17. Tessere Del Mosaico
Johto,
Rovine d’Alfa
I grilli
frinivano, nel buio di quella notte appena nata.
Poche luci,
fuori dalla grande Violapoli, qualche lampione qui e lì e rumori costanti nei
punti dove l’erba era più alta. La carovana di Allenatori era guidata da Red e
Yellow, che precedevano lentamente Sandra e Valerio, prima di Blue e infine
Green, che chiudeva la fila.
Quest’ultimo
aumentò il passo, affiancando la donna.
“Quindi? Che
hanno detto, quei due?” domandò, mettendole una mano sulla spalla per catturare
la sua attenzione.
“Xavier è a
casa sua, con sua madre. Jasmine invece è ad Olivinopoli, al faro”.
“Ho bisogno
che venga qui”.
“Già l’ho
avvisata. Lei e Corrado saranno qui tra pochi minuti”.
“Meraviglioso...”
sospirò Green. Il suo alito si tramutava in fumo e si disperdeva quando saliva
in alto, sotto lo sguardo protettivo della luna e delle stelle. L’odore d’erba
umida s’alzava ad ogni loro passo. Quando entrarono nel varco che precedeva le
rovine, Yellow si voltò, come a chiedere conferma di poter proseguire.
“Andiamo?”
domandò Red.
Sandra
annuì, afferrando una sfera tra le mani, mentre Valerio rimase indietreggiò un
attimo, spostando lo sguardo parecchio preoccupato.
“Che ti
prende?” domandò Green.
“Ci sta aspettando
l’addetto alla sicurezza, quello che ha visto le riprese delle telecamere… Ha
chiaramente specificato che Jasmine, la Capopalestra di Olivinopoli, è entrata
nella Sala 1 e ha ammazzato uno spazzino. Sapendo della situazione di
Sandra...” si voltò verso la donna e poi la guardò negli occhi, previo non
riuscire a sostenere il suo sguardo. “... beh, dovremmo stare molto attenti”.
“Hai fatto
bene a chiamarci subito. Staranno ancora agendo” annuì Red, infastidito dagli
occhi di Blue che lo scrutavano. Si sentì denudato da quello sguardo colpevole,
tant’era vero che si voltò a controllare che Yellow non stesse guardando.
“Dobbiamo
varare un piano d’azione” riprese Green. Valerio fece cenno di seguirli verso
la parete di fronte al bancone del varco, che vedeva affissa una gigantografia
della pianta delle rovine.
Il
Capopalestra sospirò e quindi annuì. “La Sala 1, la Sala 2, la Sala Alfa e la
Sala 7 contengono degli antichi mosaici. Staranno puntando sicuramente a
quelli”.
“Dobbiamo
dividerci” osservò Yellow.
“Sì”
convenne Valerio.
“Gli altri
Capipalestra sono in arrivo” fece invece Sandra, controllando il Pokégear. “Ho
ritenuto opportuno avvertirli”.
Red la
guardò e sorrise, teso. “Bene. Quattro gruppi per quattro obiettivi”.
“Blue,
Yellow e Sandra si dirigeranno in una delle sale” ordinò Green, ignorando lo
sguardo vacuo che la bionda consegnò alla Dexholder di Biancavilla. “Io e Red
ci dirigeremo assieme in un’altra delle stanze e gli altri Capipalestra,
compreso te, Valerio, si divideranno nelle due sale rimanenti. Comunicheremo tramite
la radio del Pokégear, intesi?”.
Tutti
annuirono. Red fu sinceramente colpito dalla scelta del ragazzo di fare coppia
nella divisione delle strade; la prese come una possibilità d’apertura, quindi
annuì, consapevole. Si accorse poi degli occhi di Blue, atti nuovamente a
scrutare il suo volto. Incrociò il suo sguardo, poi notò che Yellow e stesse
fissando proprio la donna.
“Tesoro”
disse poi quello dagli occhi rossi, avvicinandosi alla sua fidanzata. “Stai
attenta”.
“Anche tu”
rispose quella, delicata come sempre. Si scambiarono un tenero bacio e si
divisero, con gli uomini che proseguirono per la Sala Alfa e le donne che
varcarono la soglia della Sala 7.
Rovine
d’Alfa, Sala Alfa
Quella era
la sala più grande. La luce della luna entrava da ampie finestrate dalle
intelaiature in alluminio, costruite successivamente. La falce illuminava
leggermente le pareti che si stagliavano sulla destra di Green e Red, lasciando
quelle a sinistra totalmente buie. Quello dagli occhi verdi s’avvio lentamente,
affondando i passi nella notte.
“Aspetta”
fece Red. “Lascerò che Pikachu utilizzi Flash...
Almeno ci aiuterà con la visibilità”.
L’altro si
bloccò e si voltò, lanciando un’occhiata torva al partner.
“Non
dobbiamo farci localizzare. Quindi niente luce e bocca chiusa”.
Il moro
inarcò un sopracciglio. “Come vuole, generale...”. Seguì quindi il ragazzo e
sospirò, notando la sua freddezza.
“Perché hai
voluto che venissi con te, se a stento mi guardi in faccia?”.
“Silenzio,
ho detto”.
“Non sei mio
padre, rispondimi” rimbeccò quello, trattenendolo per la tracolla. Quello si
voltò, sfidando il suo sguardo.
“Nonostante
non abbia di te la benché minima considerazione non posso negare la tua abilità
con i Pokémon. Io e te siamo più che sufficienti per controllare questa zona”.
Red avrebbe
voluto sentirsi dire altro ma si limitò a sostenere per qualche secondo ancora
il suo sguardo, prima che il volto di Blue entrasse di prepotenza nella sua
mente e lo costringesse a ricordare la discussione che avevano avuto qualche
ora prima.
“Avanza”
disse a quello, lasciando la presa dalla sua borsa. Lo seguì a qualche passo di
distanza, riflettendo su ogni possibile implicazione che la donna del suo amico
avrebbe potuto creare.
Non sbaglierò di nuovo. Yellow è la
donna che amo.
Io rimarrò con lei. Blue è un
problema di Green.
Poi le
immagini del suo petto nudo che danzava sotto ogni movimento del corpo
riaffiorarono alla mente; sentiva ancora, Red, il rumore della pioggia che
batteva sul telo della tenda che aveva montato quella sera di sei anni prima,
l’odore dell’erba e del corpo bollente della donna dentro la quale era entrato.
L’aveva posseduta, non completamente forse, per qualche attimo d’infinito che
s’era impresso nella sua memoria come un marchio a fuoco, e aveva pagato per quel
peccato, con la solitudine e il rimorso di chi aveva sbagliato e se n’era reso
conto troppo tardi.
Lui aveva
già pagato per via di Blue. Non sarebbe caduto di nuovo in tentazione, non
avrebbe perso nuovamente la donna che amava per del sesso squallido e senza il
piacere mentale che ne conseguiva. Ripensò però alle preoccupazioni di Yellow,
e le collegò alle parole di Blue, che lo avvertiva del fatto che la bionda
avesse avuto il coraggio di affrontarla e tagliarla fuori dalla sua vita. E
quell’atteggiamento era figlio della convinzione che Red pensasse ancora alla
fidanzata dell’amico di sempre.
E non era
così, no.
La nuca di
Green diventava il suo volto, soltanto per qualche breve secondo, quando si
voltava velocemente a controllare che nessuno li seguisse.
“Avanza”
ripeté Red, col cuore che batteva lento quando poi un rumore sinistro li
allertò. Green bloccò il passo e Red finì per trovarsi accanto a lui. Il lungo
corridoio era quasi terminato, lasciando spazio a un bivio e ad un grosso muro
che correva lungo tutto l’edificio.
Green fece
segno di aver sentito il rumore a destra e l’altro annuì, spostandosi
rapidamente su quel lato. Aderirono rapidamente al muro che avevano a destra,
con tutte quelle strane incisioni, raffiguranti Unown e geroglifici vari. Green
s’abbassò sulle ginocchia mentre Red rimase in piedi.
Annuì. Li
aveva sentiti. Vide l’altro contare fino a tre con le mani prima di annuire e
mettere le mani alle sfere. Fece poi una capriola e gettò nel corridoio di
destra, mandando in campo Arcanine.
“Copertura
aerea!” esclamò, prima che Red chiamasse Aerodactyl. Corse al fianco dell’uomo
dagli occhi verdi e guardò gli avversari: dapprima erano due, ombre nascoste
nel buio disturbato dal bagliore lunare, ma sempre più voci presero ad accalcarsi
al lato opposto del lungo corridoio.
“Ci stanno
accerchiando…” digrignò i denti Green.
“Sono tanti,
ma non troppi! Aero, cerchiamo di non
rompere nulla, siamo pur sempre in un museo!”.
“Arcanine,
pronto!” esclamò invece l’altro, in direzione del Pokémon Leggenda. Era così grande che quel corridoio apparve
improvvisamente più stretto. “Non dobbiamo distruggere nulla. Stiamo attenti.
Dobbiamo semplicemente mettere fuorigioco quella gente”.
“Hey, voi!”
urlò Red. “Dov’è Jasmine?! Arrendetevi senza combattere ed eviteremo tutti di
perder tempo!”.
“Attaccate”
disse placidamente il primo figuro, più alto e muscoloso degli altri, stretto
comunque all’interno di una mimetica grigia. La maschera antigas era abbassata
sul volto e nascondeva il suo sguardo agli occhi dei due Dexholders. Sei
sgherri, più minuti e gracili di quell’omone, avanzarono mandando in campo
altrettanti Gengar.
Red guardò
per un attimo Green, col volto preoccupato: era tutto veramente molto buio.
“Dobbiamo
accendere le luci, Green, altrimenti saremo bersagli facili. Si muovono tra le
ombre…” avvertì il primo.
“Lo so
benissimo, cazzo. Ma non credo che ci lasceranno andare via per alzare gli
interruttori”.
“Non ci sono
neppure... Qui hanno ancora le lampade ad olio...”.
Green
osservò a sinistra e, proprio a pochi da metri da lui, una fiaccola spenta
d’ottone pendeva dalle pareti incise.
“Ho un
piano, ma devi cercare di tenerli a bada”.
Red annuì e
spostò un ciuffo di capelli dal volto, sorridendo. “Ma dovrai prestarmi il tuo
Arcanine per un attimo”.
“Fai pure”
fece, muovendosi lentamente alle spalle del partner, superandolo e
avvicinandosi alla lampada ad olio.
“Arcanine!
Facciamo un po’ di luce e cerchiamo di tenerli lontani! Lanciafiamme!”.
Il grande
Pokémon del Capopalestra di Smeraldopoli rilasciò una grande fiammata, che andò
a illuminare l’intero corridoio, costringendo i Gengar a sparire all’interno
delle fughe dei muri, dove il fuoco non poteva arrivare.
“Trattienili,
cucciolone! E tu, Green, non perdere tempo! Che stai facendo?!”
Due Gengar
apparvero dall’alto, colpendo Aero e
facendogli perdere qualche metro di quota.
“Aspetta,
Red...” sussurrò quello, smontando la lampada. Ancora era presente, all’interno
del serbatoio della fiaccola, olio profumato ed altamente infiammabile. Altri due
Gengar apparvero alle spalle dell’altro Dexholder e gli afferrarono le
caviglie. Red urlò.
“Oh!
Aiutami, Green!”.
“Aero, Levitoroccia!” urlò proprio
quello, vedendo il Pokémon dell’altro staccare detriti appuntiti dal soffitto
della volta delle rovine, che si sistemarono ordinati e pronti per colpire i
nuovi avventori.
Green alzò
lo sguardo, col volto illuminato dalle fiamme del proprio Pokémon, e lanciò il
serbatoio della lampada pieno di combustibile verso le rocce affilate, che
cominciarono a grondare olio.
“Arcanine!”
ribatté Red, che intanto aveva capito il piano. “Spara il tuo fuoco verso le
rocce in alto!”.
Un altro
Gengar apparve proprio davanti a lui, e lo attraversò da parte a parte. Red
urlò, provando una sensazione di gelo nelle ossa; si sentì inerme, immobile. Fu
quando Arcanine eseguì l’ordine del ragazzo che le rocce diventarono
immediatamente grossi focolari, luminosi e caldi come lampadari.
La luce si
diffuse veloce lungo tutto il corridoio. Aero sbatteva le ali, a pochi metri
dal capo di Red, ormai liberato dalla stretta degli avversari; questi ultimi,
infatti, furono spaventati dalla forte luminosità e furono costretti ad
indietreggiare, prima di ritornare ordinatamente davanti ai propri Allenatori.
“Benissimo”
sorrise Green. “E un problema è risolto. Ora dobbiamo solo stenderli...
Arcanine, avvicinati rapido ed usa Sgranocchio
su quello di destra”.
“Aero! Vai
in copertura e tieniti pronto!” ordinò l’altro, rimettendosi in piedi.
Il grosso
cane s’avvicinò così velocemente all’avversario più isolato, quello sulla
sinistra, da non dare neppure il tempo al suo Allenatore di urlargli qualche
contromossa, e nel tempo d’un respiro le fauci fameliche s’erano chiuse e
riaperte più volte su di lui. Infierì su quel Gengar con così tanta aggressività
che una scia scura e fumosa lasciò il corpo dello spettro e si levò verso
l’alto.
“Ottimo...”
sussurrò Green, col volto illuminato dalle fiamme.
Fu Red il
primo ad accorgersi di un secondo Gengar, evidentemente parecchio vendicativo,
pronto ad avventarsi sul Pokémon del Ricercatore.
“Ombrartigli!” ordinò ad Aero, e quello fu ricettivo e rapido,
gettandosi in picchiata e afferrando con le zampe inferiori l’avventore.
Lo sbatté al
muro accanto dilaniando l’avversario, smembrandolo in stracci d’ombra gelida.
“Non
dobbiamo fare danni, Red”.
“Pardon”.
Arcanine
aveva finalmente terminato di stringere con le mandibole forti il Gengar che
aveva attaccato, lasciandolo per terra esanime.
“Ora passa
al prossimo. Ruotafuoco”.
Il grosso
cane saltò e s’arrotolò su se stesso, emanando le stesse calde fiamme che
cadevano dal soffitto della grotta. Passò nel gruppo degli altri Gengar, i
restanti quattro, colpendone uno e finendo per bruciare anche le mimetiche di
due degli sgherri.
“Aero, Dragopulsar!” ordinò invece
l’altro, vedendo urlare i mercenari, due dei quali si allontanarono di corsa. I
loro Pokémon furono colpiti, e reagirono con Palla Ombra. Le due sfere di buio andarono a segno, entrambe,
facendo ruzzolare l’Aerodactyl del ragazzo sui marmi che calpestavano.
“Arcanine,
copertura!” esclamò Green. Quello ascoltò gli ordini dell’Allenatore, rotolando
in direzione del compagno di team e saltando proprio davanti a lui, ritornando
a quattro zampe, basso e solido. Ringhiava aggressivo.
“Quell’uccellaccio
ha quasi distrutto il pavimento” continuò Oak.
“Eh, lo so,
non è un Pokémon leggero, questo… Rimettiti in volo subito, Aero!” esclamò fiducioso l’altro,
vedendo poi il suo Pokémon spalancare le ali.
“Ottimo. Tu
pensa agli altri due” fece Green, che poi allungò l’indice verso il proprio
Arcanine. “Turbofuoco. Cerchiamo di
limitare loro i movimenti”.
Una spirale
incandescente prese a stringersi sempre più velocemente attorno ai due Gengar,
aumentando la potenza del vortice in maniera sempre maggiore, finendo per
colpire in più parti i già malandati avversari e mettendoli fuori
combattimento. Green annuì, soddisfatto. Allungò poi lo sguardo verso Aero, vedendolo molto più in difficoltà.
“Ombrartigli, di nuovo!” esclamava Red,
vedendo il suo Pokémon picchiare verso il basso con le ali praticamente chiuse,
mentre dalle zampe inferiori le grinfie venivano ricoperte da fumo nero e
sinistro; affondò nel volto di uno degli avversari.
L’altro,
invece, giocò d’astuzia, finendo per utilizzare l’attacco Ipnosi contro il Pokémon di tipo Roccia. Quello rovinò rapido per
terra, dormiente e tranquillo. Entrambi i Gengar sghignazzarono e toccarono
velocemente il corpo dell’Aerodactyl di Red, sparendovi all’interno.
Gli occhi
del Pokémon, chiusi, si strinsero con forza, e poi ancor di più.
“Incubo...” sospirò Green, avvicinandosi
a Red. “Dobbiamo svegliarlo”.
“Aero! Forza, sei nel bel mezzo di una
battaglia!”.
Ma a nulla
valsero i mille richiami dell’Allenatore: i due Gengar straziarono l’ormai
addormentato Aerodactyl, finendo per mandarlo fuori combattimento.
Red
s’accorse che nonostante la lotta si fosse conclusa in suo sfavore, i Gengar erano
ancora lì pronti ad attaccare.
“Bastardi!”.
“Non sono nemmeno
sicuro che tu riesca a liberartene se facessi rientrare Aerodactyl nella sua
sfera…” osservò con calma surreale Green.
“Ora li
sistemo io! Vee!”.
E dalla
Pokéball uscì un meraviglioso esemplare di Espeon. Si muoveva sinuoso avanzando
lentamente, in attesa che Red gli desse un ordine.
“Psichico!”.
Gli occhi
del Pokémon s’illuminarono e bloccarono alcune delle rocce infuocate che
presero a cadergli addosso, per l’effetto di Levitoroccia.
Il corpo di
Aero fu ricoperto dalla stessa patina azzurra, cominciando a fluttuare; Red
vide le ali del proprio Pokémon aprirsi involontariamente e, qualche secondo
dopo, i due Gengar furono spinti fuori dalla sua ombra. Espeon li stava
colpendo con forza, Green se ne accorgeva dalle mimiche dei due Pokémon Spettro,
sofferenti in viso, come se qualcuno li stesse combattendo dall’interno dei
propri corpi. Vee li fece fluttuare a
mezz’aria, a un metro da terra.
“Finiscili
mentre li trattengo…” sospirò Red, facendo rientrare Aero nella sfera.
“All’americana...”
sospirò l’altro, calmo. “Arcanine, Lanciafiamme”.
Alla fine
rimase soltanto fumo scuro; i due Gengar erano spariti.
Non avevano
più avversari.
*
Mentre Red
fece rientrare il suo Espeon, Green decise di rimanere accanto ad Arcanine;
tutti e tre presero ad avanzare verso l’ultimo scagnozzo, quello più alto.
“Levati dai
piedi” suggerì il capo dell’Osservatorio.
“No” rispose
l’altro, avanzando a sua volta. Il muro centrale, quello con le incisioni che raffiguravano
gli Unown, era quasi terminato.
Solo
quell’uomo era posto tra i due Dexholder e la fine della loro missione.
“Dimmi chi
sei” tuonò nuovamente Green. I suoi occhi smeraldini erano ancora illuminati
dalle schegge di roccia che dal soffitto donavano luce e un po’ di calore.
Fissavano la figura massiccia dell’uomo: le grosse mani erano infilate in guanti
scuri, uno di quelli stringeva una sfera.
Il volto era
coperto da una grossa maschera antigas.
“No”.
“Sei tu il
capo di tutta questa merda?” urlò ancora Green Oak, che intanto guardava
attorno a lui tutte le possibili vie di fuga. Fu Red a vederlo sorridere,
mentre si alzava la maschera.
“Io lavoro
soltanto per me stesso” rispose divertito, mostrando il volto roccioso: aveva
labbra grosse e carnose, circondate dal pizzetto, ben regolato, scuro ed
elegante. Gli occhi, come quelli di Green, erano verdi e profondi, e fissavano i
due ragazzi.
“Non vi
lascerò passare” tuonò, con quella voce baritonale.
“Beh, hai
due scelte...” faceva il più calmo Green, quando Red lo interruppe.
“Già! O ti
levi di mezzo oppure ti levi di mezzo e ti riempiamo di botte!”.
“Datti una calmata” lo redarguì l’altro.
L’ex
Campione si voltò, sorpreso.
“Non hanno
etica! Sono mercenari pronti a tutto!”.
“Lo so, ma
questo è lo stile di Gold, non il tuo. Quindi ripeto, datti una calmata”.
“Stavano per
ammazzare Aero! E dopo la sconfitta
sono scappati tutti!”.
L’uomo in
mimetica lo interruppe.
“Io non
fuggirò” disse, staccando totalmente la maschera antigas e gettandola per terra.
I riflessi ambrati del fuoco che lentamente andava a estinguersi doravano il
volto olivastro dell’uomo, assieme a lunghi capelli ricci e neri.
Red sospirò
e continuò ad ascoltarlo.
“Ho una mia
etica. Sono stato pagato per lottare la battaglia di qualcun altro e lo farò,
perché sono un uomo d’onore”.
“Stai
lottando per il motivo sbagliato!” urlò il più impulsivo tra i due.
“Non m’interessa,
Red di Biancavilla. Chi mi ha ingaggiato lo ha fatto aspettandosi che vi avrei
fermato abbastanza da permettere che il colpo andasse a segno. E semmai
dovessimo lottare lo farò, fino alla morte”.
“L’hai
voluto tu...” sussurrò Red tra i denti, con la testa bassa e il ciuffo
spettinato sulla fronte. Prese nuovamente la sfera di Espeon e lo mandò in
campo.
“Vai,
Gengar” ordinò invece l’altro, che dalla propria Pokéball lasciò uscire
l’ennesimo esemplare del Pokémon Ombra.
Green inarcò
un sopracciglio: gli aveva mostrato d’esser riuscito a fronteggiare sei Gengar
contemporaneamente, si sarebbe aspettato più intelligenza, magari un avversario
differente da combattere. Il grande sorriso dello spettro era visibile
distintamente nel buio del corridoio. Il suo Allenatore poi tirò fuori dalla
tuta mimetica un ciondolo che aveva attaccato al collo, guardò serio Espeon e
Arcanine e alzò gli occhi verso i Dexholder.
“Megaevolviti!”
urlò d’improvviso, con la voce che rimbombava lungo l’intera sala, corridoio
dopo corridoio. Red digrignò i denti e guardò Green.
“MegaGengar...”
sussurrò quest’ultimo, sorpreso e preoccupato. “Un Pokémon davvero temibile,
Red. Hai Megapietre?”.
“Sì... ma
non ora…”.
Quello dagli
occhi verdi si voltò verso di lui e lo guardò corrucciato. “Che diamine
starebbe a significare?”.
MegaGengar
aveva ormai finito il processo d’evoluzione quando Red rispose.
“Che non
posso usarla ora”.
“E perché
mai?!”.
“Attento!”
urlò l’altro, spingendo Green per terra quando un grosso attacco Palla Ombra li stava per investire.
“Non posso,
in questo momento. Userò Espeon e...”.
E
d’improvviso le rocce caddero tutte, spegnendosi.
Era buio.
“Porca
puttana! Charizard!” urlò Green, chiamando in campo il suo primo Pokémon. La
grossa fiamma sulla coda aveva donato colorito ai volti dei ragazzi ma sapevano
benissimo che con un Pokémon che viveva nell’ombra tutto quello non fosse
abbastanza.
Kanto,
Aranciopoli, Ospedale Civile
Era freddo,
il vetro della finestra.
Marina lo
toccava con la fronte, che ormai era fredda. Gli occhi facevano fatica a
rimanere aperti ma lei non poteva dormire, perciò si costringeva a contare le
automobili che passavano davanti al porto civile, pronte per essere imbarcate.
A un certo
punto cominciò a classificarle in base al colore: aveva contato, in tutto,
sessantasette automobili bianche, per lo più Toyota e Nissan. Qualche Suzuki e
pochissime auto tedesche. A lei non interessavano per nulla le auto ma a suo
padre piacevano e, pur di farsi accettare da lui in quello strano periodo che
era la preadolescenza, aveva finito per informarsi su motori e case di
produzioni meccaniche.
“Lamborghini...”
ripeteva suo padre. “Sono le più belle...”.
Lei
sorrideva, annuiva. Del resto le interessava soltanto passare del tempo con
lui, e quello le pareva un buon compromesso. Poi crebbe, capì che non valeva la
pena cambiare, modificare la propria esistenza per un uomo, persino suo padre. Seguì
la strada che s’era prefissata e si ritrovò Ranger ad Oblivia, prima di
cambiare di nuovo idea e cominciare ad amare un uomo che aveva odiato,
adattarsi alla sua vita e venire meno alle promesse fatte. Tutto per quel
folle.
Tutto per
Gold.
Si voltò,
con l’elettrocardiogramma ormai stabile da parecchie ore, che singhiozzava
sempre presente. Sospirò, non riusciva ad abituarsi nel vederlo steso in quel
letto.
Non in quel
modo almeno, così inerme e silenzioso.
Annuì,
capendo che fosse quello il problema: il silenzio. Dove c’era Gold, il silenzio
era sempre fuggito via, non compatibile.
“Che
diamine...” sorrise amaramente la donna, avvicinandosi a lui. La mano di quello
era stesa lungo i fianchi; gliela strinse.
“Io... io mi
sento sola, amore. Per favore...” prese a piangere, per l’ennesima volta in
quelle ventiquattro ore. “Per favore, m’inginocchierò per tutta la vita ai tuoi
piedi ma, ti prego, svegliati!”.
Strinse le
sue dita ancor più forte, sperando di sentirlo fare altrettanto, invano
purtroppo.
“Ti prego!
Svegliati!” urlò, piangendo ancora. “Ti prego...”.
E l’ultimo
fu un sussurro.
Rovine
d’Alfa, Sala 7
Rumori
profondi e cavernosi s’alternavano a quelli delicati dei passi di Blue, Yellow
e Sandra. Tutte stringevano tra le mani una sfera e camminavano radenti al muro
di destra.
Il vento
ululava, mentre la prima sgattaiolava nel buio della notte e analizzava la
situazione, bassa sulle gambe. Il corridoio a destra era l’unica via
percorribile, dato che si trovavano nella parte ovest dell’edificio. Si abbassò
ulteriormente, quasi inginocchiandosi, lasciando le altre due leggermente perplesse,
prima di annuire e voltarsi.
“Tutto
libero, possiamo andare. Dobbiamo stare attente…” sussurrò Blue, nel silenzio.
“Un uomo è morto e niente impedirà all’assassino di fare lo stesso di noi, se
non apriamo le orecchie”.
Sandra
annuì, quasi impercettibilmente.
“Hai
ragione”.
Yellow
rimase immobile, vedendo le due avanzare più veloci, lasciandola indietro di
qualche passo. Fece per raggiungerla, quando poi qualcosa attirò la sua
attenzione. Era solo una sensazione, un fruscio distante, come se il vento
avesse attraversato una foresta immaginaria in cui era immersa.
Scacciò il
pensiero e vide Blue stopparsi, subito dopo aver voltato l’angolo.
“Che
succede?” domandò Sandra.
Quella dagli
occhi blu indietreggiò, con gli occhi spalancati.
“L’avete
visto anche voi?” domandò, turbata. Si voltò rapidamente verso Yellow e Sandra,
che la seguivano visibilmente allarmate.
“Che cosa?”
domandò la Capopalestra d’Ebanopoli. La raggiunse, vedendola bloccarsi.
Le sue
pupille erano dilatate.
“Non... non
avete visto la neve?”.
Sandra sentì
Yellow affiancarla. Si voltò a guardarla e le fece segno di no.
“Non c’è
nulla” rispose, incrociando le mani sul ventre. Blue la guardò, confusa e
impanicata, e per la prima volta da quando la conobbe, la donna dai capelli
castani riconobbe qualcosa che nello sguardo dell’altra non aveva mai visto:
sufficienza.
Sussultò.
Cos’è?! Non mi crede? Non crede che
io abbia visto nevicare?
“Ti sarai
impressionata” aggiunse Sandra.
Blue si
fermò, ben conscia d’essere giusto nel corridoio di una struttura piena di
nemici.
Guardò poi
gli occhi celesti della Capopalestra e aguzzò l’udito.
Passi.
“Ecco!”
bisbigliò. “Li sentite?! I passi!”.
“No…” ribatté
Yellow, fredda. “Non sentiamo nulla”.
Mi sta provocando.
Le parole
della bionda risuonavano nella testa della Dexholder, sostituiti poi dal
rimbombo baritonale che stava ascoltando. Decise di imbracciare il coraggio
come un fucile e afferrare la sfera di Blasty,
per poi avanzare più velocemente.
“Fermati!”
bisbigliava Sandra alle sue spalle. “Finirai per farti catturare!”.
*
Blue non si
rendeva conto di come la luce della luna s’espandesse, riempiendo di luce
bianca il pavimento. Percepiva il freddo aumentare, e un vento gelido prese a
soffiarle sul volto, pizzicandole la pelle delle guance. Allungò la mano,
toccando la parete al suo fianco. La superfice di tufo era ruvida al tatto
Si morse il
labbro e strinse gli occhi.
E poi si
accorse di avere le caviglie immerse nella neve fredda.
Batté le
palpebre diverse volte e deglutì. Non capiva, anche se quella sensazione le
pareva familiare. Grattò con le unghie sul muro, ma quello era diventato
improvvisamente un albero, dalla corteccia nodosa. Davanti a lei era tutto
bianco: era in una radura.
E vedeva,
davanti a lei, il profilo sorridente di una bambina, che correva goffamente
nella neve.
Quella…
“Non mi
prendete!” urlava la piccola, gioiosa. Aveva lunghi capelli scuri, macchiati
qua e là da fiocchi candidi. Blue decise di avvicinarsi lentamente, guardandosi
attorno e non vedendo altro che le montagne sullo sfondo e gli alberi che
formavano un anello verde attorno a quella distesa piana.
Quella bambina...
Alle spalle
della piccola s’avvicendava una coppia di adulti, un uomo e una donna,
sorridenti come lei, atti ad inseguirla.
Non... non può essere…
Guardava la
dolce famigliola a più di trenta metri, nascosta dalle fronde di un abete
rigoglioso: l’uomo, molto magro, portava un paio di doppi occhiali, tenuti
stretti alla testa tramite le cuffie invernali che indossava, azzurre. I
capelli neri erano ben pettinati all’indietro. Fu lui a inciampare e a
scatenare il sorriso della donna, la moglie, magra, stretta nel suo piumino.
Aveva i capelli castani, molto lisci.
La bambina
le somigliava molto.
“Papà è
caduto!” urlò quella, voltandosi e mostrando a Blue il volto: una finestrella
aperta tra i denti mostrava la lingua in quello che era un grande sorriso. Gli
occhi, azzurri come il mare, rilucettero nel candore diffuso dell’ambiente,
sporcato solo dai vestiti dei tre e dai tronchi scuri degli alberi che li
circondavano. La piccola si avvicinò a loro, lanciando palle di neve.
“Smettila,
Blue!” urlò la madre.
Quella sono io.
Blue, quella
adulta, rimase immobile. Guardava la scena con la bocca semischiusa e lo
sguardo fisso sui tre.
Ricordo.
Una volta,
suo padre la inseguì e finì per inciampare. Si stava divertendo, e sarebbe
stato il momento più bello di tutta la sua vita, se non fosse stato per quello
che sarebbe successo pochi secondi dopo. Mai avrebbe dimenticato il terrore in
cui si era tuffata quando il flebile sole fu oscurato da una grossa ombra, che
andava ad ingrandirsi mano a mano che i secondi passavano.
Nonostante
fosse soltanto spettatrice sentiva ancora nelle sue arterie il mix d’adrenalina
e paura che le aveva percorso l’intero sistema nervoso. La bambina che aveva
davanti non si aspettava minimamente ciò che le stava succedendo.
Non si era
resa conto della grossa ombra che l’aveva sovrastata. E neppure i suoi
genitori, certo. Blue però lo sapeva, e magari avrebbe potuto urlarle di
nascondersi, di andare via di lì.
Avrebbe
potuto anche correre verso di lei e tirarla via, ma lo vedeva; Blue vedeva
quell’enorme uccello dal piumaggio rosso, dalla coda gialla e dal lungo becco
appuntito, e il cuore le era saltato in gola.
Aveva paura.
No…
Ed era la
stessa paura che aveva provato quando, tanti anni prima, Ho-Oh l’aveva presa
tra le zampe e l’aveva portata via. La stessa paura che aveva provato quella
versione di lei, bambina e ingenua, mentre gli artigli le stringevano il petto
e le laceravano il cappottino, sollevandola e portandola via. La vedeva urlare
terrorizzata, la vedeva piangere.
…
Blue
ricordava quegli artigli, freddi e nodosi, che le stringevano il corpo con
tenacia. Ricordava il vento sul viso quando aveva superato le nuvole, ricordava
quel freddo che le strappava le lacrime dal collo. Ricordava la vita che aveva
passato per via di quella faccenda.
Il cuore le
si fermò, quando vide gli occhi dei suoi genitori, spegnersi, accendersi,
incontrarsi.
Impallidirono,
prima di urlare e cominciare a correre.
Successe
prima che si disperassero: affondarono con le ginocchia nella neve, rendendosi
conto della loro impotenza. Cominciarono a urlare contro il cielo.
Sua madre
era quella più distrutta. Sul suo viso c’era l’espressione di chi avesse appena
perso tutto.
Sospirò,
Blue.
Fu forse il
volto di sua madre a convincerla a prendere di petto quella situazione e a
stringere ancor più forte la sfera di Blasty.
“Inseguilo!”
urlò, salendo sul grosso carapace del Pokémon. Aveva paura, ma i suoi genitori
la guardarono stranita, con le lacrime agli occhi. Le urlarono qualcosa ma
quella non riuscì a sentirli dato che, proprio in quell’istante, Blastoise
utilizzò i suoi cannoni come propulsori e lei sparì via, lasciando che l’acqua
sciogliesse la neve che s’era depositata su quel prato maledetto.
*
“Blue…
Blue!” esclamò Sandra, scuotendola per un braccio, mentre la vedeva immobile a
fissare il vuoto. Yellow la raggiunse rapida, passandole una mano davanti al
volto.
Guardò
preoccupata la Capopalestra e sospirò.
“E ora cosa
le prende?”.
*
Non avrebbe
mai potuto volare alla velocità di Ho-Oh, Blue, lo sapeva, ma Blasty riuscì lo
stesso a non perderlo di vista. Si diressero lontani da Biancavilla, superando
con non poca fatica il massiccio del Monte Argento. Vide dall’alto quello che
doveva essere il paese dei Domadraghi e poi oltre, Mogania, nella sua antica
monumentalità. La sorpassarono, le acque del Lago d’Ira venivano cullate dal
vento che acuiva i pizzichi del gelo. Sorvolarono per diversi chilometri il
bosco a nord di Johto fino a quando, su di una piccola collina, Blue vide
ergersi il maniero.
Quell’orribile
incubo era nuovamente davanti ai suoi occhi.
Atterrò
abbastanza lontana, per non essere vista. Era tuttavia in grado di osservare il
grosso Pokémon scendere a terra e posare la piccola se stessa nella neve.
Maschera di Ghiaccio aspettava in piedi, davanti alle
porte aperte della sua fortezza.
La piccola
Blue aveva paura, quella grande aveva una smorfia di sdegno sul volto.
Lo vedeva,
stretto nel suo mantello nero e lungo, alto e con quella fluente chioma candida
che danzava sospinta dal vento. Una grande maschera copriva il suo volto. Una
simile nascondeva anche i visi dei quattro bambini che aveva accanto.
“Piccola
Blue...” disse quello, muovendo un passo. Subito dopo fece cenno al grande
uccello di volare via e quello eseguì, lasciando che l’aria spostata dalle sue
ali investisse la schiena della nuova arrivata.
La piccola,
dal canto suo, era terrorizzata: il volto era pieno di lacrime, alcune erano
riuscite a raggiungere la mandibola e pendevano come stalattiti, finendo per
cadere sul piumino rosa, stracciato durante il volo. S’era sporcata, lei, con
le zampe del grande uccello arcobaleno.
Tuttavia
rimaneva immobile, a guardare quell’uomo avvicinarsi.
“Benvenuta
nella tua nuova famiglia” concluse quello. Le carezzò la testa, facendola
rabbrividire in un modo che la sua controparte, quella già adulta e nascosta
diversi metri indietro, ricordava ancora. Si voltò verso la più alta dei tre.
Lunghe ciocche, di quell’indaco chiaro, cadevano morbidi sulle spalle esili. In
qualche modo sapeva che sarebbe stata chiamata in causa.
“Karen”
tuonò. “Portala dentro e falle vedere qual è la sua camera. Dopodiché
lasciamola tranquilla fino a questa sera, per ambientarsi. Voi altri, venite
con me”.
Si voltò e
andò via, seguito dagli altri tre bambini mascherati, lasciando le due da sole.
La nuova arrivata guardava Karen mentre, ferma, aspettava che la situazione si
calmasse ulteriormente.
“Ciao, Blue”
fece, sistemando meglio la maschera sul viso. Le tese la mano e afferrò il
guantino mezzo sfilato della piccola dagli occhi pieni di lacrime. “Dammi la
mano ed andiamo dentro... La tua stanza è molto carina”.
Per la donna
nascosta dietro agli alberi fu un tuffo al cuore: rivivere le stesse scene che
avevano condannato a morte la normalità della sua vita, per quanto effimera e
noiosa sarebbe potuta essere, fu dolorosissimo. Dopo che le due ragazzine sparirono,
Blue, la grande, si mise in marcia verso il maniero, cercando un modo per
penetrarvi. Pensò al fatto che rientrare in quel luogo non le avrebbe procurato
nulla di buono, sia nel cuore che nella testa; tuttavia doveva riuscire a
cambiare la sua vita, permettendo almeno a quella versione di se stessa di non
fare le stesse stupidaggini, di non diventare una ladra senza speranza, di non
abbandonare Green e di non credere che i suoi genitori avessero finito per
abbandonarla. Doveva salvarla, portandola via da quel posto.
Avanzò con
passo celere e si ritrovò davanti al grosso portone, in legno ornato da ferro
battuto, a proteggere quella costruzione assai antica di mattoni in pietra,
trasformata in collegio per bambini che il suo tetro proprietario riteneva
idonei per i suoi scopi. Solo in quel momento Blue si rese conto d’esser stata
osservata e studiata, prima del suo rapimento effettivo. Rabbrividì, pensando
al fatto che un uomo o, anche peggio, uno di quei bambini avesse osservato tutta
la sua vita dall’esterno delle finestre di casa sua, guardando sua madre mentre
stirava e suo padre mentre leggeva il giornale.
Non rimase
ferma oltre davanti al portone, decise di defilarsi e di accedere dalla destra
della fortezza.
Proprio da
dove era fuggita diversi anni prima.
Stava ancora
decidendo se agire in modalità Tank o utilizzare quella Stealth, quando ormai era davanti alla
piccola botola. Prima d’accedervi però vide un piccolo Hoothoot saltellare ai
piedi di uno degli alberi, e si bloccò nel guardarlo. Fu allora che decise di
lanciargli una sfera e di catturarlo, riponendo poi la Pokéball all’interno
della sua borsa. Tornò alla botola, l’aprì e ignorò la zaffata d’umido che
raggiunse le sue narici; s’immerse nel buio, saltandovi direttamente
all’interno.
Sapeva che
sarebbe atterrata dopo un paio di metri in quello che era il corridoio nascosto
del maniero.
“Silenzio...”
disse a se stessa, aderendo ai muri ammuffiti.
Nonostante i
bambini con la maschera fossero soltanto sei, Maschera di Ghiaccio aveva rapito numerosi altri ragazzini, che
popolavano il grosso castello e gli erano utili per le faccende pratiche più
effimere. Quelli con la maschera rappresentavano l’élite. Raramente quelli
senza maschera superavano l’asticella, facendo strada ed entrando nel gruppo
degli esecutivi col volto celato.
Soltanto
Karen c’era riuscita. Lo ricordava ancora, lei aveva cominciato dalla cucina;
successivamente era diventata la peggiore tra i galoppini di Alfredo.
Alla fine
del corridoio c’era la grande libreria semovibile, che dava direttamente nelle
camere private di Maschera di Ghiaccio.
Il grosso mobile era su rotelle, non ebbe alcun problema a spostarlo.
Nel farlo,
però, si rese conto di dover essere più cauta. Buttò un occhio prima di uscire
allo scoperto, aderendo nuovamente al muro.
Il cuore
batteva forte.
L’ultima
volta che era entrata in quella camera aveva in mente soltanto la sua voglia di
libertà. Batté un paio di volte le palpebre e si ritrovò a respirare
profondamente. Pensò che dovesse andare velocemente via di lì. Rapida, legò i
capelli in una coda e poi avanzò, facendo attenzione che nessuno s’avvicinasse.
Uscì dalla grande camera, ritrovandosi nel corridoio principale, quello in cui
fu inseguita dai suoi confratelli il giorno in cui lei e Silver fuggirono.
Lo
ripercorse al contrario, veloce, col respiro frammentato e il cuore che saltava
un battito ogni volta che un ricordo le sovveniva alla mente. Aveva passato
così tanto tempo in quel luogo da riconoscerla un po’ malinconicamente come la
sua casa. Ricordava ogni posto, ogni anfratto, ogni nascondiglio, ogni buco più
sicuro per sfuggire alle sfuriate dei fratelli più grandi e dell’uomo
mascherato. Più di tutto ricordava le tante persone, Blue, la prima volta in
cui fu portata da Karen all’interno della sua camera.
Avanzò. Arrivata
alla fine del corridoio c’era la sala centrale. Lì non avrebbe potuto far nulla
per dissimulare la sua presenza, né per giustificarla.
“Devo creare
un diversivo...” sospirò, prendendo la sfera del Pokémon che più volte aveva
utilizzato in quel modo.
“Ditty... già sai cosa fare...” fece,
lanciando per terra la sfera del suo Pokémon. Aspettò pazientemente che quello
mutasse il proprio colore per poi trasformarsi velocemente in un enorme
esemplare di Gyarados. Il suo ruggito fu terribile e spaventò tutti i presenti
che, voltati verso la nuova minaccia, non videro Blue sgattaiolare al piano
superiore, dove Karen aveva parcheggiato la nuova bambina, chiudendola a chiave
nella propria stanza per evitare che fuggisse.
Nascosta
dietro a un angolo, la vide poggiare la mano sulla porta e battere due volte.
“Ora non ho
tempo per mostrarti ogni cosa, c’è un’emergenza! Ma verrò non appena sarà tutto
a posto! Stai tranquilla!”.
“V-Va
bene...” aveva detto l’altra, con la voce più spaventata che avrebbe potuto
avere in quel momento. Sorrise, la Blue grande, pensando al fatto che in futuro
avrebbe dovuto sostenere stress e prove di forza ben maggiori d’un semplice
Gyarados. Pochi secondi dopo, una giovanissima Karen le sfilò davanti, senza
accorgersi minimamente di lei.
Quando fu
sola accelerò velocemente verso la sua stanza e staccò una forcina dai capelli
per forzare la serratura.
Non le ci
volle molto. Aprì la porta, vedendo la piccola se stessa che aveva raccolto le
ginocchia tra le braccia nell’angolo del letto, nascondendo il volto dietro il
cuscino. La camera che la proteggeva dal mostro era uguale a come la ricordava:
piccola, con una finestra in alto protetta da doppie sbarre d’acciaio e mura
color grigio canna di fucile. Una semplice lampadina nuda illuminava fioca
l’ambiente, lasciando che il marrone del legno dell’armadio, accanto alla
porta, e del piccolo scrittoio, risultasse quasi nero. Sentendo la presenza di
qualcuno, la bambina alzò la testa, scontrando lo sguardo celeste con quello
identico dell’avventrice.
E subito
dopo associò a quel volto quello di Silver.
Se adesso la porto via Silver non si
salverà...
“… t-tu…
chi… chi sei?” domandò la bimba, mentre le lacrime le riempivano le rime degli
occhi. “Non... non farmi male...”.
Blue sorrise
dolcemente e chiuse la porta. “Tranquilla, non ti farò nulla. Sono qui per
aiutarti”. Si sedette poi accanto a lei, lentamente. “Sono venuta per parlare
con te”.
L’altra abbassò
leggermente il cuscino dietro il quale si nascondeva e la fissò in volto,
profondamente. “Assomigli alla mia mamma… Dov’è la tua maschera?”.
“Io non ho
alcuna maschera, piccola Blue. Ora però dovrai ascoltarmi attentamente...”
faceva quella, inginocchiandosi sullo scomodissimo materasso, che rispose
lasciando cigolare le molle. Le prese le mani e instaurò un contatto visivo
assai profondo: riusciva a sentire la sua paura, assaporando l’incertezza che
lei stessa aveva provato quando, quel nefasto giorno, fu portata in quel
castello buio.
“La tua
mamma e il tuo papà stanno bene e ti amano, a loro non è successo nulla.
Tuttavia non sanno dove ti trovi e questo li ha fatti preoccupare parecchio.
Non finiranno mai di sperare che tu possa tornare a casa, quindi non
dimenticarti mai di loro e del fatto che vogliono che torni con tutte le loro forze.
Prima di fare questo, però, è necessario che impari a sopravvivere in questo
posto, altrimenti Karen e gli altri ti faranno fuori in men che non si dica… mi
ascolti?”.
Prima di
continuare aspettò che l’altra annuisse.
“Ottimo.
Devi fare ciò che vogliono. Non ti verrà fatto nulla di male ma imparerai a
combattere con i Pokémon, a sfruttare il loro potenziale per ottenere tutti i
tuoi obiettivi. Imparerai il pensiero laterale... lo sfrutterai per risolvere
situazioni spigolose...”.
“Cos’è il
pensiero laterale?” domandò l’altra.
La grande
sorrise, carezzandole la testa. Alzò gli occhi, cercando di riportare alla
mente qualche avvenimento della sua infanzia che non fosse successo attorno a
quelle mura.
“Ti ricordi
quando sei andata con la mamma e il papà all’Altopiano Blu, a vedere la Lega
Pokémon? C’erano tante auto e siamo rimasti bloccati nel traffico. Ecco, il
pensiero laterale è come se, mentre tutti sono bloccati nel traffico, noi
avessimo raggiunto la Lega attraverso un’altra via, meno trafficata”.
“Quindi... è
pensare in un altro modo?” chiese quella.
Blue sorrise
ancora. Si reputava dolcissima, a quell’età. “Esattamente. Bravissima, hai
capito. Io e te siamo sveglie...” fece, carezzandole la testa e spettinandole
la frangetta sulla fronte. “Imparerai a fare anche altre cose che, tuo
malgrado, non vorrai sapere: capirai come raggirare una persona, come
truffarla. Come ammazzarla... T’insegneranno tutto loro. Io voglio però che tu
stia attenta a ognuna delle persone con la maschera... Non dovrai fidarti di
nessuno di loro. Nessuno tranne Silver”.
La piccola
se stessa sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di capire.
“Chi è,
Silver?”.
Quella
grande non se lo lasciò ripetere due volte. “È un bambino, proprio come te,
anzi, più piccolo, che arriverà qui tra qualche tempo. Lui è il figlio d’una
persona molto importante che farà di tutto per riaverlo con sé. Dovrete fare
sempre gioco di squadra, tu e lui… Silver sarà il ragazzino mascherato più
piccolo, e perciò sarà preso di mira. Soprattutto da Karen e Pino. Tu cerca di
proteggerlo, è molto sensibile e quest’avventura gli rimarrà impressa nella
mente per tutta la vita”.
“Silver...”
ripeté Blue, la bambina.
“Esatto.
Poche settimane e sarà qui. Sarà proprio Maschera
di Ghiaccio a metterti in coppia con lui, perché siete i più piccolini...
Fate tutto ciò che vi viene detto e non finirete per morire. Intesi?”.
“V-va bene”.
La grande
allungò l’orecchio, per sentire i versi di ferocia del suo Ditto, riuscendo a
percepirli ancora: aveva altro tempo.
“Bene, poi
che altro… Ah! Alzati da lì” fece. Vide la bambina eseguire e farsi da parte,
verso l’angolo opposto della minuscola stanzetta, accanto all’armadio. Quella
grande invece spostò rapidamente il letto, mostrandole il muro alle sue spalle,
fatto di mattoni.
“Ecco.
Stasera, quando ti daranno da mangiare, ruba un cucchiaio. Una volta tornata in
stanza, comincia a scavare, proprio in questo punto” le disse, indicando la
fuga tra due grossi mattoni. “C’è una piccola camera d’aria, oltre queste pietre,
e tu dovrai scavare di notte per aprirti uno spazio abbastanza lungo da far
entrare te e Silver. Lui è alto un po’ meno di te”.
“Scavare...”
ripeté la piccola, come annotandosi tutto.
“Sì,
scavare, piccola” sorrise l’altra. “E poi ti daranno una maschera, come quella
di Karen. Non la devi mai levare. Anche Silver. La potrete levare solo quando
sarete nel vostro nascondiglio, qui, dietro il letto”.
Rimise il
materasso al proprio posto e tornò a sedervisi sopra con l’altra. “In più so
che sarà dura, ma non devi avere paura degli uccelli. Sei stata afferrata da
quelle zampe enormi, da quel Pokémon così grande... Anche io non sapevo come
combattere questa paura... Ho dovuto sbatterci la testa contro, e tutt’ora non
sono riuscita ad abituarmici. Però... Ecco, se imparerai ad amare i Pokèmon
volanti, tra qualche anno potresti addirittura diventare la Campionessa della
Lega. Capisci che bello?”.
Vide la
bambina sorridere.
“Eh?”
continuò. “Ti piacerebbe?”.
Annuì
debolmente, lei. “Ma...” parlò. “Per diventare Campionessa dovrò uccidere delle
persone?”.
Blue chiuse
gli occhi ed abbassò il volto. Capiva che per una ragazzina fosse un argomento
delicatissimo. Ricordava nei suoi occhi la paura della gente che aveva
giustiziato suo malgrado in quel maniero e tutte le volte che li aveva pianti,
scusandosi col cielo e chiedendosi perché quella cosa fosse accaduta proprio a
lei.
“No”
concluse. “Non dovrai uccidere per diventare Campionessa. Lo dovrai fare perché
altrimenti sarai tu a essere uccisa. Sarà dura abituarsi a questo pensiero ma
rimani sempre positiva e ricorda sempre che tu hai un valore. Non farti mai
annullare da quelle persone con la maschera. Tu sei migliore di tutti loro
messi assieme, non dimenticarlo mai. E anche Silver. Per diventare Campionessa
dovrai rispettare te stessa e gli altri e diventare una brava persona. Dovrai
usare le tue abilità e dimenticare la tua paura per i Pokémon Volanti. A tal
proposito...” sospirò lei, infilando la mano nella borsa. Fu da lì che tirò fuori la sfera
dell’Hoothoot che aveva catturato qualche minuto prima.
“Questo è
tuo. È un Hoothoot, un Pokémon piccolo e molto carino. Nonostante sia un
uccello non dovrai avere paura di lui. Ti vorrà sempre bene e ti proteggerà”.
La piccola
annuì. Vide la grande nascondere la sfera sull’armadio e proseguire con il
proprio discorso. “Non appena sarete lasciati liberi di catturare i vostri
Pokémon, nel giardino del maniero, potrai dichiarare di averlo catturato e
smettere di nasconderlo. Per il resto stai attenta, riponi tutto qui su e nessuno
lo troverà. E poi c’è la parte più importante: la fuga”.
“La fuga?!”
spalancò gli occhi quella.
“Sì. Tu e
Silver fuggirete da qui, tra diversi anni. Utilizzerai il tuo Jigglypuff per
aiutarti nella fuga e ti troverai nella camera dell’uomo mascherato. È
importante che una volta lì tu riesca a rubare due strumenti molto importanti,
tenuti in una teca di cristallo sulla sua scrivania. L’uomo si troverà nella
stanza, sarà parecchio malato e quindi non vi ostacolerà, ma fate attenzione.
Infine dovrete spostare una libreria a rotelle e correre fino a che non
raggiungerete il lato esterno del maniero. Poi vi dileguerete. Ora vado, Karen
potrebbe tornare da un momento all’altro”.
“Non posso
venire via con te, ora?” ribatté subito.
Blue, quella
grande, fu aggredita da quella domanda come fosse una raffica di proiettili.
Perse le forze, rimanendo inerme allo sguardo di se stessa.
Fece cenno
di no.
“Tu... tu
devi proteggere Silver. Lo devi salvare, lui è molto importante, lo devi voler
bene come il fratellino che non abbiamo mai avuto. Capito?”.
Gli occhi
della bambina, di quel blu profondo come l’oceano, si riempirono di lacrime. Il
suo viso mutò rapido, disfacendo quella struttura labile che ancora teneva
insieme le sue espressioni, rovinando in una disperazione più che
comprensibile.
“Non
piangere…”.
“Perché non
posso andare via?!” esclamò, alzando la voce e aggrappandosi ai vestiti
dell’altra. “Voglio tornare dalla mia mamma! A casa mia!”.
Il pianto
prese a rigarle il viso.
“So che è
dura…”.
“Non voglio
uccidere nessuno!”.
“Non potrai
fare nulla per evitarlo, senza venire uccisa” disse l’altra, stringendola e
carezzandole il capo. “Devi stare attenta. Ma, ascolta bene, una volta che
fuggirete, non dividetevi subito… Lui vorrà sicuramente vendicarsi di Maschera di Ghiaccio, ma cerca di
dissuaderlo, e andate a Biancavilla. Ruba un Pokédex, lo farai molto
facilmente, e anche uno Squirtle, ti servirà. Ah, e poi corri subito nel
Settipelago, a Secondisola, e chiedi alla vecchia Kimberly della mamma e del
papà, perché ti aiuterà a ritrovarli…”.
La piccola
Blue si asciugò il volto e sospirò.
“L-li… li
ritroverò?”.
A quel punto
fu la donna a crollare nel pianto, dove grosse lacrime presero a colarle sulle
guance.
Annuì.
“Sì, tesoro.
Sì, andrà tutto bene. La mamma e il papà ti amano e ti aspettano. E tu sarai
fortissima, la più forte… Viaggia, divertiti, impara. Incontrerai l’uomo della
tua vita, non lo tradire e amalo sempre, e lui farà lo stesso con te. Non
fargli del male… Lui non merita questo dolore…”.
La piccola
annuì.
“È... è
tutto chiaro?”.
La Blue del
passato annuì nuovamente.
“Se fai come
ti dico andrà tutto per il meglio. Ora devo veramente andare”.
Le si
avvicinò e la strinse in un caldo abbraccio, poi le baciò la fronte e le
sistemò la frangetta, prima di uscire dalla stanza rapidamente, lasciandola lì
da sola.
Scese le
scale a due a due e prese la sfera di Ditty,
facendolo rientrare, mentre i ragazzi mascherati stavano fronteggiando la
minaccia.
“E ora...”
disse poi, prendendo la sfera di Blasty.
Il grosso Pokémon uscì e caricò i cannoni d’acqua, piazzandosi davanti al
portone d’ingresso. “Idrocannone, Blasty!”.
La porta si
sfondò, come se fosse fatta di compensato. Fuggì verso l’orizzonte, Blue,
direzione Biancavilla.
Johto, Rovine D’Alfa, Sala Alfa
“Non vorrei
ricordarti che non è il momento per mantenere stupide convinzioni!” esclamava
Red, indietreggiando velocemente. Davanti a lui una tremenda Palla Ombra esplodeva nel pavimento,
alzando detriti e polvere. La coda di Charizard illuminava a malapena il lungo
corridoio e MegaGengar si nascondeva nel buio, lasciando che a riaffiorare
fossero i suoi occhi spiritati di sangue, assieme al sinistrissimo sorriso.
“Non
possiamo fare altrimenti, Red! Non possiamo distruggere le Rovine D’Alfa!”.
“Non mi pare
che quel tipo si stia facendo i nostri stessi scrupoli!”.
I due si
guardarono, quell’attimo che bastò alle loro iridi di scambiarsi l’idea,
l’intesa di come avanzare.
“Charizard, Incendio” sussurrò Green, vedendo Red
scappare rocambolescamente verso il corridoio adiacente e stendersi per terra.
Fu in grado di vedere, dal muro davanti a sé, soltanto una grande quantità di
luce illuminare a giorno i mattoni d’arenaria che cingevano tutta la struttura.
“Incendio...” sussurrò quest’ultimo, dopo
un sospiro. Si rimise in piedi velocemente. “Il solito esagerato...”.
Raggiunse
nuovamente il corridoio accanto, vedendo Green col volto corrucciato e le mani
strette attorno a uno strano bracciale che portava al polso.
“Cagasotto”
ribatté quest’ultimo.
“Che diamine
vuoi fare?!”.
“Megaevolviti,
forza”.
Dal
bracciale sul polso del Dexholder venne emessa una luce accecante, che assalì
totalmente il suo Charizard. Quello finì per completare lo stadio
dell’evoluzione raggiungendo la forma Y:
corpo assottigliato, cranio aerodinamico e potenza di fuoco devastante, mentre
un paio d’ali ai polsi gli permetteva di mantenere la stabilità in volo e di
aumentare la velocità.
“Fai
Megaevolvere qualcuno e combattiamo, Red! Non perdiamo tempo, sono preoccupato
per Blue!”.
“Non posso
far Megaevolvere nessuno! Non qui, almeno! Non ora!”.
“Ma che
cazzo significa?!” esclamò l’altro, profondamente irritato. Si voltò per un
attimo, prima di vedere l’avversario inginocchiarsi.
“Smog!” esclamò quello, rapido, attivando
la maschera antigas.
“Oh,
porca...” sospirò Green, indietreggiando.
“Vee!” chiamò Red, vedendo il suo Pokémon
ancora fermo accanto a lui, in atteso di ordini. “Devi riuscire a contenere
psichicamente il fuoco e il veleno! So che sei in grado di farlo!”.
Espeon
avanzò e i suoi occhi furono rivestiti di quell’energia che avvolgeva anche il
suo corpo. Le fiamme tutt’intorno furono come risucchiate da una sfera
d’energia che s’era andata a formare al centro del corridoio, e assieme a
quelle anche il gas velenoso.
Green
digrignò i denti e sospirò. Red invece aveva lo sguardo concentrato.
“Mantienilo…”
sussurrò Oak, basso sulle ginocchia. “E tu, Charizard, mettilo fuori
combattimento con un rapido Lanciafiamme”.
“Attento”.
“Sì,
attento” ribadì Green, vedendo il suo Pokémon accelerare in maniera
esponenziale, falciando l’aria con le ali e raggiungendo l’avversario in meno
d’un secondo, fino a trovarselo di fronte.
“Doppioteam!” urlò il mercenario,
ordinando al suo Pokémon di sdoppiarsi in tante versioni di sé.
“Odio i
Gengar...” sospirò Green, vedendo il suo Charizard aprire il fuoco su tre copie
fittizie. Subito dopo l’uomo in mimetica grigia batté due volte le mani e le
versioni, tutte, s’abbatterono sull’avversario, colpendolo con incredibile
forza da tutti i lati con un Pugnodombra.
“Ma è
impossibile!” esclamò Red. “Le altre copie dovrebbero essere incorporee!”.
Charizard
accusò il colpo ma si rimise in piedi velocemente.
“Gengar è un
ammasso d’ombre, Red” spiegò Green. “Ha diviso la propria potenza in parti uguali
in ognuna delle copie, tramite il pavimento”.
Gli occhi di
Red puntarono le braccia del Pokémon avversario: affondavano nel pavimento,
interamente ricoperte da quel fumo scuro e sinistro.
“Sono stanco
e il tempo è poco...” sospirò quello dagli occhi rossi, ulteriormente
illuminati dall’ammasso di fiamme e smog che galleggiava al centro del
corridoio. “Vee... Psichico su quel Pokémon. E Charizard,
bracca quell’uomo, non farlo muovere”.
Il felino fu
tempestivo e letale, strappò MegaGengar dal pavimento, con tutte le sue
versioni, e lo spinse con terribile violenza al centro della sfera che teneva
sotto controllo; lo sforzo non fu indifferente: il piccolo Pokémon, difatti,
era basso sulle zampe e ben concentrato, con l’energia psichica che lo avvolgeva
e che rendeva tutto incredibilmente disordinato.
Al centro di
quella sfera, MegaGengar non poté far altro che subire la potenza dell’incendio
causato da Charizard, finendo vittima peraltro del suo stesso attacco velenoso.
Il campo di forza si restringeva, aumentando sempre più la pressione e creando
infine una grossa esplosione. MegaGengar finì per tornare un Gengar, prima
d’evaporare come fumo nero.
Red guardò
Green, che intanto fissava le pareti danneggiate della sala Alfa; avanzavano
entrambi verso Charizard, che teneva spinto verso la parete il mercenario.
“La prossima
volta faccio io da supporto, allora...” sorrise a mezza bocca il Dexholder
dagli occhi verdi. S’accostò al suo Pokémon e colpì con forza il volto
dell’uomo, con ancora indosso la maschera antigas. Quello ricadde per terra, a
carponi, dolorante.
“Ora
proseguiamo e...”.
Il Pokégear
suonò rumorosamente, rimbombando lungo le pareti ormai bruciate del corridoio.
Era Valerio.
“Qui Green
Oak” rispose.
“Dovete correre immediatamente nella
sala 1! Jasmine sta attaccando tutti!”.
“Cosa?! Che
diamine stai dicendo?!”.
“Jasmine! Jasmine sta attaccando
tutti! Chiara è ferita gravemente e Raffaello è morto. Gli altri non li vedo!”.
“Che diamine
stai dicendo?!” subentrò Red, stringendo la sfera di Vee tra le mani.
“Non capisco più nulla!” si lamentava. “Qui siamo rimasti soltanto io, Jasmine e Corrado, dietro a un mezzo
muro crollato!”.
“Aspetta”
interruppe Green. “Non hai detto che Jasmine vi stava attaccando?”.
“No, non quella Jasmine... Ci servono
rinforzi!”.
“Nella Sala
2, invece?” domandò Red.
“Non so un cazzo della Sala 2! Fate
presto!” urlò, e poi
un’esplosione tremenda lasciò che la conversazione s’interrompesse.
Red e Green
si guardarono fissi negli occhi, prima di sospirare. Il secondo diede un forte
calcio allo scagnozzo, ancora sul volto, mettendolo totalmente fuori
combattimento.
“Ora non ci
darà più fastidio. Dobbiamo dividerci. Andrai tu nella Sala 1 mentre io
avanzerò per controllare che questa stanza sia libera. C’incontreremo lì, farò
presto”.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 7
Blue volava
su Jiggly come se fosse una
mongolfiera. Era più in alto delle fredde nuvole e si riscaldava soltanto col
pensiero di poter incontrare i suoi genitori.
Voleva
rassicurarli su quanto successo poche ore prima.
Non sapeva
per quale motivo ma non appena rivissuta la scena del suo rapimento un istinto
atavico di protezione verso se stessa l’aveva portata ad inseguire quell’enorme
Pokémon uccello. Ricordava alla perfezione, mentre il vento gelido le passava
tra i capelli, quella sensazione d’abbandono a se stessa che provò qualche
minuto dopo essere entrata in quell’enorme maniero. Non fu piacevole per una
bambina imparare le leggi della vita così in fretta, né capire che non ci
sarebbe stata più sua madre oltre la porta della sua camera, ma solo luridi
strozzini pronti a riprendersi, al primo errore, il poco che le avevano dato.
Con gli
interessi.
Non un padre
amorevole seduto sulla poltrona a leggere il giornale, ma un boia mascherato
pronto a mostrare il pollice verso appena possibile.
Carnefici.
E si
facevano chiamare famiglia. Pensò a se stessa da bimba, Blue, e capì che
dovesse aiutarsi. Forse sarebbe cresciuta più pulita e meno maliziosa.
Biancavilla
era lontana qualche chilometro ma la vedeva in lontananza, oltre le nuvole
d’ovatta che piangevano neve.
*
“È quasi un
minuto che non risponde, Yellow... Che dobbiamo fare?!”
La bionda
guardava Sandra, cercando di rimettere a posto le idee. Fissava il volto di
Blue, immobile davanti a lei, catatonica, con lo sguardo proiettato verso il
vuoto e le pupille totalmente fisse, immobili. Era come ipnotizzata. Si permise
di spingerla vedendola lentamente perdere l’equilibrio, per poi ricadere
pesantemente tra le braccia di Sandra.
“Ma che
diamine...” esclamò la Domadraghi, spostando con una mossa della testa la coda
di cavallo dalla spalla.
“C’è
qualcosa che non va” osservò la Dexholder. “C’entra quasi sicuramente un
Pokémon...”.
S’abbassò,
mettendosi a carponi e osservando gli angoli; cercava qualcosa, un bagliore,
una presenza, anche solo un respiro che potesse tradire la mano di qualcun
altro.
Ma quando
non vide nulla, decise di agire.
Coi propri
poteri, espanse la sua voce verso chi poteva sentire la sua mente.
“Per favore! Mi serve aiuto! Qualcuno
mi spiega cosa sta succedendo?!”.
Acuì le
proprie percezioni, cercando di inviare il proprio messaggio quanto più lontano
possibile ma temeva che quelle vecchie mura potessero schermare le sue onde
mentali.
“Che
dobbiamo fare?” domandò Sandra, poggiando Blue per terra.
Nessun
Pokémon aveva risposto a Yellow. Forse anche loro erano in un’illusione.
Capì.
“Dobbiamo
trovare questo Zoroark”.
*
Non sapeva
per quale motivo fosse ritornata a casa, Blue.
Si trovava
in una Biancavilla di più di vent’anni prima, dove il cemento ancora non aveva
aggredito i boschi attorno alle case. Era atterrata poco lontana
dall’Osservatorio, dove nessuno avrebbe potuto vederla. Fece rientrare Jiggly nella sfera e sospirò, affondando
con le caviglie nella neve. L’aria lì era pulita.
Più pulita.
E quella
familiarità le piaceva molto, era ritornata ai giorni in cui la testa sulle
spalle non pesava. Casa sua non era lontana da lì, allungando lo sguardo la
vedeva, con il tetto di tegole rosse e le persiane celesti serrate. I suoi
genitori dovevano ancora tornare. Probabilmente avevano chiamato la polizia e
allertato chiunque.
Sospirò. Già
sapeva che non l’avrebbero trovata.
Immaginò
l’ansia e la paura che doveva aver assalito nei giorni successivi al misfatto i
suoi genitori, e quasi si sentì in colpa per non aver riportato la piccola se
stessa indietro. Ma poi il volto del piccolo Silver le apparve davanti agli
occhi, in un flash che la riportava immediatamente coi piedi per terra.
Non poteva
abbandonarlo.
Sospirò,
camminando lentamente, prima di vedere un più giovane Samuel Oak dirigersi
sulla cima della collina, stretto nel lungo cappotto di pelle scura. Indossava
un borsalino dello stesso colore e manteneva sotto al braccio un quotidiano
arrotolato. Gli sfilò alle spalle, vedendolo voltarsi e fissarla per un attimo
di troppo. Raggiunse poi la piazza del paesino, dove un paio di signori
corpulenti e vestiti pesantemente gettavano sale sulle strade. Qui e lì la neve
sporca diventava acqua e finiva per defluire nei canali di scolo.
Quella
pulita, invece, raccolta nei prati e nei giardini delle villette, diventava
pupazzi e palle di neve a servizio dei tanti bambini che si divertivano. Era
domenica, lo ricordava, le scuole erano chiuse e tutti i ragazzini si erano
riversati nelle strade dopo l’abbondante nevicata della notte precedente. Blue
camminava, vedendo le luci accese nelle case. Ne traeva calore.
Lì tutto era
calmo. L’ansia della vita che pressava, il senso di colpa delle scelte
sbagliate, la paura della fine, tutto era distante, lì.
Ferma, nel
crocevia del paese, si voltò a fissare nuovamente l’Osservatorio, confondendo
il fumo grigio che fuoriusciva dal comignolo con l’alabastro delle nuvole che
sovrastava tutto.
Ricordò che non
passava molto tempo coi ragazzini del paese, non ne conosceva praticamente
nessuno, dato che viaggiava spesso coi suoi genitori durante i loro viaggi.
Tuttavia, quel giorno, ne riconobbe uno: aveva i capelli neri, lucidi, corti
sulla nuca ma spettinati davanti agli occhi rossi. Spesso li allineava sulla
sinistra, alti sulla fronte, ma correndo e lanciando palle di neve ai suoi
amici finivano sempre per coprirgli lo sguardo.
“Red…”
sorrise, immobile, vedendolo sfilarle davanti, seguito da un piccolo Poliwag,
che saltellava nella neve fredda. Sentendosi chiamare, il ragazzino si fermò e
la guardò, interdetto.
Sul suo viso
si leggeva bene che non conoscesse la donna che aveva davanti.
“Ciao” gli
disse poi Blue, inclinando leggermente la testa.
Lo sguardo del
bambino si spostò verso le sfere che portava alla cintura, per poi tornare a
fissarle gli occhi blu.
“C-ciao…”
titubò, aggrottando le sopracciglia. “Come conosci il mio nome?”.
Blue annuì.
I due non si conoscevano.
Non ancora,
almeno.
“Sono amica
di… tua madre. Come sta?”.
“Bene… è a
casa con papà”.
“Papà?!”
esclamò quella, spalancando gli occhi, sorpresa. “Tuo padre?!”.
Al contrario
suo, Red pareva naturale. “Sì. Mio padre. Tu non ce l’hai?”.
“S-sì, io
sì… ma…”.
“Perché me
lo chiedi?”.
Blue sospirò
e sorrise. Doveva calmarsi.
“Sono solo
curiosa” disse, arruffandogli il ciuffo. “E che mi dici? Vai a scuola?”.
“Sì, ma mi
scoccio…” sbuffò quello. Mosse un piccolo passo indietro, portando le mani
umide ai fianchi. Gli occhi della donna si fermarono dapprima sulle gambe
bagnate dei suoi pantaloni, e poi sulla figura del piccolo Poliwag che lo
seguiva fedele.
“È tuo,
vero?” gli domandò, abbassandosi e accarezzando il Pokémon. Quello guardava
schivo la nuova arrivata. “Diventerà molto forte, se lo allenerai…”.
“Già lo
faccio!” esclamò, spalancando gli occhi. “Tutti i giorni! Ha imparato anche a
sparare le bolle!”.
Blue
ridacchiò, pensando al fatto che quello sarebbe diventato uno tra i Pokémon più
forti dell’intera nazione. “Non finire mai di allenarti. Sarai un grande
Allenatore e vincerai anche la Lega Pokémon”.
“Lo so! E lo
farò prima di Green!” s’arrabbiò lui, annuendo convinto. “Come lo odio, quel
tipo!” fece infine, stringendo i pugni e suscitando l’ennesima risata nella
ragazza, che annuì.
“Parli di
Green Oak, vero?”.
“Sì! Quel
testone!”.
“Imparerai a
volergli bene, col tempo…”.
“Ma neanche
per idea!” esclamò alterato. “Io lo odio, quel tipo! È così… antipatico!”.
“Dov’è,
adesso?” chiese poi la donna, alzando il collo e cercandolo tra i ragazzini che
correvano attorno a loro, urlando e tirandosi contro palle di soffice neve. Lo
sguardo di Red si nascose per un attimo dietro le palpebre, poi tornò a fissare
l’interlocutrice, prima di sospirare profondamente.
“Era andato
verso la spiaggia... Dice che vuole catturare un Dewgong o un Cloyster, per
diventare più forte di me…” aggrottò la fronte. “Ma io e Poli siamo più forti di lui e di quell’odioso Charmander…”.
“Verso la
spiaggia, dici?” disse Blue, voltandosi verso la via che scendeva a sud, tagliando
in due il complesso residenziale costruito appena una decina di anni prima. “Mi
ci vuoi accompagnare?”.
Red avvampò
violentemente, poi abbassò lo sguardo. “S-sì… Ma facciamo presto, mia mamma non
vuole che io vada lì da solo…”. Blue, che aveva capito, si limitò ad
afferrargli la mano e a cominciare a camminare in direzione sud. Passarono
lentamente davanti alla casa della ragazza, ancora chiusa, dove la neve aveva
cominciato ad accumularsi sul prato e sul profilo dello steccato. Il vialetto
era da spalare, era una cosa che a suo padre non piaceva fare, e che sua madre
gli rimproverava sempre.
Era una
coppia particolare, quella tra i suoi genitori, composta da due persone
estremamente diverse, accomunate però dall’amore che provavano per la loro
bambina. Sospirò, si voltò a guardare il paesino, pensando che fosse davvero
bellissimo. Biancavilla era una bomboniera, una perla tra le valve di boschi e
montagne, baciata dal mare.
La gente lì
era cordiale e spontanea, tutti si conoscevano tra di loro e la pace sembrava
qualcosa di talmente statico e tangibile da non poter mai essere messa in
discussione.
Blue aveva
bisogno di Biancavilla, soprattutto in quel periodo della sua vita.
Girarono
attorno alla collina e si ritrovarono a distanza la spiaggia innevata, baciata
dalle onde placide che sussurravano educate la loro omelia. Un ragazzino dai
capelli castani era immobile sulle sponde, con le braccia conserte e la schiena
dritta.
“Eccolo lì…”
sussurrò Blue, sorridendo. “Ti disturbiamo?!” urlò, a una ventina di metri di
distanza. Quello si voltò, fissandola, e sbuffando, prima tornare a fissare la
spuma sulla battigia.
Calciò la
sabbia, alzandola in alto e facendola portare via dal vento.
“Non ci ha
sentiti, forse…” sussurrò Red, avvicinandosi.
“Ci ha
sentiti eccome…” ribatté invece Blue, ma il ragazzino aveva già cominciato a
correre verso l’altro dagli occhi verdi.
“Green, sei
il solito maleducato! Questa ragazza vuole conoscerti!”.
L’altro si
voltò nuovamente, fissando il più vicino e sbuffando.
“Non la
conosco” rispose scontroso, proprio come lo conosceva lei, che non poté fare a
meno di sorridere. Gli si avvicinò, con lo sguardo vivo, e gli tese la mano.
“Piacere. Mi
chiamo Blue”.
L’altro
guardò la mano e la spinse lontana.
“Non voglio
conoscerti. Va’ al diavolo”. Si voltò poi dall’altra parte, faticando nella
neve, facendo per ritornare verso il paese. La donna guardò Red, confusa.
“Già gli ho
fatto qualcosa di male, per caso?”.
L’altro fece
spallucce e sospirò. “E oggi sembra essere calmo… generalmente è peggio”.
“E perché?”
“È nervoso,
ecco: domani partirà per Johto... andrà da un Capopalestra, non ricordo come si
chiama, per imparare la disciplina e calmarsi...”.
“Furio...”
sussurrò Blue, sospirando.
“Sì!”
esclamò l’altro. “Furio! Come lo sapevi?!”.
“Ho tirato
ad indovinare...”.
Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile
“Mari...”
sentì la Ranger.
Era poggiata
col volto sul letto di Gold, gli stringeva la mano mentre la notte sembrava
essere scivolata velocemente verso il suo cuore più profondo. La donna aprì gli
occhi lentamente, guardò il volto del suo uomo e sperò che i suoi occhi aurei
fossero spalancati e vividi, gioiosi come sempre, accompagnati dal grosso
sorriso che sempre lo aveva contraddistinto.
Invece
dormiva.
“Mari...”
ripeté qualcuno, poggiandole la mano sulla spalla. La donna alzò lo sguardo
verso l’elettrocardiogramma e notò che non vi fosse alcun cambiamento nelle
condizioni del battito. Gold sembrava stabile. Guardò l’orologio, aveva
riposato mezz’ora in quella posizione scomoda, solo per potergli stare accanto.
Si voltò lentamente e vide suo fratello col volto stanco.
“Devi andare
a riposarti, cara sorellina mia...”.
Scosse il
caschetto castano, la Ranger, in segno di negazione. “Non se ne parla.... Non
posso allontanarmi da qui…”.
“Non ti
permetterò di distruggerti in questa stanza, da sola. Altea sta bene, domani la
riaccompagnerò a Capo Piuma, ma fino ad allora rimarrò qui in ospedale. Starò
io qui a vegliare su Gold. Tu vai a riposarti…”.
Martino la
sollevò di peso dalla sedia e la strinse in un abbraccio. “Stai tranquilla. Ma
hai bisogno di mangiare e dormire. Domattina per le dieci potrai tornare a
stare vicino a Gold”.
“Non mi
allontanerò, Martino, puoi dire quello che vuoi ma...”.
“Forza.
L’hotel Fiori D’Arancio è qui vicino
e ti permetterà di non stare lontana. Dai... non farmi preoccupare”.
Marina abbassò
gli occhi e sospirò. “Non voglio che si svegli e non mi trovi qui...”.
“Lo colpirò
personalmente per farlo riaddormentare, in quel caso”.
Il fratello
maggiore riuscì a donarle un barlume di sorriso prima che la stanchezza e lo
stress l’assalissero di nuovo .
“Alle nove
sarò qui”.
“Dormi un
po’, riposa. Ti servirà, credimi” sorrise quello. Si sedette al posto della
sorella e fissò il volto dell’uomo, poco prima che Marina gli desse un casto
bacio sulla guancia e si dileguasse, un po’ più tranquilla.
La Ranger
uscì velocemente da quell’edificio e s’incamminò stretta nel proprio cappotto
verso l’albergo. Aveva indosso ancora i vestiti che aveva utilizzato quando
aveva lottato contro Lugia, e necessitava d’un bel bagno caldo, combinata a una
dormita in un letto vero.
Il check-in
fu rapido, diede il proprio nominativo e mostrò la tessera Ranger, quindi l’accompagnarono rapidamente alla
camera 206. Entrò e subito aprì la porta del bagno, quindi riempì la vasca con
acqua caldissima, dove s’immerse totalmente, per poi addormentarsi, nel tepore
dei fumi del vapore. Si risvegliò infreddolita un paio d’ore più tardi, si
asciugò in un morbido accappatoio e si avvolse nelle coperte, ricadendo tra le
braccia della notte, preoccupata e sfinita.
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
“Prendile la
testa”.
“Poggiala
per terra”.
Sandra
s’abbassò lentamente, s’inginocchiò e lasciò che il capo della donna toccasse
delicatamente il pavimento delle corridoio. Yellow si guardava attorno,
guardinga e preoccupata, scattando con la testa a destra e a sinistra a ogni
rumore, repentina.
“Che c’è?”
domandò la Capopalestra di Ebanopoli, rimettendosi in piedi.
“Dobbiamo
stare attente. Blue è stata vittima di un’illusione” rispose. Si voltò verso la
sventurata e la vide che i suoi occhi fossero semiaperti, atti a fissare il
vuoto.
Anche Sandra
la guardò, coi lunghi capelli che le danzavano sulle spalle a ogni movimento
del capo. Inerme, pareva che la vita le fosse fuggita via attraverso le labbra.
La cosa la fece rabbrividire.
“Odio gli Zoroark!”
esclamò quella.
“Sono
semplici Pokémon, come tutti gli altri. E come tutti gli altri sono succubi
delle volontà degli Allenatori. Purtroppo non tutti hanno buone intenzioni come
noi”.
Videro
d’improvviso il pavimento mutare; Sandra si stava accorgendo che il marmo ai
loro piedi stesse prendendo le sembianze delle doghe di legno che c’erano in
casa di suo nonno.
“Yellow...?”
la chiamò.
“Sì, lo vedo
anche io, il prato, qui per terra”.
“Prato?!” si
voltò. Yellow era in quella stanza del tutto buia, con solo il pavimento di
legno a risaltare. “Qui non c’è nessun prato!”
“Dammi la
mano” rimbeccò l’altra.
“Io non vedo
prati!” s’allarmò. “Questa è casa di mio nonno!”.
Yellow cercò
alle sue spalle la Capopalestra, percependola. Tuttavia gli alberi che aveva
davanti erano così reali da darle la parvenza d’esser veramente in quel bosco.
Se lo
sentiva: si trovava all’interno del Bosco Smeraldo.
“Non
dobbiamo perdere il contatto con la realtà, altrimenti finiremo come Blue...”
fece, mettendo una mano sulla Pokéball..
“Lo so”
diceva quella, abbassando lo sguardo. Poi si perse.
*
Tutto era
così tangibile da farle dubitare della propria capacità d’intendere la realtà.
Osservò se stessa entrare dalla porta, quasi vent’anni prima, con
quell’acconciatura a maschietto, cerulea e spettinata. Riconobbe sulle sue
guance lo stesso colorito che vedeva allo specchio al mattino, ma il suo
sguardo era piegato dal pesante confronto con suo cugino Lance, più grande di
qualche anno e suo idolo da quando era ancor più piccola. In famiglia era il
più amato. Lei s’abbeverava della sua luce riflessa e finiva per esser travolta
dagli sguardi dei capifamiglia che si chiedevano come mai una donna fosse
all’interno del Concistoro dei Domadraghi.
“Ma come…”
sussurrò, immobile, nascosta in quello che le pareva essere il vecchio armadio
dove suo nonno teneva appesi i mantelli. Nessuno aveva percepito la sua
presenza, né la versione di se stessa del passato, stretta in quel mantello
oltremodo grande per le esili forme d’una bambina di non più di dieci anni, né
quella di suo cugino Lance, adolescente, appena entrato nella camera delle
riunioni con il solito sguardo sprezzante d’ogni cosa, quasi disinteressato.
Sandra,
quella grande, osservava la scena in cui suo cugino le si era avvicinata; non
era mai stato aggressivo nei suoi confronti, anzi, aveva assunto un
atteggiamento di manifesta superiorità verso il mondo intero e ciò lo
costringeva ad adottare l’etica del difensore dei più deboli.
Reputava
Sandra meno forte di lui, quindi la proteggeva. E anche la Capopalestra
d’Ebanopoli, nella sua versione adulta, si reputava meno abile del più celebre
cugino ma nel suo cuore fluiva l’orgoglio di chi non aveva mai mollato; sapeva
di non essere un’Allenatrice scarsa, in confronto agli altri Domadraghi era
superiore in tutto e per tutto.
Del resto
aveva superato in bravura il suo stesso padre, e di conseguenza quello di
Lance, entrambi tra i più grandi Domadraghi di tutti i tempi. Il suo papà era
una forza della natura: alto, bello, potente, disciplinato, era stato
l’orgoglio dell’intero clan e aveva finito per gettare ombra su tutti gli altri
elementi, suo fratello compreso.
E suo
fratello era il padre di Lance.
Aveva circa
quindici anni quando s’era resa conto che essere figlia di suo padre fosse un
peso non indifferente, date le alte aspettative che nutrivano tutti nei suoi
confronti: tutti s’aspettavano da lei che ripetesse fedelmente le gesta del
padre. Ma poi c’era Lance, il nuovo pupillo d’Ebanopoli, contro cui non poteva
assolutamente competere, nonostante suo padre fosse il più forte in assoluto.
Lance aveva quella cosa, quel segreto, quella capacità innata che lei non
possedeva e che segnava nettamente la differenza.
Lo vide avvicinarsi
a lei, sorridendole e arruffandole il ciuffo ceruleo ben pettinato.
“Ciao,
piccoletta”.
“Ciao Lance”
le aveva risposto quella, con la voce da bambina. Lo guardava smontare il
mantello e sistemarlo sull’appendiabiti alle sue spalle, per poi accomodarsi
accanto a lei.
“Tra poco
entreranno gli anziani con gli esiti dei nostri allenamenti di quest’anno...
Sei nervosa?”.
La più
giovane annuì vistosamente, indossando d’improvviso una maschera d’angoscia.
Lance la
fissò, coi suoi occhi ambrati, sorridendo. Passò una mano tra i capelli
rossicci e poi le strinse la mano.
“Sei stata
molto brava, Sandra. Non devi dubitare del tuo lavoro”.
Lei lo
fissò, spalancando i grossi occhi azzurri, quando l’intero consiglio fece il
suo ingresso nella grossa sala. Lui le lasciò la mano, alzandosi in piedi, lei
lo seguì subito.
Nascosta
nell’armadio, la grande poté vedere il capo del concistoro entrare prima di
tutti gli altri. Era il nonno dei due ragazzi, un vecchio dalla lunga barba
candida. Indossava un pesante mantello di tessuto rosso carminio, lucido, molto
più lungo di quello indossato dagli altri Domadraghi. La testa era
completamente calva, data l’età avanzata, ma il corpo era ancora tonico per via
del profondo allenamento sostenuto fin da giovane, ogni giorno.
Subito dopo
entrò il padre di Sandra, imponente e altezzoso, la guardò severo e riprese a
fissare davanti a sé. Aveva gli occhi blu e i capelli radi, dello stesso colore
di quelli della sua bambina, e stringeva l’impugnatura d’ebano di un grosso
spadino. La Capopalestra lo ricordava molto bene, suo padre era
affezionatissima a quell’oggetto. Ne carezzava la sommità superiore del fodero come
se fosse un automatismo, quasi per rassicurarsi sul fatto di non averlo
perduto. Dopo di lui, fece il suo ingresso suo fratello, il padre di Lance,
decisamente più basso ma comunque tonico. Aveva i capelli biondi, tirati
all’indietro, ben pettinati, e gli occhi ambrati di suo figlio. Sul viso una
grossa cicatrice deturpava la guancia destra, a riprova di una devastante lotta
con un grosso Ursaring, sostenuta da ragazzo.
Lance guardò
il viso di sua cugina, totalmente impanicata.
“Non
dubitare” le aveva ripetuto. “Sei stata molto brava”.
Entrambe le
versioni della donna sorrisero e abbassarono la testa. Ricordò la profonda
autostima che la bambina seduta su quella panca aveva incamerato dopo quella
frase. Poi però strinse la mano di Yellow, lottando contro l’istinto di
gettarsi a capofitto in quell’illusione, in quel ricordo, di perdersi nella
successiva delusione portata dalle parole dei membri anziani che avrebbero
promosso le azioni di Lance e bocciato le sue, definendole disinteressate e
acerbe. Ricordava la sua rabbia, la sua delusione. La solitudine provata quando,
una volta ritiratosi l’intero consiglio, rimase da sola, cercando di capire
dove avesse sbagliato, senza riuscirci: aveva speso ogni briciola del suo tempo
e della sua energia per assomigliare almeno un po’ a suo cugino.
“Yell...” la
chiamò. Le strinse nuovamente la mano quando si accorse di non percepirla più.
Impanicata
abbassò lo sguardo verso le sfere, non riuscendo più a vederle.
“Cazzo!”
esclamò, vedendo la piccola Sandra voltarsi rapidamente. Spalancò gli occhi,
non s’era resa per nulla conto della presenza di quella donna nell’armadio.
“E-e tu chi
sei?!” si alzò immediatamente, lasciando cadere la sedia alle sue spalle. Portò
subito la mano verso la sua unica sfera. A quella grande sembrò inutile restare
nascosta. Sapeva che non sarebbe arrivato nessuno, quindi decise di uscire.
L’armadio
cigolò, e un soffio d’aria fresca le baciò il viso.
Sospirò. “Io…
sono un’amica”.
“Assomigli
tanto al mio papà” ribatté subito lei.
*
“Sandra!”
urlava Yellow, stringendo sempre più forte la sfera di Omny, il suo Omastar. Percepiva ancora la sua mano, pesante e dal
basso.
“È svenuta!
Dannazione, devo calmarmi...” sospirò quella. Sentiva la corrente fresca che
soffiava tra i tronchi del Bosco Smeraldo, pettinando i lunghi fili d’erba
nella direzione in cui spingeva.
Era nel lato
ovest della foresta, quello più vicino al Monte Argento, e lo sapeva perché
ognuno di quei tronchi d’albero era cresciuto con lei.
La sua tana
era lì.
Sbuffò, una
coppia di Pikachu s’inseguì fino a sparire oltre un grosso cespuglio,
spaventando un Pidgey, che volò lontano.
Poi il
silenzio scese come un sipario lungo e pesante; Yellow fu in grado di sentire
delle voci poco dopo la grossa quercia che aveva davanti. Quello era un albero
assai particolare: i lunghi rami erano cresciuti in maniera parecchio
irregolare e s’erano annodati attorno al tronco d’un’altra quercia, più sottile.
Sembrava che l’albero più grosso stesse abbracciando quello più piccolo.
Avanzò,
sempre pronta a utilizzare Omny per uscire da quell’illusione, ma poi vide
qualcosa che le interessava così da vicino da non permetterle di sottrarre
l’attenzione: una donna stava uscendo dal rifugio dove era cresciuta lei.
Yellow era nata e vissuta in quel bosco ma non aveva alcun ricordo di come la
sua tana fosse stata costruita; questa era una profonda rientranza nella
facciata della montagna, abbastanza lunga e larga, perfetta per sopravvivere.
Le pareti interne erano rivestite d’un caldo tessuto che fungeva da isolante
per il freddo e l’acqua, filtrata dalle rocce ed incanalata successivamente in
grosse vasche.
C’era un
piccolo giaciglio, e accanto alcuni giocattoli intagliati in legno.
Effettivamente,
e se l’era sempre chiesto, non aveva mai capito come fosse finita in quel
luogo. Lei era un mistero. Quando lo aveva chiesto ai Pokémon, loro avevano
sempre risposto che lei fossa la figlia
del bosco. Bonariamente, aveva accettato quelle parole tacciando il dubbio
che le cresceva costantemente in grembo.
Nascosta dal
grosso tronco della quercia guardò tutta la scena: una donna dagli occhi verdi
e dai capelli castani era uscita dalla tana, frettolosamente. Indossava
eleganti abiti di diverse tonalità di verde. I suoi occhi erano colmi di paura
ed ansia, la vergogna che provava era tangibile. Lo sguardo era basso ed i
pugni stretti.
Dava
l’impressione di sentirsi impotente, lei, costretta a fare qualcosa contro la propria
volontà.
Accanto a
lei c’era un uomo, che aspettava al di fuori del rifugio, con in braccio un
neonato.
Quel signore
sembrava essere un Domadraghi; non aveva l’aspetto imponente, assomigliava
vagamente a Lance ma aveva i capelli biondi, e una grossa cicatrice sulla
guancia destra.
Il lungo
mantello toccava quasi il pavimento.
“Ecco”
diceva la donna, non riuscendo più a trattenere le lacrime. “La... la sua casa
è pronta”.
Afferrò il
neonato dalle mani dell’uomo e gli baciò il viso più e più volte, disperandosi
e ripetendo la parola scusa fino allo sfinimento.
“Mi spiace,
piccola mia! Mi spiace!”.
Alzò poi gli
occhi verso l’uomo, come accusandolo. Quello deviò lo sguardo, verso la tana.
“Hai fatto
un ottimo lavoro” disse infine.
La donna non
considerò affatto quelle parole, né si sentì lusingata. Si limitò ad
accovacciarsi per terra, affondando le ginocchia nel terriccio e sporcando la
gonna.
“Spiega ai
Pokémon ciò che devono fare” disse all’uomo.
“Andate da
lei” annuiva quello.
Yellow vide
il volto corrucciato della donna, crogiolato nella sua confusione, quasi
abituato a quello spaesamento. Aveva capito cosa l’uomo stesse facendo: ne ebbe
la conferma quando, qualche attimo dopo, diversi Caterpie e Weedle, un Pidgey e
quattro Rattata s’erano avvicinati alla signora inginocchiata.
Yellow era
colpita: quello stava parlando con i Pokèmon, proprio come sapeva fare lei.
Il
Domadraghi riprese la parola. “Lei è mia figlia. Crescerà qui, nel Bosco
Smeraldo. Fate in modo che sia al sicuro”.
Dopo una
piccola pausa fu la donna a parlare. “Io... io... sono costretta ad abbandonarla qui e...
dannazione...” tossì, distrutta dal pianto. “Vi prego, aiutatela a crescere! Vegliate sempre su di
lei, nutritela e fate in modo che diventi una brava persona!”.
La lasciò su
di un letto d’erba soffice e si sollevò, pulendo il vestito con veloci e
inutili manate.
“Ciao,
Yellow” concluse poi e si voltò verso l’uomo, che assisteva colpevole alla
scena.
Silenzio.
“Mi spiace
molto” tuonò.
“Non è vero!
Non ti spiace! Sei tu che mi hai costretta a lasciarla da sola!”.
“Non è
impossibile crescere in questo posto, e io ne sono la dimostrazione!”.
“Quella è
mia figlia! Tu sei stato abbandonato e il bosco ti ha adottato, ma eri già più
grande! Hai questi... questi strani poteri per puro miracolo, altrimenti non
avresti passato la prima notte!”.
“Diana, lo
sai bene che Yellow è frutto d’un errore madornale” rispose quello, rigido ed
impettito. La donna pulì il viso dal trucco che si scioglieva e poi si sciolse
i capelli. La luce del sole filtrava attraverso il fitto fogliame del bosco.
“No…”
sorrise amaramente. “Mia figlia non è frutto d’alcun errore… Io e te le abbiamo
dato la vita…”.
“È questo il
punto!” s’alterò lui, smontandosi quell’impalcatura di ghiaccio che lo faceva
sembrare freddo e distaccato. “Noi siamo stati un errore!”.
Diana
spalancò le labbra e gli occhi, incredula di ciò che sentiva.
Silenzio.
“Io… io rifarei
questo… questo errore miliardi di volte ancora. E queste tue parole sono la
dimostrazione che per te…” e il suo sorriso fu ancora più amaro. “Io per te
sono stata soltanto una fuga dalle tue responsabilità”.
Quelle parole
esplosero forti, nella testa dell’uomo.
“Ma che credi?!”
s’alterò lui. “Pensi che non voglia smontare quest’armatura di roccia e fuggire
via con te?! Crescere nostra figlia e amarti come meriti?!”.
Yellow vide
gli occhi della donna spegnersi lentamente.
“Perché non
lo fai, allora?”.
La sua voce
era flebile come un filo di cotone sottilissimo. “P-perché mi costringi a stare
lontana da mia figlia?”.
Alzò lo
sguardo, lei, in lacrime. La rabbia salì rapidamente dal centro del suo corpo,
trovando sfogo in un urlo disumano”.
“Perché non
ci accetti come la tua vera famiglia?!”.
L’uomo serrò
la mandibola e le si parò contro, afferrandola per i polsi.
“Diana!”
tuonò, zittendola. “Sai bene che la nostra relazione è sbagliata! Sai bene che
ho una famiglia, un figlio già grande e che sarei buttato fuori dal concistoro
se si sapesse che non ho ottemperato alle rigide leggi di fedeltà e
tradizionalismo di Ebanopoli e dei suoi Domadraghi!”.
La donna
abbassò lo sguardo. S’era resa conto d’essere succube di quella persona e dei
sentimenti che provava per lei. E quel fatto, quella sensazione d’impotenza,
traspariva in tutta la sua delicata disperazione dal suo sguardo di giada.
L’uomo la fissò e sospirò.
Abbassò le mani,
lasciò quelle della donna e sospirò.
“Lyssa… mia
moglie, m’è stata imposta quando avevo tredici anni… Io non l’amo, Diana, e non
l’ho mai amata. Ma la mia vita ha delle regole e, amando te, ne ho infrante fin
troppe...”.
Fu allora
che il pianto della donna divenne disperato. Quella prese a urlare,
lamentandosi e stringendo gli occhi più che potesse.
“Questa
bambina è la testimonianza che io ho commesso degli errori... dovrebbe sparire.
Molti già sospettano di una relazione tra di noi”.
“Come… come ho
fatto?” lo interruppe lei, fissandolo con lo sguardo colmo di dolore. “Come ho
fatto ad innamorarmi di un uomo di merda come te?”.
Le sue
parole erano mosse da una calma glaciale, in netto contrasto con ciò che il suo
volto mostrava. Le lacrime continuavano a fuggire dalle rime degli occhi,
scivolavano sul viso e colavano sul mento, per poi macchiare la camicetta.
“Io non ti
consento di usare queste parole. Né rinuncerò alla posizione che mi sono
creato”.
“…”.
“Non per una
bambina nata per errore”.
L’ennesima
risata di sconforto le dipinse il viso.
“L’errore lo
stai commettendo adesso…” fece, avvicinandosi lentamente a lui. Puntò il dito
contro il petto dell’uomo e lo colpì, quasi a volergli fare del male. Poi
spalancò gli occhi, mutando totalmente l’espressione del volto.
“Sono
queste, le ingiustizie che dovresti combattere!”.
L’uomo
tentennò per un attimo, poi raccolse i pensieri e prese fiato. Strinse i pugni
e digrignò i denti.
“Siamo
Domadraghi! Guerrieri! Spartani! Dobbiamo lottare contro le nostre debolezze, e
i nostri pregiudizi! Contro i draghi che ci tormentano l’anima! Non possiamo
essere colti dal vizio! Né deve esistere piacere! Noi siamo solo disciplina!”.
“E io cosa
cazzo dovrei essere?!”.
La voce
della donna s’infrattò lungo i fitti rami degli alberi sulle loro teste.
“Piacere...”
sussurrò quello, abbassando il volto. “Vizio. In ogni caso le nostre leggi le
conosci, io verrei espulso… Ho impostato la mia vita nel raggiungere i miei
obiettivi, quindi è meglio per tutti chiudere questa cosa… Vivremo le nostre
vite normalmente e lasceremo che il bosco cresca... tua figlia”.
“Un altro
uomo mi avrebbe proposto di fuggire” ribatté lei, solida, sorridendo.
“Per fare
cosa? Per vivere nell’ansia che ogni giorno qualcuno possa ritrovarci? E poi a
Lance non ci pensi? A mio figlio non ci pensi?”.
“A Yellow
non ci pensi, tu!”.
“Lo faccio
eccome. Non morirà, crescendo qui. E tu non dovrai tornare a prenderla,
altrimenti potrebbero cominciare a farsi delle domande sul perché una donna che
saltuariamente è stata vista col figlio del capoclan abbia una bambina con i
miei occhi. Libererò perciò questo Dratini nel bosco...” disse, eseguendo con i
fatti ciò che le sue parole avevano anticipato. “Ti attaccherà se, un giorno,
deciderai di tornare qui”.
Diana
s’avvicinò all’uomo e lo guardò negli occhi, nel tentativo di bruciarlo seduta
stante.
“Un giorno
pagherai per questo male, Dorian. Un giorno ti si ritorcerà contro”.
Con la mano
poi carezzò gli carezzò il collo, verso l’alto, fino a raggiungere la guancia
deturpata. La toccò col dorso della mano e poi nei suoi occhi apparve l’ira.
Dove prima c’era una carezza, arrivò quindi uno schiaffo, tremendo.
Rimbombò nel
bosco, zittendo per un attimo ogni frinito, ogni fruscio.
Quello portò
la mano al viso, silenzioso, mentre l’altra s’accingeva a parlare, accorata.
“Sei una
delusione! Spero che tua figlia un giorno sopravviva per smascherare i tuoi
altarini!”.
Con lo
sguardo basso, l’uomo si limitò a sospirare. Il cuore batteva, gli occhi della
donna erano pieni di fuoco e paura, dolore e frustrazione.
Rassegnazione.
Il cuore
continuava a battere. Ormai, però, la linea era stata superata.
“Addio,
Diana” fece, salendo in groppa a un Aerodactyl e volando oltre il tetto di
foglie.
Yellow,
quella adulta, era rimasta in perfetto silenzio per tutto il tempo, sconvolta
dalla scena. Le labbra erano spalancate, gli occhi pure, le mani stavano lunghe
contro i fianchi.
“Tu...”
fece, uscendo allo scoperto, agli occhi della donna. Quella ebbe un sussulto e
si fiondò sulla bambina, prendendola tra le proprie braccia.
“Chi sei?!
Hai sentito tutto?! Vieni dal concistoro, vero?!” sbraitava quella, cullando la
piccola che, svegliatasi dal lungo sonno, prese a piangere disperata.
“Tu...”
sussurrò ancora Yellow, come se avesse visto uno spettro. Un leggero soffio di
vento si fece spazio tra i tronchi degli alberi, pettinando i campi d’erba alta
e secca.
“Chi sei?!”
urlò ancora Diana, con gli occhi spalancati e i canini in mostra. La piccola
Yellow continuava a piangere, nonostante la donna la cullasse con solerzia.
“Tu… t-tu
sei… mia madre?”.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 1
Le fiamme.
Ovunque le
fiamme, e polvere che si mischiava alla cenere.
Red
s’intrufolò lentamente nell’enorme camerata, priva ormai di mura centrali e
diede una rapida occhiata alla zona attraverso il fumo e il fuoco per trovare Valerio
e gli altri superstiti, sentendo poi il pianto e la tosse di qualcuno.
S’abbassò veloce e si diresse verso sinistra, dove l’ultima parete della sala
era stata praticamente rasa al suolo.
Jasmine
piangeva, col volto di chi aveva visto uno spettro, mentre Valerio stringeva
tra le braccia Chiara. Il corpo di Raffaello era steso, inerme, a qualche metro
di distanza. Aveva assunto una piega del tutto innaturale e il suo collo era
spezzato.
Il suo
sguardo era vuoto. Red non riuscì a guardarlo per più di un secondo, dandogli
le spalle e afferrando le mani di Jasmine. Quella pareva guardargli attraverso,
come se fosse del tutto ignara della sua presenza.
“Jasmine!”
urlò, stringendole i palmi, senza però ottenere alcuna risposta. Guardò
Valerio, prima che una grossa esplosione detonasse in quello che rimaneva
dell’antico monumento.
“Merda! Che
le prende?!”.
Valerio
tornò a guardare Chiara, e il cuore di Red saltò un colpo quando vide le mani
dell’uomo interamente ricoperte di sangue. Jasmine ebbe uno spasmo, tirando
entrambe le mani, strette ancora dalla presa del Dexholder.
“Diamine,
Jasmine! Jasmine! Che cosa cazzo sta succedendo qui?!”.
Gli occhi
della donna rimasero spalancate, mentre le labbra tremavano e sussurrarono
debolmente un nome.
“C-c… orr… ado...”.
“Corrado?! È… è morto?!”.
“Corrado...”
ripeté, con la voce più alta, continuando sempre a guardare dritto.
Red inspirò
profondamente, cercando di calmarsi, ma il troppo fumo gli sporcò i polmoni e
lo costrinse a tossire. Pensò che i Capipalestra fossero da troppo tempo lì
dentro, e che avrebbero finito per lasciarci la pelle se non avessero respirato
un po’ d’aria fresca. Lasciò infine le mani della ragazza per stringere la
spalla all’uomo di Violapoli.
“Valerio…”
disse poi, voltandosi verso di lui. “Cerca di spiegarmi rapidamente”.
“È stato un
suicidio… non siamo minimamente in grado di competere con Jasmine…” ribatté
lui, abbassando il volto.
“Ma lei è
qui!” s’alterò l’uomo dagli occhi rossi.
“No! Non
sono io!” rispose a tono quella, tornata d’improvviso su quel piano
dell’esistenza. “Io non farei mai una cosa del genere!”.
“Mi
spiegate, per cortesia?!”.
“Devi fare
in fretta!” piangeva quella di Olivinopoli, con le lacrime che ormai le avevano
scavato un solco lindo sulla faccia sporca di fuliggine. “Corrado è andato a
combattere contro di me!”.
“Valerio! Per
favore! Mi sembri il più lucido!”.
Il
Capopalestra di Violapoli si voltò leggermente, e ciò scatenò il dolore di
Chiara, ancora sveglia, che urlò con tutta l’energia che aveva in corpo.
“Scusami!
Scusami, Chiara, scusami! Red, c’è una donna totalmente identica a Jasmine in
fondo a questa sala! Con soli tre Pokémon è riuscita a sconfiggere Jasmine, far
fuori Raffaello e ferire me e Chiara”.
“Che vi è
successo?”.
“Io ho un
braccio rotto ma il problema vero è lei... Chiara è stata coinvolta nella terza
esplosione, quella più forte, che ha aperto una breccia nel soffitto. Il tetto
è crollato ed è stata infilzata nell’addome da alcuni detriti appuntiti.
Raffaello, che le era accanto…” abbassò poi il volto. “… lui non ce l’ha fatta…”.
Red annuì,
comprendendo la situazione. Prese un respiro profondo che finì per bruciargli
nei polmoni ed espirò, tossendo.
“Dovete
uscire da qui. Siete poco lontani dall’ingresso”.
“Non posso
portare fuori Chiara. Inoltre c’è il corpo di Raffaello”.
Gli occhi
rossi di Red s’incontrarono a metà strada con quelli cerulei di Valerio e fu
come se si parlassero.
“Non lo
lasceremo qui… Oggi non morirà più nessuno”.
Jasmine
annuì nervosa, convinta che Red avrebbe mantenuto quella parola.
Fu poi
aiutata da lui ad alzarsi, e con lui uscì all’esterno per respirare un po’
d’aria pulita. Le luci dell’alba non erano molto lontane.
“Stai qui”
le disse. “E stai attenta”.
Tossiva,
lei, e gli occhi lacrimavano. Ma il pensiero fu uno e uno soltanto.
“Aiuta
Corrado… Ti prego…”.
“Ovvio che
l’aiuto...” mormorò, voltandosi e tornando dentro, con l’incavo del braccio
davanti a bocca e naso. Accorse verso il corpo morto di Raffaello e deglutì un
boccone amaro quando fu in grado di vederne il volto da vicino: metà del suo
viso era totalmente coperto di sangue mentre l’altra parte era sostanzialmente
ciò che rimaneva dopo l’impatto con il pesante marmo dell’antica copertura.
“Pensa a
cose belle, Red. Pensa a Yellow...” sospirò, caricandosi in spalla il corpo
esanime. Lo poggiò su di un cuscino d’erba umida, all’esterno, sul quale
strofinò invano pure le mani per pulirsi dal sangue sporco del ragazzo.
Quando
rientrò, corse verso Chiara. Aveva i capelli sciolti, scuriti dalla cenere.
Piangeva disperata, non riuscendo a trattenere i gemiti di dolore. Stringeva i
denti però, e ciò dava rilevanza a una cosa importantissima: era ancora viva.
Red incrociò lo sguardo con lei e annuì, poi abbassò lo sguardo verso l’addome,
ricolmo di sangue, dov’era penetrata una scheggia affilata di ferro.
“Lì ci sono
gli organi. Se leviamo questo pezzo di marmo provocheremo sicuramente un’emorragia. In più non riesce a muoversi.
La situazione è complicata…”.
“Red…”
sussurrò lei, deglutendo e continuando a piangere. “Ferma tutto questo…”.
“Sì, ma tu
rimani con noi…” le disse, cercando di ragionare. “Devo portarvi fuori da qui…”
disse, alzando la maglietta di Chiara fin sotto il bordo del reggiseno; il
sangue era colato fin sull’ombelico e poi oltre, macchiando l’intera coscia
destra del jeans.
“Ora sollevo
prima te, Valerio, va bene?”.
Una forte
esplosione fece sussultare Chiara, che di conseguenza urlò a squarciagola.
“Aiutatemi!”
piangeva, stremata.
Il Dexholder
strappò il polsino al proprio giubbino e lo arrotolò, infilandolo tra i denti
della Capopalestra dai capelli rosati. “Lo so che fa male. Fa malissimo,
Chiara, posso solo immaginarlo, e tra poco farà ancora più male. Quindi stringi
i denti: otto passi e sarà tutto finito. Valerio, spero tu riesca a camminare
da solo perché devi essere parecchio più rapido di me nell’aprirmi la porta”.
L’uomo annuì
e rotolò con fatica verso sinistra. Si mise in piedi e barcollò verso l’uscita,
spalancando la porta della Sala 1. Rumori di combattimento, urla ed esplosioni
continuavano a susseguirsi. Il calore aumentava e gli occhi di chiari erano
colmi di paura quando le mani di Red, ancora calde del sangue di Raffaello,
alzarono lentamente le braccia della donna.
“Venite!”
urlò Valerio.
“Via” gli
rispose sussurrando quello dagli occhi rossi, sollevando la ragazza di peso,
mentre il sangue continuava a uscirle dalla ferita. Si accorse che il dolore
non le consentiva di fare forza sulle gambe. Quasi subito prese a urlare con
tutte le forze che le erano rimaste in corpo, riuscendo a zittire per un
piccolo secondo il crepitio dell’incendio che stava divorando la sala. Nel
farlo spalancò la bocca, e il pezzo di stoffa che stringeva tra i denti cadde
in una pozza del suo sangue. Red tossì, sentiva le mani della donna affondare
nelle sue braccia, aggredendole, mentre la confusione cresceva sempre di più e
l’aria si faceva via via più sporca. Aveva bisogno di respirare, necessitava
La trascinò
fuori con tutta la forza che aveva in corpo e, quando uscirono fuori, la adagiò
sull’erba, prima di inginocchiarsi accanto a lei.
“Va tutto
bene” le sussurrò, mentre quella stringeva gli occhi e urlava terrorizzata.
“Valerio!” fece poi, alzando lo sguardo. Quello lo fissava già da un minuto.
“Red”.
“Chiama
qualcuno! Sta continuando a perdere sangue! Io devo tornare dentro! Jasmine!”
la chiamò infine, rimettendosi in piedi e prendendo una sfera dal cinturone,
sporcandola interamente del sangue caldo e viscoso della Capopalestra di
Fiordoropoli. Quella incontrò il suo sguardo, ancora scossa. Sospirò e annuì,
socchiudendo gli occhi. Era sfatta, Red lo aveva compreso da subito.
“Mi serve
che tu sia lucida, Jasmine” le disse, avvicinandosi. Quella guardava le mani,
ancora grondanti di sangue.
“S-sono q…
qui” fece, abbassando lo sguardo e sospirando.
“Devi
occuparti di loro fino all’arrivo dei medici”.
Non si curò
neppure dell’eventuale risposta, Red si voltò e rientrò, con la mano rossa
davanti al naso; l’odore di fumo e sangue si univa, portandolo rapidamente
vicino alla nausea. Sfera alla mano si defilò verso destra, dove l’intero
soffitto era caduto e aveva creato un grosso foro verso il cielo. Confuso,
cercò di capire dove dirigersi, anche se tutt’intorno non c’era altro che
macerie e resti di Pokémon esanimi.
E poi,
davanti a lui, una sagoma nascosta dal fumo correva verso il lato opposto,
rapido.
Spalancò gli
occhi, Red, tossì, quasi vomitò, poi si abbassò.
“Tu!
Fermati!”.
La figura si
bloccò. Aveva capito d’esser stata vista.
Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7
Un leggero
venticello prese a farsi spazio tra i tronchi degli alberi, pettinando i campi
d’erba alta e infrangendosi contro le gambe di Diana. Il suo volto era cereo,
mentre il cuore batteva freneticamente e la paura s’era ormai impossessata dei
suoi occhi.
“Co-come
sarebbe... come sarebbe a dire?” sussurrava, vedendo quella donna, praticamente
sua coetanea, mentre si mostrava alla luce del sole, muovendo passi leggeri sul
sottobosco.
“Sì”.
“Cosa
dovrebbe significare che sono tua madre?”.
Yellow era
totalmente immobile, ormai non si rendeva più conto della differenza tra
finzione e realtà. Osservava il volto della donna, così somigliante al suo, con
quei lineamenti aggraziati e il taglio d’occhi che aveva visto ogni giorno
della sua vita, specchiandosi.
“So che è
difficile da spiegare ma è come ti dico...” diceva quella, avvicinandosi
lentamente. Diana s’avventò terrorizzata sulla bambina, avvolta nella copertina
e appoggiata su di un letto di foglie. La prese tra le braccia e la strinse con
vigore.
“Aiutatemi!”
urlò poi, vedendo i Pokémon del Bosco Smeraldo avventarsi contro la nuova
arrivata, proprio come suggeritole dal marito.
Yellow
rimase impassibile, abbassando lo sguardo e poi chiudendo definitivamente gli
occhi.
“Non vengo per fare del male.... Proteggerò
per sempre i Pokémon del Bosco Smeraldo… Questa è casa mia”.
I suoi
pensieri riverberarono nelle menti di quelle creature, che si bloccarono
immediatamente sotto gli occhi stupiti di Diana.
“Io mi
chiamo Yellow e sono la bambina che hai tra le braccia. Come quel Domadraghi
io... io riesco a parlare con i Pokémon”.
La donna
lasciò che l’avventrice la raggiungesse.
“Non voglio
farti del male” sorrideva, con le lacrime appuntate agli occhi e il sorriso più
dolce di cui fosse fornita. “Vorrei solo conoscerti”.
A quel punto
anche Diana si soffermò a guardarla meglio: i capelli biondi, lunghi, legati,
erano uguali a quelli dell’uomo che le aveva donato sua figlia. Qui e lì,
piccoli particolari del volto, come il naso e il mento delicato, cominciarono a
sovrapporsi a quelli di Dorian. E poi gli occhi, dello stesso colore di quello,
ma con la sua forma. E anche il sorriso, Diana lo riconobbe come suo. Annuì,
impercettibilmente, poi perse una lacrima, che cadde lenta sul suo viso e si
tuffò oltre, affondando nella morbida copertina nella quale la piccola Yellow
era avvolta. Abbassò il volto e vide la bambina che dormiva tranquilla; pensò
alla sua incolumità, al fatto che in quel bosco, paradossalmente, sarebbe stata
più al sicuro che al di fuori, dove i Domadraghi le avrebbero resa la vita
impossibile.
“T-tu…”.
“Sono tua
figlia!” sorrise, festante. “Tu sei mia madre! I-io... è la prima volta che ti
vedo!”.
Piangevano
entrambe, mentre la bambina continuava a piangere.
“M-ma… ma
com’è possibile?!”.
“Non lo so!”
rideva ancora Yellow. “Ma tu sei bellissima e io sono contenta di averti visto,
almeno una volta!”.
Fu allora
che il sorriso di Diana cadde, lasciandole sul volto un’espressione sconvolta.
“T-tu… non
hai mai visto tua madre? Non mi hai mai vista?!” esclamò, cullando la piccola.
“No” abbassò
lo sguardo l’altra. “Appena cresciuta fui adottata da una persona a
Smeraldopoli… e poi ho cominciato a viaggiare…”.
“Tu hai… hai
vissuto tutta la tua vita senza sapere chi fossero i tuoi… i-i tuoi genitori?”.
L’altra si
limitò ad annuire, e Diana percepì la sua sofferenza premere con forza al di
fuori del suo petto, quasi fosse tangibile. Infine riguardò la bambina: così
piccola e inerme. Quel meraviglioso miracolo della natura non avrebbe mai
dovuto provare quel dolore.
“Io non
posso lasciarti qui!” esclamò, parlando alla neonata come se potesse capire le
sue parole. Il pianto tornò a squassarle il petto e si perpetuò torrenziale per
diversi minuti. “Devo portarti via da qui!”.
“Ti darò una
mano” sorrise Yellow. “E anche i Pokémon lo faranno. Ci aiuteranno con quel
Dratini. Scenderemo per Smeraldopoli e poi da lì...”.
“È fuori
discussione!” esclamò Diana, cullando la piccola, che gridava disperata. “No!
No, piccola mia, no! Tranquilla, non è successo nulla... Non possiamo fuggire
da sud perché è quella la rotta che Dorian percorrerà per tornare ad Ebanopoli.
Dobbiamo andare ad est”.
“Il Bosco si
estende fino ad Azzurropoli, seguendo la direzione che hai detto” ragionò
Yellow.
“Da lì
prenderò un bus fino ad Aranciopoli e poi cercherò un modo per pagare un
traghetto che mi porti lontana da Kanto e Johto. Ma non ho con me nulla, non ho
documenti, niente!”.
“Tranquilla”.
Diana alzò
gli occhi verso di lei e poi li riabbassò. “Ho solo lei.”
“Me”.
“Te”.
“Ed è tutto
quel che ti serve” sorrise Yellow. “Ora però dobbiamo pensare a quel
Dratini...”.
Guardò i
Pokémon e si concentrò.
“Ci serve l’aiuto d’un Pidgeot, amici”
pensò poi. Il piccolo Pidgey che stava nel gruppo s’alzò in volo, grugando
rumorosamente e scatenando una tempesta di piume, scaturita dall’enorme massa
di Pokémon, uguali al primo, alzatisi in volo in quel momento.
“Dov’è
andato?” domandò Diana, cercando invano di placare sua figlia.
“A chiamare
rinforzi”.
*
“Cerca di
capirmi, piccolina...” diceva Sandra, sorridendo a se stessa mentre
s’inginocchiava, per poter guardare meglio negli occhi la sua versione del
passato. “So che vuoi rendere fiero papà ma ricorda una cosa: devi stare con
chi ti ama. Non voglio che tu venga condizionata dalle mie parole, tra un paio
d’anni riuscirai a entrare all’interno dell’ordine dei Domadraghi e sarai una
delle prime donne a farlo. Impegnandoti diventerai anche la Capopalestra di
Ebanopoli”.
La piccola
si grattò la fronte, spettinandosi il ciuffo azzurro che aveva ben pettinato.
Tuttavia ascoltava affascinata le parole di quella donna, osservandola in volto
e notando come quei tre piccoli nei fossero disposti nella stessa e identica
maniera in cui li aveva lei, sulla guancia. Aveva visto anche che i capelli
fossero dello stesso colore di sua madre, e del suo, ovviamente.
Erano
proprio come i suoi. Forse fu proprio per quell’inesperienza di cui era stata
accusata da suo nonno quel giorno, ma non riuscì nemmeno ad avvicinarsi alla
realtà dei fatti, col pensiero.
Non era
riuscita a capire che quella donna, inginocchiata davanti a lei, fosse proprio
lei.
“Capo...
capo della Palestra di Ebanopoli? Come il mio papà?”.
Sandra non
ricordava quanto fosse dolce la sua voce, da bambina. Si limitò ad annuire.
“Ma voglio
avvertirti: i Domadraghi non ti prenderanno sul serio fino a quando non ti
dimostrerai capace, e avrai l’occasione di farlo solo tra molti anni. E Lance
diventerà velocemente uno dei più forti Allenatori del mondo”.
“Anche io
posso diventare forte come lui” ribatté determinata, l’altra.
“No” replicò
l’adulta. “Per quanto tu ti possa impegnare non riuscirai mai ad essere al suo
livello”.
Fu allora
che gli occhi della piccola presero a riempirsi di lacrime. Non pianse, però,
orgogliosa e forte come le avevano insegnato.
“I-io m’impegnerò!
Diventerò la Domadraghi migliore di tutti!”.
Sandra
abbassò leggermente lo sguardo alle parole della ragazzina, quindi sospirò.
“Allontanati.
Viaggia e dimenticati di questi posti. Ti distruggerai nel tentativo di dare a
papà la soddisfazione di vederti in vetta, perché non ci riuscirai”.
Come colpita
da un fendente alle spalle, la bambina si sentì atterrita. Una lacrima fugace
scese dai suoi grossi occhi azzurri, poggiandosi sulla morbida guancia.
“P-perché
dici così?!” urlò, colma d’ira. “Io m’impegno sempre! E sono forte!”.
“Ti sto
dando il consiglio migliore che avrai mai in vita tua. Allontanati da questa
gente altrimenti non sarai mai soddisfatta di te stessa e della tua vita”.
Quella fissò
le punte dei suoi stivali di pelle lucida, con le labbra tremanti.
“Io so che
diventerai una grande Allenatrice... una grande Domadraghi, Sandra. So che
diventerai una grande donna, forte, bella, intelligente. Ma se proseguirai su
questa strada comincerai una vera e propria lotta con te stessa che purtroppo
perderai. Vorrai vedere il volto di papà fiero ma non ci riuscirai, non lo
vedrai mai felice”.
“Il mio papà
non sarà mai fiero di me?” domandò, con quegli occhi enormi a fissare
l’interlocutrice, che si limitò a scuotere la testa.
“Una volta
che ti renderai conto che le mie parole sono vere, vai via. Sfrutta altrove il
tuo potenziale. Usalo per le persone che ne hanno bisogno, e non per una
stupida setta di cui sarai schiava”.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala Alfa
Nonostante
le finestre lasciassero entrare un po’ della luce lunare di quella sera, le
ombre stentavano a diradarsi, all’interno della sala principale. I passi di
Green erano rapidi, il suo respiro diventava più greve a ogni nuovo corridoio
in cui entrava, in quell’infinita serpentina di pareti incise, antiche come il
tempo. Strinse i pugni, si guardava attorno con superficialità perché doveva
arrivare il prima possibile alla fine di quel dedalo, dove un piccolo altare di
marmo reggeva uno dei preziosissimi mosaici, raffigurante il Pokémon Kabuto.
Fu però
quando voltò l’angolo dell’ultimo corridoio che poté rendersi conto, con
orrore, che l’altare era stato totalmente distrutto, e il mosaico divelto dalla
parete.
Il cuore del
Dexholder saltò un battito. Le mani cominciarono a tremare, il respiro si
bloccò.
Impiegò un
secondo di troppo a capire cosa fosse successo.
“Merda…
merda! Merda, merda, merda! Red!” urlò, afferrando sbadatamente il Pokégear
dalla tasca e facendolo cadere. Si abbassò, con le dita che non riuscivano ad
afferrare l’apparecchio, fino a quando non sospirò, cercando di calmare i
nervi. Navigò poi tra i menù del congegno, cercando il nome di Red, e premendo
il tasto di chiamata.
Avvicinò il
Pokégear all’orecchio e respiro profondamente.
“… … … …”.
“Avanti…
Rispondi! Rispondi, cazzo!”.
“Non è il momento, Green!”.
“Hanno
rubato il mosaico! Nella Sala Alfa!”.
“Qui invece è morto Raffaello e Chiara tra
poco lo raggiungerà! Non ci sto capendo più nulla! Devi andare nella Sala Due!”.
“I mosaici
della Sala Uno invece ci sono ancora?”.
“Cazzo, Green! Nella Sala Uno non ci sono
neppure più le pareti! Siamo in inferiorità numerico e Angelo e Furio sono da
soli! Corri lì, porca puttana! Quei due ci lasciano la pelle!”.
“L-le… le pareti?!”.
“Non ci sono più, ho detto. Jasmine le ha
distrutte…” rispose quello, dopo un sospiro stanco.
“Jasmine?!
Ma che cazzo stai dicendo?!”.
“Senti, non ho tempo, ora! Sala Due,
e subito! E prega che quei due non siano morti, altrimenti te li porterai sulla
coscienza!”.
“… va bene…”
concluse, chiudendo la comunicazione. I dubbi sgomitarono con lo sconforto,
conquistandogli mente e corpo, quindi salì sull’ara, guardando con attenzione
il piano sul quale erano state incastrate le tessere, vedendone i bordi in
rilievo scheggiati. avevano utilizzato qualcosa di simile a un piede di porco
per forzarli a uscire dal pannello principale ed erano scappati.
Abbassò poi
gli occhi, accorgendosi della grande botola aperta proprio davanti ai suoi
occhi.
“Sono
fuggiti da qui?” domandò a se stesso, prendendo la torcia dallo zaino e
puntandola sul fondo. Non era assai profondo.
Doveva
seguire quella via, gli sgherri vi erano fuggiti sicuramente attraverso, e
quando lo capì vi saltò dentro, carico d’una nuova forza. Senza alcuna remora
né paura, prese a correre dritto, col fascio di luce della torcia che
traballava nelle sue mani sudate.
Respirava,
riempiva i polmoni di quell’aria stantia, mentre i suoi passi si bagnavano
nell’acqua caduta dall’alto. E poi una scaletta, fatta di corda, gli venne in
aiuto.
Mise la
torcia in bocca e la salì.
E si ritrovò
in un’altra sala, totalmente identica a quella che aveva lasciato.
Poco
indicativo. Quelle rovine erano tutte identiche.
Lì la torcia
non serviva, la luce della luna illuminava molto bene metà dei corridoi, quindi
la posò nello zaino e prese a camminare, ancora la sfera di Charizard tra le
mani, con deboli passi. Aguzzò l’udito, cercando di localizzare la presenza di
qualche avversario, sentendo però soltanto un fastidioso brusio, come fosse un
fischio su più frequenze.
Aggrottò la
fronte, imperlata di sudore, il freddo gli stava mangiando le guance ma il
cuore pompava sangue e batteva impanicato. Avanzò, rapido e silenzioso, fino a
quando quel brusio non diventò sempre più forte e, dopo aver voltato il
centesimo angolo e messo piede nel centesimo corridoio, riuscì a vedere delle
ombre.
S’appiattì
contro il muro e s’abbassò, studiando meglio la situazione. Il fischio era
quasi insostenibile ma riuscì a concentrarsi e a contare quattro ombre, una in
piedi e tre stese sul pavimento.
Il battito
accelerò. S’avvicinò ancor più lentamente, capendo che quelle non fossero stese
per scelta; l’uomo in piedi parlava da solo, sembrava concentrato nel guardare
sullo schermo d’un piccolo palmare che gli illuminava la parte inferiore del
volto.
Chi cazzo sei?
Oak continuò
ad avanzare di soppiatto fino a quando, a meno di sei metri. Era vicino, tanto
da poter ascoltare il suo respiro. Alle sue spalle, tra di loro, vi erano Blue,
Sandra e Yellow.
Guardò Blue.
La sua Blue.
… Non sei morta. E neanche le altre.
Non siete morte.
Era più una
preghiera che un pensiero.
Ma mantenne
la calma, sospirando lentamente e cercando di mozzare il collo a quella rabbia
colma di paura, di panico, che cresceva nel suo petto e gli faceva tremare le
gambe.
Gli faceva
fremere le mani.
“Alla fine
sei arrivato...” tuonò poi l’uomo di spalle.
Alto, lui,
coi capelli biondi ben pettinati, almeno sulla nuca, e un lungo soprabito di
pelle nera.
Si voltò
quasi subito, lasciando l’altro basito.
Xav… Xavier Solomon…
L’uomo
sorrise, divertito dal notare quanta sorpresa vi fosse nello sguardo che aveva
di fronte, poi, come se nulla fosse, tornò a guardare il palmare che aveva in
mano.
Come se
Green non fosse lì. Come se non avesse avuto alcun potere, su di lui.
“Tu…” sussurrò
Green, riconoscendo spaventato gli occhi di quell’uomo. “Xavier Solomon!”.
“Sì... sono
Xavier Solomon...” annuì quello, distratto dalle immagini sul suo marchingegno
e mantenendo una calma serafica. E forse fu quella a distruggere ogni baluardo
di razionalità e controllo nel capo dell’Osservatorio di Biancavilla. Sentì la
rabbia partire rapida dalle profondità del suo corpo e, vedendo gli occhi di
Blue aperti e persi lungo i pavimenti impolverati delle rovine, fece suo
l’impulso di saltargli addosso, allargando le braccia e chiudendole contro il
suo collo.
Ma poco
prima di riuscirci, Xavier si voltò rapido e lo colpì con un montante dalla
forza spaventosa, dritto nel petto. Quello urlò, dolorante, per poi accasciarsi
lento contro la parete. L’uomo dagli occhi rossi lo guardava severo, quasi
pietrificandolo.
“Non tollero
quelli come te, Oak. A me non importa del tuo Pokédex, o di chi è tuo nonno, né
di chi ti porti a letto. Per me siete solo zanzare…” sorrise poi. “Piccole e
fastidiose zanzare…”.
Green
strinse il costato nella mano destra e digrignò i denti.
“Tu…
Solomon… devi ridarmi la pietra …”.
L’altro non
si voltò neppure, continuando a lavorare con l’apparecchio che aveva davanti.
“Non ce l’ho
più. Almeno non ora, la riprenderò dopo… Per adesso mi sto concentrando sul Cristallo della Luce. Poi recupererò
anche quello… Mi sto limitando a… sai… seminare” sorrise, quasi genuinamente.
“Come farebbe un buon contadino, insomma…”.
“Che cazzo
stai dicendo?!” esclamò Green, con forza ritrovata. Lasciò il costato e portò
entrambe le mani alle sfere, prima che l’uomo lo fissasse, intimorendolo.
“Giovane
Oak... tuo nonno è assai più saggio di te. Forse col tempo si è perso, ma ti
assicuro che era di un altro spessore. Tu invece… ti ritieni così superiore...”
sorrise ancora, schernendolo. “… mentre in realtà giochi a fare il duro, come
un bulletto di quartiere. Sai, le ferite che hai dentro si vedono, e non si
rimargineranno mai più…”.
“Tu che
cazzo ne sai di me?!”.
“Io so... E
potrei distruggere la tua vita con uno schiocco di dita” fece, accompagnando
quella frase coi gesti. “Potrei tornare indietro nel tempo e uccidere la madre
di Blue il giorno prima del parto...” sorrise. “Sai che amarezza...”.
“Sei uno
stronzo…”.
“Non la
conosceresti mai”
“Zitto!”.
“Potrei
farti soffrire ora, qui, come un cane, facendoti vedere all’infinito come quei
luridi dei tuoi genitori siano morti durante la rapina che avevano organizzato
per settimane...”.
“Ho detto
zitto!” urlò ancora, alzandosi di scatto e scagliandosi di peso contro l’uomo.
Quello alzò la mano destra e una grossa barriera elettrica si frappose tra
loro. Più in là si senti il ruggito di un grosso Pokémon dagli occhi giallastri,
da cui sembrava provenisse la corrente.
“Cosa...
cosa cazzo…” sussurrò Green tra i denti, spaesato. Guardava l’uomo che aveva di
fronte e forse, per la prima volta nella sua vita, sentiva di non avere alcuna
opzione possibile per farcela.
“Non vuoi
fare davvero questa cosa…” diceva Solomon, con la barriera elettrica che si
spostava in concomitanza dei suoi passi, calmi e totalmente atarassici. Si
dirigeva verso Blue.
“Non
permetterti mai più di parlare dei miei genitori!”.
“Erano
criminali. Ma tu no. Vero?”.
Green si
bloccò, mentre la mano di Xavier si avvicinava alla testa di Blue.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 7
I passi
agili della ragazza dai capelli biondi aprivano la strada a quelli più lenti
della donna, che stringeva il fagotto tra le braccia. Yellow si guardava
attorno rapida, riuscendo a ricollegare ognuno dei grandi alberi che aveva
davanti con quelli che aveva visto da bambina, negli stessi posti, ma più avanti
nel tempo.
“U-un
attimo…” sussurrò Diana, con le gambe pesanti.
“Dobbiamo
sbrigarci, mamma”.
Diana si
bloccò, fissandola e battendo velocemente le palpebre, celando a intermittenza
le iridi smeraldine. Yellow si voltò e la guardò, notando che fosse rimasta
interdetta da quella parola.
Una sola
parola, così elementare ma così importante, per lei.
“Scusa…”
fece, abbassando il viso. “Non volevo dire nulla di sbagliato…”.
“No!
Tranquilla!” esclamò l’altra, sorridendo. Eppure vedere quella ragazza, quasi
sua coetanea, chiamarla in quel modo e poi assumere quell’espressione, una
volta compreso di aver fatto qualcosa che non andasse, le fece rivalutare
tutto. Quella donna, dai lunghi capelli biondi stretti nella coda di cavallo,
che dal padre aveva preso lo sguardo e da lei la dolcezza nelle espressioni del
viso. Quella era veramente sua figlia.
Era quella
piccola bambina, che stringeva al petto, e che cercava di proteggere dal mondo,
dal bosco, da suo padre.
“Tu… sei
davvero cresciuta qui?” domandò, poggiandosi al tronco di un solido pioppo.
La ragazza
dagli occhi paglierini annuì, rapprendendo le labbra.
“Sì. Ecco
perché conosco questo posto come le mie tasche”.
“E… non ci
siamo mai incontrate?”.
“No”.
Diana guardò
nuovamente sua figlia. Aveva davvero avuto il coraggio di abbandonarla lì, da
sola, e per questo cominciò a provare vergogna.
“Mi… mi spiace…”
singhiozzò, mentre l’ennesima lacrima calda le colò sulla guancia.
“Ma no…”
sorrise l’altra, avvicinandosi a lei e sistemandole i capelli dietro le
orecchie. Le poggiò una mano sulla spalla e incontrò i suoi occhi, per
rincuorarla. “Tu non lo hai fatto. Io sono lì, tra le tue braccia… Sei stata
forte e decisa e hai preso la decisione più giusta per me… o lei” continuò,
sorridendo nuovamente, impacciata.
“Sei
cresciuta senza una madre, né un padre, qui, come una selvaggia e… cazzo!”
esclamò, stringendo gli occhi. “Che donna di merda, che devo essere stata!”.
“Mamma…”
riprese lei, catturando nuovamente il suo sguardo. “Diana…”.
“Scusami”
disse l’altra, abbassando il volto.
“Stai
tranquilla, ti ho perdonata tanto tempo fa”.
Il sorriso
esplose nuovamente sul volto della bionda, che strinse le mani di quella e
socchiuse gli occhi. “Senza quest’esperienza non sarei mai diventata quello che
sono adesso”.
“E sei
meravigliosa. Sarei stata sicuramente fiera di te…” pianse l’altra,
avvicinandosi a lei e poggiandole la fronte contro la spalla. Yellow l’accolse
in un delicato abbraccio, che comprese anche la bambina. “Sei una donna
bellissima, e buona, e quando necessario hai fatto la cosa giusta…”.
“Anche tu,
ora. Ti senti un po’ più riposata?”.
Diana annuì,
controllando per l’ennesima volta la bambina.
“Allora
andiamo. Avanzerò, per controllare che quel Dratini non c’incontri
impreparate…”.
E fu così
che la loro fuga riprese. Il sottobosco continuava a scricchiolare sotto i loro
passi ansiosi. Yellow cercava di lasciare quanto meno tracce possibili durante
il loro passaggio, evitando di modificare nidi e ripari per i piccoli Pokémon,
che solerti le seguivano silenziosi.
Diana si
voltava, di tanto in tanto, spaventata e affascinata da quei piccoli Pidgey e
Pikachu, e Rattata, e Beedrill, e realizzò che avesse realmente lo stesso
potere di Dorian. Di tanto in tanto qualche flebile raggio di sole filtrava tra
le mani incrociate dei rami, baciandole il viso sporco di trucco e lacrime.
“Presto…”
fece poi l’altra, alzando una fronda e permettendole di passare più facilmente.
“Grazie”.
“Dopo che farai? Dove andrai?”.
“Non lo so...”
sospirò Diana. “Valuterò un po’ alla volta il da farsi, ma ciò che so è che
devo fuggire da qui, adesso…”.
Yellow
annuì, cercando di fare mente locale per capire dove quella avrebbe potuto
trovare riparo lontana da Kanto e Johto. “Sinnoh? Cosa ne pensi di Sinnoh?” domandò,
calciando una pigna lontana dal sentiero.
“È lontanissima...
Non ho i soldi per sostenere quel viaggio”.
“I soldi non
sono un problema… dovrei avere qualcosina qui con me…”.
“Grazie ma...
Com’è possibile tutto questo?”.
Yellow non
si voltò ma rispose lo stesso, mentre continuava a camminare.
“Risolviamone
uno alla volta…” sorrise. “Poi te lo farò sapere”.
Scavalcarono
un grosso tronco di leccio, caduto e ormai casa per i piccoli Pokémon, quindi
continuarono.
“Attenta…
passami la bambina…”.
Lo fece,
Diana, non senza qualche remora. Vide Yellow guardare se stessa e sorridere,
divertita.
“Sei sicura
che sia io? Non mi assomiglia per niente” ridacchiò.
“Avevamo
deciso di chiamarla Yellow, come il sole e i campi di grano, quindi immagino si
tratti proprio di te”.
“Immagino di
sì” ribatté seria l’altra, restituendo il fagotto alla madre.
“Grazie. E… e
parlami un po’ di te. Fammi capire cosa sarebbe successo se l’avessi lasciata
qui”.
“Come ho
detto… sono cresciuta nel bosco. Questi Pokémon mi hanno aiutata… poi un giorno
mi hanno presa e adottata, a Smeraldopoli. Lì ho scoperto i miei poteri…”.
“Eri
piccola”.
“Molto. Poi
incrociai un Allenatore, e l’ho seguito… e ora siamo ancora insieme”.
Spalancò gli
occhi, Diana. “Siete…”.
“Stiamo
assieme, sì…” arrossì l’altra. “Ne sono molto innamorata. È una persona
speciale”.
Non poté
vedere poi il sorriso felice della donna, contento e quasi sollevato.
“Mi
piacerebbe tanto conoscere l’uomo che ti ha fatto diventare così…”.
“Probabilmente
ora ha poco più di un anno, mamma. E forse lei non lo incontrerà mai…”.
Rallentò il
passo, per un piccolo secondo, chiedendosi se avesse poi barattato Red per una
vita normale, senza quei vuoti in cui sovente sprofondava. Però si chiedeva
come si sarebbe evoluta la sua vita se, realmente, sua madre avesse deciso di
portarla via e crescerla come una ragazza normale. Probabilmente sarebbe
cresciuta come un qualunque altra persona, avrebbe avuto libri e giocattoli
come ogni bambina, un tetto sulla testa, la paura dei temporali e delle amiche
con cui passare il tempo, in maniera leggera.
Stupida,
insensata.
Avrebbe
avuto un carattere leggermente differente, forse più sicuro. Forse sarebbe
stata meno gentile, un po’ più pungente, come Blue. E forse anche più
femminile. Forse non avrebbe conosciuto l’amore grazie a Red, né avrebbe
imparato il valore dell’amicizia tramite i Pokémon del Bosco Smeraldo. Forse
avrebbe imparato a confrontarsi correttamente con le persone, magari a
possedere un po’ della tanto decantata malizia che caratterizzava proprio Blue,
e che, suo malgrado, lei non aveva in nessuna quantità né misura. Forse non
avrebbe subito quel tradimento, che ancora bruciava, se fosse stata più sicura.
O forse sì.
Magari non avrebbe conosciuto Red, ma sarebbe stato un altro uomo a tradirla.
Sospirò,
sentendo frusciare le fronde sotto i soffi leggeri del vento.
Non sapeva
da quanto stessero avanzando, aveva perso totalmente il senso del tempo.
Tuttavia non le dispiaceva essere in quel posto, in quel momento. Di tanto in
tanto, difatti, si voltava a guardare il viso di sua madre, così preoccupato,
teso, ma al contempo bello, e dotato di quegli occhi limpidi.
E camminarono,
continuarono a farlo, senza sentire stanchezza, né fame, né sonno; senza
accorgersi che il sole non scendeva ma rimaneva sempre ben fisso a mezzogiorno,
a illuminare le cime degli alberi del bosco. Fu quando arrivarono poco dopo il
Monte Luna, dove le pendici erano ancora bagnate dalle creste fogliate, che
Yellow si fermò. La madre, pochi passi alle sue spalle, aderì alla sua schiena.
“Che
succede?” domandò preoccupata.
La bionda si
voltò rapida verso i Pokémon, poi annuì.
“È il
momento...” sospirò, stringendo i pugni. “Spero vada tutto bene”.
“Che
succede?!” ripeté l’altra, più impanicata, vedendo i Pokémon che la seguivano accerchiarle,
rigidi.
Poco dopo il
Dratini di Dorian le attaccò.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 1
“Corrado!”
esclamò Red, vedendo il corpo dell’uomo per terra. S’inginocchiò rapidamente al
suo cospetto, vedendo un rivolo di sangue fuoriuscirgli dalla bocca. Gli occhi
dell’uomo erano chiusi e mai s’erano aperti. Red alzò lo sguardo, angosciato e
pieno d’ansia. Si rimise in piedi e avanzò rapido, sperando fosse ancora vivo,
ma c’era troppo trambusto.
Non riusciva
a concentrarsi.
Vedeva il
Capopalestra di Arenipoli immobile, steso sulle lastre sporche di polvere,
segnate dal sangue che colava e s’infilava nelle antiche incisioni, ormai
perdute per sempre. Tentennò un attimo, quello dagli occhi rossi, mentre
l’odore acre della morte saturava la zona.
Avanzò verso
di lui, cercando di celare la paura di poter fare la sua stessa fine, e
stringeva la sfera di Poli nella mano
destra. Quella sinistra era a proteggere il volto dall’enorme nuvola di fumo
che aleggiava lì. Si abbassò, tossì, pensò a Yellow e si gettò sull’uomo.
“Corrado!
Svegliati!”.
Portò le
dita sulla carotide, e bassò la testa quando si rese conto che il cuore non
pompasse più. Come lui, anche il suo Luxray giaceva senza vita, a pochi metri
dal muro di cinta destro, totalmente dilaniato.
Deglutì,
l’odore era ancor più forte, vicino a lui.
Fermali. Ferma tutto.
Cercava tra
i suoi pensieri la forza per poter reagire, nonostante tutto attorno a lui
trasudasse morte e distruzione. Avrebbe dovuto abbandonare la nave come il
peggiore dei codardi, forse, andare a cercare la sua donna e scappare via.
Il primo
impulso fu quello, fuggire via e provare a vivere la seconda parte della sua
vita cercando di uccidere il rimorso e il peso che il suo nome si portava
dietro. Ma quella scelta l’avrebbe lacerato lentamente, fino a quando non
sarebbero rimaste soltanto pelle ed ossa, quindi spense con le dita quella
scintilla e si rimise in piedi, proteggendo naso e occhi dal fumo e sfondando
la barriera di fumo.
Oltre vi
trovò soltanto carneficina e terrore: un paio di scagnozzi dalle maschere
antigas erano stati messi fuori combattimento e giacevano supini, stesi sui
detriti e sul proprio sangue ma davanti a loro c’erano tutti i Pokémon dei
Capipalestra rimasti feriti e senza vita.
Alla fine di
quell’orrida passerella vi era la stessa figura che aveva riconosciuto attraverso
il fumo e le fiamme.
“Fermati!”
le urlò, vedendo la figura bloccarsi. Pareva fissarlo. “Poli, vai!”.
Le fiamme
attorno ai suoi piedi continuavano a divampare e intanto il Pokémon dell’Ex
Campione di Kanto avanzava deciso.
“Mi senti?!”
urlò Red all’ombra. “Chi diamine sei?! Mostrati!”.
Ascoltò poi
qualcuno ridere debolmente, nonostante il crepitio delle fiamme e dei respiri
sempre più pesanti di alcuni di quei Pokémon ancora vivi.
“Tu vuoi
sapere chi diamine io sia?” sentì
quindi Red. Era la voce di una donna, e, purtroppo, era davvero molto
familiare.
“Jasmine…”
sussurrò Red, quasi sconfitto. L’ennesimo doppleganger, pronto a distruggere e
a uccidere.
“Esattamente”.
La donna
camminava lenta verso l’Allenatore di Biancavilla, spostando la lunga treccia
dalla spalla, muovendo rapidamente la testa. I suoi occhi, di quel color
nocciola così intenso e vivo, risaltavano persino in quel caos. Indossava un
gilet bianco, sporcato di cenere, sangue e terreno, e sotto portava un
maglioncino di filo assai aderente. Sulla spalla manteneva un sacco, che pareva
essere assai pesante.
“Sei lei…”
continuò il Dexholder, con un filo di voce. Si chiese come potesse aver fatto
una donna così piccola a creare un problema così grosso.
“Parli
dell’altra, eh?”.
Gli occhi
dell’uomo si poggiarono sulla sacca. Capì immediatamente.
“Lascia
subito qui le tessere del mosaico e arrenditi!”.
“Queste
servono a me. Non ti vedevo da tempo, Red” sorrise quella.
“Io non ti
ho mai vista… La Jasmine che conosco è una brava persona”.
L’altra scese
l’ultimo dei gradini dell’altare dove i mosaici erano posti in precedenza,
divertita. Red fu in grado di guardarla meglio in viso, appurando che le
efelidi che vedeva sul viso candido della donna fossero in realtà schizzi di
sangue.
“Non
esistono brave persone. Esistono soltanto buone e cattive azioni. Se tu oggi
fossi costretto a farlo, probabilmente agiresti in maniera sbagliata per una
giusta causa…”.
“Non sei
stata costretta a uccidere Raffaello! L’hai fatto di tua spontanea volontà!”.
“E Corrado. Non
dimenticare Corrado, ho ucciso anche lui, Red. Sei molto differente da come ti
ricordavo”.
Avanzò
ancora, trovandosi esattamente sotto la grande apertura nel soffitto. Era molto
vicina al ragazzo, lo vide indossare una maschera che univa malessere e
disprezzo, e rabbia.
“Hai…
ammazzato degli uomini per le tessere d’un mosaico...” sussurrò lui, quasi
parlando con se stesso.
“Noto che
adesso possiedi dell’etica”.
“Ho sempre agito
secondo ciò che reputavo giusto. Ho sempre saputo distinguere tra bene e male”.
“Da dove vengo
io non è così” fece l’altra. Gli occhi dell’uomo si spalancarono, buoni e
ingenui quali erano. Il suo silenzio diede spazio alle parole di Jasmine. “Da
dove vengo io sei scappato alla prima occasione. Lì ognuno di voi è differente,
Red... e non vedo l’ora di ritornarci”.
“Quello non sono
io. Non scapperei mai”.
La donna
sorrise, giocando con le punte ordinate dei capelli al di sotto della treccia.
Alzò gli occhi verso il cielo quando una debole goccia di pioggia le bagnò una
guancia.
Allargò il
sorriso e chiuse gli occhi.
“Ero nel
faro, quando il Team Rocket attaccò Olivinopoli. Fu un’azione magistrale,
repentina. Militarizzati al massimo, le Reclute si sparsero tra le strade e le
case della mia gente con velocità e precisione. Chiunque non aderì alla loro
causa venne giustiziato. In pochi riuscimmo a nasconderci. Nelle fogne. Fu lì
che creammo la Classe Sociale Degenerativa, quella sorta di resistenza di cui
Johto aveva bisogno. Molti di noi erano formidabili Allenatori, altri solamente
pieni di voglia di fare. Furono i primi a morire, durante le battaglie”.
“Ma… Il Team
Rocket non è mai riuscito a conquistare Johto…”.
“Da me sì.
Il mio universo è differente dal tuo, te l’ho detto. In ogni modo è
straordinario il modo in cui fui coinvolta nella faccenda...”.
“Quale?”.
“La notte
del quindici dicembre Giovanni stazionava all’Hotel Bellariva, sul lungomare a
ovest della città. Pianificavano l’attacco a Fiorlisopoli, dovevano
necessariamente dirigere le manovre d’attacco via mare e via aria ma Furio era
già stato allertato e aveva predisposto un embargo civile e commerciale
all’isola. Aveva utilizzato il tempo che aveva per impostare un sistema di
trappole al centro del mare e in prossimità dei suoi porti, oltre ad aver
organizzato linee difensive di mare e di terra. Ecco perché Giovanni non aveva
ripiegato rapidamente verso sud ma era stato costretto a fermarsi per un paio
di mesi a Olivinopoli… nella mia città…” ridacchiò quella, guardando in alto,
mentre la pioggia le lavava il volto. “Beh, quella notte organizzammo il suo
omicidio. C’intrufolammo nell’hotel e riuscimmo a penetrare nelle sue stanze.
Lo uccisi col mio Ampharos, scaricandogli milioni di ampere nel corpo. Fu lì
che partì una controffensiva micidiale per liberare l’intera Johto...”.
“Hai… hai
ucciso Giovanni?” domandò Red, stupito, massaggiandosi il viso.
“Sì… ma,
ecco, ero mossa dai motivi giusti...”.
“Hai ucciso
un uomo!” urlò forte l’altro.
“Che aveva
ucciso migliaia di persone! E che voleva continuare a farlo!” ribatté Jasmine.
“Con l’aiuto di Furio risalimmo velocemente a nord e avemmo una grossa
battaglia contro i Rocket ad Amarantopoli… Vincemmo, mi sentivo benissimo… Ero
l’autrice di quella che era la più grande organizzazione paramilitare di tutta
la nazione… Noi eravamo la resistenza. Poi però...”.
“Poi?”.
“Il potere è
un bicchiere dal quale non puoi bere una sola volta. Cominciato come piano di
liberazione, Johto è diventato il mio regno...”.
“E io... io
sarei fuggito?” domandò confuso il ragazzo, vedendo la pelle di Poli diventare lucida sotto la pioggia
che cominciava a battere con maggior vigore.
“Una volta
saputo che Violapoli fosse sotto attacco Gold e gli altri Dexholder hanno
attuato un piano per fermare la controconquista. Addirittura, hanno fatto
fronte comune con i pochi Rocket fedeli rimasti...”.
“Figuriamoci...”
sorrise Red, amaramente.
“Tutti
mercenari. Tu eri tra i Dexholder che sconfiggemmo a Borgo Foglianova.
Scappasti poco prima del verdetto finale, condannando il tuo amico Green alla
sconfitta ed alla successiva morte”.
“Hai ucciso
Green?!”.
“Tu hai
ucciso Green. Saresti morto al suo posto, altrimenti…” ribatté. “In ogni caso nessuno
si mette contro di me. E sai cosa stai facendo, adesso?” chiese, con quel
sorriso dolce sulle labbra in contrasto più che netto con la ruggine presente
nelle sue parole. Portò la mano alla cintura, afferrando una Pokéball.
“Mi sto
mettendo contro di te...” strinse i denti Red, basso sulle gambe. “Attento, Poli!”.
“Vai,
Steelix!” urlò quella. “Sappi che non sono abituata a perdere. E ciò significa
che vinco sempre, anche quando non dovrei”.
Il grosso Pokémon
si presentò davanti a Red con aria minacciosa.
“Stavolta
non andrà così! Poli, usiamo Idropompa!”.
Jasmine
sorrise, vedendo l’enorme Pokèmon costretto a fuoriuscire dall’apertura nel
soffitto per via della sua altezza. La potente scarica d’acqua colpì
direttamente i segmenti d’acciaio del suo corpo, che si curvò in direzione
della spinta.
La donna annuì,
poi applaudì. “Mi sa che con queste mosse potrai solo spegnere l’incendio che
ho provocato. Steelix, facciamo un po’ di spazio”. Il Pokémon non sembrò
curarsi dell’avversario e ascoltò gli ordini della sua Allenatrice, spingendo
il corpo duro e lucido contro la parte restante del soffitto.
Soffitto che
collassò, cadendo interamente al suolo.
Cadendo
interamente addosso a Red.
Johto, Rovine
D’Alfa, Cortile Esterno
“Abbiamo
chiamato i soccorsi, Chiara! Saranno a momenti qui! Stai tranquilla!” urlava
Jasmine, con le lacrime agli occhi, agitatissima. La donna era accovacciata accanto
alla Capopalestra di Fiordoropoli, che manteneva con sempre maggior difficoltà
il contatto visivo.
“Jas...
aiutami...” sussurrava tra i denti. Il dolore era divenuto così forte da non
permetterle di provare nessun’altra sensazione. La guardava con occhi esausti
mentre sentiva deboli gocce di sangue che colavano dall’addome lungo i fianchi,
finendo per inzaccherare l’erba bagnata.
Da qualche
secondo la pioggia aveva cominciato a scendere, colpendo i loro corpi senza
forze con freddi spilli di ghiaccio.
“Red ce la
farà!” esclamò l’altra, continuando a piangere. “Ci aiuterà a chiudere questa faccenda!”.
Subito dopo,
vide un enorme Steelix fuoriuscire dalla voragine nel tetto della sala da cui
erano uscite qualche minuto prima.
“Stanno
lottando” tuonò Valerio, qualche metro dietro di loro, camminando
freneticamente senza pace.
“Spero che
Corrado non sia rimasto ferito...” sussurrò quella di Olivinopoli.
“Già”
rispose lui, sospirando e alzando il volto verso la pioggia. Avrebbe voluto
chiudere tutto e andare via, ma non poteva. Sentì poi il Pokégear suonare, e lo
portò all’orecchio.
“Qui
Valerio. Angelo?”.
Chiara
voltò, non senza sforzo, la testa verso l’uomo, con le mani immerse nell’erba.
“Che... succede?” domandò con un filo di voce. Soltanto Jasmine poté sentirla.
“Non lo so”
le fece quella.
“Furio...”
sussurrò invece Valerio, abbassando il capo, sconfitto. “Esci rapidamente di
lì: Chiara ha bisogno di noi”.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 1
“Oh,
dannatissimo Steelix!” urlava Red, cercando di valutare rapidamente la
situazione. Afferrò poi Poli per il braccio e lo tirò sotto di sé, prendendo
infine la sfera di Lax, il suo
Snorlax, e quella di Vee.
Poi lasciò
che il loro istinto facesse il resto.
Si sentì
avvolto.
Protetto.
Inizialmente
riusciva a vedere solo polvere, alzata dopo l’enorme crollo; tutt’intorno,
almeno dove Red aveva la possibilità di guardare, vi erano soltanto grossi
pezzi di marmo.
Alcuni di
quelli erano affilati come rasoi; ripensò a Chiara prima di fare mente locale e
rendersi conto dell’effettiva situazione: Poli
era inginocchiato davanti a lui, e spingeva Red indietro con il corpo. Lax, invece, era su di loro a
proteggerli, avvolgendoli totalmente. Sarebbe finito sotto le macerie anche lui
se Vee non avesse creato un campo di forza sulla sua testa, a proteggere la
formazione.
I suoi
Pokémon c’erano.
“Grazie
amici...” sussurrò, alzando la testa e vedendo Steelix accanto alla piccola Jasmine.
“Che bella
scena… fece. “Ma non basterà. Con me non è mai bastato nulla”.
Il campo di
battaglia era interamente disseminato da quegli enormi blocchi di marmo.
Red decise
di salire sopra uno di essi e Poli lo
seguì subito.
“Usa Geloraggio!”.
Jasmine
inclinò la testa e ribatté veloce. “Creati uno scudo col marmo, Steelix!”.
Red fece
rientrare nella sfera Lax e Vee, dov’erano più sicuri, prima di
vedere il grosso Pokémon avversario alzare un lastrone di marmo con un colpo di
coda, che andò ad intercettare l’attacco potentissimo del suo Poliwrath.
Quando il
marmo ricadde, congelato com’era, si frantumò in tanti piccoli pezzi.
“Riproviamoci!”.
“Non ho
intenzione di giocare così” disse invece quella Jasmine. “Steelix! Fossa!”.
“Odio queste
cose. Preparati!” esclamò l’uomo.
“Già,
preparati a morire. Ora!”.
“Attenzione!”.
Fu
terrificante: Steelix aveva scavato in profondità sottoterra per poi fuoriuscire
qualche metro accanto a lui. Red si aspettava di essere attaccato alle spalle,
oppure proprio sotto i piedi. Invece il serpentone d’acciaio sbucò a pochi
passi da dov’era entrato, balzando in aria e ruotando rapidamente il corpo, in
modo da far partire una pesante codata, che colpì Poli in pieno.
A momenti
anche Red sarebbe stato coinvolto in quel tremendo scontro.
“Poli!” urlò.
“Non c’è
molto che Poli possa fare”.
“Zitta!”.
Il Pokémon Girino s’era schiantato su di un cumulo di marmo, impattando
violentemente. La donna rise di gusto, annuendo, ormai fradicia sotto l’immensa
pioggia che si era scatenata sulle loro teste.
“La
questione è proprio questa, Red: siete piccoli. Siete troppo piccoli per me”.
Red si stava
mordendo il labbro inferiore; anche lui era totalmente bagnato ma intanto
guardava inerme Poli, sperando che si
rimettesse in piedi.
“Un colpo…”
continuò lei. “È bastato davvero soltanto un colpo per poterti mettere in
difficoltà, grande campione?”.
“Non è così
che faccio io”.
“Beh,
neppure io” sorrise quella. Portò le mani al braccialetto che aveva al polso e
premette un tasto. Steelix, già enorme e possente, finì per illuminarsi.
“Non posso
crederci…” sussurrò a se stesso Red, con gli occhi spalancati e le labbra
schiuse. Ebbe il tempo di far rientrare Poli
nella propria sfera, prima di vedere Steelix trasformarsi, allargare il capo e
allungare gli spunzoni che gli fuoriuscivano dal corpo.
“Io le cose
le faccio così! Ammazziamolo, MegaSteelix!” rideva quella, senza il minimo buon
senso. Red strinse i denti, cercando di ragionare quanto più velocemente
possibile, prima che il Pokémon di Jasmine alzasse la pesante coda e la
schiantasse contro di lui. Il ragazzo fece in tempo a saltare verso sinistra,
rotolando verso ciò che rimaneva del muro di delimitazione dell’antica sala,
ormai distrutto.
“Ora lo
spazio c’è… vai, Gyarados!” urlò, ancora inginocchiato.
Il grosso
leviatano entrò in campo furibondo, ruggendo e alimentando la tempesta che si
abbatteva sulle loro teste. Red guardava l’avversaria, immobile, poi si rimise
in piedi.
“Questo gioco
possiamo farlo in due, Jasmine”.
Johto, Rovine
D’Alfa, Sala 7
“Ci
attacca!” urlò Yellow, facendo un passo indietro. Diana guardava terrorizzata
il grosso Dratini che aveva di fronte, mentre sparava dalla bocca raggi rossi e
incandescenti, che finivano per bruciare l’erba del Bosco Smeraldo.
“Stai
attenta!” urlò la donna, stringendo la neonata e indietreggiando, impaurita.
“Certo. Ma
prima tu. Non devi farti colpire per alcuna ragione”.
La madre tentennò,
vedendo negli occhi della bionda viva preoccupazione ma anche quella scintilla
di determinazione che caratterizzava lo sguardo dell’uomo che aveva amato per
anni.
“Dovete
aiutarmi voi, Pokémon del bosco! Non ho le sfere con me!” urlò poi, vedendo
frapporsi tra lei e quel Dratini decine di Caterpie, Weedle ed un Pidgey,
assieme a dei Rattata e un Pikachu.
“Non fatevi
del male...” sussurrò corrucciata, quasi a se stessa, mentre vedeva un paio di
Caterpie fallire nel fronteggiare col proprio Millebave il Pokémon Drago di suo padre.
“Pidgey e
Rattata, almeno voi state attenti. E Weedle, non avvelenatelo”.
Diana
spalancò gli occhi.
“Ma ci sta
attaccando, Yellow! Dobbiamo in qualche modo ricambiare, altrimenti ci farà a
pezzi!”.
Sua figlia,
quella grande, si voltò giusto un secondo per guardarla negli occhi e poi fece
cenno di no con la testa.
“Io non ho
mai fatto del male a nessuno, mamma. I Pokémon malvagi non esistono. Sono solo
fedeli a persone cattive”.
Un forte
soffio di vento le spostò una ciocca sul naso, poco prima che quel Dratini
usasse la coda per spazzare il terreno davanti a sé: l’ultimo Caterpie e i
Weedle, assieme ai Rattata, furono sbalzati in aria, al contrario del Pidgey
che lo schivò agilmente alzandosi in volo.
Lo colpì,
poi, con un forte attacco Beccata,
facendolo indietreggiare di qualche passo.
“No!”
esclamò Yellow. “Non fargli del male. Usa piuttosto Turbosabbia”.
Quello
eseguì rapido e alzò con le piccole zampe una nube polverosa che andò a finire
negli occhi dell’avversario.
“Dobbiamo
andare!” esclamava Diana.
“No! Risolviamo
questa situazione, prima”.
Il grande
Dratini soffiò sul Pidgey un attacco Dragospiro,
che lo colpì in pieno sul petto, segnandolo con una scottatura dolorosissima.
Yellow
inorridì nel vedere le piume del Pokémon bruciate; malcelavano una profonda
ferita sanguinante.
“No!”
esclamò, quando una grande ombra precedette un grido.
Diana alzò
gli occhi, stringendo la neonata tra le braccia, e si accorse del grande
Pidgeot che s’abbatteva in picchiata.
“Stai giù!”
urlò, tirando a sé Yellow. Entrambe s’inginocchiarono quando il Pokémon più
forte del Bosco Smeraldo allargò le ali per rallentare, a pochi metri da loro.
Si piazzò
davanti al Dratini, che lo attaccò rapidamente con Botta, schivato agilmente dall’altro. Yellow sospirò e annuì.
“Lo dico
anche a te, Pidgeot! Non fare del male a questo Pokémon! Permettici solo di
andare via di qui!”.
Il pennuto
girò il viso per un secondo, prima di schivare un altro attacco e poi un altro
ancora.
Colpì con un
Attacco D’Ala piuttosto delicato
l’avversario, atto più ad allontanarlo dalle due donne che a recargli danno, e
infine decise d’alzarsi in volo per effettuare una nuova picchiata,
allargando
però gli artigli prima di toccare terra.
Dratini rimase
immobile basito quando le zampe del Pidgeot gli afferrarono la coda e si
diedero poi lo slancio per rimettersi in volo. Yellow sorrise felice, prima che
i due Pokémon sparissero oltre il tetto di foglie che copriva le loro teste.
“Ce
l’abbiamo fatta!” sorrise Diana.
La bionda annuì
e sospirò. “Dobbiamo avanzare velocemente…”.
*
Il cuore di
Green batteva forte, mentre il cervello faticava ad accettare ciò che gli occhi
vedevano. Blue era immobile, le dita di Xavier avevano afferrato i capelli
della donna e li stavano tirando, sollevandole la testa. Raikou ruggiva, le
scintille attorno a lui cominciavano a caricare l’aria.
“Non
toccarla, Solomon!”.
Portò poi le
mani alle sfere, mandando in campo Arcanine e Charizard. I due Pokémon
ruggirono possenti, aprendo le bocche di fuoco ed emettendo fiamme
incandescenti contro l’uomo.
Gli occhi di
Solomon si contrirono, prima che schioccasse le dita e uno scudo fatto
interamente d’energia elettrica gli si parasse davanti. Raikou ruggiva ancora.
“Pezzo di
merda! Lasciala!” esclamò l’altro.
Le fiamme e
l’elettricità svanirono, e il volto dell’uomo apparve lì, severo, solido.
Sospirò.
“Non ho
alcuna intenzione di farle del male, Oak…” rispose, abbassando gli occhi sul
palmare e sorridendo, dopo aver annuito. “Sto solo guardando i loro sogni…”.
“Ti ho detto
di lasciarla perdere!” esplose l’altro, sentendo il sangue ribollire fino a
quando non raggiunse la sommità del cranio. Si gettò di lui, cogliendolo
impreparato e afferrandolo per il colletto della lunga giacca di pelle nera. Lo
strattonò con forza, tirandolo via da lì, fino a quando i loro occhi non si
scontrarono in un braccio di ferro colmo d’arroganza e aggressività.
Lo sbatté
con le spalle contro il muro, più e più volte.
“Hai
superato il confine! Lo hai superato, stronzo! Non dovevi toccare Blue!”.
Xavier
contrì lo sguardo, lucido, abbassando poi gli occhi e vedendo, in quel preciso
istante, il Dratini del Bosco Smeraldo venire sollevato e portato via dal
grande Pidgeot.
Green caricò
il colpo, quasi non si accorse del ghigno sinistro dell’uomo che stava per
prendere a pugni e, quando scaricò, venne caricato dal Raikou del Pokémon, che
utilizzò Attacco Rapido e spinse lontano
l’uomo che stava aggredendo il suo Allenatore. Fu così veloce che quello poté
soltanto accorgersi d’essere in pericolo, prima di ruzzolare poco lontano da
Blue.
La guardò,
col cuore che batteva. Pareva respirare ancora.
Respirava
con la bocca aperta.
Xavier
avanzò, altezzoso, lento, colpendolo subito dopo con un calcio nel petto.
“Tu…” fece,
quasi ringhiando. Gli salì a cavalcioni e gli diede un pugno fortissimo sul
viso. “Tu hai osato toccarmi! Come se potessi permettertelo!”.
Urlò forte e
lo picchiò ancora, sentendolo gemere.
“Le tue
sporche mani!”.
Ancora.
“Le tue…
mani!”.
Ancora.
“Fermati!”
esclamò Green, alzando le mani ma venendo colpito nuovamente.
“Le tue mani
mi hanno toccato!”.
Quello fu
l’ultimo.
Xavier pulì
le nocche dal sangue e si alzò, sputandogli sul volto.
Lo guardò,
caricò d’odio.
“Con quelle
mani…”.
Raccolse il
palmare e mise una mano su Raikou, saltandogli in groppa.
“Me la
pagherai, Green Oak”.
Poi sparì
nel vuoto, come se non fosse mai stato lì, e le ragazze si svegliarono, qualche
secondo dopo.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 7
Il cuore di
Yellow batteva ancora, mentre il vento continuava a correre nei corridoi d’erba
alta. Diana era scossa. Incontrarono gli sguardi e, in un secondo, la paura si
dissolse, trasformandosi in sollievo.
La bionda le
si avvicinò e annuì.
“Ora che
Dratini è fuori dai giochi dovremmo proseguire verso est… Non credo sarà
difficile”.
Diana annuì,
sorridendo. Strinse la neonata, controllando per l’ennesima volta che stesse
bene e poi si avvicinò all’altra.
“Un momento.
Deve mangiare…”.
“Ora?”.
“Ho il suo
pranzo qui” ribatté ridendo, poggiando la piccola tra le braccia della donna.
Yellow l’accolse con delicatezza, spostandole leggermente la copertina dal
volto e carezzandole la guancia morbida e vellutata. Quella emetteva dei
gridolini acuti, che facevano sorridere Diana, mentre tirava fuori il seno
destro.
“Grazie. Dai
qua…” fece, riprendendola tra le braccia. Avanzò per prima, poi, camminando nel
piccolo sentiero che si dirigeva ai piedi del massiccio montuoso e che si
estendeva ancora per diverse centinaia di metri, fino a dove i loro occhi non
potevano arrivare. Yellow chiudeva quella piccola carovana, guardandosi attorno
attentamente e respirando quell’aria, così familiare ma contemporaneamente così
differente da ciò che viveva ogni giorno.
Il fruscio
delle foglie, l’erba che si adagiava da una parte e dall’altra in base al
soffio del vento, i versi dei Pokémon, tutto la colpiva, la riempiva di
libertà, unita a quella paura che provava quando aveva il mondo a disposizione
e lei era a disposizione del mondo.
Paura di
essere troppo piccoli. Paura di essere troppo grandi.
Diana
calpestava il sottobosco e sorrideva, eccitata.
“Sai… sono
felice di non aver condannato Yellow a vivere da sola. Sono contenta di poterle
fare da madre e crescerla nel migliore dei modi”.
Altro soffio
di vento, sistemò meglio sua figlia sul petto e sospirò.
“Spero che
diventi come te. E che userà il suo potere nel migliore dei modi”.
Poi si
voltò.
E Yellow non
c’era più. Solo il percorso, alle sue spalle, che avevano calcato per tutto
quel tempo.
Diana
sorrise e annuì. Aveva capito cosa doveva fare.
“Grazie di
tutto, figlia mia”.
*
“Blue! Blue!
Cazzo, svegliati!”.
La voce di
Green rimbombava tra le mura antiche della Sala 7. La mano destra stringeva la
nuca della donna mentre la sinistra la colpiva leggermente con degli
schiaffetti sulla guancia.
Aveva le
lacrime agli occhi, lui, e il sangue gli colava dal naso e finiva per sporcare
il parka della sua donna. Quando poco dopo i suoi occhi blu si riaprirono, il
volto di Green fu la prima cosa che vide.
“Grazie al
cielo!” urlò quello, con la voce provata, gettandosi su di lei e stringendola
con vigore. Sandra s’era sollevata in piedi da poco, Yellow aveva invece appena
aperto gli occhi.
“Siamo…
siamo tornate?” domandò quest’ultima, con voce compressa.
“Ho fatto un
sogno stranissimo…” diceva Blue, stropicciandosi gli occhi. Guardò per un
attimo le compagne, con Sandra confusa e Yellow impanicata, con gli occhi
spalancati.
Era passata
rapidamente da stesa sul fianco a seduta, spingendo le spalle contro il muro.
Si guardava attorno, cercando di capire dove si trovasse.
“Mamma!
Diana! Dove sono?! Dov’è?!”.
Green la
guardò, poi sospirò, lasciando la presa da Blue e rimanendo inginocchiato. Le
prese una mano e la strinse.
“Calmati. Ti
sei svegliata, era solo un sogno…”.
“No! Non era
un sogno! Ho visto mia… mia madre e… e mio padre!” rispose, voltandosi
rapidamente verso Sandra. “Io devo parlare con Lance!” esclamò rimettendosi in
piedi e sbattendo barcollante contro il muro. Mosse quindi passi stentati verso
l’uscita.
“Va’ con
lei, per favore…” sospirò Green. Si risollevò e aiutò Blue a fare altrettanto,
poi l’abbracciò. La donna era immobile, sentendo la testa girare e l’enorme
confusione attanagliarle la mente. Anche tra le braccia di Green non riusciva a
sentirsi a suo agio.
“Che ti è
successo?” sussurrò l’uomo, sbuffando. Affondò lo sguardo nei capelli della
donna e cercò di trattenere le lacrime.
“I-io… ho
rivissuto il mio rapimento…”.
Green si
bloccò, facendo un passo indietro per guardarla negli occhi. “Sei seria?”.
“Maschera di
Ghiaccio, il maniero… Karen. Ho-oh… Ho parlato con me stessa, da bambina…”.
“Stai bene?”
domandò l’altro, inclinando leggermente la testa, quasi per scrutarle meglio il
volto.
“Sì, sto
bene, non preoccuparti…” ridacchiò quella. “Ho incontrato anche te e Red…”.
“Xavier
Solomon vi ha attaccati” ribatté l’altro, estemporaneo. Vide il volto di Blue
mutare. Quella sbatté le palpebre per qualche secondo e poi schiuse le labbra.
“Era quello
malvagio, allora?”.
“Lo
scopriremo subito…” disse poi.
Johto,
Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon
I numeri
ormai vagavano nella sua mente senza più alcuno schema. Ogni funzione veniva
ordinatamente disposta in una griglia d’appartenenza, ogni cosa funzionava per
un motivo e lui lo sapeva. Sembrava quasi che stesse mettendo in ordine la sua
camera o stesse pulendo il desktop, e
invece
Xavier stava elaborando dei dati, proprio come avrebbe fatto un computer.
Guardava il
vuoto e nel mentre annuiva. Il grande schermo che aveva davanti mostrava uno
schema unifilare davvero complesso, che aveva messo in piedi totalmente da
solo.
La luce nel
suo laboratorio era spenta e soltanto il monitor gli illuminava il volto
stanco.
E continuava
ad annuire, vedendo come l’elettricità sarebbe arrivata dai generatori ai cavi.
Inventava,
Xavier. Doveva soltanto capire come innescare e catalizzare. L’ottanta percento
del lavoro, in pratica.
Sbuffò,
quindi abbassò lo sguardò e si stropicciò gli occhi. A un certo punto le
palpebre cominciavano a vibrargli per via della stanchezza. Decise di alzarsi,
aveva bisogno di un caffè, quindi salvò tutto sui tre drive collegati e spense
i monitor, dirigendosi verso la scalinata.
Lì prese a
pensare al nome.
S’era
ripromesso, ove mai fosse riuscito a inventare la macchina del tempo, di non
essere banale. Non l’avrebbe chiamata soltanto macchina del tempo. No, si sarebbe appellato a lei con nomi come Mary Jane, o forse Mikhaela.
“Mary Jane…”
sussurrò, aprendo la porta che dava sul salone. Spider-Man gli era piaciuto più
dei Transformers. Ma poi pensò che non avrebbe potuto presentare un’invenzione
di una portata simile chiamandola in quel modo: i cervelloni non avrebbero
gradito.
Macchina Trans-Universale, forse.
Ma nel
privato sarebbe stata Mary Jane.
Sarebbe stato il loro piccolo segreto.
Si avvicinò
alla cucina, col sapore d’inchiostro in bocca per via della vecchia Staedler
che aveva mordicchiato per più di venti minuti. L’aveva ridotta a un colabrodo,
ma stava contribuendo a rendere Mary Jane un gioiello della meccatronica
quantistica, quindi avrebbe dovuto sacrificarsi.
Versò il
caffè in una tazza e si poggiò al bancone, sospirando.
“Un
catalizzatore… serve solo un catalizzatore”.
Necessitava
dell’elemento che gli avrebbe permesso di mettere in moto il processo di
viaggio nel tempo. Aveva pensato a una coppia combustibile-comburente in grado
di sprigionare una quantità d’energia pressoché infinita ma anche in quel caso avrebbe
dovuto capire come manipolarla. E poi rapidamente, velocità della luce e viaggio
indietro nel tempo.
Fortunatamente
non era debole di stomaco.
Poi sentì
dei timidi passi scendere dal piano superiore. Lui sorrise leggermente e
preparò un altro caffè, che sua madre, quando entrò in cucina, trovò sulla
tavola. Guardò la tazza bianca, fumante, e sorrise.
“Xavier… Sei
già sveglio?” domandò quella, avvicinandosi a lui e sistemandogli il colletto
della camicia, che fuoriusciva dal maglioncino di filo color panna.
“Si fredda
il caffè”.
“Oh, non
preoccuparti…” sorrise lei, allungando le belle labbra macchiate dal tempo.
“Appena fatto è troppo caldo”.
“Hai
ragione. Oggi che hai da fare?”.
La donna si
strinse nella sua vestaglia e fece spallucce, sorridendo quasi imbarazzata, coi
capelli spettinati, tinti d’un biondo che ricordava quello d’un tempo. Gli
occhi invece no, erano dello stesso colore di trent’anni prima, forse solo più
spenti.
“Mah… quello
che fa una povera vedova in là con gli anni…”.
“Blackjack e
toyboy, eh? Devo tagliarti la paghetta”.
Quella
sorrise ancora, facendo cenno di no con la testa.
“Sei sempre
il solito. E col tuo lavoro? Sei riuscito a vedere qualcosa nei tuoi numeri?”.
Xavier fece
spallucce e sbuffò, poi prese un sorso di caffè.
“Sì, ho
visto Buddha con i cembali tra le mani… Bevi, che si fredda”.
Puntò con lo
sguardo la tazza e vide sua madre annuire. Quella si voltò e prese la tazza,
avvicinandola alla bocca.
“Non
riuscirò mai a capire come tu faccia a comprendere quelle cose…” sorrise
nuovamente. Spostò poi la sedia e si accomodò al tavolo.
“Ah, non ci
capisco nulla neppure io, stai tranquilla. Faccio solo finta”.
“Beh…” fece,
guardandosi attorno. “Facendo finta ti sei messo a posto in maniera assai
discreta. Complimenti”.
Lui sorrise
e stropicciò nuovamente gli occhi. “Tutta fortuna”.
“No. Duro
lavoro… E immagino che tu non sia proprio andato a dormire, stanotte...”
sospirò.
“Immagini
bene… c’era da fare…”.
“Avresti
potuto farlo dopo, Xav... Quante ore al giorno dormi?” domandò preoccupata
quella, con lo sguardo apprensivo. E Xavier, che quegli occhi li aveva già
visti, sospirò.
“Poco. Otto
su trentasei, credo”.
La donna
sospirò quando il telefono del ragazzo cominciò a vibrare. Lo estrasse dalle
tasche e aggrottò la fronte.
“Chi è che
ti chiama a quest’ora?” domandò lei.
“Green Oak…”
sospirò l’altro, poggiando la tazza mezza piena sul bancone e voltandosi verso
la porta.
“A
quest’ora?” si stupì lei.
L’altro
annuì, sospirò e rispose.
“Dovreste
dormire, a quest’ora. O almeno potreste lasciare farlo a me”.
“Solomon! Dove ti trovi?!”.
“A casa mia.
Posso mostrarti le riprese live”.
“Delle tue telecamere di videosorveglianza me
ne faccio ben poco!”.
Il biondo
quindi sospirò e guardò sua madre. Lasciò che il suo cuore si calmasse prima di
passarle il telefono. Quella lo avvicinò cautamente all’orecchio.
“P-pronto?
Chi è che chiama mio figlio a quest’ora della notte? Lei è davvero Green Oak?”.
“Con chi sto parlando?”.
“Io sono
Neira Solomon. Sono la madre di Xavier”.
“Molto piacere. Dove vi trovate?”.
“A casa di
mio figlio, ad Amarantopoli”.
“Mi basta” concluse l’interlocutore. “Mi ripassi suo figlio, per cortesia”.
Quella annuì,
come se Green avesse mai potuto vederla, e restituì il cellulare a Xavier.
“Allora?”.
“Allora nulla, la tua copia è
spuntata nuovamente, e ha portato con sé la copia di Jasmine”.
Xavier
spalancò gli occhi, incredulo. “D-di Olivinopoli?! Jasmine di Olivinopoli?!”.
“Non ne conosco altre”.
Portò le
mani alla fronte e uscì dalla cucina. Cercava di ragionare, di collegare i
punti. “Credo che tutto questo si possa ricollegare a qualche evento in
particolare…”.
“Sono morti dei Capipalestra, stasera,
Solomon. Cerca di essere più preciso”.
“C-Capipalestra?
Sono morti dei Capipalestra?!”.
La voce di
Xavier traballò per qualche istante.
“E più conciso, per favore”.
“Non...
non…”.
“Lascia perdere. Non muoverti di lì per
nessuna ragione al mondo”.
E Green
attaccò, lasciando Xavier stupefatto e terrorizzato. Lasciò cadere la mano col
telefono lungo i fianchi e, dopo aver deglutito un groppone di sabbia, chiuse
la bocca ed espirò.
“Cindy…”
sussurrò incredulo. Si alzò e corse verso la porta, lasciando sua madre poggiata
allo stipite della porta, che lo fissava confusa.
Johto, Rovine
D’Alfa, Cortile Esterno
L’erba era
bagnata. Le passava attraverso le dita, mentre la pioggia le cadeva sul volto e
puliva quell’aria pregna di polvere, di sangue e disperazione. Blue cercava di
respirare a pieni polmoni, rimanendo abbracciata a quel sogno così vivido e
terribile, così bello e crudo.
Cercava di
non dimenticare il volto di sua madre prima del rapimento, né il calore che le
dava suo padre in ogni abbraccio.
E i volti di
Green e Red, da bambini.
Chiuse gli
occhi, provava a estraniarsi da quel posto, da quella situazione così atipica
in cui il cadavere di Raffaello giaceva a pochi metri da lei, accanto al corpo
ferito di Chiara. Provava a riempire le orecchie dei suoi respiri e del rumore
della pioggia che batteva sui tetti di pietra, isolando e annullando il pianto
di Jasmine, le urla di Valerio prono sui feriti, e le parole agitate di Green,
al telefono con qualcuno.
Tutto parve
rallentare, all’improvviso, in maniera paradossale. Sentiva ancora nelle narici
l’odore della stanzetta nel maniero. Percepiva ancora sulla pelle il freddo di
quell’inverno.
Non si
accorse che le lacrime si stessero mischiando alla pioggia, in quel momento.
Il freddo aggrediva
il suo corpo ma ormai non percepiva più nulla, in quella totale atarassia
emotiva e percettiva. Rimaneva immobile a fissare il vuoto, mentre il mondo
attorno a lei crollava.
L’ennesima
esplosione la raccolse e la costrinse a voltarsi verso la Sala 1: un grande
Gyarados fronteggiava un MegaSteelix. Guardò poi Jasmine, che come lei stava
analizzando la scena.
Aveva
abbassato lo sguardo.
Come se
avesse avuto realmente una qualsiasi responsabilità, in quella faccenda.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 1
Red cercò di
calmare i battiti del cuore, stringendo denti e pugni ed espirando il veleno
che aveva in corpo. Non doveva lasciarsi prendere dal panico, anche se l’unica
cosa a cui riusciva a pensare fosse il fatto che il corpo di Corrado giacesse
ormai sotto chissà quale lastrone di marmo.
Il sangue
gli ribolliva nelle vene. Non avrebbe fatto la sua stessa fine, ne era convinto.
Guardava il suo Gyarados, sentendone il respiro, che assomigliava più a un
rantolio sinistro. Esprimeva una ferocia senza pari, capace di instillare paura
anche nei più coraggiosi.
Ma non in
quella donna. Lo fronteggiava, sorrideva affascinata, abituata a quelle scene e
alla rabbia.
“Quel
Pokémon è semplice burro tra le mie mani” disse, mentre la pioggia la
battezzava. MegaSteelix pareva avere fretta di gettarsi contro l’avversario. “Non
è uno scontro pari. E io so che puoi renderlo un po’ più interessante...”
punse.
“Gyara, forza! Iper Raggio!” urlò Red, tirando indietro i capelli bagnati.
Conosceva la difficoltà della partita che stava giocando. Il suo assetto era
basso, piegato sulle ginocchia, dato che sapeva d’essere un bersaglio di quello
Steelix tanto quanto Gyarados.
Mentre la
notte stava per finire, mentre continuava a piovere, dalle fauci del Pokémon Atroce fuoriusciva un forte
raggio d’energia e la mente di Red si protese verso Yellow, al suo sorriso e al
profumo dei suoi capelli.
Era amore,
quello che provava. Tutto rallentò, non poteva morire. Il suo cuore parve
fermarsi per un attimo, quando vide la mano di Corrado uscire tra i detriti
grandi e piccoli del tetto crollato.
Pensò a
Jasmine. Aspettava fuori che il suo uomo uscisse, senza sapere che non lo
avrebbe fatto mai più. E Yellow probabilmente era lì, accanto a lei.
Deglutì
amaro. Non sarebbe successo lo stesso.
“Forza!”
esclamò rabbioso, mentre Gyarados colpiva un MegaSteelix totalmente immobile.
Incamerò il colpo indietreggiando poco più di un metro, impassibile. Red
spalancò gli occhi mentre l’Allenatrice avversaria rideva divertita.
“Non
funzionerà!”.
Alzò poi il
dito della mano sinistra verso il Pokémon che stava fronteggiando, mentre la
pioggia rimbalzava sull’indice e cadeva più giù, nelle vaste pozze di sangue
scuro. Red aspettava fremente la contromossa, con curiosità e paura che gli si
rimestavano nel fegato.
“MegaSteelix”
fece quella. “Schianto”.
Rapido, il
grande Pokémon si gettò con forza contro Gyarados, colpendolo in pieno.
L’altro, alto come una villetta a due piani, rovinò duramente lungo le mura di
recinzione a nord di ciò che ormai rimaneva della sala più grande. Red spalancò
occhi e bocca, impaurito. Il cuore riprese a battere più forte, mentre i
brividi di freddo cominciavano a farsi spazio nei muscoli scaldati
dall’adrenalina.
“Forza!”
urlò, vedendolo mettersi di nuovo in piedi. “Grande, campione…” sussurrò. “Mettiamolo
in difficoltà con un attacco Idropompa!”.
Jasmine si
tenne pronta, vedendo una tonnellata d’acqua venire sparata dalle fauci del
leviatano, compattata in una sola, unica e lunga colonna, che terminò dritta
sulla testa del suo Steelix. Questi finì schiacciato sul pavimento, dopo aver
emesso un ruggito gutturale e metallico.
L’acqua
raccolse le pietre, i detriti, la polvere e il sangue, e turbinò lungo i marmi
crollati, portando a galla i corpi senza vita di Corrado e dei Pokémon dei
Capipalestra, distruggendo persino la parete alle spalle dell’altare, già
indebolita dalle lotte precedenti.
Mentre Red
ebbe l’accortezza di saltare sul proprio Pokémon, Jasmine era rimasta immobile,
nonostante sapesse che la grande onda l’avrebbe travolta con forza, sbattendola
al muro. Quando si rimise in piedi anche il grande MegaSteelix lo fece, come
sorgendo dal mare.
“Gyara, bravissimo! Ora che è distratto
dobbiamo utilizzare Dragospiro!”.
Il leviatano
fu rapido, e finì per soffiare sull’avversario una fortissima fiammata blu,
costringendolo a indietreggiare ulteriormente.
Jasmine
sorrise, poi prese ad applaudire, e catturò lo sguardo dell’Allenatore. La
vedeva ferma, bagnata, con la treccia fradicia che le cadeva sulla spalla.
“Il Red di
quest’universo è davvero incredibile…” fece, cercando di asciugarsi le mani
sulla blusa, ancora più bagnata. “Nessuno era mai riuscito a resistere ai miei
colpi per tutto questo tempo… E il tuo Gyarados, poi! Nonostante sia così
grande è rapidissimo!”.
“Questo
perché il mio Pokémon è un campione”.
“Anche il
mio Steelix lo è. E sappiamo anche cambiare strategia. Usa Sganciapesi!”.
Non appena
le parole di Jasmine furono recepite, il corpo del Pokémon Ferroserpe perse parecchi pesanti blocchi che gli
gravitavano attorno, come alcune parti finali della coda, eliminando dal
bilancio complessivo quasi sei quintali.
“Attento, Gyara! Adesso sarà molto più veloce!”
urlò il suo Allenatore, saltando giù dal grosso Pokémon d’acqua, e finendo su
di un lastrone di marmo.
“Forza! Usa Frana!” ordinò Jasmine, perentoria.
“Un altro Dragospiro!”.
“Schivalo e
attacca!”.
Dribblò a
sinistra, Steelix, più leggero, e vide Gyarados sparare a vuoto. Veloce come
una biscia, si avventò contro il corpo lungo e affusolato dell’avversario.
“Ora!”.
La coda del
MegaSteelix si schiantò contro i detriti, che rovinarono addosso al Pokémon di
Red. Il colpo fu terribile e potente: Gyarados ricadde sulla sinistra,
sfondando anche il muro perimetrale di sinistra.
“No!” urlò
Red, impanicato, sentendo la sua voce espandersi tutt’intorno. Vide il suo
Pokémon steso inerme, tra la pioggia e la polvere, e il panico s’unì alla
rabbia in una danza terribile. Vide Jasmine sorridere, mentre batteva ancora le
mani.
“Beh,
bastava mettere la seconda, per batterti. Mi hai deluso. Non hai un altro Pokémon
da mandare in campo?”.
“Non
vincerai!” le urlò lui, di contro. “Le persone come te non possono vincere! Hai
ucciso delle persone! Cancellato da queste terre millenni di storia! Quelli
come te non dovrebbero mai essere nati!”.
“Oh… Anche i
falsi eroi sono piaghe da eliminare…”.
“Io non sono
un falso eroe!”.
“Tu non sei
neppure un eroe…” rise l’altra.
Red rimase
immobile, colpito da quelle parole.
“Io… io ho
semplicemente a cuore le sorti della brava gente”.
Jasmine
continuò a ridere, e a Red la cosa diede immensamente fastidio. Si abbassò
nuovamente sulle gambe, riprese forza e infilò la mano tra il collo e il
maglione, tirando fuori un ciondolo iridescente. Sospirò, abbassò lo sguardo e
annuì, poi, dopo un ultimo lungo respiro, tornò a guardare gli occhi ambrati
dell’avversaria.
“Tu non
vincerai mai, Jasmine”.
Johto,
Rovine D’Alfa, Cortile Esterno
Green aveva
fatto in modo che le operazioni d’intervento fossero effettuate nel modo più rapido
possibile, con il recupero della salma di Furio, aiutato da un Angelo ferito ma
ancora capace di camminare sulle proprie gambe. A nulla era servito il
sacrificio del Capopalestra di Fiorlisopoli: le tessere del mosaico erano state
rubate. Oak camminava come fosse posseduto, assicurandosi che tutti fossero in
salute, e che chi non lo fosse ricevesse un adeguato trattamento di pronto
soccorso. Tuttavia, i medici ancora dovevano arrivare.
Jasmine
infatti piangeva. Cercava di mantenere un contatto con le pupille di Chiara,
che però stentavano a rimanere scoperte.
“Le
palpebre... si chiudono... Jasmine... le palpebre si... chiudono...” ripeteva
la donna dai capelli rosati, stringendo tra le mani la grossa ferita sotto la
pancia. Il sangue le aveva inzaccherato dita, capelli e vestiti.
L’altra
sentiva il cuore esplodere, mentre la paura la divorava da dentro. Stava
effettivamente assistendo alla morte della collega, dell’amica. Guardò con
ansia le porte del varco che davano sul Percorso 32. Le labbra presero a tremare.
“G-Green.
Green! Diavolo, Green!” urlò, disperata. Gli occhi, del colore del miele,
avevano pianto tutte le lacrime che la bella aveva in corpo. Fissava Oak con le
labbra tremanti. “Green! Dove sono i soccorsi?! Chiara non ce la fa più!”.
“Hanno appena
lasciato Violapoli, Jasmine” rispose rapido l’altro, sfatto. Batté le palpebre
un paio di volte, mentre la pioggia si affievolì.
“Fa’
qualcosa!” urlò l’altra. “Sta morendo! Aiuto!”.
L’uomo
abbassò lo sguardo e cercò di non pensare, per un momento, a quella situazione.
Voleva casa sua, il divano, le pantofole, la sera calma e fredda e i noodles
per cena. Ma poi incrociò lo sguardo con Valerio, che intanto fasciava il busto
di Angelo, malconcio ma ancora vivo. Più in fondo vi erano le salme di Raffaello
e Furio.
“Quell’uomo
ci ha rubato la speranza…” sussurrò tra i denti, senza che nessuno lo sentisse.
Poi Blue si alzò in piedi, dopo un rumore forte e breve. Polvere e detriti si
sollevarono dalla Sala 1.
“Gyara è caduto!”.
Green
strinse i denti. Guardò ancora il volto di Jasmine, poi quello di Chiara, ormai
al limite della sopportazione di quel dolore infinito, e pensò a Red.
Non morire…
La sua donna
invece pareva molto più reattiva. Guardava il grosso MegaSteelix con la bocca
schiusa e gli occhi carichi di terrore. Si voltò impanicata verso Green e con
lo sguardo gli pose una domanda.
“Yellow”
ribatté lui, che aveva compreso. Catturò l’attenzione della biondina, che
intanto stava cercando coi suoi poteri di lenire il dolore dei Pokémon feriti.
Quella si voltò verso di lui col capo e gli fece cenno con la testa, come a
chiedergli cosa volesse.
“Percepisci
ancora Gyara?” domandò il Capo
dell’Osservatorio.
Il viso
della ragazza s’illuminò di paura, per un lieve istante. Spalancò la bocca,
come anche gli occhi paglierini, e si voltò in direzione della Sala 1. Blue la
guardava, studiandone ogni movimento.
“I-io… non…
non lo so…” sussurrò quella, preoccupata, abbassando le mani che intanto
stavano curando il Pidgeot di Valerio e lasciandole cadere lungo i fianchi.
Il cuore
batteva, la testa vagava. Nella sua mente turbinavano un miliardo di pensieri, tutti
negativi: vedeva Red disteso in una pozza di sangue, vedeva Gyarados dilaniato
dalla lotta, e poi sentiva la puzza della morte nelle narici. Pensava al fatto
che il suo uomo, l’uomo buono che aveva perdonato e che si stava impegnando per
farla sentire speciale, stesse rischiando la propria vita, e che fosse solo.
“Red…”
sussurrò ancora, afferrando le sfere e camminando verso quel mattatoio.
“Green!
Dobbiamo andare!” urlava Blue, seguendola, iperattiva.
“Dove cazzo credete
di andare?!” ribatté l’altro. Scattò verso di loro e le afferrò per i polsi, a
pochi metri dalla porta tagliafuoco.
“Red potrebbe
morire!” ribatté la castana dagli occhi blu. “Dobbiamo correre in suo aiuto!”.
Yellow
cominciò a piangere. Strattonò il braccio e si liberò dalla presa dell’uomo.
“Io non
voglio che muoia!” gridò.
“Non morirà”
sospirò Green. “Ma non voglio che siate voi a entrare lì. Rimanete qui e
aspettate i soccorsi, date una mano… Entrerò io”.
“Non se ne
parla!” ribatté Blue, liberandosi a sua volta. La lucidità mentale di Green era
poca, non riuscì a farsi valere e rapidamente accettò di farsi accompagnare
dalle due donne in quella missione suicida. Proprio in quel momento, però, un
ruggito magniloquente bloccò tutti e tre.
Alzarono gli
occhi, e tanto gli bastò per vedere un MegaGyarados fronteggiare il
MegaSteelix, autore di quella distruzione. Alle loro spalle, gli elicotteri si
avvicinavano.
Johto,
Rovine D’Alfa, Sala 1
“Ora
giochiamo alla pari!” aveva urlato Red. Vedeva l’ira del suo Pokémon trasudare
dalle grosse squame. I suoi polmoni non riuscivano a trattenere il respiro per
più di un secondo, col freddo che li bruciava dall’interno. Davanti ai suoi
occhi, il Pokémon Atroce esprimeva
aggressività dal profondo dei suoi occhi rossi. Sulla fronte fuoriuscivano tre
grossi corni neri, assieme alle squame, rosse e artigliate, che gli spuntavano
su tutto il corpo. I baffi s’erano allungati, aiutandolo a percepire le vibrazioni
circostanti.
“Carino”
sorrise Jasmine, sistemandosi il bordo della manica. “Ma a poco servirà, se
rompiamo la membrana che ha sulla schiena! Vai MegaSteelix! Usa Pietrataglio!”.
“Creiamoci
una bella barriera, Gyara! Con la
coda alziamo un muro d’acqua e poi congeliamolo!”.
E funzionò.
I massi taglienti si schiantarono su di una parete di ghiaccio rosso come il
sangue.
“Abbiamo un
po’ di tempo, Gyara! Usa Dragodanza!”.
“Abbatti
quella lastra di ghiaccio!” ribatteva l’altra. Non poté vedere l’avversario
fluttuare in aria e volteggiare elegantemente, temprandosi nello spirito e
risvegliando qualcosa d’insito nel suo animo. Quando MegaSteelix riuscì a
perforare il muro gelato l’ordine di Red fu perentorio.
“Ira!”.
E Jasmine si
fermò a ragionare. Era una mossa che non avrebbe dovuto avere tanto effetto sul
suo Steelix, Pokémon d’acciaio vivo.
Non aveva
molto senso.
“Stai cercando
di fare la stessa fine dei tuoi amici?” domandò divertita, vedendo Gyara attraversare la breccia creata dal
suo Steelix nel ghiaccio e gettarsi con l’intero corpo sul suo Pokémon.
MegaGyarados ruggì dolorante, e dopo qualche secondo urlò di nuovo, con
maggiore intensità. Si gettò a capofitto su MegaSteelix, che fu sopraffatto dal
suo peso, cadendo alle sue spalle, rompendo ciò che rimaneva del muro sulla
destra.
Il sangue
sul volto del Pokémon di Red ormai scorreva forte e un altro ruggito riempì
l’aria.
“Si sta suicidando?!
Sta dando delle testate su qualcosa di indistruttibile!” urlò la donna.
“Non
proprio” sorrise l’altro.
Infatti, fu
il terzo colpo, quello veramente forte.
Steelix
stava provando a sollevarsi di nuovo quando MegaGyarados scaricò un ultimo
attacco, più potente, dritto sul volto dell’avversario. Il tonfo fu assordante,
il ruggito del Pokémon di Red lo seguì subito, mentre si rialzava col cranio
fratturato e il sangue che gli copriva gli occhi.
Gli occhi di
Jasmine erano terrorizzati: aveva perso. Il suo Pokémon giaceva accanto a lei,
ammaccato e totalmente smembrato. La pioggia s’infittì, rendendole quasi
impossibile vedere l’uomo dagli occhi rossi. L’acqua le puliva il viso dalla
fuliggine e dalla polvere, assordava le sue orecchie, l’appesantiva e la
manteneva lucida.
“Ma… come
diamine…”.
“Ora faremo
così” fece Red, facendo rientrare il proprio Pokémon nella sfera. “Lui rientra,
per la tua incolumità. Tu invece t’inginocchi e stai buona, mentre la polizia
entra e ti arresta”.
Quella
parole la colpirono come proiettili di una sassaiola, ferendola nell’orgoglio.
S’era appena resa conto che lei, il
Generale di Ferro che aveva piegato Johto al suo volere, la donna che aveva
giustiziato le persone più pericolose del mondo, le più influenti, le più
intelligenti, avrebbe passato il resto della propria vita in una gabbia.
“Mai!”
esclamò, cominciando a correre. Scattò verso destra, saltando su di un lastrone
di marmo e poi sul successivo, con l’uomo che solo un secondo più tardi capì le
sue reali intenzioni.
“Non
provarci nemmeno!” esclamò, inseguendola. Era diretta verso la porta
tagliafuoco che conduceva sul cortile esterno. Nessuno dei due si sarebbe mai
aspettato che Green, assieme a Blue e Yellow, apparisse all’improvviso, chiudendole
la strada.
“Prendila!”
urlò quello dagli occhi rossi, vedendo Blue scattare repentina e colpire la
donna al volto con una gomitata. Quella, sbilanciata per la corsa, ricadde
nell’acqua sporca di sangue. Si sollevò lentamente, sputando il sangue che le
colava dal naso.
“Mangia
questo, adesso!”.
“Puttana…”
fece l’altra, a carponi.
Yellow la
vide Green tirarle un forte calcio nel fianco, che la fece ruzzolare a pochi
passi da lei. Si abbassò, poi, sollevandola di peso e ammanettandola con un
paio di fascette di plastica dura.
Red li
raggiunse poco dopo, col aveva il volto sporco di sangue; ansimava e i suoi
occhi erano stanchi. Doveva essere appena finita la scarica d’adrenalina dato
che cominciava a sentire il sonno che gli mancava.
“Non lasciartela
scappare” disse a Green.
“Corrado?”.
“Corrado è
morto”.
L’altro sospirò.
Blue guardava la donna che avevano arrestato ed espirò veleno.
“È identica
a Jasmine...”.
E non le
diede neppure il tempo di finire quella frase, che Green la sbatté contro ciò
che rimaneva di una delle quattro pareti, afferrandola per il collo. Mostrava i
denti, quello, quasi ringhiava.
“Tu adesso
parlerai. Dirai tutto. Per chi lavori?”.
Jasmine
guardò negli occhi Green, carezzò la stanchezza che provava e capì che aveva
ancora un modo per scampare a quella scena patetica. Guardò, a qualche metro da
lei, un tondino di ferro arrugginito che fuoriusciva dal muro.
E allora
capì.
Si morse le
labbra e sorrise.
“La mia
dignità conta più della mia vita”.
Fu un
attimo. Scattò verso sinistra, si liberò dalla presa di Green e fece
l’impensabile: gli occhi di Yellow si riempirono di terrore quando, subito
dopo, la vide gettarsi col volto verso quello spuntone arrugginito. Attraversò
l’orbita e le bucò il cervello.
Jasmine morì
quasi subito, appesa per la testa a poco più di un metro da terra, con le mani
legate dietro la schiena.
Il suo
sangue s’aggiunse denso a quello dei caduti di quel giorno.
Red guardò
immediatamente Yellow. Urlò come un’ossessa, prima che lui la prendesse tra le
sue braccia e la tirasse fuori di lì. Green e Blue rimasero immobili a fissarsi
negli occhi, prima che lei lo prendesse per mano e lo tirasse fuori da lì.
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