurre. Loro, armati di piccozza e vanga, scavavano e rompevano le pareti in
cerca di carbone.
Prese a
camminare tra di loro, celando la penna insanguinata nella manica, e avanzò
lentamente verso il centro del gruppo di lavoro, nel tentativo di andare oltre.
Nel mentre, però, li sentiva mormorare:
“Ti dico che quella è Fiammetta
Moore!”.
“Mi sembrava più in carne, in tv…”.
“Io me la scoperei lo stesso”.
“Certo… dopo una così il cazzo puoi
anche appenderlo al chiodo…”.
“Si, certo… Lavora, coglione”.
Non ci diede
peso, però, ben concentrata su ciò che aveva da fare. Poi però vide, a una
decina di metri da lei, che un minatore alto e muscoloso, più degli altri,
lasciò cadere il piccone per terra, sbuffando e voltandosi, ponendosi davanti a
lei.
Fiammetta lo
vide, con la pelle sporca di carbone, nera, come i capelli, ricci e lunghi fino
alle spalle, che fuoriuscivano dal caschetto.
“Che ci fa
qui? Si è persa?” fece, respirando profondamente e detergendo il sudore sul
viso con la spalla; creò delle striature nere sulla pelle ambrata.
“Salve”
sorrise Fiammetta, chinando il capo in cenno di saluto.
“Lei sa che
non può stare qui, vero?”.
E poi, come
qualche minuto prima, si trasformò in quella versione lucida e fredda di se
stessa.
Inclinò
leggermente la testa e vestì lo sguardo di una sicurezza del tutto inaspettata.
Sorrise.
“Certo che
lo so. Ciò che non so è se lei sa chi sia io”.
“La stronza se la tira” aveva sentito dalle retrovie, mentre l’espressione
dell’uomo che aveva davanti cominciava a riempirsi d’interrogativi.
“Fiammetta
Moore. E allora?”.
“Lavoro
vicino a un vulcano, non sono l’alta temperatura o degli uomini coi caschetti a
spaventarmi, a maggior ragione quando è stato Rafan a chiamarmi… Sai, calcoli
geotermici e altre cose così…”.
Aggrottò la
fronte, levò il caschetto e si deterse il sudore con l’avambraccio villoso.
“Veramente
non ne sapevo nulla…”.
“Oh, è stata
una cosa improvvisa” sorrise quella, spostando i capelli dietro alle orecchie,
sia a destra che a sinistra. “Ero qui, l’ho chiamato e mi ha detto di passare,
tant’è vero che non mi è stato neppure preparato un badge ospiti, e sto utilizzando quello della gentilissima signora…” guardò
poi il nome sulla targhetta. “... Britney. Della gentilissima signora Britney...”.
“Quindi
Rafan sa tutto?” domandò quello, visibilmente più calmo.
“Naturalmente”
annuì l’altra.
“E perché
nessuno l’ha accompagnata? Insomma, questo è un cantiere aperto, con macchinari
pericolosi e altro… Si possono correre diversi rischi, se non si ha la
preparazione adatta”.
Fiammetta
annuì ancora, quasi condiscendente nei suoi confronti.
“Ciò che
dice è giusto, ma sopra c’è la calca, tra sfidanti e altro, e io ripeto che
lavoro a sessanta metri da una camera magmatica. Non corro alcun pericolo”.
Decise poi di premere sull’acceleratore. “Lei sa, vero, che sono un’autorità?”.
L’uomo
cambiò espressione, spalancando gli occhi e annuendo rapido. “Sì. Sì, assolutamente,
signorina Moore, è solo che…”.
“E sa, vero,
che adesso sta intralciando il mio lavoro?”.
L’operaio
scrupoloso si limitò ad annuire in silenzio, col capo chino.
“Bene. Dov’è
Rafan?”.
“Di giù...”
rispose l’uomo, dopo una piccola pausa.
“Oh... Non
ho ancora visto tutta la miniera?”.
“No. Questo
è un luogo di recupero per il carbone, più giù ci sono i diamanti. Quelli
nascono in condizioni di pressione e calore assai più elevati... Bisogna
scendere ancora”.
“Bene. Dov’è
che devo andare?”.
L’uomo alzò
la testa ed allungò l’indice sporco di polvere di carbone in direzione nord. “Lì
troverà ciò che cerca. Purtroppo col badge di Alina non potrà oltrepassare la
porta di divisione, ma potrà utilizzare il mio, che sono il direttore delle
estrazioni...” disse, tirando fuori dai jeans la sua tessera.
“Meraviglioso”
sorrise la donna, entusiasta oltremodo. Lo infilò al collo e poi continuò a
camminare, accompagnata dall’uomo.
“E... a cosa
servirebbero questi calcoli?” domandò poi quello, sentendo il profumo pungente
della donna aggredire quello del terreno e del sudore.
“Dati...”
rispose lei.
“Ma non ha
attrezzatura?”.
Prima di
rispondere, Fiammetta si limitò a sorridere. Vide piccoli vagoncini su rotaie
mossi da operai muscolosi e sporchi di nero che scaricavano il carbone in zone
prestabilite e sparivano subito dopo, entrando in tunnel diretti verso le parti
più profonde della miniera, per poi ritornare diversi minuti dopo, ancora più
sporchi e sudati, in un circolo continuo e senza fine.
“Ho inviato
qui tutto qualche giorno fa” rispose quella. “Ha tutto Rafan... Quella roba costa
parecchio...”.
“Naturalmente.
Allora l’accompagno alla porta”.
“Posso fare
da sola, grazie, torna al lavoro” sorrise quella, voltandosi e spalancando il
sorriso.
Gli occhi
erano aperti quanto più possibile, voleva vedere per l’ultima volta i visi di
quelle persone. Sentiva l’adrenalina crescerle nel sangue, aumentarle i battiti
del cuore, con le mani che fremevano.
Arrivò al
lettore di badge e passò la scheda dell’uomo dai capelli ricci, quindi si voltò
e sorrise. Prese la sfera del suo Magmortar e lo fece uscire lì, prima di
chiudere la porta e di cominciare nuovamente a scendere le scale, come se nulla
fosse successo.
Ogni suo
passo era accompagnato da urla sinistre e disperate. E stavolta non provenivano
dalla sua testa.
Johto, Ebanopoli, Tana del Drago
Qualche
goccia veniva filtrata dalla roccia porosa della montagna e ricadeva nel grosso
lago sotterraneo. Lì, il silenzio veniva rovinato solo da quel tuffo, preciso e
costante, che alimentava l’atmosfera monumentale che Sandra tanto amava. Le
torce donavano rari sprazzi di luce sulle pareti, consentendo ai Dratini e ai
Dragonair d’illuminare il centro dello specchio d’acqua, con delle scie
splendenti e azzurre.
Tranne lei,
in quel posto non poteva entrare nessuno. Era la Capopalestra di Ebanopoli.
E ogni volta
che lo faceva seguiva un rito preciso e rodato; cominciava col mettere aria
nuova nei polmoni, e col lasciare che il fresco le divorasse pelle.
Portava poi
le mani alle clavicole e, prima a destra e poi a sinistra, liberava i bottoni
del mantello dalle asole che li abbracciavano, facendolo posare ai suoi piedi.
Mosse le
spalle, le massaggiò silenziosa per qualche secondo quindi sospirò; lì dentro
non doveva portare alcun mantello, nessuno avrebbe urlato al sacrilegio,
nessuno avrebbe potuto vederla. Il fatto di essere la prima Capopalestra Domadraghi di Ebanopoli a non essere un
uomo quasi le dava il diritto di non entrare in quel luogo magico in alta
uniforme.
Anzi.
Già il solo
fatto di portare quel pesante mantello, lì dentro, le pareva una cosa assai
sconveniente.
Levò i
lunghi stivali e percorse sette passi sulla passerella di legno che aveva
davanti, che la portava direttamente sul lago.
Sorrise, si
sedette e immerse i piedi nelle acque gelide.
Ripensava a
suo padre, Capopalestra prima di lei, elemento di spicco di tutto il clan. Lui diceva che quello fosse il luogo
dove uomini e draghi avessero stretto il patto ancestrale di rispetto e
collaborazione che aveva creato l’ordine dei Domadraghi, pertanto bisognava essere sempre ben presentabili,
quando si porgevano i propri omaggi al drago originale.
Lei lo
ricordava perfettamente, da piccola, quando lo aiutava a indossare la grande
armatura bardata del grande eroe di Ebanopoli, che i Capipalestra si
tramandavano di generazione in generazione.
Sorrise,
Sandra, muovendo i piedi nell’acqua: quell’armatura era troppo grande per lei,
probabilmente sarebbero servite due donne per riempirla del tutto.
Inizialmente
rimase davvero male quando si accorse di non essere in grado di portare quelle
placche di metallo placcate in oro fin dentro la Tana del Drago, ma poi non ci
pensò più: anzi, si creò le proprie regole.
Ecco perché
si levava il mantello. Ecco perché sfilava gli stivali.
Lì faceva
anche un’altra cosa, che poteva fare davvero poco spesso: sciolse i capelli,
liberandoli da quella coda di cavallo che costringeva la sua femminilità.
Quando la lunga chioma turchese, da prima spettinata dalla corrente che
proveniva dall’ingresso della grotta, finiva per poggiarsi delicata sulle sue
spalle.
Rimase
qualche minuto lì, immobile, pensando che lì dentro potesse essere, finalmente,
donna. Una donna con delle fragilità, che sorrideva per le cose futili, che
piangeva quando s’emozionava, che stava male una settimana al mese e che non
doveva per forza costringersi a essere una Domadraghi
quando non voleva.
C’erano
delle volte in cui voleva essere soltanto Sandra. Si alzò in piedi, le dita dei
piedi quasi non le sentiva più, poi abbassò il collo e cercò con le mani la
cerniera della tutina azzurra. Ci perdeva sempre un po’ troppo tempo, avrebbe
dovuto farsene fare una con l’apertura sul fianco, ma una volta che la zip
scese giù, il suo corpo candido si erse come una crisalide dai resti di un
bozzolo fin troppo stringente.
E rimase
nuda.
Chiuse gli
occhi, sentì l’aria fredda divorarle la pelle. Quando li riaprì tutto era
uguale.
Nessuno era
indignato per il fatto che quello che mostrava fosse il corpo sottile e fragile
di una donna, e non la figura statuaria dell’eroe ancestrale; difatti poco
importava che Sandra fosse una Domadraghi
eccezionale, un’Allenatrice fuori dal comune e un’atleta perfetto.
Era una
donna. Solo una donna, e quella città, così chiusa, così patriarcale, così
maledettamente maschilista, non riusciva a vedere nient’altro in lei.
“Anche oggi
sono a casa…” aveva sussurrato, come se qualcuno avesse potuto sentirla, prima
di piegare le ginocchia e tuffarsi nella pozza gelida e luminosa.
Quando
riemerse, un po’ di quella tensione era scappata via, lasciandola libera dal
peso del suo nome.
Forse suo
padre voleva un maschio. E anche lei, sotto sotto, aveva desiderato pettorali
tonici e bicipiti forti.
Invece le
era toccato il semplice e banale utero. Con quello non si volava in alto, con
quello non si comandava.
Con quello
si cucinava, si badava ai bambini.
Si veniva
derisi. Eppure non era colpa sua, se era nata donna.
Odiava
Ebanopoli.
Sbuffò,
anche quel giorno le lacrime cominciarono a mischiarsi all’acqua del lago. Il cuore
batteva forte, l’acqua era gelida ma riempiva di vita il suo cuore e scatenava
in lei quella rabbia che spesso aveva allontanato la sconfitta, la disfatta. La
morte.
Riemerse da
quelle acque qualche secondo dopo, fiera della sua bellezza e della sua forza.
Sorrise,
libera: lì poteva levare lo scudo e l’armatura, ed essere se stessa; poteva
smettere d’interpretare quel personaggio e diventare, finalmente, la persona
che le veniva naturale essere.
Fiera tra i
draghi, lì mostrava ogni suo sentimento, ogni sua emozione, e ricreava la
solidità mentale che le serviva per indossare quella maschera di forza e totale
mancanza di sensibilità, così come le aveva insegnato suo padre.
Sì, suo
padre le aveva insegnato a essere un vero uomo e di mostrare a tutti la disciplina
di Ebanopoli. Proprio come Lance.
Lance, il
Campione, il cugino, quello che avrebbe dovuto sostituirla dal giorno zero.
Per un
momento, un breve momento, si chiese se ne fosse valsa effettivamente la pena;
insomma, essere se stessi soltanto in quella grotta non era vita. Era prigione.
Ma doveva
andare così. Almeno aveva quel rito quotidiano.
Risalì sulla
passerella, col freddo che mangiava aggressivo la sua pelle; avrebbe dovuto
vestirsi e andare di corsa a casa, al caldo, ma decise di stendersi lì,
immobile. A godersi ogni brivido che il suo corpo di donna le potesse donare.
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