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12. Royalties pt.3
- Johto, Isole Vorticose, Capo Piuma, Fuori la Grotta Sacra di Lugia –
La pioggia continuava a battere radente e non accennava a diminuire. Capo Piuma era diventata un’illusione d’ombre dietro quel palcoscenico liquido che cadeva dal cielo.
“La Grotta è questa” faceva Martino. “Le Kimono Girl non sono uscite da qui”.
“E questo è un problema, fratellone. Sono delle grandi combattenti, le Kimono Girl... Per non essere riuscite a chiudere questa missione vuol dire che sono state sopraffatte da qualcosa di molto forte...”.
“O qualcuno...” rispose granitico il ragazzo. Ormai l’acqua aveva impregnato i capelli del ragazzo e lo aveva costretto a tirarli indietro. Le gocce cadevano lente dal suo mento e terminavano sul suo petto tonico.
“Entriamo” fece poi la ragazza, prendendo il fratello per mano ed immergendosi nell’oscurità.
Già, perché non c’era luce. Inoltre c’era un forte odore d’umido.
Insomma, erano in una grotta.
“Pichu...” sussurrò Martino, smontando lo zaino dalle spalle e liberando il piccolo Pokémon che percorse il suo braccio fino ad arrivare alla sua spalla.
“Ottimo” annuì Marina, che già aveva capito.
Il ragazzo prese il suo Pokémon partner e lo poggiò per terra, totalmente al buio, quindi annuì a sua volta. “Ora illuminiamo questa grotta con un Flash”.
E d’improvviso un bagliore molto potente fu sprigionato dai loro piedi: Pichu Ukulele era diventato una torcia. Marina guardò tutt’intorno, fissando le alte pareti che si collegavano al soffitto di pietra. L’acqua filtrata attraverso la roccia porosa cadeva dall’alto formando pozze più o meno profonde e creando, in altri casi, stalattiti doppie e resistenti.
“Incredibile...” sorrise la donna, avanzando su quel fastidiosissimo fondo sabbioso. Le sue parole rimbombarono sulle pareti della grotta e formarono una profonda eco, che ritornò indietro poderosa.
“Dobbiamo stare in silenzio, Mari...” sussurrò Martino. “Se ci fosse qualcuno di malintenzionato ci sentirebbe arrivare diversi secondi prima, se urlassimo”.
Quella annuì, riprendendo a camminare ed arrivando molto rapidamente ad un grosso lago.
Le acque erano chete e non tralasciavano vedere nulla oltre la superficie.
Sarebbe potuto esserci qualsiasi cosa, al di sotto di essa.
Martino guardò sua sorella facendole segno che dovevano attraversare lo specchio d’acqua e lei subito immerse il piede: era calda.
Guardò Martino e lo vide fare lo stesso, avanzare e sorpassarla. L’acqua era praticamente immobile, increspata soltanto dal loro passaggio. Remoraid temerari s’avvicinavano alle gambe veloci dei due, per poi allontanarsi prontamente al loro movimento.
Una volta arrivati dall’altra parte Marina vide una scala incisa nella roccia che saliva ad un ipotetico piano superiore. Guardò Martino, nei suoi occhi convivevano responsabilità ed incoscienza smodata. Il rumore della pioggia che batteva sulla roccia esterna era inesorabile, e sinceramente Marina non vedeva l’ora che finisse.
“Andiamo...” sussurrò Martino, aggrappandosi alla roccia e salendo, seguito da sua sorella; S’aprì un grosso spiazzale, fatto di rocce ed ampie salite.
“Dovremmo dirigerci verso l’altura” osservò quella.
Martino annuì e, preceduto da Pichu, cominciarono a salire lungo la zona alta. “Qui potremmo avere una visuale maggiore”.
“Io però credo che Lugia si trovi verso il basso e...” diceva Marina, quando poi vide qualcosa per terra. S’avvicinò ad una roccia sulla destra ed analizzò: si trattava di una bacchetta per capelli, di quelle che indossavano le Kimono Girl.
“Siamo sulla strada giusta” disse Martino, sempre a bassa voce.
Marina si guardò intorno, cercando l’altra bacchetta, senza però riuscire a vederla.
“Proseguiamo” sentì dire dal fratello.
“E dove vorresti andare?”.
Martino si girò e, guardandosi attorno, si fermò. “Lugia si trova verso il basso, questo lo sappiamo per certo...”.
“Sì, le testimonianze sono queste” ragionò Marina.
“Però ora siamo in alto”.
“Quindi dobbiamo scendere”.
E quindi ripresero a camminare, esplorando la grotta in lungo ed in largo, affondando i piedi nella sabbia e nell’acqua calcarea, fino a quando, dalla parte opposta della scala d’ingresso, non trovarono una piccola discesa, dietro ad una grande roccia di forma cilindrica.
Quando la percorsero, si ritrovarono davanti ad uno stretto corridoio; il rumore dell’acqua che scorreva si faceva sempre più forte mano a mano che lo percorrevano e, proprio a metà di esso, Martino vide l’altra bacchetta.
“Guarda!” esclamò, alzando un tantino il volume della voce. Raccolse il bastoncino di legno e lo comparò a quello trovato precedentemente.
“No...” sussurrò Marina, come sconvolta. “Guarda tu...” disse, alzando poi l’indice in avanti. Martino l’ascoltò e scorse, nel buio soffuso illuminato da Pichu, la figura d’una giovane donna tramortita e stesa sul fianco. Dietro di lei altre tre donne, inermi.
Corsero entrambi dalla prima delle quattro, col ragazzo più rapido nell’inginocchiarsi ed avvicinare l’orecchio alla labbra schiuse di quella; sua sorella rimase in silenzio, soppesando i respiri per paura di emettere troppo rumore.
“Respira ancora” disse quello, afferrandola sotto le braccia e spostandola.
La pelle di quella era diafana e faceva molto contrasto con i capelli estremamente scuri che, inzaccherati di sabbia, le ricadevano sulle spalle. Non sembrava avere più di trent’anni.
Spalancò gli occhi non appena si sentì trascinare e lanciò un urlo fortissimo.
“Chi siete?!” esclamò, con gli occhi terrorizzati ed il battito del cuore a mille. Le iridi azzurre penetrarono nello sguardo di Martino e lo spiazzarono, attraversandolo e dividendolo in due, come un fulmine nel nero del cielo della tempesta.
“Siamo... i buoni. Siamo i buoni”.
“Sei svenuta qui” replicò velocemente Marina. “Ti abbiamo trovata svenuta qui per terra”.
“È entrato! Lui è entrato!” urlava quella, impanicata. “Ed ha ammazzato le altre!”.
“Chi?!” domandò il ragazzo, sobbalzando.
“L’uomo! L’uomo dagli occhi rossi!”.
Marina guardò suo fratello, repentina. “L’uomo che ha rubato la Lacrima di Giratina aveva gli occhi rossi...” fece, tirando fuori il cellulare dalla borsa; poi scrisse a Gold.
[Sono nelle Isole Vorticose]
[Non torni per cena?]
[Qui c’è un uomo dagli occhi rossi, responsabile della furia di Lugia e della tempesta che si sta abbattendo su noi tutti]
[Uhm... Collirio?]
[Per una volta potresti essere serio?! Potrebbe essere lo stesso uomo dagli occhi rossi che ha rubato il cristallo nero!]
[...]
[Gold?]
[Cerca di fotografare quell’uomo. E di sopravvivere. Io devo fare una telefonata].
[Dove sei?]
[In banca]
[Non ci prosciugare il conto]
[Ci sto lavorando. Ti amo, culo d’oro, a dopo. Stai attenta].
[Non torni per cena?]
[Qui c’è un uomo dagli occhi rossi, responsabile della furia di Lugia e della tempesta che si sta abbattendo su noi tutti]
[Uhm... Collirio?]
[Per una volta potresti essere serio?! Potrebbe essere lo stesso uomo dagli occhi rossi che ha rubato il cristallo nero!]
[...]
[Gold?]
[Cerca di fotografare quell’uomo. E di sopravvivere. Io devo fare una telefonata].
[Dove sei?]
[In banca]
[Non ci prosciugare il conto]
[Ci sto lavorando. Ti amo, culo d’oro, a dopo. Stai attenta].
Marina alzò lo sguardo e vide Martino con lo sguardo contrito.
“Ti pare il momento di cazzeggiare su WhatsApp?”.
“Non stavo cazzeggiando...”.
“No, culo d’oro, non stavi cazzeggiando... Che poi non capisco come tu faccia ad avere campo qui dentro...”.
Marina avvampò. “Non leggere!”.
“Sii seria, per favore!” esclamò lui. “Non farti distrarre da Gold ed andiamo avanti, abbiamo del lavoro da fare!”.
“Sì... Hai ragione, scusa...”.
- Kanto, Aranciopoli, Banca Centrale –
“Devo fare una telefonata” fece Gold, fermandosi d’improvviso. Avevano percorso il corridoio che portava al caveau solo a metà quando Sandrà si voltò, esterrefatta.
“Che diamine stai dicendo?! Siamo nel bel mezzo di un’operazione!”.
Gold la guardò per un istante, sbuffando e cominciando a camminare nervosamente verso l’uscita.
La donna invece spalancò la bocca: non credeva Gold così volubile.
“Hai la capacità di concentrazione di una mosca!” fece, correndogli dietro e bloccandolo per la spalla.
“Che vuoi?” domandò, sentendo il Pokégear squillare.
“Abbiamo una missione!” esclamava quella. La coda di cavallo oscillava ancora ed i ciuffi davanti agli occhi le adombravano lo sguardo azzurro, che s’incrociava in quello aureo di Gold ed esplodeva giusto nel mezzo. C’era tensione tra i due, lo si poteva chiaramente notare.
“Ora devo fare un’altra cosa, Sandra. Due minuti”.
“Non abbiamo due minuti!” urlò quella, puntando il dito guantato in direzione del caveau.
“Io ce li ho. Pronto, Xavier!”.
“Ma come?! Gold, sei sempre il solito stronzo!” esclamò quella, voltandosi iraconda ed avanzando sola, sparendo nel corridoio buio.
“Xavier” ripeté quello. “Mi senti?”.
“Gold... Che succede?”.
“Dove sei?”.
“A casa mia, a lavorare al...”.
“Esci immediatamente da lì” fece quello, serio. E Xavier, che aveva capito che tipo di persona fosse l’interlocutore, capì che stesse per succedere qualcosa di straordinario.
“Che succede?!”.
“Non te lo posso dire. Vai a prenderti del pollo, che è buono”.
“Non ho voglia di pollo”.
“Vai da Cindy, allora. Fai qualsiasi cosa ma esci da quella casa e stai tra la gente. Fai in modo che tu abbia testimoni oculari”.
“... Gold?”.
Quello vide Sandra sparire oltre la porta blindata della cassaforte, accompagnata da urla di sgomento e rumori di lotta.
“Devo fare presto!”.
“Ma...”.
“Xav... Più tardi c’incontreremo e ti spiegherò tutto”.
“... Ok...”.
“Ottimo. Statti bene” rispose Gold, attaccando.
- Johto, Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon –
Xavier rimase un paio di secondi a guardare lo schermo del cellulare, con gli occhi spalancati ed il respiro tagliato. La bocca era schiusa.
La prima reazione che ebbe fu quello di voltarsi verso il laboratorio, guardandosi attorno e cercando di capire se ci fosse qualcuno intento a guardarlo.
Fissò poi le pareti, scrutando nel buio soffuso della stanza la presenza di qualche telecamera nascosta.
Poi fece spallucce. Sospirò e si risedette davanti al computer, salvando il suo lavoro e spegnendo lo schermo.
Quando si rialzò però si bloccò e ripensò alla stranezza della telefonata appena ricevuta.
“Che diamine voleva, Gold?” chiese, come se avesse un interlocutore davanti. Non riuscì a darsi una risposta rapida e capì che avrebbe fatto bene a portare con sé il notebook con tutti i dati che aveva elaborato fino a quel momento. Scattò una fotografia alla lavagna e prese il cellulare, per poi salire al piano superiore.
Quando lo faceva era sempre molto, molto affamato, oppure era stanco di dormire con la faccia sulla scrivania.
Di tanto in tanto andava anche a fare la spesa, anche se generalmente mangiava poco e male.
Il salotto era totalmente buio, con le persiane serrate ed i cuscini del divano per terra.
Puzzava di chiuso, lì.
“Dovrei mettere a posto. Già, dovrei proprio” pensò ad alta voce, raccogliendo il cappotto dalla poltrona ed immergendosi nel freddo di quel giorno.
Pioveva ancora; aprì l’ombrello e scarmigliò i capelli biondi sulla fronte.
Uscito dal vialetto si vide bene dallo stare accanto alle strade, battute da automobili furenti ed indaffarate: avrebbero sicuramente alzato acqua dalle pozzanghere e sarebbe finito per arrivare fradicio all’Harold’s.
Che poi non sapeva neppure se gettarsi lì dentro: avrebbe voluto continuare a lavorare anche se nel locale c’era quasi sempre tanto rumore. Aveva fame e già immaginava una bella fetta di torta con le meringhe.
Gli piaceva. Solitamente la prendeva con un bel bicchiere di latte caldo, anche se, guardando l’orologio, era quasi ora di pranzo. Avrebbe deciso una volta che sarebbe arrivato.
Affrettò il passo quando si avvicinò in corrispondenza della casa del vecchio Signor Kagazawa, dove una grossa depressione nel terreno aveva creato un avvallamento, con la conseguente grossa pozzanghera.
La sorpassò velocemente e s’immise sul rettilineo che dava al centro di Amarantopoli, con i negozi aperti a destra e sinistra. Allungò lo sguardo oltre gli edifici, sullo sfondo grigiastro, furibondo e bagnato, dove il cadavere del vecchio manicomio abbandonato incombeva dall’alto, oltre la foresta di aceri. Quel posto lo faceva rabbrividire, vi era entrato soltanto una volta, da ragazzino, per vincere una scommessa con uno dei suoi amici, Loris, uno spaccone che col senno di poi avrebbe lavorato come infermiere al Centro Pokémon.
Xavier non era un Allenatore quindi non entrava spesso lì. Era andato a trovarlo qualche volta, quando Cindy aveva spinto con tutto il gruppo per fare una rimpatriata, anche se lui avrebbe volentieri evitato di uscire dal proprio laboratorio per quelle incombenze sociali.
Xavier non era bravo con le persone.
Con Cindy soprattutto, con cui oltre a non essere bravo era persino arrabbiato.
Sbuffò, non voleva pensarci anche se sapeva che andare all’Harold’s sarebbe equivalso all’incontrarla.
Arrivò in piazza, sorpassò la Palestra di Angelo, in cui si stavano tenendo delle lotte; vedeva delle luci accese nell’arena. Guardò poi la Torre Bruciata attraverso la pioggia; in quei giorni gli sembrava sempre che ardesse ancora, almeno per poco, prima che quel temporale che batteva radente ed affamato l’asfalto lo avrebbe estinto.
Accanto al Teatro delle Kimono Girl, l’insegna del locale in cui stava per entrare risplendeva luminoso.
Quando superò l’ingresso ebbe il solito sentore, quella sensazione di calore e calma che quel posto distribuiva generosamente a tutti. Gli piaceva lo stile anni sessanta che avevano adottato per arredarlo, con sedili in pelle bianca e rossa e tavolini ad un piede esterno, che sembravano uscire direttamente dal muro.
Vi erano dei grossi cappelloni che spuntavano dal soffitto, rossi anche loro, ad illuminare l’intera sala, ed anche il bancone, alto, e la vetrina con tutte le squisitezze, perlopiù torte e crostate e croissant.
Tuttavia quel posto era famoso per due cose: nonostante i dolci buonissimi, Harold’s cucinava le migliori alette di pollo di Johto. Il contorno di patate olandesi e salsa barbecue era ideale.
Il secondo motivo era invece il personale: le ragazze che lavoravano come cameriere lì indossavano striminzite tenute da cheerleader, verdi, con gonne dello stesso colore ma a balze bianche. Un tempo montavano anche i pattini ma dopo che qualcuna aveva rovesciato erroneamente intere torte su famiglie ignare, sedute ai tavolini, decisero di abolirli immediatamente.
Da Harold’s c’era un tavolo che la gente sapeva essere del Professore.
Era il secondo sulla destra, quello che per qualche strano motivo era sempre vuoto, accanto alla finestra in cui la guarnizione era leggermente scollata. In inverno entrava un freddo terribile, lì.
E Xavier se ne fregava, gettando il borsello sul tavolo e poggiando delicatamente lo zaino col pc davanti a lui.
Aveva di spalle la porta, non voleva che la gente che entrava lo distraesse senza neppure volerlo; insomma gli veniva naturale alzare la testa ogni volta che la campana sull’ingresso suonasse.
Osservò il suo riflesso nella finestra, guardando le occhiaie sul volto stanco, gli occhi azzurri provati dalla lunga notte insonne passata a lavorare su limiti ed equazioni, derivate e formule fisiche da applicare.
Cercava la macchina del tempo.
Non che esistesse, eh, sia ben chiaro. Aveva praticamente ideato ogni cosa a riguardo, anche l’ipotetico concept di come sarebbe dovuta materialmente essere, ma non sapeva come farla funzionare.
Aveva scandagliato il concetto fisico del tempo in ogni sua parte, suddiviso in più parti, analizzato minuziosamente.
Voleva che la fantascienza diventasse scienza fantastica.
Tuttavia non credeva che ci sarebbe mai riuscito. Accese il pc quando pensò che avrebbe potuto perdere tutto il tempo che aveva in quel progetto infruttuoso, anche economicamente, dato che col tempo aveva brevettato diversi apparecchi, elettronici e non, e li aveva venduti alle migliori case di produzione che esistevano, facendosi pagare caro.
Ogni mese riceveva assegni da decine di produttori ed era diventato assai abbiente.
Non aveva bisogno di lavorare, lui era troppo intelligente per farlo, per farsi consumare dalla vita.
E non aveva bisogno neppure della gente, sapeva che quando si abituava ad avere delle persone accanto dopo non avrebbe potuto farne più a meno. Lo aveva già provato sulla propria pelle, proprio con Cindy.
Lei era seduta perennemente all’ultimo tavolo, sulla destra, quello di Angelo, sulla cui superficie troneggiava sempre un cartellino con scritto RISERVATO. D’altronde quel locale era stato acquistato proprio dal Capopalestra e Cindy lo gestiva per lui data la sua mole d’impegni.
Anche perché era sua moglie.
Quando era entrato, Xavier aveva gettato l’occhio, vedendo la donna dai capelli rossi che aveva sentito il richiamo della campana sulla porta ed aveva alzato lo sguardo. Una volta appurato che ad entrare fu Xavier alzò la testa e la inclinò verso destra, sorridendogli e facendogli un gesto con la mano, a mo’ di saluto.
Xavier fece finta di non vederla.
Ma Cindy era ostinata e lui sapeva che, non appena lui avrebbe cominciato a lavorare con un po’ più di concentrazione, lei si sarebbe seduta al suo tavolo. Disturbandolo.
Sì, perché Cindy lo disturbava.
Già, una donna bellissima dagli occhi dolci, le labbra morbide ed un bel corpo avviluppato nell’abbraccio di un maglioncino caldo era assolutamente un disturbo.
Sbuffò, Xavier, vide arrivare una cameriera bionda e slavata, col fisico da pin-up; aveva poco più di vent’anni, quasi sicuramente, e sarebbe stata la perfetta protagonista per qualche horror splatter con produzione di sei dollari.
“Buongiorno, benvenuto all’Harold, la tavola calda migliore della città!” esclamò sorridendo. Quella era una sorta di formula che Cindy aveva imposto ad ognuna delle ragazze che lavorava lì, ma Xavier era decisamente infastidito di sentirla ogni volta. “Cosa posso fare per lei?”.
“Voglio delle alette di pollo, con contorno di patate”.
“Un B2, ottima scelta. Posso consigliarle di abbinarci...”.
“Sì, dammi la salsa, Sadie” fece quello, asettico, leggendo il nome sul suo cartellino. La vide arrossire, violentemente. “E dopo mi porti anche una fetta di torta con meringhe”.
“Certo. Vuole bere una bella cola, vicino?”.
“No, portami una birra” disse.
“Che birra vuole?”.
“Un’Heineken andrà più che bene”.
Quella sorrise, mostrando tutti i denti di cui era provvista, strinse sotto al petto prominente i menù e si dileguò sculettando, con la bionda coda di cavallo che dondolava al movimento della sua testa.
Xavier aveva un pregiudizio sulle bionde.
Alzò la testa, ce l’aveva anche sulle rosse, con Cindy che ancora lo guardava, dietro agli occhiali da vista, distratta. Forse lo aveva beccato mentre si era voltato a guardare Sadie, di spalle.
Penserà che le abbia guardato il sedere, disse in mente. Poi inarcò un sopracciglio e fece segno di no con la testa, cioè, non gl’interessava. Sbuffò e calò la testa davanti al pc, aprendo il foglio di calcolo.
Arrivò la birra, fresca, ma non la toccò fino a quando, sette minuti dopo, il pollo non stava sfrigolando in un cestino davanti a lui.
Era croccante e salato. Caldo. Buono.
Ripensò a Gold; era strano, quel ragazzo. Ripensò alle parole che gli aveva detto all’interno della Torre Sprout, riguardo Cindy:
“Sei uno stronzo”.
“Prego?”.
“Non fraintendermi, non per giudicarti... anzi sì, sei proprio uno stronzo”.
“... Temo di non comprendere...”.
“Non capisco perché gli uomini tendano a rovinarsi la vita da soli! Se tu vuoi lei e lei vuole te perché non te la vai a prendere?!”.
“Punto primo: ho una dignità! Se mi rifiuti dopo non ti accetto! È una questione di principio! Punto secondo... Non voglio che Angelo mi renda la vita impossibile”.
“Al massimo ti troveresti Linda Blair che ti aspetta nel bagno”.
Linda Blair. Sorrise nel pensare alla battuta del ragazzo.
La verità era che Cindy era un nervo totalmente scoperto per lui; una delle poche volte che s’era fidato dell’umanità, che era rimasto affascinato da uno sguardo.
Solo altre due paia d’occhi lo avevano rapito in quel modo.
Quello di sua madre e quello di Yuki, la Kimono Girl che gli salvò la vita da bambino. Cindy era rimasta nel suo cuore per tutta la sua adolescenza, in cui aveva coltivato il sentimento più puro e fragile con la minuziosità di cui era provvisto dalla nascita; lo aveva fatto in silenzio, osservando da lontano la bella che raccoglieva delusioni a causa di persone che non meritavano quello sguardo dolce. Persone che non la amavano, che volevano riempirsi le mani di nuvole e zucchero, che la raccoglievano in riva al mare e la lanciavano via, lontana, nelle profondità fredde, solo per divertirsi guardandola rimbalzare sul pelo dell’acqua.
Xavier era sempre andata a raccoglierla, cercandola per giorni e scandagliando i fondali. La ritrovava, la riportava sulla spiaggia, senza mai avere il coraggio di metterla nello zaino e proteggerla, a casa sua magari, dove non sarebbe stata più oggetto di quelle follie.
Ma Cindy amava, e andava a finire sempre che, una volta appurato di non essere contraccambiata, piangesse sulla spalla destra di Xavier.
Quando lui ebbe il coraggio di aprire il suo cuore lei aveva creato quel groviglio di sentimenti che perpetuava nell’animo del Professore.
Anche quel giorno Cindy credeva di poter mettere le cose a posto. Senza che lui lo vedesse si sedette di fronte a lui, abbassandogli lo schermo davanti agli occhi.
Aveva levato gli occhiali ed aveva lo sguardo basso, verso sinistra, dove qualche secondo dopo Sadie portò la torta. I capelli, di quel rosso tendente al castano, erano sciolti e le ricadevano lunghi ed ordinati dietro la schiena. Cindy aveva il vizio di allungare le maniche dei maglioni e nascondervi dentro le mani.
Ed era una donna veramente bella.
“Ciao...” sorrise lei, dolcemente.
Xavier si limitò a rialzare lo schermo del computer. “Ciao” disse, asettico come ogni volta che aveva avuto a che fare con Cindy negli ultimi anni.
“Come stai?” chiese l’altra, abbassando nuovamente lo schermo.
Xavier si spazientì, rialzandolo. “Sto”.
Passarono alcuni secondi prima che lei parlasse di nuovo. “E non mi chiedi come sto io?”.
“Dovrei?”.
“Sì, se t’interessa...”.
“Non m’interessa”.
Lei sorrise. “Come sei antipatico, dannazione...”.
“Sai che non è così. Sono antipatico soltanto con te e con le persone che non mi piacciono”.
“Come mio marito...”. Cindy aveva abbassato un’altra volta lo schermo.
“Ad esempio”.
“E perché?”.
Xavier alzò di nuovo la barriera tra di loro e prese una patatina. “Vuoi proprio sentirtelo dire, vero?” fece, parlando a bocca piena.
“No, se non vuoi”.
“Non voglio parlare con te, Cindy”.
Lei abbassò lo schermo, per guardarlo negli occhi. “E per quale motivo?”.
“Me lo chiedi ogni volta che vengo qui. Dovresti smetterla”.
“Smetti di venire tu, se non vuoi che venga a parlarti. Io qui ci lavoro”.
Xavier la fissò per un attimo negli occhi e poi si dipinse una smorfia di disappunto in volto. “Probabilmente farò così”.
“Sai che non voglio che finisca così”.
“Sai che non ho sei anni. Non prendermi per il culo, donna”.
Rialzò lo schermo ma Cindy lo bloccò, toccandogli la mano.
“Per favore” fece lei. “Parliamo”.
Avrebbe voluto prendere una sciabola e tagliarle la testa, in quel momento, ma non riusciva a nascondere a se stesso che sentire il calore di quelle manine sulle sue lo stava nutrendo.
Alla fine fu sconfitto dalla voce di quella: Xavier chiuse il pc e lo mise da parte. Cindy strinse anche l’altra mano dell’uomo e sorrise.
“Le nostre strade si sono divise... Io lo so che non mi sono comportata bene con te, che mi sei sempre stato accanto e mi hai risollevato nei miei momenti più bui ma... Ecco, ho sbagliato”.
Era la prima volta che i due affrontavano quel discorso.
“Dimmi qualcosa che non so”.
“Io sono assolutamente sicura che tu sia un ragazzo d’oro, credimi. Saresti un buon partito per chiunque, un uomo buono ed intelligente. Certo, mangi male e stai deperendo ma...”.
“Cindy...”.
“Non capisco per quale motivo tu non possa accettare di vedermi. Tu hai fatto tanto per me, io non riuscirei mai a dimenticare a cuor leggero il tempo che abbiamo passato assieme”.
“Io non l’ho fatto, Cindy. Non posso dimenticarlo”.
Lei sorrise.
“Non posso perché purtroppo per te ricordo ogni cosa”.
“Purtroppo per me?” domandò lei, più analitica.
“Uff... Che cosa vuoi da me?”.
“Non voglio stressarti” abbassò lo sguardo lei. “Voglio solo tornare ad essere tua amica”.
“Sai che non puoi essere più mia amica”.
Lei rimase in silenzio per qualche secondo. “Io... io capisco che possa bruciare. La vita è fatta di sconfitte e...”.
“Perché mi stai dicendo questo?!” s’alterò. “Sai quanto tempo ho impiegato per farti uscire dalla mia mente?! Per uscire fuori dal dolore che mi stava affogando, Cindy?! Anni! Anni di terapia, di riflessione!”.
Cindy si guardò intorno, lasciando le mani dell’uomo. “Non urlare, ci sono dei clienti”.
“Scusa...”.
“No, tranquillo, è comprensibile la tua reazione”.
“È che io... mi sono sentito sbagliato. Mi sono sentito terribilmente sbagliato”.
La donna sbatté le palpebre, celando per qualche attimo intermittente gli occhi, che abbassò nuovamente, colpevole.
“Mi chiedevo per quale motivo non potessi avere quello per cui avevo combattuto da quando ero un ragazzino. Io... ti vedevo lì, così lontana ed inarrivabile. Eppure eri sempre accanto a me, Cindy, mi prendevi in considerazione, mi parlavi, mi dimostravi affetto. Quella volta in spiaggia...” sorrise lui, avvampando. Lei fece lo stesso. “Beh, credimi, avrei voluto uccidere Lars Bennett quando, quel giorno in spiaggia, ti chiamò... Stavo trovando il coraggio per baciarti”.
Lei sorrise. “Ha fatto bene a farlo... ti avrei respinto, allora”.
“Non ero ancora ricco”.
Lei inarcò un sopracciglio, spostando i capelli dal volto. “Di certo non mi sono interessata a te perché avevi incominciato a guadagnare”.
“No?” domandò lui, sapendo di stare per scoprire un nervo.
“No. Mi piacevi, sei una brava persona ed ho...”.
“Pensato di buttare tutto nel cesso, giusto? Dopo ventiquattr’ore, o neppure, forse di meno... Beh, sappi che se non ti ho parlato è perché non volevo che mi uscisse dalla bocca ciò che pensavo di te, qualche anno fa...”.
“E cosa pensavi?”.
Un attimo di silenzio.
“Che fossi stata una stronza, Cindy. Mettiti nei miei panni... Anni spesi a correrti dietro, poi ti conquisto, ti bacio, assaporo il momento in cui avrei potuto stringerti tra le mie braccia la volta successiva e poi ti vedo con Angelo...”.
“Sono stata una stronza, va bene, me lo merito, ma...”.
“Ma cosa? Hai capito che hai fatto una puttanata? Che ad Angelo importava del tuo culo e non di tutto il resto?”.
Cindy corrucciò lo sguardo. “Sei diventato parecchio sguaiato, ultimamente”.
“I soldi fanno quest’effetto. Ma comunque ora poco importa. Hai il tuo bell’anello al dito, la promessa di avere una famiglia, un giorno, magari adottando qualche bambino, o rapendolo. O facendolo resuscitare, chi lo sa, quell’uomo sembra avere parecchie amicizie nelle alte sfere dell’aldilà...”.
“Finiscila...”.
“Di fare che? Era questo che sognavi?!” esclamò lui, guardandosi attorno. “Un locale, un matrimonio finto con un uomo che ti ha utilizzata per svuotarsi le palle?! Hai rifiutato l’occasione della mia vita per l’occasione del momento di qualcun altro, Cindy, non chiedermi perché ce l’abbia con te”.
“Smettila, ho detto”.
“Perché dovrei?! Ora non avresti avuto un locale del cazzo, magari le alette ce le preparavamo a casa, ma saresti finita per essere amata da un uomo che ti avrebbe messo al centro della propria vita, che ti avrebbe dato dei figli e che non avrebbe mai smesso di amarti e...”.
“Mi ami ancora?”.
Xavier si bloccò, con la bocca aperta. Poi la chiuse.
“Non so come rispondere”.
“Ho zittito il genio” sorrise lei. Abbassò nuovamente lo sguardo e col dito levò la crema sulla torta, mettendolo in bocca.
“Non sto zitto. Parlo, ma non mi senti”.
I loro sguardi s’incontrarono di nuovo. “Cosa vuoi che faccia, Xav? Che lasci mio marito? Che mandi tutto a farsi friggere?”.
“Voglio che tu faccia quello che ti fa stare bene”.
Silenzio, Xavier prese un sorso di birra.
“E a te?” domandò lei. “A te cosa fa stare bene?”.
Lui sorrise. “Bella domanda, rossa. Bella domanda”. Poi s’alzò, lasciò una banconota da venti sul tavolo e si voltò, prendendo computer e borsa. “Tieni il resto e dai la mancia a Sadie. Le serve una gonna un po’ più lunga...”.
“No!” esclamò lei, alzando la voce. Lo trattenne, tirandolo per il braccio. “Non... non andare ancora...”.
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