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TSR - 17 - Tessere del Mosaico

17. Tessere Del Mosaico


Johto, Rovine d’Alfa

I grilli frinivano, nel buio di quella notte appena nata.
Poche luci, fuori dalla grande Violapoli, qualche lampione qui e lì e rumori costanti nei punti dove l’erba era più alta. La carovana di Allenatori era guidata da Red e Yellow, che precedevano lentamente Sandra e Valerio, prima di Blue e infine Green, che chiudeva la fila.
Quest’ultimo aumentò il passo, affiancando la donna.
“Quindi? Che hanno detto, quei due?” domandò, mettendole una mano sulla spalla per catturare la sua attenzione.
“Xavier è a casa sua, con sua madre. Jasmine invece è ad Olivinopoli, al faro”.
“Ho bisogno che venga qui”.
“Già l’ho avvisata. Lei e Corrado saranno qui tra pochi minuti”.
“Meraviglioso...” sospirò Green. Il suo alito si tramutava in fumo e si disperdeva quando saliva in alto, sotto lo sguardo protettivo della luna e delle stelle. L’odore d’erba umida s’alzava ad ogni loro passo. Quando entrarono nel varco che precedeva le rovine, Yellow si voltò, come a chiedere conferma di poter proseguire.
“Andiamo?” domandò Red.
Sandra annuì, afferrando una sfera tra le mani, mentre Valerio rimase indietreggiò un attimo, spostando lo sguardo parecchio preoccupato.
“Che ti prende?” domandò Green.
“Ci sta aspettando l’addetto alla sicurezza, quello che ha visto le riprese delle telecamere… Ha chiaramente specificato che Jasmine, la Capopalestra di Olivinopoli, è entrata nella Sala 1 e ha ammazzato uno spazzino. Sapendo della situazione di Sandra...” si voltò verso la donna e poi la guardò negli occhi, previo non riuscire a sostenere il suo sguardo. “... beh, dovremmo stare molto attenti”.
“Hai fatto bene a chiamarci subito. Staranno ancora agendo” annuì Red, infastidito dagli occhi di Blue che lo scrutavano. Si sentì denudato da quello sguardo colpevole, tant’era vero che si voltò a controllare che Yellow non stesse guardando.
“Dobbiamo varare un piano d’azione” riprese Green. Valerio fece cenno di seguirli verso la parete di fronte al bancone del varco, che vedeva affissa una gigantografia della pianta delle rovine.
Il Capopalestra sospirò e quindi annuì. “La Sala 1, la Sala 2, la Sala Alfa e la Sala 7 contengono degli antichi mosaici. Staranno puntando sicuramente a quelli”.
“Dobbiamo dividerci” osservò Yellow.
“Sì” convenne Valerio.
“Gli altri Capipalestra sono in arrivo” fece invece Sandra, controllando il Pokégear. “Ho ritenuto opportuno avvertirli”.
Red la guardò e sorrise, teso. “Bene. Quattro gruppi per quattro obiettivi”.
“Blue, Yellow e Sandra si dirigeranno in una delle sale” ordinò Green, ignorando lo sguardo vacuo che la bionda consegnò alla Dexholder di Biancavilla. “Io e Red ci dirigeremo assieme in un’altra delle stanze e gli altri Capipalestra, compreso te, Valerio, si divideranno nelle due sale rimanenti. Comunicheremo tramite la radio del Pokégear, intesi?”.
Tutti annuirono. Red fu sinceramente colpito dalla scelta del ragazzo di fare coppia nella divisione delle strade; la prese come una possibilità d’apertura, quindi annuì, consapevole. Si accorse poi degli occhi di Blue, atti nuovamente a scrutare il suo volto. Incrociò il suo sguardo, poi notò che Yellow e stesse fissando proprio la donna.
“Tesoro” disse poi quello dagli occhi rossi, avvicinandosi alla sua fidanzata. “Stai attenta”.
“Anche tu” rispose quella, delicata come sempre. Si scambiarono un tenero bacio e si divisero, con gli uomini che proseguirono per la Sala Alfa e le donne che varcarono la soglia della Sala 7.


Rovine d’Alfa, Sala Alfa

Quella era la sala più grande. La luce della luna entrava da ampie finestrate dalle intelaiature in alluminio, costruite successivamente. La falce illuminava leggermente le pareti che si stagliavano sulla destra di Green e Red, lasciando quelle a sinistra totalmente buie. Quello dagli occhi verdi s’avvio lentamente, affondando i passi nella notte.
“Aspetta” fece Red. “Lascerò che Pikachu utilizzi Flash... Almeno ci aiuterà con la visibilità”.
L’altro si bloccò e si voltò, lanciando un’occhiata torva al partner.
“Non dobbiamo farci localizzare. Quindi niente luce e bocca chiusa”.
Il moro inarcò un sopracciglio. “Come vuole, generale...”. Seguì quindi il ragazzo e sospirò, notando la sua freddezza.
“Perché hai voluto che venissi con te, se a stento mi guardi in faccia?”.
“Silenzio, ho detto”.
“Non sei mio padre, rispondimi” rimbeccò quello, trattenendolo per la tracolla. Quello si voltò, sfidando il suo sguardo.
“Nonostante non abbia di te la benché minima considerazione non posso negare la tua abilità con i Pokémon. Io e te siamo più che sufficienti per controllare questa zona”.
Red avrebbe voluto sentirsi dire altro ma si limitò a sostenere per qualche secondo ancora il suo sguardo, prima che il volto di Blue entrasse di prepotenza nella sua mente e lo costringesse a ricordare la discussione che avevano avuto qualche ora prima.
“Avanza” disse a quello, lasciando la presa dalla sua borsa. Lo seguì a qualche passo di distanza, riflettendo su ogni possibile implicazione che la donna del suo amico avrebbe potuto creare.

Non sbaglierò di nuovo. Yellow è la donna che amo.
Io rimarrò con lei. Blue è un problema di Green.

Poi le immagini del suo petto nudo che danzava sotto ogni movimento del corpo riaffiorarono alla mente; sentiva ancora, Red, il rumore della pioggia che batteva sul telo della tenda che aveva montato quella sera di sei anni prima, l’odore dell’erba e del corpo bollente della donna dentro la quale era entrato. L’aveva posseduta, non completamente forse, per qualche attimo d’infinito che s’era impresso nella sua memoria come un marchio a fuoco, e aveva pagato per quel peccato, con la solitudine e il rimorso di chi aveva sbagliato e se n’era reso conto troppo tardi.
Lui aveva già pagato per via di Blue. Non sarebbe caduto di nuovo in tentazione, non avrebbe perso nuovamente la donna che amava per del sesso squallido e senza il piacere mentale che ne conseguiva. Ripensò però alle preoccupazioni di Yellow, e le collegò alle parole di Blue, che lo avvertiva del fatto che la bionda avesse avuto il coraggio di affrontarla e tagliarla fuori dalla sua vita. E quell’atteggiamento era figlio della convinzione che Red pensasse ancora alla fidanzata dell’amico di sempre.
E non era così, no.
La nuca di Green diventava il suo volto, soltanto per qualche breve secondo, quando si voltava velocemente a controllare che nessuno li seguisse.
“Avanza” ripeté Red, col cuore che batteva lento quando poi un rumore sinistro li allertò. Green bloccò il passo e Red finì per trovarsi accanto a lui. Il lungo corridoio era quasi terminato, lasciando spazio a un bivio e ad un grosso muro che correva lungo tutto l’edificio.
Green fece segno di aver sentito il rumore a destra e l’altro annuì, spostandosi rapidamente su quel lato. Aderirono rapidamente al muro che avevano a destra, con tutte quelle strane incisioni, raffiguranti Unown e geroglifici vari. Green s’abbassò sulle ginocchia mentre Red rimase in piedi.
Annuì. Li aveva sentiti. Vide l’altro contare fino a tre con le mani prima di annuire e mettere le mani alle sfere. Fece poi una capriola e gettò nel corridoio di destra, mandando in campo Arcanine.
“Copertura aerea!” esclamò, prima che Red chiamasse Aerodactyl. Corse al fianco dell’uomo dagli occhi verdi e guardò gli avversari: dapprima erano due, ombre nascoste nel buio disturbato dal bagliore lunare, ma sempre più voci presero ad accalcarsi al lato opposto del lungo corridoio.
“Ci stanno accerchiando…” digrignò i denti Green.
“Sono tanti, ma non troppi! Aero, cerchiamo di non rompere nulla, siamo pur sempre in un museo!”.
“Arcanine, pronto!” esclamò invece l’altro, in direzione del Pokémon Leggenda. Era così grande che quel corridoio apparve improvvisamente più stretto. “Non dobbiamo distruggere nulla. Stiamo attenti. Dobbiamo semplicemente mettere fuorigioco quella gente”.
“Hey, voi!” urlò Red. “Dov’è Jasmine?! Arrendetevi senza combattere ed eviteremo tutti di perder tempo!”.
“Attaccate” disse placidamente il primo figuro, più alto e muscoloso degli altri, stretto comunque all’interno di una mimetica grigia. La maschera antigas era abbassata sul volto e nascondeva il suo sguardo agli occhi dei due Dexholders. Sei sgherri, più minuti e gracili di quell’omone, avanzarono mandando in campo altrettanti Gengar.
Red guardò per un attimo Green, col volto preoccupato: era tutto veramente molto buio.
“Dobbiamo accendere le luci, Green, altrimenti saremo bersagli facili. Si muovono tra le ombre…” avvertì il primo.
“Lo so benissimo, cazzo. Ma non credo che ci lasceranno andare via per alzare gli interruttori”.
“Non ci sono neppure... Qui hanno ancora le lampade ad olio...”.
Green osservò a sinistra e, proprio a pochi da metri da lui, una fiaccola spenta d’ottone pendeva dalle pareti incise.
“Ho un piano, ma devi cercare di tenerli a bada”.
Red annuì e spostò un ciuffo di capelli dal volto, sorridendo. “Ma dovrai prestarmi il tuo Arcanine per un attimo”.
“Fai pure” fece, muovendosi lentamente alle spalle del partner, superandolo e avvicinandosi alla lampada ad olio.
“Arcanine! Facciamo un po’ di luce e cerchiamo di tenerli lontani! Lanciafiamme!”.
Il grande Pokémon del Capopalestra di Smeraldopoli rilasciò una grande fiammata, che andò a illuminare l’intero corridoio, costringendo i Gengar a sparire all’interno delle fughe dei muri, dove il fuoco non poteva arrivare.
“Trattienili, cucciolone! E tu, Green, non perdere tempo! Che stai facendo?!”
Due Gengar apparvero dall’alto, colpendo Aero e facendogli perdere qualche metro di quota.
“Aspetta, Red...” sussurrò quello, smontando la lampada. Ancora era presente, all’interno del serbatoio della fiaccola, olio profumato ed altamente infiammabile. Altri due Gengar apparvero alle spalle dell’altro Dexholder e gli afferrarono le caviglie. Red urlò.
“Oh! Aiutami, Green!”.
Aero, Levitoroccia!” urlò proprio quello, vedendo il Pokémon dell’altro staccare detriti appuntiti dal soffitto della volta delle rovine, che si sistemarono ordinati e pronti per colpire i nuovi avventori.
Green alzò lo sguardo, col volto illuminato dalle fiamme del proprio Pokémon, e lanciò il serbatoio della lampada pieno di combustibile verso le rocce affilate, che cominciarono a grondare olio.
“Arcanine!” ribatté Red, che intanto aveva capito il piano. “Spara il tuo fuoco verso le rocce in alto!”.
Un altro Gengar apparve proprio davanti a lui, e lo attraversò da parte a parte. Red urlò, provando una sensazione di gelo nelle ossa; si sentì inerme, immobile. Fu quando Arcanine eseguì l’ordine del ragazzo che le rocce diventarono immediatamente grossi focolari, luminosi e caldi come lampadari.
La luce si diffuse veloce lungo tutto il corridoio. Aero sbatteva le ali, a pochi metri dal capo di Red, ormai liberato dalla stretta degli avversari; questi ultimi, infatti, furono spaventati dalla forte luminosità e furono costretti ad indietreggiare, prima di ritornare ordinatamente davanti ai propri Allenatori.
“Benissimo” sorrise Green. “E un problema è risolto. Ora dobbiamo solo stenderli... Arcanine, avvicinati rapido ed usa Sgranocchio su quello di destra”.
“Aero! Vai in copertura e tieniti pronto!” ordinò l’altro, rimettendosi in piedi.
Il grosso cane s’avvicinò così velocemente all’avversario più isolato, quello sulla sinistra, da non dare neppure il tempo al suo Allenatore di urlargli qualche contromossa, e nel tempo d’un respiro le fauci fameliche s’erano chiuse e riaperte più volte su di lui. Infierì su quel Gengar con così tanta aggressività che una scia scura e fumosa lasciò il corpo dello spettro e si levò verso l’alto.
“Ottimo...” sussurrò Green, col volto illuminato dalle fiamme.
Fu Red il primo ad accorgersi di un secondo Gengar, evidentemente parecchio vendicativo, pronto ad avventarsi sul Pokémon del Ricercatore.
Ombrartigli!” ordinò ad Aero, e quello fu ricettivo e rapido, gettandosi in picchiata e afferrando con le zampe inferiori l’avventore.
Lo sbatté al muro accanto dilaniando l’avversario, smembrandolo in stracci d’ombra gelida.
“Non dobbiamo fare danni, Red”.
“Pardon”.
Arcanine aveva finalmente terminato di stringere con le mandibole forti il Gengar che aveva attaccato, lasciandolo per terra esanime.
“Ora passa al prossimo. Ruotafuoco”.
Il grosso cane saltò e s’arrotolò su se stesso, emanando le stesse calde fiamme che cadevano dal soffitto della grotta. Passò nel gruppo degli altri Gengar, i restanti quattro, colpendone uno e finendo per bruciare anche le mimetiche di due degli sgherri.
Aero, Dragopulsar!” ordinò invece l’altro, vedendo urlare i mercenari, due dei quali si allontanarono di corsa. I loro Pokémon furono colpiti, e reagirono con Palla Ombra. Le due sfere di buio andarono a segno, entrambe, facendo ruzzolare l’Aerodactyl del ragazzo sui marmi che calpestavano.
“Arcanine, copertura!” esclamò Green. Quello ascoltò gli ordini dell’Allenatore, rotolando in direzione del compagno di team e saltando proprio davanti a lui, ritornando a quattro zampe, basso e solido. Ringhiava aggressivo.
“Quell’uccellaccio ha quasi distrutto il pavimento” continuò Oak.
“Eh, lo so, non è un Pokémon leggero, questo… Rimettiti in volo subito, Aero!” esclamò fiducioso l’altro, vedendo poi il suo Pokémon spalancare le ali.
“Ottimo. Tu pensa agli altri due” fece Green, che poi allungò l’indice verso il proprio Arcanine. “Turbofuoco. Cerchiamo di limitare loro i movimenti”.
Una spirale incandescente prese a stringersi sempre più velocemente attorno ai due Gengar, aumentando la potenza del vortice in maniera sempre maggiore, finendo per colpire in più parti i già malandati avversari e mettendoli fuori combattimento. Green annuì, soddisfatto. Allungò poi lo sguardo verso Aero, vedendolo molto più in difficoltà.
Ombrartigli, di nuovo!” esclamava Red, vedendo il suo Pokémon picchiare verso il basso con le ali praticamente chiuse, mentre dalle zampe inferiori le grinfie venivano ricoperte da fumo nero e sinistro; affondò nel volto di uno degli avversari.
L’altro, invece, giocò d’astuzia, finendo per utilizzare l’attacco Ipnosi contro il Pokémon di tipo Roccia. Quello rovinò rapido per terra, dormiente e tranquillo. Entrambi i Gengar sghignazzarono e toccarono velocemente il corpo dell’Aerodactyl di Red, sparendovi all’interno.
Gli occhi del Pokémon, chiusi, si strinsero con forza, e poi ancor di più.
Incubo...” sospirò Green, avvicinandosi a Red. “Dobbiamo svegliarlo”.
Aero! Forza, sei nel bel mezzo di una battaglia!”.
Ma a nulla valsero i mille richiami dell’Allenatore: i due Gengar straziarono l’ormai addormentato Aerodactyl, finendo per mandarlo fuori combattimento.
Red s’accorse che nonostante la lotta si fosse conclusa in suo sfavore, i Gengar erano ancora lì pronti ad attaccare.
“Bastardi!”.
“Non sono nemmeno sicuro che tu riesca a liberartene se facessi rientrare Aerodactyl nella sua sfera…” osservò con calma surreale Green.
“Ora li sistemo io! Vee!”.
E dalla Pokéball uscì un meraviglioso esemplare di Espeon. Si muoveva sinuoso avanzando lentamente, in attesa che Red gli desse un ordine.
Psichico!”.
Gli occhi del Pokémon s’illuminarono e bloccarono alcune delle rocce infuocate che presero a cadergli addosso, per l’effetto di Levitoroccia.
Il corpo di Aero fu ricoperto dalla stessa patina azzurra, cominciando a fluttuare; Red vide le ali del proprio Pokémon aprirsi involontariamente e, qualche secondo dopo, i due Gengar furono spinti fuori dalla sua ombra. Espeon li stava colpendo con forza, Green se ne accorgeva dalle mimiche dei due Pokémon Spettro, sofferenti in viso, come se qualcuno li stesse combattendo dall’interno dei propri corpi. Vee li fece fluttuare a mezz’aria, a un metro da terra.
“Finiscili mentre li trattengo…” sospirò Red, facendo rientrare Aero nella sfera.
“All’americana...” sospirò l’altro, calmo. “Arcanine, Lanciafiamme”.
Alla fine rimase soltanto fumo scuro; i due Gengar erano spariti.
Non avevano più avversari.

*

Mentre Red fece rientrare il suo Espeon, Green decise di rimanere accanto ad Arcanine; tutti e tre presero ad avanzare verso l’ultimo scagnozzo, quello più alto.
“Levati dai piedi” suggerì il capo dell’Osservatorio.
“No” rispose l’altro, avanzando a sua volta. Il muro centrale, quello con le incisioni che raffiguravano gli Unown, era quasi terminato.
Solo quell’uomo era posto tra i due Dexholder e la fine della loro missione.
“Dimmi chi sei” tuonò nuovamente Green. I suoi occhi smeraldini erano ancora illuminati dalle schegge di roccia che dal soffitto donavano luce e un po’ di calore. Fissavano la figura massiccia dell’uomo: le grosse mani erano infilate in guanti scuri, uno di quelli stringeva una sfera.
Il volto era coperto da una grossa maschera antigas.
“No”.
“Sei tu il capo di tutta questa merda?” urlò ancora Green Oak, che intanto guardava attorno a lui tutte le possibili vie di fuga. Fu Red a vederlo sorridere, mentre si alzava la maschera.
“Io lavoro soltanto per me stesso” rispose divertito, mostrando il volto roccioso: aveva labbra grosse e carnose, circondate dal pizzetto, ben regolato, scuro ed elegante. Gli occhi, come quelli di Green, erano verdi e profondi, e fissavano i due ragazzi.
“Non vi lascerò passare” tuonò, con quella voce baritonale.
“Beh, hai due scelte...” faceva il più calmo Green, quando Red lo interruppe.
“Già! O ti levi di mezzo oppure ti levi di mezzo e ti riempiamo di botte!”.
 “Datti una calmata” lo redarguì l’altro.
L’ex Campione si voltò, sorpreso.
“Non hanno etica! Sono mercenari pronti a tutto!”.
“Lo so, ma questo è lo stile di Gold, non il tuo. Quindi ripeto, datti una calmata”.
“Stavano per ammazzare Aero! E dopo la sconfitta sono scappati tutti!”.
L’uomo in mimetica lo interruppe.
“Io non fuggirò” disse, staccando totalmente la maschera antigas e gettandola per terra. I riflessi ambrati del fuoco che lentamente andava a estinguersi doravano il volto olivastro dell’uomo, assieme a lunghi capelli ricci e neri.
Red sospirò e continuò ad ascoltarlo.
“Ho una mia etica. Sono stato pagato per lottare la battaglia di qualcun altro e lo farò, perché sono un uomo d’onore”.
“Stai lottando per il motivo sbagliato!” urlò il più impulsivo tra i due.
“Non m’interessa, Red di Biancavilla. Chi mi ha ingaggiato lo ha fatto aspettandosi che vi avrei fermato abbastanza da permettere che il colpo andasse a segno. E semmai dovessimo lottare lo farò, fino alla morte”.
“L’hai voluto tu...” sussurrò Red tra i denti, con la testa bassa e il ciuffo spettinato sulla fronte. Prese nuovamente la sfera di Espeon e lo mandò in campo.
“Vai, Gengar” ordinò invece l’altro, che dalla propria Pokéball lasciò uscire l’ennesimo esemplare del Pokémon Ombra.
Green inarcò un sopracciglio: gli aveva mostrato d’esser riuscito a fronteggiare sei Gengar contemporaneamente, si sarebbe aspettato più intelligenza, magari un avversario differente da combattere. Il grande sorriso dello spettro era visibile distintamente nel buio del corridoio. Il suo Allenatore poi tirò fuori dalla tuta mimetica un ciondolo che aveva attaccato al collo, guardò serio Espeon e Arcanine e alzò gli occhi verso i Dexholder.
“Megaevolviti!” urlò d’improvviso, con la voce che rimbombava lungo l’intera sala, corridoio dopo corridoio. Red digrignò i denti e guardò Green.
“MegaGengar...” sussurrò quest’ultimo, sorpreso e preoccupato. “Un Pokémon davvero temibile, Red. Hai Megapietre?”.
“Sì... ma non ora…”.
Quello dagli occhi verdi si voltò verso di lui e lo guardò corrucciato. “Che diamine starebbe a significare?”.
MegaGengar aveva ormai finito il processo d’evoluzione quando Red rispose.
“Che non posso usarla ora”.
“E perché mai?!”.
“Attento!” urlò l’altro, spingendo Green per terra quando un grosso attacco Palla Ombra li stava per investire.
“Non posso, in questo momento. Userò Espeon e...”.
E d’improvviso le rocce caddero tutte, spegnendosi.
Era buio.
“Porca puttana! Charizard!” urlò Green, chiamando in campo il suo primo Pokémon. La grossa fiamma sulla coda aveva donato colorito ai volti dei ragazzi ma sapevano benissimo che con un Pokémon che viveva nell’ombra tutto quello non fosse abbastanza.


Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile

Era freddo, il vetro della finestra.
Marina lo toccava con la fronte, che ormai era fredda. Gli occhi facevano fatica a rimanere aperti ma lei non poteva dormire, perciò si costringeva a contare le automobili che passavano davanti al porto civile, pronte per essere imbarcate.
A un certo punto cominciò a classificarle in base al colore: aveva contato, in tutto, sessantasette automobili bianche, per lo più Toyota e Nissan. Qualche Suzuki e pochissime auto tedesche. A lei non interessavano per nulla le auto ma a suo padre piacevano e, pur di farsi accettare da lui in quello strano periodo che era la preadolescenza, aveva finito per informarsi su motori e case di produzioni meccaniche.
“Lamborghini...” ripeteva suo padre. “Sono le più belle...”.
Lei sorrideva, annuiva. Del resto le interessava soltanto passare del tempo con lui, e quello le pareva un buon compromesso. Poi crebbe, capì che non valeva la pena cambiare, modificare la propria esistenza per un uomo, persino suo padre. Seguì la strada che s’era prefissata e si ritrovò Ranger ad Oblivia, prima di cambiare di nuovo idea e cominciare ad amare un uomo che aveva odiato, adattarsi alla sua vita e venire meno alle promesse fatte. Tutto per quel folle.
Tutto per Gold.
Si voltò, con l’elettrocardiogramma ormai stabile da parecchie ore, che singhiozzava sempre presente. Sospirò, non riusciva ad abituarsi nel vederlo steso in quel letto.
Non in quel modo almeno, così inerme e silenzioso.
Annuì, capendo che fosse quello il problema: il silenzio. Dove c’era Gold, il silenzio era sempre fuggito via, non compatibile.
“Che diamine...” sorrise amaramente la donna, avvicinandosi a lui. La mano di quello era stesa lungo i fianchi; gliela strinse.
“Io... io mi sento sola, amore. Per favore...” prese a piangere, per l’ennesima volta in quelle ventiquattro ore. “Per favore, m’inginocchierò per tutta la vita ai tuoi piedi ma, ti prego, svegliati!”.
Strinse le sue dita ancor più forte, sperando di sentirlo fare altrettanto, invano purtroppo.
“Ti prego! Svegliati!” urlò, piangendo ancora. “Ti prego...”.
E l’ultimo fu un sussurro.


Rovine d’Alfa, Sala 7

Rumori profondi e cavernosi s’alternavano a quelli delicati dei passi di Blue, Yellow e Sandra. Tutte stringevano tra le mani una sfera e camminavano radenti al muro di destra.
Il vento ululava, mentre la prima sgattaiolava nel buio della notte e analizzava la situazione, bassa sulle gambe. Il corridoio a destra era l’unica via percorribile, dato che si trovavano nella parte ovest dell’edificio. Si abbassò ulteriormente, quasi inginocchiandosi, lasciando le altre due leggermente perplesse, prima di annuire e voltarsi.
“Tutto libero, possiamo andare. Dobbiamo stare attente…” sussurrò Blue, nel silenzio. “Un uomo è morto e niente impedirà all’assassino di fare lo stesso di noi, se non apriamo le orecchie”.
Sandra annuì, quasi impercettibilmente.
“Hai ragione”.
Yellow rimase immobile, vedendo le due avanzare più veloci, lasciandola indietro di qualche passo. Fece per raggiungerla, quando poi qualcosa attirò la sua attenzione. Era solo una sensazione, un fruscio distante, come se il vento avesse attraversato una foresta immaginaria in cui era immersa.
Scacciò il pensiero e vide Blue stopparsi, subito dopo aver voltato l’angolo.
“Che succede?” domandò Sandra.
Quella dagli occhi blu indietreggiò, con gli occhi spalancati.
“L’avete visto anche voi?” domandò, turbata. Si voltò rapidamente verso Yellow e Sandra, che la seguivano visibilmente allarmate.
“Che cosa?” domandò la Capopalestra d’Ebanopoli. La raggiunse, vedendola bloccarsi.
Le sue pupille erano dilatate.
“Non... non avete visto la neve?”.
Sandra sentì Yellow affiancarla. Si voltò a guardarla e le fece segno di no.
“Non c’è nulla” rispose, incrociando le mani sul ventre. Blue la guardò, confusa e impanicata, e per la prima volta da quando la conobbe, la donna dai capelli castani riconobbe qualcosa che nello sguardo dell’altra non aveva mai visto: sufficienza.
Sussultò.

Cos’è?! Non mi crede? Non crede che io abbia visto nevicare?

“Ti sarai impressionata” aggiunse Sandra.
Blue si fermò, ben conscia d’essere giusto nel corridoio di una struttura piena di nemici.
Guardò poi gli occhi celesti della Capopalestra e aguzzò l’udito.
Passi.
“Ecco!” bisbigliò. “Li sentite?! I passi!”.
“No…” ribatté Yellow, fredda. “Non sentiamo nulla”.

Mi sta provocando.

Le parole della bionda risuonavano nella testa della Dexholder, sostituiti poi dal rimbombo baritonale che stava ascoltando. Decise di imbracciare il coraggio come un fucile e afferrare la sfera di Blasty, per poi avanzare più velocemente.
“Fermati!” bisbigliava Sandra alle sue spalle. “Finirai per farti catturare!”.

*

Blue non si rendeva conto di come la luce della luna s’espandesse, riempiendo di luce bianca il pavimento. Percepiva il freddo aumentare, e un vento gelido prese a soffiarle sul volto, pizzicandole la pelle delle guance. Allungò la mano, toccando la parete al suo fianco. La superfice di tufo era ruvida al tatto
Si morse il labbro e strinse gli occhi.

E poi si accorse di avere le caviglie immerse nella neve fredda.

Batté le palpebre diverse volte e deglutì. Non capiva, anche se quella sensazione le pareva familiare. Grattò con le unghie sul muro, ma quello era diventato improvvisamente un albero, dalla corteccia nodosa. Davanti a lei era tutto bianco: era in una radura.
E vedeva, davanti a lei, il profilo sorridente di una bambina, che correva goffamente nella neve.

Quella…

“Non mi prendete!” urlava la piccola, gioiosa. Aveva lunghi capelli scuri, macchiati qua e là da fiocchi candidi. Blue decise di avvicinarsi lentamente, guardandosi attorno e non vedendo altro che le montagne sullo sfondo e gli alberi che formavano un anello verde attorno a quella distesa piana.

Quella bambina...

Alle spalle della piccola s’avvicendava una coppia di adulti, un uomo e una donna, sorridenti come lei, atti ad inseguirla.

Non... non può essere…

Guardava la dolce famigliola a più di trenta metri, nascosta dalle fronde di un abete rigoglioso: l’uomo, molto magro, portava un paio di doppi occhiali, tenuti stretti alla testa tramite le cuffie invernali che indossava, azzurre. I capelli neri erano ben pettinati all’indietro. Fu lui a inciampare e a scatenare il sorriso della donna, la moglie, magra, stretta nel suo piumino. Aveva i capelli castani, molto lisci.
La bambina le somigliava molto.
“Papà è caduto!” urlò quella, voltandosi e mostrando a Blue il volto: una finestrella aperta tra i denti mostrava la lingua in quello che era un grande sorriso. Gli occhi, azzurri come il mare, rilucettero nel candore diffuso dell’ambiente, sporcato solo dai vestiti dei tre e dai tronchi scuri degli alberi che li circondavano. La piccola si avvicinò a loro, lanciando palle di neve.
“Smettila, Blue!” urlò la madre.

Quella sono io.

Blue, quella adulta, rimase immobile. Guardava la scena con la bocca semischiusa e lo sguardo fisso sui tre.

Ricordo.

Una volta, suo padre la inseguì e finì per inciampare. Si stava divertendo, e sarebbe stato il momento più bello di tutta la sua vita, se non fosse stato per quello che sarebbe successo pochi secondi dopo. Mai avrebbe dimenticato il terrore in cui si era tuffata quando il flebile sole fu oscurato da una grossa ombra, che andava ad ingrandirsi mano a mano che i secondi passavano.
Nonostante fosse soltanto spettatrice sentiva ancora nelle sue arterie il mix d’adrenalina e paura che le aveva percorso l’intero sistema nervoso. La bambina che aveva davanti non si aspettava minimamente ciò che le stava succedendo.
Non si era resa conto della grossa ombra che l’aveva sovrastata. E neppure i suoi genitori, certo. Blue però lo sapeva, e magari avrebbe potuto urlarle di nascondersi, di andare via di lì.
Avrebbe potuto anche correre verso di lei e tirarla via, ma lo vedeva; Blue vedeva quell’enorme uccello dal piumaggio rosso, dalla coda gialla e dal lungo becco appuntito, e il cuore le era saltato in gola.
Aveva paura.

No…

Ed era la stessa paura che aveva provato quando, tanti anni prima, Ho-Oh l’aveva presa tra le zampe e l’aveva portata via. La stessa paura che aveva provato quella versione di lei, bambina e ingenua, mentre gli artigli le stringevano il petto e le laceravano il cappottino, sollevandola e portandola via. La vedeva urlare terrorizzata, la vedeva piangere.


Blue ricordava quegli artigli, freddi e nodosi, che le stringevano il corpo con tenacia. Ricordava il vento sul viso quando aveva superato le nuvole, ricordava quel freddo che le strappava le lacrime dal collo. Ricordava la vita che aveva passato per via di quella faccenda.
Il cuore le si fermò, quando vide gli occhi dei suoi genitori, spegnersi, accendersi, incontrarsi.
Impallidirono, prima di urlare e cominciare a correre.
Successe prima che si disperassero: affondarono con le ginocchia nella neve, rendendosi conto della loro impotenza. Cominciarono a urlare contro il cielo.
Sua madre era quella più distrutta. Sul suo viso c’era l’espressione di chi avesse appena perso tutto.
Sospirò, Blue.
Fu forse il volto di sua madre a convincerla a prendere di petto quella situazione e a stringere ancor più forte la sfera di Blasty.
“Inseguilo!” urlò, salendo sul grosso carapace del Pokémon. Aveva paura, ma i suoi genitori la guardarono stranita, con le lacrime agli occhi. Le urlarono qualcosa ma quella non riuscì a sentirli dato che, proprio in quell’istante, Blastoise utilizzò i suoi cannoni come propulsori e lei sparì via, lasciando che l’acqua sciogliesse la neve che s’era depositata su quel prato maledetto.

*

“Blue… Blue!” esclamò Sandra, scuotendola per un braccio, mentre la vedeva immobile a fissare il vuoto. Yellow la raggiunse rapida, passandole una mano davanti al volto.
Guardò preoccupata la Capopalestra e sospirò.
“E ora cosa le prende?”.

*

Non avrebbe mai potuto volare alla velocità di Ho-Oh, Blue, lo sapeva, ma Blasty riuscì lo stesso a non perderlo di vista. Si diressero lontani da Biancavilla, superando con non poca fatica il massiccio del Monte Argento. Vide dall’alto quello che doveva essere il paese dei Domadraghi e poi oltre, Mogania, nella sua antica monumentalità. La sorpassarono, le acque del Lago d’Ira venivano cullate dal vento che acuiva i pizzichi del gelo. Sorvolarono per diversi chilometri il bosco a nord di Johto fino a quando, su di una piccola collina, Blue vide ergersi il maniero.
Quell’orribile incubo era nuovamente davanti ai suoi occhi.
Atterrò abbastanza lontana, per non essere vista. Era tuttavia in grado di osservare il grosso Pokémon scendere a terra e posare la piccola se stessa nella neve.
Maschera di Ghiaccio aspettava in piedi, davanti alle porte aperte della sua fortezza.
La piccola Blue aveva paura, quella grande aveva una smorfia di sdegno sul volto.
Lo vedeva, stretto nel suo mantello nero e lungo, alto e con quella fluente chioma candida che danzava sospinta dal vento. Una grande maschera copriva il suo volto. Una simile nascondeva anche i visi dei quattro bambini che aveva accanto.
“Piccola Blue...” disse quello, muovendo un passo. Subito dopo fece cenno al grande uccello di volare via e quello eseguì, lasciando che l’aria spostata dalle sue ali investisse la schiena della nuova arrivata.
La piccola, dal canto suo, era terrorizzata: il volto era pieno di lacrime, alcune erano riuscite a raggiungere la mandibola e pendevano come stalattiti, finendo per cadere sul piumino rosa, stracciato durante il volo. S’era sporcata, lei, con le zampe del grande uccello arcobaleno.
Tuttavia rimaneva immobile, a guardare quell’uomo avvicinarsi.
“Benvenuta nella tua nuova famiglia” concluse quello. Le carezzò la testa, facendola rabbrividire in un modo che la sua controparte, quella già adulta e nascosta diversi metri indietro, ricordava ancora. Si voltò verso la più alta dei tre. Lunghe ciocche, di quell’indaco chiaro, cadevano morbidi sulle spalle esili. In qualche modo sapeva che sarebbe stata chiamata in causa.
“Karen” tuonò. “Portala dentro e falle vedere qual è la sua camera. Dopodiché lasciamola tranquilla fino a questa sera, per ambientarsi. Voi altri, venite con me”.
Si voltò e andò via, seguito dagli altri tre bambini mascherati, lasciando le due da sole. La nuova arrivata guardava Karen mentre, ferma, aspettava che la situazione si calmasse ulteriormente.
“Ciao, Blue” fece, sistemando meglio la maschera sul viso. Le tese la mano e afferrò il guantino mezzo sfilato della piccola dagli occhi pieni di lacrime. “Dammi la mano ed andiamo dentro... La tua stanza è molto carina”.
Per la donna nascosta dietro agli alberi fu un tuffo al cuore: rivivere le stesse scene che avevano condannato a morte la normalità della sua vita, per quanto effimera e noiosa sarebbe potuta essere, fu dolorosissimo. Dopo che le due ragazzine sparirono, Blue, la grande, si mise in marcia verso il maniero, cercando un modo per penetrarvi. Pensò al fatto che rientrare in quel luogo non le avrebbe procurato nulla di buono, sia nel cuore che nella testa; tuttavia doveva riuscire a cambiare la sua vita, permettendo almeno a quella versione di se stessa di non fare le stesse stupidaggini, di non diventare una ladra senza speranza, di non abbandonare Green e di non credere che i suoi genitori avessero finito per abbandonarla. Doveva salvarla, portandola via da quel posto.
Avanzò con passo celere e si ritrovò davanti al grosso portone, in legno ornato da ferro battuto, a proteggere quella costruzione assai antica di mattoni in pietra, trasformata in collegio per bambini che il suo tetro proprietario riteneva idonei per i suoi scopi. Solo in quel momento Blue si rese conto d’esser stata osservata e studiata, prima del suo rapimento effettivo. Rabbrividì, pensando al fatto che un uomo o, anche peggio, uno di quei bambini avesse osservato tutta la sua vita dall’esterno delle finestre di casa sua, guardando sua madre mentre stirava e suo padre mentre leggeva il giornale.
Non rimase ferma oltre davanti al portone, decise di defilarsi e di accedere dalla destra della fortezza.
Proprio da dove era fuggita diversi anni prima.
Stava ancora decidendo se agire in modalità Tank o utilizzare quella Stealth, quando ormai era davanti alla piccola botola. Prima d’accedervi però vide un piccolo Hoothoot saltellare ai piedi di uno degli alberi, e si bloccò nel guardarlo. Fu allora che decise di lanciargli una sfera e di catturarlo, riponendo poi la Pokéball all’interno della sua borsa. Tornò alla botola, l’aprì e ignorò la zaffata d’umido che raggiunse le sue narici; s’immerse nel buio, saltandovi direttamente all’interno.
Sapeva che sarebbe atterrata dopo un paio di metri in quello che era il corridoio nascosto del maniero.
“Silenzio...” disse a se stessa, aderendo ai muri ammuffiti.
Nonostante i bambini con la maschera fossero soltanto sei, Maschera di Ghiaccio aveva rapito numerosi altri ragazzini, che popolavano il grosso castello e gli erano utili per le faccende pratiche più effimere. Quelli con la maschera rappresentavano l’élite. Raramente quelli senza maschera superavano l’asticella, facendo strada ed entrando nel gruppo degli esecutivi col volto celato.
Soltanto Karen c’era riuscita. Lo ricordava ancora, lei aveva cominciato dalla cucina; successivamente era diventata la peggiore tra i galoppini di Alfredo.
Alla fine del corridoio c’era la grande libreria semovibile, che dava direttamente nelle camere private di Maschera di Ghiaccio. Il grosso mobile era su rotelle, non ebbe alcun problema a spostarlo.
Nel farlo, però, si rese conto di dover essere più cauta. Buttò un occhio prima di uscire allo scoperto, aderendo nuovamente al muro.

Il cuore batteva forte.

L’ultima volta che era entrata in quella camera aveva in mente soltanto la sua voglia di libertà. Batté un paio di volte le palpebre e si ritrovò a respirare profondamente. Pensò che dovesse andare velocemente via di lì. Rapida, legò i capelli in una coda e poi avanzò, facendo attenzione che nessuno s’avvicinasse. Uscì dalla grande camera, ritrovandosi nel corridoio principale, quello in cui fu inseguita dai suoi confratelli il giorno in cui lei e Silver fuggirono.
Lo ripercorse al contrario, veloce, col respiro frammentato e il cuore che saltava un battito ogni volta che un ricordo le sovveniva alla mente. Aveva passato così tanto tempo in quel luogo da riconoscerla un po’ malinconicamente come la sua casa. Ricordava ogni posto, ogni anfratto, ogni nascondiglio, ogni buco più sicuro per sfuggire alle sfuriate dei fratelli più grandi e dell’uomo mascherato. Più di tutto ricordava le tante persone, Blue, la prima volta in cui fu portata da Karen all’interno della sua camera.
Avanzò. Arrivata alla fine del corridoio c’era la sala centrale. Lì non avrebbe potuto far nulla per dissimulare la sua presenza, né per giustificarla.
“Devo creare un diversivo...” sospirò, prendendo la sfera del Pokémon che più volte aveva utilizzato in quel modo.
Ditty... già sai cosa fare...” fece, lanciando per terra la sfera del suo Pokémon. Aspettò pazientemente che quello mutasse il proprio colore per poi trasformarsi velocemente in un enorme esemplare di Gyarados. Il suo ruggito fu terribile e spaventò tutti i presenti che, voltati verso la nuova minaccia, non videro Blue sgattaiolare al piano superiore, dove Karen aveva parcheggiato la nuova bambina, chiudendola a chiave nella propria stanza per evitare che fuggisse.
Nascosta dietro a un angolo, la vide poggiare la mano sulla porta e battere due volte.
“Ora non ho tempo per mostrarti ogni cosa, c’è un’emergenza! Ma verrò non appena sarà tutto a posto! Stai tranquilla!”.
“V-Va bene...” aveva detto l’altra, con la voce più spaventata che avrebbe potuto avere in quel momento. Sorrise, la Blue grande, pensando al fatto che in futuro avrebbe dovuto sostenere stress e prove di forza ben maggiori d’un semplice Gyarados. Pochi secondi dopo, una giovanissima Karen le sfilò davanti, senza accorgersi minimamente di lei.
Quando fu sola accelerò velocemente verso la sua stanza e staccò una forcina dai capelli per forzare la serratura.
Non le ci volle molto. Aprì la porta, vedendo la piccola se stessa che aveva raccolto le ginocchia tra le braccia nell’angolo del letto, nascondendo il volto dietro il cuscino. La camera che la proteggeva dal mostro era uguale a come la ricordava: piccola, con una finestra in alto protetta da doppie sbarre d’acciaio e mura color grigio canna di fucile. Una semplice lampadina nuda illuminava fioca l’ambiente, lasciando che il marrone del legno dell’armadio, accanto alla porta, e del piccolo scrittoio, risultasse quasi nero. Sentendo la presenza di qualcuno, la bambina alzò la testa, scontrando lo sguardo celeste con quello identico dell’avventrice.
E subito dopo associò a quel volto quello di Silver.

Se adesso la porto via Silver non si salverà...

“… t-tu… chi… chi sei?” domandò la bimba, mentre le lacrime le riempivano le rime degli occhi. “Non... non farmi male...”.
Blue sorrise dolcemente e chiuse la porta. “Tranquilla, non ti farò nulla. Sono qui per aiutarti”. Si sedette poi accanto a lei, lentamente. “Sono venuta per parlare con te”.
L’altra abbassò leggermente il cuscino dietro il quale si nascondeva e la fissò in volto, profondamente. “Assomigli alla mia mamma… Dov’è la tua maschera?”.
“Io non ho alcuna maschera, piccola Blue. Ora però dovrai ascoltarmi attentamente...” faceva quella, inginocchiandosi sullo scomodissimo materasso, che rispose lasciando cigolare le molle. Le prese le mani e instaurò un contatto visivo assai profondo: riusciva a sentire la sua paura, assaporando l’incertezza che lei stessa aveva provato quando, quel nefasto giorno, fu portata in quel castello buio.
“La tua mamma e il tuo papà stanno bene e ti amano, a loro non è successo nulla. Tuttavia non sanno dove ti trovi e questo li ha fatti preoccupare parecchio. Non finiranno mai di sperare che tu possa tornare a casa, quindi non dimenticarti mai di loro e del fatto che vogliono che torni con tutte le loro forze. Prima di fare questo, però, è necessario che impari a sopravvivere in questo posto, altrimenti Karen e gli altri ti faranno fuori in men che non si dica… mi ascolti?”.
Prima di continuare aspettò che l’altra annuisse.
“Ottimo. Devi fare ciò che vogliono. Non ti verrà fatto nulla di male ma imparerai a combattere con i Pokémon, a sfruttare il loro potenziale per ottenere tutti i tuoi obiettivi. Imparerai il pensiero laterale... lo sfrutterai per risolvere situazioni spigolose...”.
“Cos’è il pensiero laterale?” domandò l’altra.
La grande sorrise, carezzandole la testa. Alzò gli occhi, cercando di riportare alla mente qualche avvenimento della sua infanzia che non fosse successo attorno a quelle mura.
“Ti ricordi quando sei andata con la mamma e il papà all’Altopiano Blu, a vedere la Lega Pokémon? C’erano tante auto e siamo rimasti bloccati nel traffico. Ecco, il pensiero laterale è come se, mentre tutti sono bloccati nel traffico, noi avessimo raggiunto la Lega attraverso un’altra via, meno trafficata”.
“Quindi... è pensare in un altro modo?” chiese quella.
Blue sorrise ancora. Si reputava dolcissima, a quell’età. “Esattamente. Bravissima, hai capito. Io e te siamo sveglie...” fece, carezzandole la testa e spettinandole la frangetta sulla fronte. “Imparerai a fare anche altre cose che, tuo malgrado, non vorrai sapere: capirai come raggirare una persona, come truffarla. Come ammazzarla... T’insegneranno tutto loro. Io voglio però che tu stia attenta a ognuna delle persone con la maschera... Non dovrai fidarti di nessuno di loro. Nessuno tranne Silver”.
La piccola se stessa sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di capire.
“Chi è, Silver?”.
Quella grande non se lo lasciò ripetere due volte. “È un bambino, proprio come te, anzi, più piccolo, che arriverà qui tra qualche tempo. Lui è il figlio d’una persona molto importante che farà di tutto per riaverlo con sé. Dovrete fare sempre gioco di squadra, tu e lui… Silver sarà il ragazzino mascherato più piccolo, e perciò sarà preso di mira. Soprattutto da Karen e Pino. Tu cerca di proteggerlo, è molto sensibile e quest’avventura gli rimarrà impressa nella mente per tutta la vita”.
“Silver...” ripeté Blue, la bambina.
“Esatto. Poche settimane e sarà qui. Sarà proprio Maschera di Ghiaccio a metterti in coppia con lui, perché siete i più piccolini... Fate tutto ciò che vi viene detto e non finirete per morire. Intesi?”.
“V-va bene”.
La grande allungò l’orecchio, per sentire i versi di ferocia del suo Ditto, riuscendo a percepirli ancora: aveva altro tempo.
“Bene, poi che altro… Ah! Alzati da lì” fece. Vide la bambina eseguire e farsi da parte, verso l’angolo opposto della minuscola stanzetta, accanto all’armadio. Quella grande invece spostò rapidamente il letto, mostrandole il muro alle sue spalle, fatto di mattoni.
“Ecco. Stasera, quando ti daranno da mangiare, ruba un cucchiaio. Una volta tornata in stanza, comincia a scavare, proprio in questo punto” le disse, indicando la fuga tra due grossi mattoni. “C’è una piccola camera d’aria, oltre queste pietre, e tu dovrai scavare di notte per aprirti uno spazio abbastanza lungo da far entrare te e Silver. Lui è alto un po’ meno di te”.
“Scavare...” ripeté la piccola, come annotandosi tutto.
“Sì, scavare, piccola” sorrise l’altra. “E poi ti daranno una maschera, come quella di Karen. Non la devi mai levare. Anche Silver. La potrete levare solo quando sarete nel vostro nascondiglio, qui, dietro il letto”.
Rimise il materasso al proprio posto e tornò a sedervisi sopra con l’altra. “In più so che sarà dura, ma non devi avere paura degli uccelli. Sei stata afferrata da quelle zampe enormi, da quel Pokémon così grande... Anche io non sapevo come combattere questa paura... Ho dovuto sbatterci la testa contro, e tutt’ora non sono riuscita ad abituarmici. Però... Ecco, se imparerai ad amare i Pokèmon volanti, tra qualche anno potresti addirittura diventare la Campionessa della Lega. Capisci che bello?”.
Vide la bambina sorridere.
“Eh?” continuò. “Ti piacerebbe?”.
Annuì debolmente, lei. “Ma...” parlò. “Per diventare Campionessa dovrò uccidere delle persone?”.
Blue chiuse gli occhi ed abbassò il volto. Capiva che per una ragazzina fosse un argomento delicatissimo. Ricordava nei suoi occhi la paura della gente che aveva giustiziato suo malgrado in quel maniero e tutte le volte che li aveva pianti, scusandosi col cielo e chiedendosi perché quella cosa fosse accaduta proprio a lei.
“No” concluse. “Non dovrai uccidere per diventare Campionessa. Lo dovrai fare perché altrimenti sarai tu a essere uccisa. Sarà dura abituarsi a questo pensiero ma rimani sempre positiva e ricorda sempre che tu hai un valore. Non farti mai annullare da quelle persone con la maschera. Tu sei migliore di tutti loro messi assieme, non dimenticarlo mai. E anche Silver. Per diventare Campionessa dovrai rispettare te stessa e gli altri e diventare una brava persona. Dovrai usare le tue abilità e dimenticare la tua paura per i Pokémon Volanti. A tal proposito...” sospirò lei, infilando la mano nella borsa.  Fu da lì che tirò fuori la sfera dell’Hoothoot che aveva catturato qualche minuto prima.
“Questo è tuo. È un Hoothoot, un Pokémon piccolo e molto carino. Nonostante sia un uccello non dovrai avere paura di lui. Ti vorrà sempre bene e ti proteggerà”.
La piccola annuì. Vide la grande nascondere la sfera sull’armadio e proseguire con il proprio discorso. “Non appena sarete lasciati liberi di catturare i vostri Pokémon, nel giardino del maniero, potrai dichiarare di averlo catturato e smettere di nasconderlo. Per il resto stai attenta, riponi tutto qui su e nessuno lo troverà. E poi c’è la parte più importante: la fuga”.
“La fuga?!” spalancò gli occhi quella.
“Sì. Tu e Silver fuggirete da qui, tra diversi anni. Utilizzerai il tuo Jigglypuff per aiutarti nella fuga e ti troverai nella camera dell’uomo mascherato. È importante che una volta lì tu riesca a rubare due strumenti molto importanti, tenuti in una teca di cristallo sulla sua scrivania. L’uomo si troverà nella stanza, sarà parecchio malato e quindi non vi ostacolerà, ma fate attenzione. Infine dovrete spostare una libreria a rotelle e correre fino a che non raggiungerete il lato esterno del maniero. Poi vi dileguerete. Ora vado, Karen potrebbe tornare da un momento all’altro”.
“Non posso venire via con te, ora?” ribatté subito.
Blue, quella grande, fu aggredita da quella domanda come fosse una raffica di proiettili. Perse le forze, rimanendo inerme allo sguardo di se stessa.
Fece cenno di no.
“Tu... tu devi proteggere Silver. Lo devi salvare, lui è molto importante, lo devi voler bene come il fratellino che non abbiamo mai avuto. Capito?”.
Gli occhi della bambina, di quel blu profondo come l’oceano, si riempirono di lacrime. Il suo viso mutò rapido, disfacendo quella struttura labile che ancora teneva insieme le sue espressioni, rovinando in una disperazione più che comprensibile.
“Non piangere…”.
“Perché non posso andare via?!” esclamò, alzando la voce e aggrappandosi ai vestiti dell’altra. “Voglio tornare dalla mia mamma! A casa mia!”.
Il pianto prese a rigarle il viso.
“So che è dura…”.
“Non voglio uccidere nessuno!”.
“Non potrai fare nulla per evitarlo, senza venire uccisa” disse l’altra, stringendola e carezzandole il capo. “Devi stare attenta. Ma, ascolta bene, una volta che fuggirete, non dividetevi subito… Lui vorrà sicuramente vendicarsi di Maschera di Ghiaccio, ma cerca di dissuaderlo, e andate a Biancavilla. Ruba un Pokédex, lo farai molto facilmente, e anche uno Squirtle, ti servirà. Ah, e poi corri subito nel Settipelago, a Secondisola, e chiedi alla vecchia Kimberly della mamma e del papà, perché ti aiuterà a ritrovarli…”.
La piccola Blue si asciugò il volto e sospirò.
“L-li… li ritroverò?”.
A quel punto fu la donna a crollare nel pianto, dove grosse lacrime presero a colarle sulle guance.
Annuì.
“Sì, tesoro. Sì, andrà tutto bene. La mamma e il papà ti amano e ti aspettano. E tu sarai fortissima, la più forte… Viaggia, divertiti, impara. Incontrerai l’uomo della tua vita, non lo tradire e amalo sempre, e lui farà lo stesso con te. Non fargli del male… Lui non merita questo dolore…”.
La piccola annuì.
“È... è tutto chiaro?”.
La Blue del passato annuì nuovamente.
“Se fai come ti dico andrà tutto per il meglio. Ora devo veramente andare”.
Le si avvicinò e la strinse in un caldo abbraccio, poi le baciò la fronte e le sistemò la frangetta, prima di uscire dalla stanza rapidamente, lasciandola lì da sola.
Scese le scale a due a due e prese la sfera di Ditty, facendolo rientrare, mentre i ragazzi mascherati stavano fronteggiando la minaccia.
“E ora...” disse poi, prendendo la sfera di Blasty. Il grosso Pokémon uscì e caricò i cannoni d’acqua, piazzandosi davanti al portone d’ingresso. “Idrocannone, Blasty!”.
La porta si sfondò, come se fosse fatta di compensato. Fuggì verso l’orizzonte, Blue, direzione Biancavilla.


 Johto, Rovine D’Alfa, Sala Alfa

“Non vorrei ricordarti che non è il momento per mantenere stupide convinzioni!” esclamava Red, indietreggiando velocemente. Davanti a lui una tremenda Palla Ombra esplodeva nel pavimento, alzando detriti e polvere. La coda di Charizard illuminava a malapena il lungo corridoio e MegaGengar si nascondeva nel buio, lasciando che a riaffiorare fossero i suoi occhi spiritati di sangue, assieme al sinistrissimo sorriso.
“Non possiamo fare altrimenti, Red! Non possiamo distruggere le Rovine D’Alfa!”.
“Non mi pare che quel tipo si stia facendo i nostri stessi scrupoli!”.
I due si guardarono, quell’attimo che bastò alle loro iridi di scambiarsi l’idea, l’intesa di come avanzare.
“Charizard, Incendio” sussurrò Green, vedendo Red scappare rocambolescamente verso il corridoio adiacente e stendersi per terra. Fu in grado di vedere, dal muro davanti a sé, soltanto una grande quantità di luce illuminare a giorno i mattoni d’arenaria che cingevano tutta la struttura.
Incendio...” sussurrò quest’ultimo, dopo un sospiro. Si rimise in piedi velocemente. “Il solito esagerato...”.
Raggiunse nuovamente il corridoio accanto, vedendo Green col volto corrucciato e le mani strette attorno a uno strano bracciale che portava al polso.
“Cagasotto” ribatté quest’ultimo.
“Che diamine vuoi fare?!”.
“Megaevolviti, forza”.
Dal bracciale sul polso del Dexholder venne emessa una luce accecante, che assalì totalmente il suo Charizard. Quello finì per completare lo stadio dell’evoluzione raggiungendo la forma Y: corpo assottigliato, cranio aerodinamico e potenza di fuoco devastante, mentre un paio d’ali ai polsi gli permetteva di mantenere la stabilità in volo e di aumentare la velocità.
“Fai Megaevolvere qualcuno e combattiamo, Red! Non perdiamo tempo, sono preoccupato per Blue!”.
“Non posso far Megaevolvere nessuno! Non qui, almeno! Non ora!”.
“Ma che cazzo significa?!” esclamò l’altro, profondamente irritato. Si voltò per un attimo, prima di vedere l’avversario inginocchiarsi.
Smog!” esclamò quello, rapido, attivando la maschera antigas.
“Oh, porca...” sospirò Green, indietreggiando.
Vee!” chiamò Red, vedendo il suo Pokémon ancora fermo accanto a lui, in atteso di ordini. “Devi riuscire a contenere psichicamente il fuoco e il veleno! So che sei in grado di farlo!”.
Espeon avanzò e i suoi occhi furono rivestiti di quell’energia che avvolgeva anche il suo corpo. Le fiamme tutt’intorno furono come risucchiate da una sfera d’energia che s’era andata a formare al centro del corridoio, e assieme a quelle anche il gas velenoso.
Green digrignò i denti e sospirò. Red invece aveva lo sguardo concentrato.
“Mantienilo…” sussurrò Oak, basso sulle ginocchia. “E tu, Charizard, mettilo fuori combattimento con un rapido Lanciafiamme”.
“Attento”.
“Sì, attento” ribadì Green, vedendo il suo Pokémon accelerare in maniera esponenziale, falciando l’aria con le ali e raggiungendo l’avversario in meno d’un secondo, fino a trovarselo di fronte.
Doppioteam!” urlò il mercenario, ordinando al suo Pokémon di sdoppiarsi in tante versioni  di sé.
“Odio i Gengar...” sospirò Green, vedendo il suo Charizard aprire il fuoco su tre copie fittizie. Subito dopo l’uomo in mimetica grigia batté due volte le mani e le versioni, tutte, s’abbatterono sull’avversario, colpendolo con incredibile forza da tutti i lati con un Pugnodombra.
“Ma è impossibile!” esclamò Red. “Le altre copie dovrebbero essere incorporee!”.
Charizard accusò il colpo ma si rimise in piedi velocemente.
“Gengar è un ammasso d’ombre, Red” spiegò Green. “Ha diviso la propria potenza in parti uguali in ognuna delle copie, tramite il pavimento”.
Gli occhi di Red puntarono le braccia del Pokémon avversario: affondavano nel pavimento, interamente ricoperte da quel fumo scuro e sinistro.
“Sono stanco e il tempo è poco...” sospirò quello dagli occhi rossi, ulteriormente illuminati dall’ammasso di fiamme e smog che galleggiava al centro del corridoio. “Vee... Psichico su quel Pokémon. E Charizard, bracca quell’uomo, non farlo muovere”.
Il felino fu tempestivo e letale, strappò MegaGengar dal pavimento, con tutte le sue versioni, e lo spinse con terribile violenza al centro della sfera che teneva sotto controllo; lo sforzo non fu indifferente: il piccolo Pokémon, difatti, era basso sulle zampe e ben concentrato, con l’energia psichica che lo avvolgeva e che rendeva tutto incredibilmente disordinato.
Al centro di quella sfera, MegaGengar non poté far altro che subire la potenza dell’incendio causato da Charizard, finendo vittima peraltro del suo stesso attacco velenoso. Il campo di forza si restringeva, aumentando sempre più la pressione e creando infine una grossa esplosione. MegaGengar finì per tornare un Gengar, prima d’evaporare come fumo nero.
Red guardò Green, che intanto fissava le pareti danneggiate della sala Alfa; avanzavano entrambi verso Charizard, che teneva spinto verso la parete il mercenario.
“La prossima volta faccio io da supporto, allora...” sorrise a mezza bocca il Dexholder dagli occhi verdi. S’accostò al suo Pokémon e colpì con forza il volto dell’uomo, con ancora indosso la maschera antigas. Quello ricadde per terra, a carponi, dolorante.
“Ora proseguiamo e...”.
Il Pokégear suonò rumorosamente, rimbombando lungo le pareti ormai bruciate del corridoio.
Era Valerio.
“Qui Green Oak” rispose.           
“Dovete correre immediatamente nella sala 1! Jasmine sta attaccando tutti!”.
“Cosa?! Che diamine stai dicendo?!”.
“Jasmine! Jasmine sta attaccando tutti! Chiara è ferita gravemente e Raffaello è morto. Gli altri non li vedo!”.
“Che diamine stai dicendo?!” subentrò Red, stringendo la sfera di Vee tra le mani.
“Non capisco più nulla!” si lamentava. “Qui siamo rimasti soltanto io, Jasmine e Corrado, dietro a un mezzo muro crollato!”.
“Aspetta” interruppe Green. “Non hai detto che Jasmine vi stava attaccando?”.
“No, non quella Jasmine... Ci servono rinforzi!”.
“Nella Sala 2, invece?” domandò Red.
“Non so un cazzo della Sala 2! Fate presto!” urlò, e poi un’esplosione tremenda lasciò che la conversazione s’interrompesse.
Red e Green si guardarono fissi negli occhi, prima di sospirare. Il secondo diede un forte calcio allo scagnozzo, ancora sul volto, mettendolo totalmente fuori combattimento.
“Ora non ci darà più fastidio. Dobbiamo dividerci. Andrai tu nella Sala 1 mentre io avanzerò per controllare che questa stanza sia libera. C’incontreremo lì, farò presto”.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7

Blue volava su Jiggly come se fosse una mongolfiera. Era più in alto delle fredde nuvole e si riscaldava soltanto col pensiero di poter incontrare i suoi genitori.
Voleva rassicurarli su quanto successo poche ore prima.
Non sapeva per quale motivo ma non appena rivissuta la scena del suo rapimento un istinto atavico di protezione verso se stessa l’aveva portata ad inseguire quell’enorme Pokémon uccello. Ricordava alla perfezione, mentre il vento gelido le passava tra i capelli, quella sensazione d’abbandono a se stessa che provò qualche minuto dopo essere entrata in quell’enorme maniero. Non fu piacevole per una bambina imparare le leggi della vita così in fretta, né capire che non ci sarebbe stata più sua madre oltre la porta della sua camera, ma solo luridi strozzini pronti a riprendersi, al primo errore, il poco che le avevano dato.
Con gli interessi.
Non un padre amorevole seduto sulla poltrona a leggere il giornale, ma un boia mascherato pronto a mostrare il pollice verso appena possibile.
Carnefici.
E si facevano chiamare famiglia. Pensò a se stessa da bimba, Blue, e capì che dovesse aiutarsi. Forse sarebbe cresciuta più pulita e meno maliziosa.
Biancavilla era lontana qualche chilometro ma la vedeva in lontananza, oltre le nuvole d’ovatta che piangevano neve.

*

“È quasi un minuto che non risponde, Yellow... Che dobbiamo fare?!”
La bionda guardava Sandra, cercando di rimettere a posto le idee. Fissava il volto di Blue, immobile davanti a lei, catatonica, con lo sguardo proiettato verso il vuoto e le pupille totalmente fisse, immobili. Era come ipnotizzata. Si permise di spingerla vedendola lentamente perdere l’equilibrio, per poi ricadere pesantemente tra le braccia di Sandra.
“Ma che diamine...” esclamò la Domadraghi, spostando con una mossa della testa la coda di cavallo dalla spalla.
“C’è qualcosa che non va” osservò la Dexholder. “C’entra quasi sicuramente un Pokémon...”.
S’abbassò, mettendosi a carponi e osservando gli angoli; cercava qualcosa, un bagliore, una presenza, anche solo un respiro che potesse tradire la mano di qualcun altro.
Ma quando non vide nulla, decise di agire.
Coi propri poteri, espanse la sua voce verso chi poteva sentire la sua mente.

“Per favore! Mi serve aiuto! Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?!”.

Acuì le proprie percezioni, cercando di inviare il proprio messaggio quanto più lontano possibile ma temeva che quelle vecchie mura potessero schermare le sue onde mentali.
“Che dobbiamo fare?” domandò Sandra, poggiando Blue per terra.
Nessun Pokémon aveva risposto a Yellow. Forse anche loro erano in un’illusione.
Capì.
“Dobbiamo trovare questo Zoroark”.

*

Non sapeva per quale motivo fosse ritornata a casa, Blue.
Si trovava in una Biancavilla di più di vent’anni prima, dove il cemento ancora non aveva aggredito i boschi attorno alle case. Era atterrata poco lontana dall’Osservatorio, dove nessuno avrebbe potuto vederla. Fece rientrare Jiggly nella sfera e sospirò, affondando con le caviglie nella neve. L’aria lì era pulita.
Più pulita.
E quella familiarità le piaceva molto, era ritornata ai giorni in cui la testa sulle spalle non pesava. Casa sua non era lontana da lì, allungando lo sguardo la vedeva, con il tetto di tegole rosse e le persiane celesti serrate. I suoi genitori dovevano ancora tornare. Probabilmente avevano chiamato la polizia e allertato chiunque.
Sospirò. Già sapeva che non l’avrebbero trovata.
Immaginò l’ansia e la paura che doveva aver assalito nei giorni successivi al misfatto i suoi genitori, e quasi si sentì in colpa per non aver riportato la piccola se stessa indietro. Ma poi il volto del piccolo Silver le apparve davanti agli occhi, in un flash che la riportava immediatamente coi piedi per terra.
Non poteva abbandonarlo.
Sospirò, camminando lentamente, prima di vedere un più giovane Samuel Oak dirigersi sulla cima della collina, stretto nel lungo cappotto di pelle scura. Indossava un borsalino dello stesso colore e manteneva sotto al braccio un quotidiano arrotolato. Gli sfilò alle spalle, vedendolo voltarsi e fissarla per un attimo di troppo. Raggiunse poi la piazza del paesino, dove un paio di signori corpulenti e vestiti pesantemente gettavano sale sulle strade. Qui e lì la neve sporca diventava acqua e finiva per defluire nei canali di scolo.
Quella pulita, invece, raccolta nei prati e nei giardini delle villette, diventava pupazzi e palle di neve a servizio dei tanti bambini che si divertivano. Era domenica, lo ricordava, le scuole erano chiuse e tutti i ragazzini si erano riversati nelle strade dopo l’abbondante nevicata della notte precedente. Blue camminava, vedendo le luci accese nelle case. Ne traeva calore.
Lì tutto era calmo. L’ansia della vita che pressava, il senso di colpa delle scelte sbagliate, la paura della fine, tutto era distante, lì.
Ferma, nel crocevia del paese, si voltò a fissare nuovamente l’Osservatorio, confondendo il fumo grigio che fuoriusciva dal comignolo con l’alabastro delle nuvole che sovrastava tutto.
Ricordò che non passava molto tempo coi ragazzini del paese, non ne conosceva praticamente nessuno, dato che viaggiava spesso coi suoi genitori durante i loro viaggi. Tuttavia, quel giorno, ne riconobbe uno: aveva i capelli neri, lucidi, corti sulla nuca ma spettinati davanti agli occhi rossi. Spesso li allineava sulla sinistra, alti sulla fronte, ma correndo e lanciando palle di neve ai suoi amici finivano sempre per coprirgli lo sguardo.
“Red…” sorrise, immobile, vedendolo sfilarle davanti, seguito da un piccolo Poliwag, che saltellava nella neve fredda. Sentendosi chiamare, il ragazzino si fermò e la guardò, interdetto.
Sul suo viso si leggeva bene che non conoscesse la donna che aveva davanti.
“Ciao” gli disse poi Blue, inclinando leggermente la testa.
Lo sguardo del bambino si spostò verso le sfere che portava alla cintura, per poi tornare a fissarle gli occhi blu.
“C-ciao…” titubò, aggrottando le sopracciglia. “Come conosci il mio nome?”.
Blue annuì. I due non si conoscevano.
Non ancora, almeno.
“Sono amica di… tua madre. Come sta?”.
“Bene… è a casa con papà”.
“Papà?!” esclamò quella, spalancando gli occhi, sorpresa. “Tuo padre?!”.
Al contrario suo, Red pareva naturale. “Sì. Mio padre. Tu non ce l’hai?”.
“S-sì, io sì… ma…”.
“Perché me lo chiedi?”.
Blue sospirò e sorrise. Doveva calmarsi.
“Sono solo curiosa” disse, arruffandogli il ciuffo. “E che mi dici? Vai a scuola?”.
“Sì, ma mi scoccio…” sbuffò quello. Mosse un piccolo passo indietro, portando le mani umide ai fianchi. Gli occhi della donna si fermarono dapprima sulle gambe bagnate dei suoi pantaloni, e poi sulla figura del piccolo Poliwag che lo seguiva fedele.
“È tuo, vero?” gli domandò, abbassandosi e accarezzando il Pokémon. Quello guardava schivo la nuova arrivata. “Diventerà molto forte, se lo allenerai…”.
“Già lo faccio!” esclamò, spalancando gli occhi. “Tutti i giorni! Ha imparato anche a sparare le bolle!”.
Blue ridacchiò, pensando al fatto che quello sarebbe diventato uno tra i Pokémon più forti dell’intera nazione. “Non finire mai di allenarti. Sarai un grande Allenatore e vincerai anche la Lega Pokémon”.
“Lo so! E lo farò prima di Green!” s’arrabbiò lui, annuendo convinto. “Come lo odio, quel tipo!” fece infine, stringendo i pugni e suscitando l’ennesima risata nella ragazza, che annuì.
“Parli di Green Oak, vero?”.
“Sì! Quel testone!”.
“Imparerai a volergli bene, col tempo…”.
“Ma neanche per idea!” esclamò alterato. “Io lo odio, quel tipo! È così… antipatico!”.
“Dov’è, adesso?” chiese poi la donna, alzando il collo e cercandolo tra i ragazzini che correvano attorno a loro, urlando e tirandosi contro palle di soffice neve. Lo sguardo di Red si nascose per un attimo dietro le palpebre, poi tornò a fissare l’interlocutrice, prima di sospirare profondamente.
“Era andato verso la spiaggia... Dice che vuole catturare un Dewgong o un Cloyster, per diventare più forte di me…” aggrottò la fronte. “Ma io e Poli siamo più forti di lui e di quell’odioso Charmander…”.
“Verso la spiaggia, dici?” disse Blue, voltandosi verso la via che scendeva a sud, tagliando in due il complesso residenziale costruito appena una decina di anni prima. “Mi ci vuoi accompagnare?”.
Red avvampò violentemente, poi abbassò lo sguardo. “S-sì… Ma facciamo presto, mia mamma non vuole che io vada lì da solo…”. Blue, che aveva capito, si limitò ad afferrargli la mano e a cominciare a camminare in direzione sud. Passarono lentamente davanti alla casa della ragazza, ancora chiusa, dove la neve aveva cominciato ad accumularsi sul prato e sul profilo dello steccato. Il vialetto era da spalare, era una cosa che a suo padre non piaceva fare, e che sua madre gli rimproverava sempre.
Era una coppia particolare, quella tra i suoi genitori, composta da due persone estremamente diverse, accomunate però dall’amore che provavano per la loro bambina. Sospirò, si voltò a guardare il paesino, pensando che fosse davvero bellissimo. Biancavilla era una bomboniera, una perla tra le valve di boschi e montagne, baciata dal mare.
La gente lì era cordiale e spontanea, tutti si conoscevano tra di loro e la pace sembrava qualcosa di talmente statico e tangibile da non poter mai essere messa in discussione.
Blue aveva bisogno di Biancavilla, soprattutto in quel periodo della sua vita.
Girarono attorno alla collina e si ritrovarono a distanza la spiaggia innevata, baciata dalle onde placide che sussurravano educate la loro omelia. Un ragazzino dai capelli castani era immobile sulle sponde, con le braccia conserte e la schiena dritta.
“Eccolo lì…” sussurrò Blue, sorridendo. “Ti disturbiamo?!” urlò, a una ventina di metri di distanza. Quello si voltò, fissandola, e sbuffando, prima tornare a fissare la spuma sulla battigia.
Calciò la sabbia, alzandola in alto e facendola portare via dal vento.
“Non ci ha sentiti, forse…” sussurrò Red, avvicinandosi.
“Ci ha sentiti eccome…” ribatté invece Blue, ma il ragazzino aveva già cominciato a correre verso l’altro dagli occhi verdi.
“Green, sei il solito maleducato! Questa ragazza vuole conoscerti!”.
L’altro si voltò nuovamente, fissando il più vicino e sbuffando.
“Non la conosco” rispose scontroso, proprio come lo conosceva lei, che non poté fare a meno di sorridere. Gli si avvicinò, con lo sguardo vivo, e gli tese la mano.
“Piacere. Mi chiamo Blue”.
L’altro guardò la mano e la spinse lontana.
“Non voglio conoscerti. Va’ al diavolo”. Si voltò poi dall’altra parte, faticando nella neve, facendo per ritornare verso il paese. La donna guardò Red, confusa.
“Già gli ho fatto qualcosa di male, per caso?”.
L’altro fece spallucce e sospirò. “E oggi sembra essere calmo… generalmente è peggio”.
“E perché?”
“È nervoso, ecco: domani partirà per Johto... andrà da un Capopalestra, non ricordo come si chiama, per imparare la disciplina e calmarsi...”.
“Furio...” sussurrò Blue, sospirando.
“Sì!” esclamò l’altro. “Furio! Come lo sapevi?!”.
“Ho tirato ad indovinare...”.


 Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile

“Mari...” sentì la Ranger.
Era poggiata col volto sul letto di Gold, gli stringeva la mano mentre la notte sembrava essere scivolata velocemente verso il suo cuore più profondo. La donna aprì gli occhi lentamente, guardò il volto del suo uomo e sperò che i suoi occhi aurei fossero spalancati e vividi, gioiosi come sempre, accompagnati dal grosso sorriso che sempre lo aveva contraddistinto.
Invece dormiva.
“Mari...” ripeté qualcuno, poggiandole la mano sulla spalla. La donna alzò lo sguardo verso l’elettrocardiogramma e notò che non vi fosse alcun cambiamento nelle condizioni del battito. Gold sembrava stabile. Guardò l’orologio, aveva riposato mezz’ora in quella posizione scomoda, solo per potergli stare accanto. Si voltò lentamente e vide suo fratello col volto stanco.
“Devi andare a riposarti, cara sorellina mia...”.
Scosse il caschetto castano, la Ranger, in segno di negazione. “Non se ne parla.... Non posso allontanarmi da qui…”.
“Non ti permetterò di distruggerti in questa stanza, da sola. Altea sta bene, domani la riaccompagnerò a Capo Piuma, ma fino ad allora rimarrò qui in ospedale. Starò io qui a vegliare su Gold. Tu vai a riposarti…”.
Martino la sollevò di peso dalla sedia e la strinse in un abbraccio. “Stai tranquilla. Ma hai bisogno di mangiare e dormire. Domattina per le dieci potrai tornare a stare vicino a Gold”.
“Non mi allontanerò, Martino, puoi dire quello che vuoi ma...”.
“Forza. L’hotel Fiori D’Arancio è qui vicino e ti permetterà di non stare lontana. Dai... non farmi preoccupare”.
Marina abbassò gli occhi e sospirò. “Non voglio che si svegli e non mi trovi qui...”.
“Lo colpirò personalmente per farlo riaddormentare, in quel caso”.
Il fratello maggiore riuscì a donarle un barlume di sorriso prima che la stanchezza e lo stress l’assalissero di nuovo .
“Alle nove sarò qui”.
“Dormi un po’, riposa. Ti servirà, credimi” sorrise quello. Si sedette al posto della sorella e fissò il volto dell’uomo, poco prima che Marina gli desse un casto bacio sulla guancia e si dileguasse, un po’ più tranquilla.

La Ranger uscì velocemente da quell’edificio e s’incamminò stretta nel proprio cappotto verso l’albergo. Aveva indosso ancora i vestiti che aveva utilizzato quando aveva lottato contro Lugia, e necessitava d’un bel bagno caldo, combinata a una dormita in un letto vero.
Il check-in fu rapido, diede il proprio nominativo e mostrò la tessera Ranger,  quindi l’accompagnarono rapidamente alla camera 206. Entrò e subito aprì la porta del bagno, quindi riempì la vasca con acqua caldissima, dove s’immerse totalmente, per poi addormentarsi, nel tepore dei fumi del vapore. Si risvegliò infreddolita un paio d’ore più tardi, si asciugò in un morbido accappatoio e si avvolse nelle coperte, ricadendo tra le braccia della notte, preoccupata e sfinita.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7

“Prendile la testa”.
“Poggiala per terra”.
Sandra s’abbassò lentamente, s’inginocchiò e lasciò che il capo della donna toccasse delicatamente il pavimento delle corridoio. Yellow si guardava attorno, guardinga e preoccupata, scattando con la testa a destra e a sinistra a ogni rumore, repentina.
“Che c’è?” domandò la Capopalestra di Ebanopoli, rimettendosi in piedi.
“Dobbiamo stare attente. Blue è stata vittima di un’illusione” rispose. Si voltò verso la sventurata e la vide che i suoi occhi fossero semiaperti, atti a fissare il vuoto.
Anche Sandra la guardò, coi lunghi capelli che le danzavano sulle spalle a ogni movimento del capo. Inerme, pareva che la vita le fosse fuggita via attraverso le labbra. La cosa la fece rabbrividire.
“Odio gli Zoroark!” esclamò quella.
“Sono semplici Pokémon, come tutti gli altri. E come tutti gli altri sono succubi delle volontà degli Allenatori. Purtroppo non tutti hanno buone intenzioni come noi”.
Videro d’improvviso il pavimento mutare; Sandra si stava accorgendo che il marmo ai loro piedi stesse prendendo le sembianze delle doghe di legno che c’erano in casa di suo nonno.
“Yellow...?” la chiamò.
“Sì, lo vedo anche io, il prato, qui per terra”.
“Prato?!” si voltò. Yellow era in quella stanza del tutto buia, con solo il pavimento di legno a risaltare. “Qui non c’è nessun prato!”
“Dammi la mano” rimbeccò l’altra.
“Io non vedo prati!” s’allarmò. “Questa è casa di mio nonno!”.
Yellow cercò alle sue spalle la Capopalestra, percependola. Tuttavia gli alberi che aveva davanti erano così reali da darle la parvenza d’esser veramente in quel bosco.
Se lo sentiva: si trovava all’interno del Bosco Smeraldo.
“Non dobbiamo perdere il contatto con la realtà, altrimenti finiremo come Blue...” fece, mettendo una mano sulla Pokéball..
“Lo so” diceva quella, abbassando lo sguardo. Poi si perse.

*

Tutto era così tangibile da farle dubitare della propria capacità d’intendere la realtà. Osservò se stessa entrare dalla porta, quasi vent’anni prima, con quell’acconciatura a maschietto, cerulea e spettinata. Riconobbe sulle sue guance lo stesso colorito che vedeva allo specchio al mattino, ma il suo sguardo era piegato dal pesante confronto con suo cugino Lance, più grande di qualche anno e suo idolo da quando era ancor più piccola. In famiglia era il più amato. Lei s’abbeverava della sua luce riflessa e finiva per esser travolta dagli sguardi dei capifamiglia che si chiedevano come mai una donna fosse all’interno del Concistoro dei Domadraghi.
“Ma come…” sussurrò, immobile, nascosta in quello che le pareva essere il vecchio armadio dove suo nonno teneva appesi i mantelli. Nessuno aveva percepito la sua presenza, né la versione di se stessa del passato, stretta in quel mantello oltremodo grande per le esili forme d’una bambina di non più di dieci anni, né quella di suo cugino Lance, adolescente, appena entrato nella camera delle riunioni con il solito sguardo sprezzante d’ogni cosa, quasi disinteressato.
Sandra, quella grande, osservava la scena in cui suo cugino le si era avvicinata; non era mai stato aggressivo nei suoi confronti, anzi, aveva assunto un atteggiamento di manifesta superiorità verso il mondo intero e ciò lo costringeva ad adottare l’etica del difensore dei più deboli.
Reputava Sandra meno forte di lui, quindi la proteggeva. E anche la Capopalestra d’Ebanopoli, nella sua versione adulta, si reputava meno abile del più celebre cugino ma nel suo cuore fluiva l’orgoglio di chi non aveva mai mollato; sapeva di non essere un’Allenatrice scarsa, in confronto agli altri Domadraghi era superiore in tutto e per tutto.
Del resto aveva superato in bravura il suo stesso padre, e di conseguenza quello di Lance, entrambi tra i più grandi Domadraghi di tutti i tempi. Il suo papà era una forza della natura: alto, bello, potente, disciplinato, era stato l’orgoglio dell’intero clan e aveva finito per gettare ombra su tutti gli altri elementi, suo fratello compreso.
E suo fratello era il padre di Lance.
Aveva circa quindici anni quando s’era resa conto che essere figlia di suo padre fosse un peso non indifferente, date le alte aspettative che nutrivano tutti nei suoi confronti: tutti s’aspettavano da lei che ripetesse fedelmente le gesta del padre. Ma poi c’era Lance, il nuovo pupillo d’Ebanopoli, contro cui non poteva assolutamente competere, nonostante suo padre fosse il più forte in assoluto. Lance aveva quella cosa, quel segreto, quella capacità innata che lei non possedeva e che segnava nettamente la differenza.
Lo vide avvicinarsi a lei, sorridendole e arruffandole il ciuffo ceruleo ben pettinato.
“Ciao, piccoletta”.
“Ciao Lance” le aveva risposto quella, con la voce da bambina. Lo guardava smontare il mantello e sistemarlo sull’appendiabiti alle sue spalle, per poi accomodarsi accanto a lei.
“Tra poco entreranno gli anziani con gli esiti dei nostri allenamenti di quest’anno... Sei nervosa?”.
La più giovane annuì vistosamente, indossando d’improvviso una maschera d’angoscia.
Lance la fissò, coi suoi occhi ambrati, sorridendo. Passò una mano tra i capelli rossicci e poi le strinse la mano.
“Sei stata molto brava, Sandra. Non devi dubitare del tuo lavoro”.
Lei lo fissò, spalancando i grossi occhi azzurri, quando l’intero consiglio fece il suo ingresso nella grossa sala. Lui le lasciò la mano, alzandosi in piedi, lei lo seguì subito.
Nascosta nell’armadio, la grande poté vedere il capo del concistoro entrare prima di tutti gli altri. Era il nonno dei due ragazzi, un vecchio dalla lunga barba candida. Indossava un pesante mantello di tessuto rosso carminio, lucido, molto più lungo di quello indossato dagli altri Domadraghi. La testa era completamente calva, data l’età avanzata, ma il corpo era ancora tonico per via del profondo allenamento sostenuto fin da giovane, ogni giorno.
Subito dopo entrò il padre di Sandra, imponente e altezzoso, la guardò severo e riprese a fissare davanti a sé. Aveva gli occhi blu e i capelli radi, dello stesso colore di quelli della sua bambina, e stringeva l’impugnatura d’ebano di un grosso spadino. La Capopalestra lo ricordava molto bene, suo padre era affezionatissima a quell’oggetto. Ne carezzava la sommità superiore del fodero come se fosse un automatismo, quasi per rassicurarsi sul fatto di non averlo perduto. Dopo di lui, fece il suo ingresso suo fratello, il padre di Lance, decisamente più basso ma comunque tonico. Aveva i capelli biondi, tirati all’indietro, ben pettinati, e gli occhi ambrati di suo figlio. Sul viso una grossa cicatrice deturpava la guancia destra, a riprova di una devastante lotta con un grosso Ursaring, sostenuta da ragazzo.
Lance guardò il viso di sua cugina, totalmente impanicata.
“Non dubitare” le aveva ripetuto. “Sei stata molto brava”.
Entrambe le versioni della donna sorrisero e abbassarono la testa. Ricordò la profonda autostima che la bambina seduta su quella panca aveva incamerato dopo quella frase. Poi però strinse la mano di Yellow, lottando contro l’istinto di gettarsi a capofitto in quell’illusione, in quel ricordo, di perdersi nella successiva delusione portata dalle parole dei membri anziani che avrebbero promosso le azioni di Lance e bocciato le sue, definendole disinteressate e acerbe. Ricordava la sua rabbia, la sua delusione. La solitudine provata quando, una volta ritiratosi l’intero consiglio, rimase da sola, cercando di capire dove avesse sbagliato, senza riuscirci: aveva speso ogni briciola del suo tempo e della sua energia per assomigliare almeno un po’ a suo  cugino.
“Yell...” la chiamò. Le strinse nuovamente la mano quando si accorse di non percepirla più.
Impanicata abbassò lo sguardo verso le sfere, non riuscendo più a vederle.
“Cazzo!” esclamò, vedendo la piccola Sandra voltarsi rapidamente. Spalancò gli occhi, non s’era resa per nulla conto della presenza di quella donna nell’armadio.
“E-e tu chi sei?!” si alzò immediatamente, lasciando cadere la sedia alle sue spalle. Portò subito la mano verso la sua unica sfera. A quella grande sembrò inutile restare nascosta. Sapeva che non sarebbe arrivato nessuno, quindi decise di uscire.
L’armadio cigolò, e un soffio d’aria fresca le baciò il viso.
Sospirò. “Io… sono un’amica”.
“Assomigli tanto al mio papà” ribatté subito lei.

*

“Sandra!” urlava Yellow, stringendo sempre più forte la sfera di Omny, il suo Omastar. Percepiva ancora la sua mano, pesante e dal basso.
“È svenuta! Dannazione, devo calmarmi...” sospirò quella. Sentiva la corrente fresca che soffiava tra i tronchi del Bosco Smeraldo, pettinando i lunghi fili d’erba nella direzione in cui spingeva.
Era nel lato ovest della foresta, quello più vicino al Monte Argento, e lo sapeva perché ognuno di quei tronchi d’albero era cresciuto con lei.
La sua tana era lì.
Sbuffò, una coppia di Pikachu s’inseguì fino a sparire oltre un grosso cespuglio, spaventando un Pidgey, che volò lontano.
Poi il silenzio scese come un sipario lungo e pesante; Yellow fu in grado di sentire delle voci poco dopo la grossa quercia che aveva davanti. Quello era un albero assai particolare: i lunghi rami erano cresciuti in maniera parecchio irregolare e s’erano annodati attorno al tronco d’un’altra quercia, più sottile. Sembrava che l’albero più grosso stesse abbracciando quello più piccolo.
Avanzò, sempre pronta a utilizzare Omny per uscire da quell’illusione, ma poi vide qualcosa che le interessava così da vicino da non permetterle di sottrarre l’attenzione: una donna stava uscendo dal rifugio dove era cresciuta lei. Yellow era nata e vissuta in quel bosco ma non aveva alcun ricordo di come la sua tana fosse stata costruita; questa era una profonda rientranza nella facciata della montagna, abbastanza lunga e larga, perfetta per sopravvivere. Le pareti interne erano rivestite d’un caldo tessuto che fungeva da isolante per il freddo e l’acqua, filtrata dalle rocce ed incanalata successivamente in grosse vasche.
C’era un piccolo giaciglio, e accanto alcuni giocattoli intagliati in legno.
Effettivamente, e se l’era sempre chiesto, non aveva mai capito come fosse finita in quel luogo. Lei era un mistero. Quando lo aveva chiesto ai Pokémon, loro avevano sempre risposto che lei fossa la figlia del bosco. Bonariamente, aveva accettato quelle parole tacciando il dubbio che le cresceva costantemente in grembo.
Nascosta dal grosso tronco della quercia guardò tutta la scena: una donna dagli occhi verdi e dai capelli castani era uscita dalla tana, frettolosamente. Indossava eleganti abiti di diverse tonalità di verde. I suoi occhi erano colmi di paura ed ansia, la vergogna che provava era tangibile. Lo sguardo era basso ed i pugni stretti.
Dava l’impressione di sentirsi impotente, lei, costretta a fare qualcosa contro la propria volontà.
Accanto a lei c’era un uomo, che aspettava al di fuori del rifugio, con in braccio un neonato.
Quel signore sembrava essere un Domadraghi; non aveva l’aspetto imponente, assomigliava vagamente a Lance ma aveva i capelli biondi, e una grossa cicatrice sulla guancia destra.
Il lungo mantello toccava quasi il pavimento.
“Ecco” diceva la donna, non riuscendo più a trattenere le lacrime. “La... la sua casa è pronta”.
Afferrò il neonato dalle mani dell’uomo e gli baciò il viso più e più volte, disperandosi e ripetendo la parola scusa fino allo sfinimento.
“Mi spiace, piccola mia! Mi spiace!”.
Alzò poi gli occhi verso l’uomo, come accusandolo. Quello deviò lo sguardo, verso la tana.
“Hai fatto un ottimo lavoro” disse infine.
La donna non considerò affatto quelle parole, né si sentì lusingata. Si limitò ad accovacciarsi per terra, affondando le ginocchia nel terriccio e sporcando la gonna.
“Spiega ai Pokémon ciò che devono fare” disse all’uomo.
“Andate da lei” annuiva quello.
Yellow vide il volto corrucciato della donna, crogiolato nella sua confusione, quasi abituato a quello spaesamento. Aveva capito cosa l’uomo stesse facendo: ne ebbe la conferma quando, qualche attimo dopo, diversi Caterpie e Weedle, un Pidgey e quattro Rattata s’erano avvicinati alla signora inginocchiata.
Yellow era colpita: quello stava parlando con i Pokèmon, proprio come sapeva fare lei.
Il Domadraghi riprese la parola. “Lei è mia figlia. Crescerà qui, nel Bosco Smeraldo. Fate in modo che sia al sicuro”.
Dopo una piccola pausa fu la donna a parlare. “Io... io...  sono costretta ad abbandonarla qui e... dannazione...” tossì, distrutta dal pianto. “Vi prego,  aiutatela a crescere! Vegliate sempre su di lei, nutritela e fate in modo che diventi una brava persona!”.
La lasciò su di un letto d’erba soffice e si sollevò, pulendo il vestito con veloci e inutili manate.
“Ciao, Yellow” concluse poi e si voltò verso l’uomo, che assisteva colpevole alla scena.

Silenzio.

“Mi spiace molto” tuonò.
“Non è vero! Non ti spiace! Sei tu che mi hai costretta a lasciarla da sola!”.
“Non è impossibile crescere in questo posto, e io ne sono la dimostrazione!”.
“Quella è mia figlia! Tu sei stato abbandonato e il bosco ti ha adottato, ma eri già più grande! Hai questi... questi strani poteri per puro miracolo, altrimenti non avresti passato la prima notte!”.
“Diana, lo sai bene che Yellow è frutto d’un errore madornale” rispose quello, rigido ed impettito. La donna pulì il viso dal trucco che si scioglieva e poi si sciolse i capelli. La luce del sole filtrava attraverso il fitto fogliame del bosco.
“No…” sorrise amaramente. “Mia figlia non è frutto d’alcun errore… Io e te le abbiamo dato la vita…”.
“È questo il punto!” s’alterò lui, smontandosi quell’impalcatura di ghiaccio che lo faceva sembrare freddo e distaccato. “Noi siamo stati un errore!”.
Diana spalancò le labbra e gli occhi, incredula di ciò che sentiva.

Silenzio.

“Io… io rifarei questo… questo errore miliardi di volte ancora. E queste tue parole sono la dimostrazione che per te…” e il suo sorriso fu ancora più amaro. “Io per te sono stata soltanto una fuga dalle tue responsabilità”.
Quelle parole esplosero forti, nella testa dell’uomo.
“Ma che credi?!” s’alterò lui. “Pensi che non voglia smontare quest’armatura di roccia e fuggire via con te?! Crescere nostra figlia e amarti come meriti?!”.
Yellow vide gli occhi della donna spegnersi lentamente.
“Perché non lo fai, allora?”.
La sua voce era flebile come un filo di cotone sottilissimo. “P-perché mi costringi a stare lontana da mia figlia?”.
Alzò lo sguardo, lei, in lacrime. La rabbia salì rapidamente dal centro del suo corpo, trovando sfogo in un urlo disumano”.
“Perché non ci accetti come la tua vera famiglia?!”.
L’uomo serrò la mandibola e le si parò contro, afferrandola per i polsi.
“Diana!” tuonò, zittendola. “Sai bene che la nostra relazione è sbagliata! Sai bene che ho una famiglia, un figlio già grande e che sarei buttato fuori dal concistoro se si sapesse che non ho ottemperato alle rigide leggi di fedeltà e tradizionalismo di Ebanopoli e dei suoi Domadraghi!”.
La donna abbassò lo sguardo. S’era resa conto d’essere succube di quella persona e dei sentimenti che provava per lei. E quel fatto, quella sensazione d’impotenza, traspariva in tutta la sua delicata disperazione dal suo sguardo di giada. L’uomo la fissò e sospirò.
Abbassò le mani, lasciò quelle della donna e sospirò.
“Lyssa… mia moglie, m’è stata imposta quando avevo tredici anni… Io non l’amo, Diana, e non l’ho mai amata. Ma la mia vita ha delle regole e, amando te, ne ho infrante fin troppe...”.
Fu allora che il pianto della donna divenne disperato. Quella prese a urlare, lamentandosi e stringendo gli occhi più che potesse.
“Questa bambina è la testimonianza che io ho commesso degli errori... dovrebbe sparire. Molti già sospettano di una relazione tra di noi”.
“Come… come ho fatto?” lo interruppe lei, fissandolo con lo sguardo colmo di dolore. “Come ho fatto ad innamorarmi di un uomo di merda come te?”.
Le sue parole erano mosse da una calma glaciale, in netto contrasto con ciò che il suo volto mostrava. Le lacrime continuavano a fuggire dalle rime degli occhi, scivolavano sul viso e colavano sul mento, per poi macchiare la camicetta.
“Io non ti consento di usare queste parole. Né rinuncerò alla posizione che mi sono creato”.
“…”.
“Non per una bambina nata per errore”.
L’ennesima risata di sconforto le dipinse il viso.
“L’errore lo stai commettendo adesso…” fece, avvicinandosi lentamente a lui. Puntò il dito contro il petto dell’uomo e lo colpì, quasi a volergli fare del male. Poi spalancò gli occhi, mutando totalmente l’espressione del volto.
“Sono queste, le ingiustizie che dovresti combattere!”.
L’uomo tentennò per un attimo, poi raccolse i pensieri e prese fiato. Strinse i pugni e digrignò i denti.
“Siamo Domadraghi! Guerrieri! Spartani! Dobbiamo lottare contro le nostre debolezze, e i nostri pregiudizi! Contro i draghi che ci tormentano l’anima! Non possiamo essere colti dal vizio! Né deve esistere piacere! Noi siamo solo disciplina!”.
“E io cosa cazzo dovrei essere?!”.
La voce della donna s’infrattò lungo i fitti rami degli alberi sulle loro teste.
“Piacere...” sussurrò quello, abbassando il volto. “Vizio. In ogni caso le nostre leggi le conosci, io verrei espulso… Ho impostato la mia vita nel raggiungere i miei obiettivi, quindi è meglio per tutti chiudere questa cosa… Vivremo le nostre vite normalmente e lasceremo che il bosco cresca... tua figlia”.
“Un altro uomo mi avrebbe proposto di fuggire” ribatté lei, solida, sorridendo.
“Per fare cosa? Per vivere nell’ansia che ogni giorno qualcuno possa ritrovarci? E poi a Lance non ci pensi? A mio figlio non ci pensi?”.
“A Yellow non ci pensi, tu!”.
“Lo faccio eccome. Non morirà, crescendo qui. E tu non dovrai tornare a prenderla, altrimenti potrebbero cominciare a farsi delle domande sul perché una donna che saltuariamente è stata vista col figlio del capoclan abbia una bambina con i miei occhi. Libererò perciò questo Dratini nel bosco...” disse, eseguendo con i fatti ciò che le sue parole avevano anticipato. “Ti attaccherà se, un giorno, deciderai di tornare qui”.
Diana s’avvicinò all’uomo e lo guardò negli occhi, nel tentativo di bruciarlo seduta stante.
“Un giorno pagherai per questo male, Dorian. Un giorno ti si ritorcerà contro”.
Con la mano poi carezzò gli carezzò il collo, verso l’alto, fino a raggiungere la guancia deturpata. La toccò col dorso della mano e poi nei suoi occhi apparve l’ira. Dove prima c’era una carezza, arrivò quindi uno schiaffo, tremendo.
Rimbombò nel bosco, zittendo per un attimo ogni frinito, ogni fruscio.
Quello portò la mano al viso, silenzioso, mentre l’altra s’accingeva a parlare, accorata.
“Sei una delusione! Spero che tua figlia un giorno sopravviva per smascherare i tuoi altarini!”.
Con lo sguardo basso, l’uomo si limitò a sospirare. Il cuore batteva, gli occhi della donna erano pieni di fuoco e paura, dolore e frustrazione.
Rassegnazione.
Il cuore continuava a battere. Ormai, però, la linea era stata superata.
“Addio, Diana” fece, salendo in groppa a un Aerodactyl e volando oltre il tetto di foglie.

Yellow, quella adulta, era rimasta in perfetto silenzio per tutto il tempo, sconvolta dalla scena. Le labbra erano spalancate, gli occhi pure, le mani stavano lunghe contro i fianchi.
“Tu...” fece, uscendo allo scoperto, agli occhi della donna. Quella ebbe un sussulto e si fiondò sulla bambina, prendendola tra le proprie braccia.
“Chi sei?! Hai sentito tutto?! Vieni dal concistoro, vero?!” sbraitava quella, cullando la piccola che, svegliatasi dal lungo sonno, prese a piangere disperata.
“Tu...” sussurrò ancora Yellow, come se avesse visto uno spettro. Un leggero soffio di vento si fece spazio tra i tronchi degli alberi, pettinando i campi d’erba alta e secca.
“Chi sei?!” urlò ancora Diana, con gli occhi spalancati e i canini in mostra. La piccola Yellow continuava a piangere, nonostante la donna la cullasse con solerzia.
“Tu… t-tu sei… mia madre?”.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1

Le fiamme.
Ovunque le fiamme, e polvere che si mischiava alla cenere.
Red s’intrufolò lentamente nell’enorme camerata, priva ormai di mura centrali e diede una rapida occhiata alla zona attraverso il fumo e il fuoco per trovare Valerio e gli altri superstiti, sentendo poi il pianto e la tosse di qualcuno. S’abbassò veloce e si diresse verso sinistra, dove l’ultima parete della sala era stata praticamente rasa al suolo.
Jasmine piangeva, col volto di chi aveva visto uno spettro, mentre Valerio stringeva tra le braccia Chiara. Il corpo di Raffaello era steso, inerme, a qualche metro di distanza. Aveva assunto una piega del tutto innaturale e il suo collo era spezzato.
Il suo sguardo era vuoto. Red non riuscì a guardarlo per più di un secondo, dandogli le spalle e afferrando le mani di Jasmine. Quella pareva guardargli attraverso, come se fosse del tutto ignara della sua presenza.
“Jasmine!” urlò, stringendole i palmi, senza però ottenere alcuna risposta. Guardò Valerio, prima che una grossa esplosione detonasse in quello che rimaneva dell’antico monumento.
“Merda! Che le prende?!”.
Valerio tornò a guardare Chiara, e il cuore di Red saltò un colpo quando vide le mani dell’uomo interamente ricoperte di sangue. Jasmine ebbe uno spasmo, tirando entrambe le mani, strette ancora dalla presa del Dexholder.
“Diamine, Jasmine! Jasmine! Che cosa cazzo sta succedendo qui?!”.
Gli occhi della donna rimasero spalancate, mentre le labbra tremavano e sussurrarono debolmente un nome.
“C-c… orr… ado...”.
“Corrado?!  È… è morto?!”.
“Corrado...” ripeté, con la voce più alta, continuando sempre a guardare dritto.
Red inspirò profondamente, cercando di calmarsi, ma il troppo fumo gli sporcò i polmoni e lo costrinse a tossire. Pensò che i Capipalestra fossero da troppo tempo lì dentro, e che avrebbero finito per lasciarci la pelle se non avessero respirato un po’ d’aria fresca. Lasciò infine le mani della ragazza per stringere la spalla all’uomo di Violapoli.
“Valerio…” disse poi, voltandosi verso di lui. “Cerca di spiegarmi rapidamente”.
“È stato un suicidio… non siamo minimamente in grado di competere con Jasmine…” ribatté lui, abbassando il volto.
“Ma lei è qui!” s’alterò l’uomo dagli occhi rossi.
“No! Non sono io!” rispose a tono quella, tornata d’improvviso su quel piano dell’esistenza. “Io non farei mai una cosa del genere!”.
“Mi spiegate, per cortesia?!”.
“Devi fare in fretta!” piangeva quella di Olivinopoli, con le lacrime che ormai le avevano scavato un solco lindo sulla faccia sporca di fuliggine. “Corrado è andato a combattere contro di me!”.
“Valerio! Per favore! Mi sembri il più lucido!”.
Il Capopalestra di Violapoli si voltò leggermente, e ciò scatenò il dolore di Chiara, ancora sveglia, che urlò con tutta l’energia che aveva in corpo.
“Scusami! Scusami, Chiara, scusami! Red, c’è una donna totalmente identica a Jasmine in fondo a questa sala! Con soli tre Pokémon è riuscita a sconfiggere Jasmine, far fuori Raffaello e ferire me e Chiara”.
“Che vi è successo?”.
“Io ho un braccio rotto ma il problema vero è lei... Chiara è stata coinvolta nella terza esplosione, quella più forte, che ha aperto una breccia nel soffitto. Il tetto è crollato ed è stata infilzata nell’addome da alcuni detriti appuntiti. Raffaello, che le era accanto…” abbassò poi il volto. “… lui non ce l’ha fatta…”.
Red annuì, comprendendo la situazione. Prese un respiro profondo che finì per bruciargli nei polmoni ed espirò, tossendo.
“Dovete uscire da qui. Siete poco lontani dall’ingresso”.
“Non posso portare fuori Chiara. Inoltre c’è il corpo di Raffaello”.
Gli occhi rossi di Red s’incontrarono a metà strada con quelli cerulei di Valerio e fu come se si parlassero.
“Non lo lasceremo qui… Oggi non morirà più nessuno”.
Jasmine annuì nervosa, convinta che Red avrebbe mantenuto quella parola.
Fu poi aiutata da lui ad alzarsi, e con lui uscì all’esterno per respirare un po’ d’aria pulita. Le luci dell’alba non erano molto lontane.
“Stai qui” le disse. “E stai attenta”.
Tossiva, lei, e gli occhi lacrimavano. Ma il pensiero fu uno e uno soltanto.
“Aiuta Corrado… Ti prego…”.
“Ovvio che l’aiuto...” mormorò, voltandosi e tornando dentro, con l’incavo del braccio davanti a bocca e naso. Accorse verso il corpo morto di Raffaello e deglutì un boccone amaro quando fu in grado di vederne il volto da vicino: metà del suo viso era totalmente coperto di sangue mentre l’altra parte era sostanzialmente ciò che rimaneva dopo l’impatto con il pesante marmo dell’antica copertura.
“Pensa a cose belle, Red. Pensa a Yellow...” sospirò, caricandosi in spalla il corpo esanime. Lo poggiò su di un cuscino d’erba umida, all’esterno, sul quale strofinò invano pure le mani per pulirsi dal sangue sporco del ragazzo.
Quando rientrò, corse verso Chiara. Aveva i capelli sciolti, scuriti dalla cenere. Piangeva disperata, non riuscendo a trattenere i gemiti di dolore. Stringeva i denti però, e ciò dava rilevanza a una cosa importantissima: era ancora viva. Red incrociò lo sguardo con lei e annuì, poi abbassò lo sguardo verso l’addome, ricolmo di sangue, dov’era penetrata una scheggia affilata di ferro.
“Lì ci sono gli organi. Se leviamo questo pezzo di marmo provocheremo sicuramente  un’emorragia. In più non riesce a muoversi. La situazione è complicata…”.
“Red…” sussurrò lei, deglutendo e continuando a piangere. “Ferma tutto questo…”.
“Sì, ma tu rimani con noi…” le disse, cercando di ragionare. “Devo portarvi fuori da qui…” disse, alzando la maglietta di Chiara fin sotto il bordo del reggiseno; il sangue era colato fin sull’ombelico e poi oltre, macchiando l’intera coscia destra del jeans.
“Ora sollevo prima te, Valerio, va bene?”.
Una forte esplosione fece sussultare Chiara, che di conseguenza urlò a squarciagola.
“Aiutatemi!” piangeva, stremata.
Il Dexholder strappò il polsino al proprio giubbino e lo arrotolò, infilandolo tra i denti della Capopalestra dai capelli rosati. “Lo so che fa male. Fa malissimo, Chiara, posso solo immaginarlo, e tra poco farà ancora più male. Quindi stringi i denti: otto passi e sarà tutto finito. Valerio, spero tu riesca a camminare da solo perché devi essere parecchio più rapido di me nell’aprirmi la porta”.
L’uomo annuì e rotolò con fatica verso sinistra. Si mise in piedi e barcollò verso l’uscita, spalancando la porta della Sala 1. Rumori di combattimento, urla ed esplosioni continuavano a susseguirsi. Il calore aumentava e gli occhi di chiari erano colmi di paura quando le mani di Red, ancora calde del sangue di Raffaello, alzarono lentamente le braccia della donna.
“Venite!” urlò Valerio.
“Via” gli rispose sussurrando quello dagli occhi rossi, sollevando la ragazza di peso, mentre il sangue continuava a uscirle dalla ferita. Si accorse che il dolore non le consentiva di fare forza sulle gambe. Quasi subito prese a urlare con tutte le forze che le erano rimaste in corpo, riuscendo a zittire per un piccolo secondo il crepitio dell’incendio che stava divorando la sala. Nel farlo spalancò la bocca, e il pezzo di stoffa che stringeva tra i denti cadde in una pozza del suo sangue. Red tossì, sentiva le mani della donna affondare nelle sue braccia, aggredendole, mentre la confusione cresceva sempre di più e l’aria si faceva via via più sporca. Aveva bisogno di respirare, necessitava
La trascinò fuori con tutta la forza che aveva in corpo e, quando uscirono fuori, la adagiò sull’erba, prima di inginocchiarsi accanto a lei.
“Va tutto bene” le sussurrò, mentre quella stringeva gli occhi e urlava terrorizzata. “Valerio!” fece poi, alzando lo sguardo. Quello lo fissava già da un minuto.
“Red”.
“Chiama qualcuno! Sta continuando a perdere sangue! Io devo tornare dentro! Jasmine!” la chiamò infine, rimettendosi in piedi e prendendo una sfera dal cinturone, sporcandola interamente del sangue caldo e viscoso della Capopalestra di Fiordoropoli. Quella incontrò il suo sguardo, ancora scossa. Sospirò e annuì, socchiudendo gli occhi. Era sfatta, Red lo aveva compreso da subito.
“Mi serve che tu sia lucida, Jasmine” le disse, avvicinandosi. Quella guardava le mani, ancora grondanti di sangue.
“S-sono q… qui” fece, abbassando lo sguardo e sospirando.
“Devi occuparti di loro fino all’arrivo dei medici”.
Non si curò neppure dell’eventuale risposta, Red si voltò e rientrò, con la mano rossa davanti al naso; l’odore di fumo e sangue si univa, portandolo rapidamente vicino alla nausea. Sfera alla mano si defilò verso destra, dove l’intero soffitto era caduto e aveva creato un grosso foro verso il cielo. Confuso, cercò di capire dove dirigersi, anche se tutt’intorno non c’era altro che macerie e resti di Pokémon esanimi.
E poi, davanti a lui, una sagoma nascosta dal fumo correva verso il lato opposto, rapido.
Spalancò gli occhi, Red, tossì, quasi vomitò, poi si abbassò.
“Tu! Fermati!”.
La figura si bloccò. Aveva capito d’esser stata vista.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7

Un leggero venticello prese a farsi spazio tra i tronchi degli alberi, pettinando i campi d’erba alta e infrangendosi contro le gambe di Diana. Il suo volto era cereo, mentre il cuore batteva freneticamente e la paura s’era ormai impossessata dei suoi occhi.
“Co-come sarebbe... come sarebbe a dire?” sussurrava, vedendo quella donna, praticamente sua coetanea, mentre si mostrava alla luce del sole, muovendo passi leggeri sul sottobosco.
“Sì”.
“Cosa dovrebbe significare che sono tua madre?”.
Yellow era totalmente immobile, ormai non si rendeva più conto della differenza tra finzione e realtà. Osservava il volto della donna, così somigliante al suo, con quei lineamenti aggraziati e il taglio d’occhi che aveva visto ogni giorno della sua vita, specchiandosi.
“So che è difficile da spiegare ma è come ti dico...” diceva quella, avvicinandosi lentamente. Diana s’avventò terrorizzata sulla bambina, avvolta nella copertina e appoggiata su di un letto di foglie. La prese tra le braccia e la strinse con vigore.
“Aiutatemi!” urlò poi, vedendo i Pokémon del Bosco Smeraldo avventarsi contro la nuova arrivata, proprio come suggeritole dal marito.
Yellow rimase impassibile, abbassando lo sguardo e poi chiudendo definitivamente gli occhi.

“Non vengo per fare del male.... Proteggerò per sempre i Pokémon del Bosco Smeraldo… Questa è casa mia”.

I suoi pensieri riverberarono nelle menti di quelle creature, che si bloccarono immediatamente sotto gli occhi stupiti di Diana.
“Io mi chiamo Yellow e sono la bambina che hai tra le braccia. Come quel Domadraghi io... io riesco a parlare con i Pokémon”.
La donna lasciò che l’avventrice la raggiungesse.
“Non voglio farti del male” sorrideva, con le lacrime appuntate agli occhi e il sorriso più dolce di cui fosse fornita. “Vorrei solo conoscerti”.
A quel punto anche Diana si soffermò a guardarla meglio: i capelli biondi, lunghi, legati, erano uguali a quelli dell’uomo che le aveva donato sua figlia. Qui e lì, piccoli particolari del volto, come il naso e il mento delicato, cominciarono a sovrapporsi a quelli di Dorian. E poi gli occhi, dello stesso colore di quello, ma con la sua forma. E anche il sorriso, Diana lo riconobbe come suo. Annuì, impercettibilmente, poi perse una lacrima, che cadde lenta sul suo viso e si tuffò oltre, affondando nella morbida copertina nella quale la piccola Yellow era avvolta. Abbassò il volto e vide la bambina che dormiva tranquilla; pensò alla sua incolumità, al fatto che in quel bosco, paradossalmente, sarebbe stata più al sicuro che al di fuori, dove i Domadraghi le avrebbero resa la vita impossibile.
“T-tu…”.
“Sono tua figlia!” sorrise, festante. “Tu sei mia madre! I-io... è la prima volta che ti vedo!”.
Piangevano entrambe, mentre la bambina continuava a piangere.
“M-ma… ma com’è possibile?!”.
“Non lo so!” rideva ancora Yellow. “Ma tu sei bellissima e io sono contenta di averti visto, almeno una volta!”.
Fu allora che il sorriso di Diana cadde, lasciandole sul volto un’espressione sconvolta.
“T-tu… non hai mai visto tua madre? Non mi hai mai vista?!” esclamò, cullando la piccola.
“No” abbassò lo sguardo l’altra. “Appena cresciuta fui adottata da una persona a Smeraldopoli… e poi ho cominciato a viaggiare…”.
“Tu hai… hai vissuto tutta la tua vita senza sapere chi fossero i tuoi… i-i tuoi genitori?”.
L’altra si limitò ad annuire, e Diana percepì la sua sofferenza premere con forza al di fuori del suo petto, quasi fosse tangibile. Infine riguardò la bambina: così piccola e inerme. Quel meraviglioso miracolo della natura non avrebbe mai dovuto provare quel dolore.
“Io non posso lasciarti qui!” esclamò, parlando alla neonata come se potesse capire le sue parole. Il pianto tornò a squassarle il petto e si perpetuò torrenziale per diversi minuti. “Devo portarti via da qui!”.
“Ti darò una mano” sorrise Yellow. “E anche i Pokémon lo faranno. Ci aiuteranno con quel Dratini. Scenderemo per Smeraldopoli e poi da lì...”.
“È fuori discussione!” esclamò Diana, cullando la piccola, che gridava disperata. “No! No, piccola mia, no! Tranquilla, non è successo nulla... Non possiamo fuggire da sud perché è quella la rotta che Dorian percorrerà per tornare ad Ebanopoli. Dobbiamo andare ad est”.
“Il Bosco si estende fino ad Azzurropoli, seguendo la direzione che hai detto” ragionò Yellow.
“Da lì prenderò un bus fino ad Aranciopoli e poi cercherò un modo per pagare un traghetto che mi porti lontana da Kanto e Johto. Ma non ho con me nulla, non ho documenti, niente!”.
“Tranquilla”.
Diana alzò gli occhi verso di lei e poi li riabbassò. “Ho solo lei.”
“Me”.
“Te”.
“Ed è tutto quel che ti serve” sorrise Yellow. “Ora però dobbiamo pensare a quel Dratini...”.
Guardò i Pokémon e si concentrò.
Ci serve l’aiuto d’un Pidgeot, amici” pensò poi. Il piccolo Pidgey che stava nel gruppo s’alzò in volo, grugando rumorosamente e scatenando una tempesta di piume, scaturita dall’enorme massa di Pokémon, uguali al primo, alzatisi in volo in quel momento.
“Dov’è andato?” domandò Diana, cercando invano di placare sua figlia.
“A chiamare rinforzi”.

*

“Cerca di capirmi, piccolina...” diceva Sandra, sorridendo a se stessa mentre s’inginocchiava, per poter guardare meglio negli occhi la sua versione del passato. “So che vuoi rendere fiero papà ma ricorda una cosa: devi stare con chi ti ama. Non voglio che tu venga condizionata dalle mie parole, tra un paio d’anni riuscirai a entrare all’interno dell’ordine dei Domadraghi e sarai una delle prime donne a farlo. Impegnandoti diventerai anche la Capopalestra di Ebanopoli”.
La piccola si grattò la fronte, spettinandosi il ciuffo azzurro che aveva ben pettinato. Tuttavia ascoltava affascinata le parole di quella donna, osservandola in volto e notando come quei tre piccoli nei fossero disposti nella stessa e identica maniera in cui li aveva lei, sulla guancia. Aveva visto anche che i capelli fossero dello stesso colore di sua madre, e del suo, ovviamente.
Erano proprio come i suoi. Forse fu proprio per quell’inesperienza di cui era stata accusata da suo nonno quel giorno, ma non riuscì nemmeno ad avvicinarsi alla realtà dei fatti, col pensiero.
Non era riuscita a capire che quella donna, inginocchiata davanti a lei, fosse proprio lei.
“Capo... capo della Palestra di Ebanopoli? Come il mio papà?”.
Sandra non ricordava quanto fosse dolce la sua voce, da bambina. Si limitò ad annuire.
“Ma voglio avvertirti: i Domadraghi non ti prenderanno sul serio fino a quando non ti dimostrerai capace, e avrai l’occasione di farlo solo tra molti anni. E Lance diventerà velocemente uno dei più forti Allenatori del mondo”.
“Anche io posso diventare forte come lui” ribatté determinata, l’altra.
“No” replicò l’adulta. “Per quanto tu ti possa impegnare non riuscirai mai ad essere al suo livello”.
Fu allora che gli occhi della piccola presero a riempirsi di lacrime. Non pianse, però, orgogliosa e forte come le avevano insegnato.
“I-io m’impegnerò! Diventerò la Domadraghi migliore di tutti!”.
Sandra abbassò leggermente lo sguardo alle parole della ragazzina, quindi sospirò.
“Allontanati. Viaggia e dimenticati di questi posti. Ti distruggerai nel tentativo di dare a papà la soddisfazione di vederti in vetta, perché non ci riuscirai”.
Come colpita da un fendente alle spalle, la bambina si sentì atterrita. Una lacrima fugace scese dai suoi grossi occhi azzurri, poggiandosi sulla morbida guancia.
“P-perché dici così?!” urlò, colma d’ira. “Io m’impegno sempre! E sono forte!”.
“Ti sto dando il consiglio migliore che avrai mai in vita tua. Allontanati da questa gente altrimenti non sarai mai soddisfatta di te stessa e della tua vita”.
Quella fissò le punte dei suoi stivali di pelle lucida, con le labbra tremanti.
“Io so che diventerai una grande Allenatrice... una grande Domadraghi, Sandra. So che diventerai una grande donna, forte, bella, intelligente. Ma se proseguirai su questa strada comincerai una vera e propria lotta con te stessa che purtroppo perderai. Vorrai vedere il volto di papà fiero ma non ci riuscirai, non lo vedrai mai felice”.
“Il mio papà non sarà mai fiero di me?” domandò, con quegli occhi enormi a fissare l’interlocutrice, che si limitò a scuotere la testa.
“Una volta che ti renderai conto che le mie parole sono vere, vai via. Sfrutta altrove il tuo potenziale. Usalo per le persone che ne hanno bisogno, e non per una stupida setta di cui sarai schiava”.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala Alfa

Nonostante le finestre lasciassero entrare un po’ della luce lunare di quella sera, le ombre stentavano a diradarsi, all’interno della sala principale. I passi di Green erano rapidi, il suo respiro diventava più greve a ogni nuovo corridoio in cui entrava, in quell’infinita serpentina di pareti incise, antiche come il tempo. Strinse i pugni, si guardava attorno con superficialità perché doveva arrivare il prima possibile alla fine di quel dedalo, dove un piccolo altare di marmo reggeva uno dei preziosissimi mosaici, raffigurante il Pokémon Kabuto.
Fu però quando voltò l’angolo dell’ultimo corridoio che poté rendersi conto, con orrore, che l’altare era stato totalmente distrutto, e il mosaico divelto dalla parete.
Il cuore del Dexholder saltò un battito. Le mani cominciarono a tremare, il respiro si bloccò.
Impiegò un secondo di troppo a capire cosa fosse successo.
“Merda… merda! Merda, merda, merda! Red!” urlò, afferrando sbadatamente il Pokégear dalla tasca e facendolo cadere. Si abbassò, con le dita che non riuscivano ad afferrare l’apparecchio, fino a quando non sospirò, cercando di calmare i nervi. Navigò poi tra i menù del congegno, cercando il nome di Red, e premendo il tasto di chiamata.
Avvicinò il Pokégear all’orecchio e respiro profondamente.
“… … … …”.
“Avanti… Rispondi! Rispondi, cazzo!”.
Non è il momento, Green!”.
“Hanno rubato il mosaico! Nella Sala Alfa!”.
Qui invece è morto Raffaello e Chiara tra poco lo raggiungerà! Non ci sto capendo più nulla! Devi andare nella Sala Due!”.
“I mosaici della Sala Uno invece ci sono ancora?”.
Cazzo, Green! Nella Sala Uno non ci sono neppure più le pareti! Siamo in inferiorità numerico e Angelo e Furio sono da soli! Corri lì, porca puttana! Quei due ci lasciano la pelle!”.
L-le… le pareti?!”.
Non ci sono più, ho detto. Jasmine le ha distrutte…” rispose quello, dopo un sospiro stanco.
“Jasmine?! Ma che cazzo stai dicendo?!”.
“Senti, non ho tempo, ora! Sala Due, e subito! E prega che quei due non siano morti, altrimenti te li porterai sulla coscienza!”.
“… va bene…” concluse, chiudendo la comunicazione. I dubbi sgomitarono con lo sconforto, conquistandogli mente e corpo, quindi salì sull’ara, guardando con attenzione il piano sul quale erano state incastrate le tessere, vedendone i bordi in rilievo scheggiati. avevano utilizzato qualcosa di simile a un piede di porco per forzarli a uscire dal pannello principale ed erano scappati.
Abbassò poi gli occhi, accorgendosi della grande botola aperta proprio davanti ai suoi occhi.
“Sono fuggiti da qui?” domandò a se stesso, prendendo la torcia dallo zaino e puntandola sul fondo. Non era assai profondo.
Doveva seguire quella via, gli sgherri vi erano fuggiti sicuramente attraverso, e quando lo capì vi saltò dentro, carico d’una nuova forza. Senza alcuna remora né paura, prese a correre dritto, col fascio di luce della torcia che traballava nelle sue mani sudate.
Respirava, riempiva i polmoni di quell’aria stantia, mentre i suoi passi si bagnavano nell’acqua caduta dall’alto. E poi una scaletta, fatta di corda, gli venne in aiuto.
Mise la torcia in bocca e la salì.

E si ritrovò in un’altra sala, totalmente identica a quella che aveva lasciato.
Poco indicativo. Quelle rovine erano tutte identiche.
Lì la torcia non serviva, la luce della luna illuminava molto bene metà dei corridoi, quindi la posò nello zaino e prese a camminare, ancora la sfera di Charizard tra le mani, con deboli passi. Aguzzò l’udito, cercando di localizzare la presenza di qualche avversario, sentendo però soltanto un fastidioso brusio, come fosse un fischio su più frequenze.
Aggrottò la fronte, imperlata di sudore, il freddo gli stava mangiando le guance ma il cuore pompava sangue e batteva impanicato. Avanzò, rapido e silenzioso, fino a quando quel brusio non diventò sempre più forte e, dopo aver voltato il centesimo angolo e messo piede nel centesimo corridoio, riuscì a vedere delle ombre.
S’appiattì contro il muro e s’abbassò, studiando meglio la situazione. Il fischio era quasi insostenibile ma riuscì a concentrarsi e a contare quattro ombre, una in piedi e tre stese sul pavimento.
Il battito accelerò. S’avvicinò ancor più lentamente, capendo che quelle non fossero stese per scelta; l’uomo in piedi parlava da solo, sembrava concentrato nel guardare sullo schermo d’un piccolo palmare che gli illuminava la parte inferiore del volto.

Chi cazzo sei?

Oak continuò ad avanzare di soppiatto fino a quando, a meno di sei metri. Era vicino, tanto da poter ascoltare il suo respiro. Alle sue spalle, tra di loro, vi erano Blue, Sandra e Yellow.
Guardò Blue. La sua Blue.

… Non sei morta. E neanche le altre. Non siete morte.

Era più una preghiera che un pensiero.
Ma mantenne la calma, sospirando lentamente e cercando di mozzare il collo a quella rabbia colma di paura, di panico, che cresceva nel suo petto e gli faceva tremare le gambe.
Gli faceva fremere le mani.
“Alla fine sei arrivato...” tuonò poi l’uomo di spalle.
Alto, lui, coi capelli biondi ben pettinati, almeno sulla nuca, e un lungo soprabito di pelle nera.
Si voltò quasi subito, lasciando l’altro basito.

Xav… Xavier Solomon…

L’uomo sorrise, divertito dal notare quanta sorpresa vi fosse nello sguardo che aveva di fronte, poi, come se nulla fosse, tornò a guardare il palmare che aveva in mano.
Come se Green non fosse lì. Come se non avesse avuto alcun potere, su di lui.
“Tu…” sussurrò Green, riconoscendo spaventato gli occhi di quell’uomo. “Xavier Solomon!”.
“Sì... sono Xavier Solomon...” annuì quello, distratto dalle immagini sul suo marchingegno e mantenendo una calma serafica. E forse fu quella a distruggere ogni baluardo di razionalità e controllo nel capo dell’Osservatorio di Biancavilla. Sentì la rabbia partire rapida dalle profondità del suo corpo e, vedendo gli occhi di Blue aperti e persi lungo i pavimenti impolverati delle rovine, fece suo l’impulso di saltargli addosso, allargando le braccia e chiudendole contro il suo collo.
Ma poco prima di riuscirci, Xavier si voltò rapido e lo colpì con un montante dalla forza spaventosa, dritto nel petto. Quello urlò, dolorante, per poi accasciarsi lento contro la parete. L’uomo dagli occhi rossi lo guardava severo, quasi pietrificandolo.
“Non tollero quelli come te, Oak. A me non importa del tuo Pokédex, o di chi è tuo nonno, né di chi ti porti a letto. Per me siete solo zanzare…” sorrise poi. “Piccole e fastidiose zanzare…”.
Green strinse il costato nella mano destra e digrignò i denti.
“Tu… Solomon… devi ridarmi la pietra …”.
L’altro non si voltò neppure, continuando a lavorare con l’apparecchio che aveva davanti.
“Non ce l’ho più. Almeno non ora, la riprenderò dopo… Per adesso mi sto concentrando sul Cristallo della Luce. Poi recupererò anche quello… Mi sto limitando a… sai… seminare” sorrise, quasi genuinamente. “Come farebbe un buon contadino, insomma…”.
“Che cazzo stai dicendo?!” esclamò Green, con forza ritrovata. Lasciò il costato e portò entrambe le mani alle sfere, prima che l’uomo lo fissasse, intimorendolo.
“Giovane Oak... tuo nonno è assai più saggio di te. Forse col tempo si è perso, ma ti assicuro che era di un altro spessore. Tu invece… ti ritieni così superiore...” sorrise ancora, schernendolo. “… mentre in realtà giochi a fare il duro, come un bulletto di quartiere. Sai, le ferite che hai dentro si vedono, e non si rimargineranno mai più…”.
“Tu che cazzo ne sai di me?!”.
“Io so... E potrei distruggere la tua vita con uno schiocco di dita” fece, accompagnando quella frase coi gesti. “Potrei tornare indietro nel tempo e uccidere la madre di Blue il giorno prima del parto...” sorrise. “Sai che amarezza...”.
“Sei uno stronzo…”.
“Non la conosceresti mai”
“Zitto!”.
“Potrei farti soffrire ora, qui, come un cane, facendoti vedere all’infinito come quei luridi dei tuoi genitori siano morti durante la rapina che avevano organizzato per settimane...”.
“Ho detto zitto!” urlò ancora, alzandosi di scatto e scagliandosi di peso contro l’uomo. Quello alzò la mano destra e una grossa barriera elettrica si frappose tra loro. Più in là si senti il ruggito di un grosso Pokémon dagli occhi giallastri, da cui sembrava provenisse la corrente.
“Cosa... cosa cazzo…” sussurrò Green tra i denti, spaesato. Guardava l’uomo che aveva di fronte e forse, per la prima volta nella sua vita, sentiva di non avere alcuna opzione possibile per farcela.

“Non vuoi fare davvero questa cosa…” diceva Solomon, con la barriera elettrica che si spostava in concomitanza dei suoi passi, calmi e totalmente atarassici. Si dirigeva verso Blue.
“Non permetterti mai più di parlare dei miei genitori!”.
“Erano criminali. Ma tu no. Vero?”.
Green si bloccò, mentre la mano di Xavier si avvicinava alla testa di Blue.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7

I passi agili della ragazza dai capelli biondi aprivano la strada a quelli più lenti della donna, che stringeva il fagotto tra le braccia. Yellow si guardava attorno rapida, riuscendo a ricollegare ognuno dei grandi alberi che aveva davanti con quelli che aveva visto da bambina, negli stessi posti, ma più avanti nel tempo.
“U-un attimo…” sussurrò Diana, con le gambe pesanti.
“Dobbiamo sbrigarci, mamma”.
Diana si bloccò, fissandola e battendo velocemente le palpebre, celando a intermittenza le iridi smeraldine. Yellow si voltò e la guardò, notando che fosse rimasta interdetta da quella parola.
Una sola parola, così elementare ma così importante, per lei.
“Scusa…” fece, abbassando il viso. “Non volevo dire nulla di sbagliato…”.
“No! Tranquilla!” esclamò l’altra, sorridendo. Eppure vedere quella ragazza, quasi sua coetanea, chiamarla in quel modo e poi assumere quell’espressione, una volta compreso di aver fatto qualcosa che non andasse, le fece rivalutare tutto. Quella donna, dai lunghi capelli biondi stretti nella coda di cavallo, che dal padre aveva preso lo sguardo e da lei la dolcezza nelle espressioni del viso. Quella era veramente sua figlia.
Era quella piccola bambina, che stringeva al petto, e che cercava di proteggere dal mondo, dal bosco, da suo padre.
“Tu… sei davvero cresciuta qui?” domandò, poggiandosi al tronco di un solido pioppo.
La ragazza dagli occhi paglierini annuì, rapprendendo le labbra.
“Sì. Ecco perché conosco questo posto come le mie tasche”.
“E… non ci siamo mai incontrate?”.
“No”.
Diana guardò nuovamente sua figlia. Aveva davvero avuto il coraggio di abbandonarla lì, da sola, e per questo cominciò a provare vergogna.
“Mi… mi spiace…” singhiozzò, mentre l’ennesima lacrima calda le colò sulla guancia.
“Ma no…” sorrise l’altra, avvicinandosi a lei e sistemandole i capelli dietro le orecchie. Le poggiò una mano sulla spalla e incontrò i suoi occhi, per rincuorarla. “Tu non lo hai fatto. Io sono lì, tra le tue braccia… Sei stata forte e decisa e hai preso la decisione più giusta per me… o lei” continuò, sorridendo nuovamente, impacciata.
“Sei cresciuta senza una madre, né un padre, qui, come una selvaggia e… cazzo!” esclamò, stringendo gli occhi. “Che donna di merda, che devo essere stata!”.
“Mamma…” riprese lei, catturando nuovamente il suo sguardo. “Diana…”.
“Scusami” disse l’altra, abbassando il volto.
“Stai tranquilla, ti ho perdonata tanto tempo fa”.
Il sorriso esplose nuovamente sul volto della bionda, che strinse le mani di quella e socchiuse gli occhi. “Senza quest’esperienza non sarei mai diventata quello che sono adesso”.
“E sei meravigliosa. Sarei stata sicuramente fiera di te…” pianse l’altra, avvicinandosi a lei e poggiandole la fronte contro la spalla. Yellow l’accolse in un delicato abbraccio, che comprese anche la bambina. “Sei una donna bellissima, e buona, e quando necessario hai fatto la cosa giusta…”.
“Anche tu, ora. Ti senti un po’ più riposata?”.
Diana annuì, controllando per l’ennesima volta la bambina.
“Allora andiamo. Avanzerò, per controllare che quel Dratini non c’incontri impreparate…”.
E fu così che la loro fuga riprese. Il sottobosco continuava a scricchiolare sotto i loro passi ansiosi. Yellow cercava di lasciare quanto meno tracce possibili durante il loro passaggio, evitando di modificare nidi e ripari per i piccoli Pokémon, che solerti le seguivano silenziosi.
Diana si voltava, di tanto in tanto, spaventata e affascinata da quei piccoli Pidgey e Pikachu, e Rattata, e Beedrill, e realizzò che avesse realmente lo stesso potere di Dorian. Di tanto in tanto qualche flebile raggio di sole filtrava tra le mani incrociate dei rami, baciandole il viso sporco di trucco e lacrime.
“Presto…” fece poi l’altra, alzando una fronda e permettendole di passare più facilmente.
“Grazie”.
 “Dopo che farai? Dove andrai?”.
“Non lo so...” sospirò Diana. “Valuterò un po’ alla volta il da farsi, ma ciò che so è che devo fuggire da qui, adesso…”.
Yellow annuì, cercando di fare mente locale per capire dove quella avrebbe potuto trovare riparo lontana da Kanto e Johto. “Sinnoh? Cosa ne pensi di Sinnoh?” domandò, calciando una pigna lontana dal sentiero.
“È lontanissima... Non ho i soldi per sostenere quel viaggio”.
“I soldi non sono un problema… dovrei avere qualcosina qui con me…”.
“Grazie ma... Com’è possibile tutto questo?”.
Yellow non si voltò ma rispose lo stesso, mentre continuava a camminare.
“Risolviamone uno alla volta…” sorrise. “Poi te lo farò sapere”.
Scavalcarono un grosso tronco di leccio, caduto e ormai casa per i piccoli Pokémon, quindi continuarono.
“Attenta… passami la bambina…”.
Lo fece, Diana, non senza qualche remora. Vide Yellow guardare se stessa e sorridere, divertita.
“Sei sicura che sia io? Non mi assomiglia per niente” ridacchiò.
“Avevamo deciso di chiamarla Yellow, come il sole e i campi di grano, quindi immagino si tratti proprio di te”.
“Immagino di sì” ribatté seria l’altra, restituendo il fagotto alla madre.
“Grazie. E… e parlami un po’ di te. Fammi capire cosa sarebbe successo se l’avessi lasciata qui”.
“Come ho detto… sono cresciuta nel bosco. Questi Pokémon mi hanno aiutata… poi un giorno mi hanno presa e adottata, a Smeraldopoli. Lì ho scoperto i miei poteri…”.
“Eri piccola”.
“Molto. Poi incrociai un Allenatore, e l’ho seguito… e ora siamo ancora insieme”.
Spalancò gli occhi, Diana. “Siete…”.
“Stiamo assieme, sì…” arrossì l’altra. “Ne sono molto innamorata. È una persona speciale”.
Non poté vedere poi il sorriso felice della donna, contento e quasi sollevato.
“Mi piacerebbe tanto conoscere l’uomo che ti ha fatto diventare così…”.
“Probabilmente ora ha poco più di un anno, mamma. E forse lei non lo incontrerà mai…”.
Rallentò il passo, per un piccolo secondo, chiedendosi se avesse poi barattato Red per una vita normale, senza quei vuoti in cui sovente sprofondava. Però si chiedeva come si sarebbe evoluta la sua vita se, realmente, sua madre avesse deciso di portarla via e crescerla come una ragazza normale. Probabilmente sarebbe cresciuta come un qualunque altra persona, avrebbe avuto libri e giocattoli come ogni bambina, un tetto sulla testa, la paura dei temporali e delle amiche con cui passare il tempo, in maniera leggera.
Stupida, insensata.
Avrebbe avuto un carattere leggermente differente, forse più sicuro. Forse sarebbe stata meno gentile, un po’ più pungente, come Blue. E forse anche più femminile. Forse non avrebbe conosciuto l’amore grazie a Red, né avrebbe imparato il valore dell’amicizia tramite i Pokémon del Bosco Smeraldo. Forse avrebbe imparato a confrontarsi correttamente con le persone, magari a possedere un po’ della tanto decantata malizia che caratterizzava proprio Blue, e che, suo malgrado, lei non aveva in nessuna quantità né misura. Forse non avrebbe subito quel tradimento, che ancora bruciava, se fosse stata più sicura.
O forse sì. Magari non avrebbe conosciuto Red, ma sarebbe stato un altro uomo a tradirla.
Sospirò, sentendo frusciare le fronde sotto i soffi leggeri del vento.
Non sapeva da quanto stessero avanzando, aveva perso totalmente il senso del tempo. Tuttavia non le dispiaceva essere in quel posto, in quel momento. Di tanto in tanto, difatti, si voltava a guardare il viso di sua madre, così preoccupato, teso, ma al contempo bello, e dotato di quegli occhi limpidi.
E camminarono, continuarono a farlo, senza sentire stanchezza, né fame, né sonno; senza accorgersi che il sole non scendeva ma rimaneva sempre ben fisso a mezzogiorno, a illuminare le cime degli alberi del bosco. Fu quando arrivarono poco dopo il Monte Luna, dove le pendici erano ancora bagnate dalle creste fogliate, che Yellow si fermò. La madre, pochi passi alle sue spalle, aderì alla sua schiena.
“Che succede?” domandò preoccupata.
La bionda si voltò rapida verso i Pokémon, poi annuì.
“È il momento...” sospirò, stringendo i pugni. “Spero vada tutto bene”.
“Che succede?!” ripeté l’altra, più impanicata, vedendo i Pokémon che la seguivano accerchiarle, rigidi.
Poco dopo il Dratini di Dorian le attaccò.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1

“Corrado!” esclamò Red, vedendo il corpo dell’uomo per terra. S’inginocchiò rapidamente al suo cospetto, vedendo un rivolo di sangue fuoriuscirgli dalla bocca. Gli occhi dell’uomo erano chiusi e mai s’erano aperti. Red alzò lo sguardo, angosciato e pieno d’ansia. Si rimise in piedi e avanzò rapido, sperando fosse ancora vivo, ma c’era troppo trambusto.
Non riusciva a concentrarsi.
Vedeva il Capopalestra di Arenipoli immobile, steso sulle lastre sporche di polvere, segnate dal sangue che colava e s’infilava nelle antiche incisioni, ormai perdute per sempre. Tentennò un attimo, quello dagli occhi rossi, mentre l’odore acre della morte saturava la zona.
Avanzò verso di lui, cercando di celare la paura di poter fare la sua stessa fine, e stringeva la sfera di Poli nella mano destra. Quella sinistra era a proteggere il volto dall’enorme nuvola di fumo che aleggiava lì. Si abbassò, tossì, pensò a Yellow e si gettò sull’uomo.
“Corrado! Svegliati!”.
Portò le dita sulla carotide, e bassò la testa quando si rese conto che il cuore non pompasse più. Come lui, anche il suo Luxray giaceva senza vita, a pochi metri dal muro di cinta destro, totalmente dilaniato.
Deglutì, l’odore era ancor più forte, vicino a lui.

Fermali. Ferma tutto.

Cercava tra i suoi pensieri la forza per poter reagire, nonostante tutto attorno a lui trasudasse morte e distruzione. Avrebbe dovuto abbandonare la nave come il peggiore dei codardi, forse, andare a cercare la sua donna e scappare via.
Il primo impulso fu quello, fuggire via e provare a vivere la seconda parte della sua vita cercando di uccidere il rimorso e il peso che il suo nome si portava dietro. Ma quella scelta l’avrebbe lacerato lentamente, fino a quando non sarebbero rimaste soltanto pelle ed ossa, quindi spense con le dita quella scintilla e si rimise in piedi, proteggendo naso e occhi dal fumo e sfondando la barriera di fumo.
Oltre vi trovò soltanto carneficina e terrore: un paio di scagnozzi dalle maschere antigas erano stati messi fuori combattimento e giacevano supini, stesi sui detriti e sul proprio sangue ma davanti a loro c’erano tutti i Pokémon dei Capipalestra rimasti feriti e senza vita.
Alla fine di quell’orrida passerella vi era la stessa figura che aveva riconosciuto attraverso il fumo e le fiamme.
“Fermati!” le urlò, vedendo la figura bloccarsi. Pareva fissarlo. “Poli, vai!”.
Le fiamme attorno ai suoi piedi continuavano a divampare e intanto il Pokémon dell’Ex Campione di Kanto avanzava deciso.
“Mi senti?!” urlò Red all’ombra. “Chi diamine sei?! Mostrati!”.
Ascoltò poi qualcuno ridere debolmente, nonostante il crepitio delle fiamme e dei respiri sempre più pesanti di alcuni di quei Pokémon ancora vivi.
“Tu vuoi sapere chi diamine io sia?” sentì quindi Red. Era la voce di una donna, e, purtroppo, era davvero molto familiare.
“Jasmine…” sussurrò Red, quasi sconfitto. L’ennesimo doppleganger, pronto a distruggere e a uccidere.
“Esattamente”.
La donna camminava lenta verso l’Allenatore di Biancavilla, spostando la lunga treccia dalla spalla, muovendo rapidamente la testa. I suoi occhi, di quel color nocciola così intenso e vivo, risaltavano persino in quel caos. Indossava un gilet bianco, sporcato di cenere, sangue e terreno, e sotto portava un maglioncino di filo assai aderente. Sulla spalla manteneva un sacco, che pareva essere assai pesante.
“Sei lei…” continuò il Dexholder, con un filo di voce. Si chiese come potesse aver fatto una donna così piccola a creare un problema così grosso.
“Parli dell’altra, eh?”.
Gli occhi dell’uomo si poggiarono sulla sacca. Capì immediatamente.
“Lascia subito qui le tessere del mosaico e arrenditi!”.
“Queste servono a me. Non ti vedevo da tempo, Red” sorrise quella.
“Io non ti ho mai vista… La Jasmine che conosco è una brava persona”.
L’altra scese l’ultimo dei gradini dell’altare dove i mosaici erano posti in precedenza, divertita. Red fu in grado di guardarla meglio in viso, appurando che le efelidi che vedeva sul viso candido della donna fossero in realtà schizzi di sangue.
“Non esistono brave persone. Esistono soltanto buone e cattive azioni. Se tu oggi fossi costretto a farlo, probabilmente agiresti in maniera sbagliata per una giusta causa…”.
“Non sei stata costretta a uccidere Raffaello! L’hai fatto di tua spontanea volontà!”.
“E Corrado. Non dimenticare Corrado, ho ucciso anche lui, Red. Sei molto differente da come ti ricordavo”.
Avanzò ancora, trovandosi esattamente sotto la grande apertura nel soffitto. Era molto vicina al ragazzo, lo vide indossare una maschera che univa malessere e disprezzo, e rabbia.
“Hai… ammazzato degli uomini per le tessere d’un mosaico...” sussurrò lui, quasi parlando con se stesso.
“Noto che adesso possiedi dell’etica”.
“Ho sempre agito secondo ciò che reputavo giusto. Ho sempre saputo distinguere tra bene e male”.
“Da dove vengo io non è così” fece l’altra. Gli occhi dell’uomo si spalancarono, buoni e ingenui quali erano. Il suo silenzio diede spazio alle parole di Jasmine. “Da dove vengo io sei scappato alla prima occasione. Lì ognuno di voi è differente, Red... e non vedo l’ora di ritornarci”.
“Quello non sono io. Non scapperei mai”.
La donna sorrise, giocando con le punte ordinate dei capelli al di sotto della treccia. Alzò gli occhi verso il cielo quando una debole goccia di pioggia le bagnò una guancia.
Allargò il sorriso e chiuse gli occhi.
“Ero nel faro, quando il Team Rocket attaccò Olivinopoli. Fu un’azione magistrale, repentina. Militarizzati al massimo, le Reclute si sparsero tra le strade e le case della mia gente con velocità e precisione. Chiunque non aderì alla loro causa venne giustiziato. In pochi riuscimmo a nasconderci. Nelle fogne. Fu lì che creammo la Classe Sociale Degenerativa, quella sorta di resistenza di cui Johto aveva bisogno. Molti di noi erano formidabili Allenatori, altri solamente pieni di voglia di fare. Furono i primi a morire, durante le battaglie”.
“Ma… Il Team Rocket non è mai riuscito a conquistare Johto…”.
“Da me sì. Il mio universo è differente dal tuo, te l’ho detto. In ogni modo è straordinario il modo in cui fui coinvolta nella faccenda...”.
“Quale?”.
“La notte del quindici dicembre Giovanni stazionava all’Hotel Bellariva, sul lungomare a ovest della città. Pianificavano l’attacco a Fiorlisopoli, dovevano necessariamente dirigere le manovre d’attacco via mare e via aria ma Furio era già stato allertato e aveva predisposto un embargo civile e commerciale all’isola. Aveva utilizzato il tempo che aveva per impostare un sistema di trappole al centro del mare e in prossimità dei suoi porti, oltre ad aver organizzato linee difensive di mare e di terra. Ecco perché Giovanni non aveva ripiegato rapidamente verso sud ma era stato costretto a fermarsi per un paio di mesi a Olivinopoli… nella mia città…” ridacchiò quella, guardando in alto, mentre la pioggia le lavava il volto. “Beh, quella notte organizzammo il suo omicidio. C’intrufolammo nell’hotel e riuscimmo a penetrare nelle sue stanze. Lo uccisi col mio Ampharos, scaricandogli milioni di ampere nel corpo. Fu lì che partì una controffensiva micidiale per liberare l’intera Johto...”.
“Hai… hai ucciso Giovanni?” domandò Red, stupito, massaggiandosi il viso.
“Sì… ma, ecco, ero mossa dai motivi giusti...”.
“Hai ucciso un uomo!” urlò forte l’altro.
“Che aveva ucciso migliaia di persone! E che voleva continuare a farlo!” ribatté Jasmine. “Con l’aiuto di Furio risalimmo velocemente a nord e avemmo una grossa battaglia contro i Rocket ad Amarantopoli… Vincemmo, mi sentivo benissimo… Ero l’autrice di quella che era la più grande organizzazione paramilitare di tutta la nazione… Noi eravamo la resistenza. Poi però...”.
“Poi?”.
“Il potere è un bicchiere dal quale non puoi bere una sola volta. Cominciato come piano di liberazione, Johto è diventato il mio regno...”.
“E io... io sarei fuggito?” domandò confuso il ragazzo, vedendo la pelle di Poli diventare lucida sotto la pioggia che cominciava a battere con maggior vigore.
“Una volta saputo che Violapoli fosse sotto attacco Gold e gli altri Dexholder hanno attuato un piano per fermare la controconquista. Addirittura, hanno fatto fronte comune con i pochi Rocket fedeli rimasti...”.
“Figuriamoci...” sorrise Red, amaramente.
“Tutti mercenari. Tu eri tra i Dexholder che sconfiggemmo a Borgo Foglianova. Scappasti poco prima del verdetto finale, condannando il tuo amico Green alla sconfitta ed alla successiva morte”.
“Hai ucciso Green?!”.
“Tu hai ucciso Green. Saresti morto al suo posto, altrimenti…” ribatté. “In ogni caso nessuno si mette contro di me. E sai cosa stai facendo, adesso?” chiese, con quel sorriso dolce sulle labbra in contrasto più che netto con la ruggine presente nelle sue parole. Portò la mano alla cintura, afferrando una Pokéball.
“Mi sto mettendo contro di te...” strinse i denti Red, basso sulle gambe. “Attento, Poli!”.
“Vai, Steelix!” urlò quella. “Sappi che non sono abituata a perdere. E ciò significa che vinco sempre, anche quando non dovrei”.
Il grosso Pokémon si presentò davanti a Red con aria minacciosa.
“Stavolta non andrà così! Poli, usiamo Idropompa!”.
Jasmine sorrise, vedendo l’enorme Pokèmon costretto a fuoriuscire dall’apertura nel soffitto per via della sua altezza. La potente scarica d’acqua colpì direttamente i segmenti d’acciaio del suo corpo, che si curvò in direzione della spinta.
La donna annuì, poi applaudì. “Mi sa che con queste mosse potrai solo spegnere l’incendio che ho provocato. Steelix, facciamo un po’ di spazio”. Il Pokémon non sembrò curarsi dell’avversario e ascoltò gli ordini della sua Allenatrice, spingendo il corpo duro e lucido contro la parte restante del soffitto.
Soffitto che collassò, cadendo interamente al suolo.
Cadendo interamente addosso a Red.


Johto, Rovine D’Alfa, Cortile Esterno

“Abbiamo chiamato i soccorsi, Chiara! Saranno a momenti qui! Stai tranquilla!” urlava Jasmine, con le lacrime agli occhi, agitatissima. La donna era accovacciata accanto alla Capopalestra di Fiordoropoli, che manteneva con sempre maggior difficoltà il contatto visivo.
“Jas... aiutami...” sussurrava tra i denti. Il dolore era divenuto così forte da non permetterle di provare nessun’altra sensazione. La guardava con occhi esausti mentre sentiva deboli gocce di sangue che colavano dall’addome lungo i fianchi, finendo per inzaccherare l’erba bagnata.
Da qualche secondo la pioggia aveva cominciato a scendere, colpendo i loro corpi senza forze con freddi spilli di ghiaccio.
“Red ce la farà!” esclamò l’altra, continuando a piangere. “Ci aiuterà a chiudere questa faccenda!”.
Subito dopo, vide un enorme Steelix fuoriuscire dalla voragine nel tetto della sala da cui erano uscite qualche minuto prima.
“Stanno lottando” tuonò Valerio, qualche metro dietro di loro, camminando freneticamente senza pace.
“Spero che Corrado non sia rimasto ferito...” sussurrò quella di Olivinopoli.
“Già” rispose lui, sospirando e alzando il volto verso la pioggia. Avrebbe voluto chiudere tutto e andare via, ma non poteva. Sentì poi il Pokégear suonare, e lo portò all’orecchio.
“Qui Valerio. Angelo?”.
Chiara voltò, non senza sforzo, la testa verso l’uomo, con le mani immerse nell’erba. “Che... succede?” domandò con un filo di voce. Soltanto Jasmine poté sentirla.
“Non lo so” le fece quella.
“Furio...” sussurrò invece Valerio, abbassando il capo, sconfitto. “Esci rapidamente di lì: Chiara ha bisogno di noi”.



Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1
                                                              
“Oh, dannatissimo Steelix!” urlava Red, cercando di valutare rapidamente la situazione. Afferrò poi Poli per il braccio e lo tirò sotto di sé, prendendo infine la sfera di Lax, il suo Snorlax, e quella di Vee.
Poi lasciò che il loro istinto facesse il resto.
Si sentì avvolto.

Protetto.

Inizialmente riusciva a vedere solo polvere, alzata dopo l’enorme crollo; tutt’intorno, almeno dove Red aveva la possibilità di guardare, vi erano soltanto grossi pezzi di marmo.
Alcuni di quelli erano affilati come rasoi; ripensò a Chiara prima di fare mente locale e rendersi conto dell’effettiva situazione: Poli era inginocchiato davanti a lui, e spingeva Red indietro con il corpo. Lax, invece, era su di loro a proteggerli, avvolgendoli totalmente. Sarebbe finito sotto le macerie anche lui se Vee non avesse creato un campo di forza sulla sua testa, a proteggere la formazione.

I suoi Pokémon c’erano.

“Grazie amici...” sussurrò, alzando la testa e vedendo Steelix accanto alla piccola Jasmine.
“Che bella scena… fece. “Ma non basterà. Con me non è mai bastato nulla”.
Il campo di battaglia era interamente disseminato da quegli enormi blocchi di marmo.
Red decise di salire sopra uno di essi e Poli lo seguì subito.
“Usa Geloraggio!”.
Jasmine inclinò la testa e ribatté veloce. “Creati uno scudo col marmo, Steelix!”.
Red fece rientrare nella sfera Lax e Vee, dov’erano più sicuri, prima di vedere il grosso Pokémon avversario alzare un lastrone di marmo con un colpo di coda, che andò ad intercettare l’attacco potentissimo del suo Poliwrath.
Quando il marmo ricadde, congelato com’era, si frantumò in tanti piccoli pezzi.
“Riproviamoci!”.
“Non ho intenzione di giocare così” disse invece quella Jasmine. “Steelix! Fossa!”.
“Odio queste cose. Preparati!” esclamò l’uomo.
“Già, preparati a morire. Ora!”.
“Attenzione!”.
Fu terrificante: Steelix aveva scavato in profondità sottoterra per poi fuoriuscire qualche metro accanto a lui. Red si aspettava di essere attaccato alle spalle, oppure proprio sotto i piedi. Invece il serpentone d’acciaio sbucò a pochi passi da dov’era entrato, balzando in aria e ruotando rapidamente il corpo, in modo da far partire una pesante codata, che colpì Poli in pieno.
A momenti anche Red sarebbe stato coinvolto in quel tremendo scontro.
Poli!” urlò.
“Non c’è molto che Poli possa fare”.
“Zitta!”.
Il Pokémon Girino s’era schiantato su di un cumulo di marmo, impattando violentemente. La donna rise di gusto, annuendo, ormai fradicia sotto l’immensa pioggia che si era scatenata sulle loro teste.
“La questione è proprio questa, Red: siete piccoli. Siete troppo piccoli per me”.
Red si stava mordendo il labbro inferiore; anche lui era totalmente bagnato ma intanto guardava inerme Poli, sperando che si rimettesse in piedi.
“Un colpo…” continuò lei. “È bastato davvero soltanto un colpo per poterti mettere in difficoltà, grande campione?”.
“Non è così che faccio io”.
“Beh, neppure io” sorrise quella. Portò le mani al braccialetto che aveva al polso e premette un tasto. Steelix, già enorme e possente, finì per illuminarsi.
“Non posso crederci…” sussurrò a se stesso Red, con gli occhi spalancati e le labbra schiuse. Ebbe il tempo di far rientrare Poli nella propria sfera, prima di vedere Steelix trasformarsi, allargare il capo e allungare gli spunzoni che gli fuoriuscivano dal corpo.
“Io le cose le faccio così! Ammazziamolo, MegaSteelix!” rideva quella, senza il minimo buon senso. Red strinse i denti, cercando di ragionare quanto più velocemente possibile, prima che il Pokémon di Jasmine alzasse la pesante coda e la schiantasse contro di lui. Il ragazzo fece in tempo a saltare verso sinistra, rotolando verso ciò che rimaneva del muro di delimitazione dell’antica sala, ormai distrutto.
“Ora lo spazio c’è… vai, Gyarados!” urlò, ancora inginocchiato.
Il grosso leviatano entrò in campo furibondo, ruggendo e alimentando la tempesta che si abbatteva sulle loro teste. Red guardava l’avversaria, immobile, poi si rimise in piedi.
“Questo gioco possiamo farlo in due, Jasmine”.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7

“Ci attacca!” urlò Yellow, facendo un passo indietro. Diana guardava terrorizzata il grosso Dratini che aveva di fronte, mentre sparava dalla bocca raggi rossi e incandescenti, che finivano per bruciare l’erba del Bosco Smeraldo.
“Stai attenta!” urlò la donna, stringendo la neonata e indietreggiando, impaurita.
“Certo. Ma prima tu. Non devi farti colpire per alcuna ragione”.
La madre tentennò, vedendo negli occhi della bionda viva preoccupazione ma anche quella scintilla di determinazione che caratterizzava lo sguardo dell’uomo che aveva amato per anni.
“Dovete aiutarmi voi, Pokémon del bosco! Non ho le sfere con me!” urlò poi, vedendo frapporsi tra lei e quel Dratini decine di Caterpie, Weedle ed un Pidgey, assieme a dei Rattata e un Pikachu.
“Non fatevi del male...” sussurrò corrucciata, quasi a se stessa, mentre vedeva un paio di Caterpie fallire nel fronteggiare col proprio Millebave il Pokémon Drago di suo padre.
“Pidgey e Rattata, almeno voi state attenti. E Weedle, non avvelenatelo”.
Diana spalancò gli occhi.
“Ma ci sta attaccando, Yellow! Dobbiamo in qualche modo ricambiare, altrimenti ci farà a pezzi!”.
Sua figlia, quella grande, si voltò giusto un secondo per guardarla negli occhi e poi fece cenno di no con la testa.
“Io non ho mai fatto del male a nessuno, mamma. I Pokémon malvagi non esistono. Sono solo fedeli a persone cattive”.
Un forte soffio di vento le spostò una ciocca sul naso, poco prima che quel Dratini usasse la coda per spazzare il terreno davanti a sé: l’ultimo Caterpie e i Weedle, assieme ai Rattata, furono sbalzati in aria, al contrario del Pidgey che lo schivò agilmente alzandosi in volo.
Lo colpì, poi, con un forte attacco Beccata, facendolo indietreggiare di qualche passo.
“No!” esclamò Yellow. “Non fargli del male. Usa piuttosto Turbosabbia”.
Quello eseguì rapido e alzò con le piccole zampe una nube polverosa che andò a finire negli occhi dell’avversario.
“Dobbiamo andare!” esclamava Diana.
“No! Risolviamo questa situazione, prima”.
Il grande Dratini soffiò sul Pidgey un attacco Dragospiro, che lo colpì in pieno sul petto, segnandolo con una scottatura dolorosissima.
Yellow inorridì nel vedere le piume del Pokémon bruciate; malcelavano una profonda ferita sanguinante.
“No!” esclamò, quando una grande ombra precedette un grido.
Diana alzò gli occhi, stringendo la neonata tra le braccia, e si accorse del grande Pidgeot che s’abbatteva in picchiata.
“Stai giù!” urlò, tirando a sé Yellow. Entrambe s’inginocchiarono quando il Pokémon più forte del Bosco Smeraldo allargò le ali per rallentare, a pochi metri da loro.
Si piazzò davanti al Dratini, che lo attaccò rapidamente con Botta, schivato agilmente dall’altro. Yellow sospirò e annuì.
“Lo dico anche a te, Pidgeot! Non fare del male a questo Pokémon! Permettici solo di andare via di qui!”.
Il pennuto girò il viso per un secondo, prima di schivare un altro attacco e poi un altro ancora.
Colpì con un Attacco D’Ala piuttosto delicato l’avversario, atto più ad allontanarlo dalle due donne che a recargli danno, e infine decise d’alzarsi in volo per effettuare una nuova picchiata,
allargando però gli artigli prima di toccare terra.
Dratini rimase immobile basito quando le zampe del Pidgeot gli afferrarono la coda e si diedero poi lo slancio per rimettersi in volo. Yellow sorrise felice, prima che i due Pokémon sparissero oltre il tetto di foglie che copriva le loro teste.
“Ce l’abbiamo fatta!” sorrise Diana.
La bionda annuì e sospirò. “Dobbiamo avanzare velocemente…”.

*

Il cuore di Green batteva forte, mentre il cervello faticava ad accettare ciò che gli occhi vedevano. Blue era immobile, le dita di Xavier avevano afferrato i capelli della donna e li stavano tirando, sollevandole la testa. Raikou ruggiva, le scintille attorno a lui cominciavano a caricare l’aria.
“Non toccarla, Solomon!”.
Portò poi le mani alle sfere, mandando in campo Arcanine e Charizard. I due Pokémon ruggirono possenti, aprendo le bocche di fuoco ed emettendo fiamme incandescenti contro l’uomo.
Gli occhi di Solomon si contrirono, prima che schioccasse le dita e uno scudo fatto interamente d’energia elettrica gli si parasse davanti. Raikou ruggiva ancora.
“Pezzo di merda! Lasciala!” esclamò l’altro.
Le fiamme e l’elettricità svanirono, e il volto dell’uomo apparve lì, severo, solido.
Sospirò.
“Non ho alcuna intenzione di farle del male, Oak…” rispose, abbassando gli occhi sul palmare e sorridendo, dopo aver annuito. “Sto solo guardando i loro sogni…”.
“Ti ho detto di lasciarla perdere!” esplose l’altro, sentendo il sangue ribollire fino a quando non raggiunse la sommità del cranio. Si gettò di lui, cogliendolo impreparato e afferrandolo per il colletto della lunga giacca di pelle nera. Lo strattonò con forza, tirandolo via da lì, fino a quando i loro occhi non si scontrarono in un braccio di ferro colmo d’arroganza e aggressività.
Lo sbatté con le spalle contro il muro, più e più volte.
“Hai superato il confine! Lo hai superato, stronzo! Non dovevi toccare Blue!”.
Xavier contrì lo sguardo, lucido, abbassando poi gli occhi e vedendo, in quel preciso istante, il Dratini del Bosco Smeraldo venire sollevato e portato via dal grande Pidgeot.
Green caricò il colpo, quasi non si accorse del ghigno sinistro dell’uomo che stava per prendere a pugni e, quando scaricò, venne caricato dal Raikou del Pokémon, che utilizzò Attacco Rapido e spinse lontano l’uomo che stava aggredendo il suo Allenatore. Fu così veloce che quello poté soltanto accorgersi d’essere in pericolo, prima di ruzzolare poco lontano da Blue.
La guardò, col cuore che batteva. Pareva respirare ancora.
Respirava con la bocca aperta.
Xavier avanzò, altezzoso, lento, colpendolo subito dopo con un calcio nel petto.
“Tu…” fece, quasi ringhiando. Gli salì a cavalcioni e gli diede un pugno fortissimo sul viso. “Tu hai osato toccarmi! Come se potessi permettertelo!”.
Urlò forte e lo picchiò ancora, sentendolo gemere.
“Le tue sporche mani!”.
Ancora.
“Le tue… mani!”.
Ancora.
“Fermati!” esclamò Green, alzando le mani ma venendo colpito nuovamente.
“Le tue mani mi hanno toccato!”.

Quello fu l’ultimo.

Xavier pulì le nocche dal sangue e si alzò, sputandogli sul volto.
Lo guardò, caricò d’odio.
“Con quelle mani…”.
Raccolse il palmare e mise una mano su Raikou, saltandogli in groppa.
“Me la pagherai, Green Oak”.
Poi sparì nel vuoto, come se non fosse mai stato lì, e le ragazze si svegliarono, qualche secondo dopo.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7

Il cuore di Yellow batteva ancora, mentre il vento continuava a correre nei corridoi d’erba alta. Diana era scossa. Incontrarono gli sguardi e, in un secondo, la paura si dissolse, trasformandosi in sollievo.
La bionda le si avvicinò e annuì.
“Ora che Dratini è fuori dai giochi dovremmo proseguire verso est… Non credo sarà difficile”.
Diana annuì, sorridendo. Strinse la neonata, controllando per l’ennesima volta che stesse bene e poi si avvicinò all’altra.
“Un momento. Deve mangiare…”.
“Ora?”.
“Ho il suo pranzo qui” ribatté ridendo, poggiando la piccola tra le braccia della donna. Yellow l’accolse con delicatezza, spostandole leggermente la copertina dal volto e carezzandole la guancia morbida e vellutata. Quella emetteva dei gridolini acuti, che facevano sorridere Diana, mentre tirava fuori il seno destro.
“Grazie. Dai qua…” fece, riprendendola tra le braccia. Avanzò per prima, poi, camminando nel piccolo sentiero che si dirigeva ai piedi del massiccio montuoso e che si estendeva ancora per diverse centinaia di metri, fino a dove i loro occhi non potevano arrivare. Yellow chiudeva quella piccola carovana, guardandosi attorno attentamente e respirando quell’aria, così familiare ma contemporaneamente così differente da ciò che viveva ogni giorno.
Il fruscio delle foglie, l’erba che si adagiava da una parte e dall’altra in base al soffio del vento, i versi dei Pokémon, tutto la colpiva, la riempiva di libertà, unita a quella paura che provava quando aveva il mondo a disposizione e lei era a disposizione del mondo.
Paura di essere troppo piccoli. Paura di essere troppo grandi.
Diana calpestava il sottobosco e sorrideva, eccitata.
“Sai… sono felice di non aver condannato Yellow a vivere da sola. Sono contenta di poterle fare da madre e crescerla nel migliore dei modi”.
Altro soffio di vento, sistemò meglio sua figlia sul petto e sospirò.
“Spero che diventi come te. E che userà il suo potere nel migliore dei modi”.
Poi si voltò.
E Yellow non c’era più. Solo il percorso, alle sue spalle, che avevano calcato per tutto quel tempo.
Diana sorrise e annuì. Aveva capito cosa doveva fare.
“Grazie di tutto, figlia mia”.

*

“Blue! Blue! Cazzo, svegliati!”.
La voce di Green rimbombava tra le mura antiche della Sala 7. La mano destra stringeva la nuca della donna mentre la sinistra la colpiva leggermente con degli schiaffetti sulla guancia.
Aveva le lacrime agli occhi, lui, e il sangue gli colava dal naso e finiva per sporcare il parka della sua donna. Quando poco dopo i suoi occhi blu si riaprirono, il volto di Green fu la prima cosa che vide.
“Grazie al cielo!” urlò quello, con la voce provata, gettandosi su di lei e stringendola con vigore. Sandra s’era sollevata in piedi da poco, Yellow aveva invece appena aperto gli occhi.
“Siamo… siamo tornate?” domandò quest’ultima, con voce compressa.
“Ho fatto un sogno stranissimo…” diceva Blue, stropicciandosi gli occhi. Guardò per un attimo le compagne, con Sandra confusa e Yellow impanicata, con gli occhi spalancati.
Era passata rapidamente da stesa sul fianco a seduta, spingendo le spalle contro il muro. Si guardava attorno, cercando di capire dove si trovasse.
“Mamma! Diana! Dove sono?! Dov’è?!”.
Green la guardò, poi sospirò, lasciando la presa da Blue e rimanendo inginocchiato. Le prese una mano e la strinse.
“Calmati. Ti sei svegliata, era solo un sogno…”.
“No! Non era un sogno! Ho visto mia… mia madre e… e mio padre!” rispose, voltandosi rapidamente verso Sandra. “Io devo parlare con Lance!” esclamò rimettendosi in piedi e sbattendo barcollante contro il muro. Mosse quindi passi stentati verso l’uscita.
“Va’ con lei, per favore…” sospirò Green. Si risollevò e aiutò Blue a fare altrettanto, poi l’abbracciò. La donna era immobile, sentendo la testa girare e l’enorme confusione attanagliarle la mente. Anche tra le braccia di Green non riusciva a sentirsi a suo agio.
“Che ti è successo?” sussurrò l’uomo, sbuffando. Affondò lo sguardo nei capelli della donna e cercò di trattenere le lacrime.
“I-io… ho rivissuto il mio rapimento…”.
Green si bloccò, facendo un passo indietro per guardarla negli occhi. “Sei seria?”.
“Maschera di Ghiaccio, il maniero… Karen. Ho-oh… Ho parlato con me stessa, da bambina…”.
“Stai bene?” domandò l’altro, inclinando leggermente la testa, quasi per scrutarle meglio il volto.
“Sì, sto bene, non preoccuparti…” ridacchiò quella. “Ho incontrato anche te e Red…”.
“Xavier Solomon vi ha attaccati” ribatté l’altro, estemporaneo. Vide il volto di Blue mutare. Quella sbatté le palpebre per qualche secondo e poi schiuse le labbra.
“Era quello malvagio, allora?”.
“Lo scopriremo subito…” disse poi.


Johto, Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon

I numeri ormai vagavano nella sua mente senza più alcuno schema. Ogni funzione veniva ordinatamente disposta in una griglia d’appartenenza, ogni cosa funzionava per un motivo e lui lo sapeva. Sembrava quasi che stesse mettendo in ordine la sua camera o stesse pulendo il desktop, e
invece Xavier stava elaborando dei dati, proprio come avrebbe fatto un computer.
Guardava il vuoto e nel mentre annuiva. Il grande schermo che aveva davanti mostrava uno schema unifilare davvero complesso, che aveva messo in piedi totalmente da solo.
La luce nel suo laboratorio era spenta e soltanto il monitor gli illuminava il volto stanco.
E continuava ad annuire, vedendo come l’elettricità sarebbe arrivata dai generatori ai cavi.
Inventava, Xavier. Doveva soltanto capire come innescare e catalizzare. L’ottanta percento del lavoro, in pratica.
Sbuffò, quindi abbassò lo sguardò e si stropicciò gli occhi. A un certo punto le palpebre cominciavano a vibrargli per via della stanchezza. Decise di alzarsi, aveva bisogno di un caffè, quindi salvò tutto sui tre drive collegati e spense i monitor, dirigendosi verso la scalinata.
Lì prese a pensare al nome.
S’era ripromesso, ove mai fosse riuscito a inventare la macchina del tempo, di non essere banale. Non l’avrebbe chiamata soltanto macchina del tempo. No, si sarebbe appellato a lei con nomi come Mary Jane, o forse Mikhaela.
“Mary Jane…” sussurrò, aprendo la porta che dava sul salone. Spider-Man gli era piaciuto più dei Transformers. Ma poi pensò che non avrebbe potuto presentare un’invenzione di una portata simile chiamandola in quel modo: i cervelloni non avrebbero gradito.
Macchina Trans-Universale, forse.
Ma nel privato sarebbe stata Mary Jane. Sarebbe stato il loro piccolo segreto.
Si avvicinò alla cucina, col sapore d’inchiostro in bocca per via della vecchia Staedler che aveva mordicchiato per più di venti minuti. L’aveva ridotta a un colabrodo, ma stava contribuendo a rendere Mary Jane un gioiello della meccatronica quantistica, quindi avrebbe dovuto sacrificarsi.
Versò il caffè in una tazza e si poggiò al bancone, sospirando.
“Un catalizzatore… serve solo un catalizzatore”.
Necessitava dell’elemento che gli avrebbe permesso di mettere in moto il processo di viaggio nel tempo. Aveva pensato a una coppia combustibile-comburente in grado di sprigionare una quantità d’energia pressoché infinita ma anche in quel caso avrebbe dovuto capire come manipolarla. E poi rapidamente, velocità della luce e viaggio indietro nel tempo.
Fortunatamente non era debole di stomaco.
Poi sentì dei timidi passi scendere dal piano superiore. Lui sorrise leggermente e preparò un altro caffè, che sua madre, quando entrò in cucina, trovò sulla tavola. Guardò la tazza bianca, fumante, e sorrise.
“Xavier… Sei già sveglio?” domandò quella, avvicinandosi a lui e sistemandogli il colletto della camicia, che fuoriusciva dal maglioncino di filo color panna.
“Si fredda il caffè”.
“Oh, non preoccuparti…” sorrise lei, allungando le belle labbra macchiate dal tempo. “Appena fatto è troppo caldo”.
“Hai ragione. Oggi che hai da fare?”.
La donna si strinse nella sua vestaglia e fece spallucce, sorridendo quasi imbarazzata, coi capelli spettinati, tinti d’un biondo che ricordava quello d’un tempo. Gli occhi invece no, erano dello stesso colore di trent’anni prima, forse solo più spenti.
“Mah… quello che fa una povera vedova in là con gli anni…”.
“Blackjack e toyboy, eh? Devo tagliarti la paghetta”.
Quella sorrise ancora, facendo cenno di no con la testa.
“Sei sempre il solito. E col tuo lavoro? Sei riuscito a vedere qualcosa nei tuoi numeri?”.
Xavier fece spallucce e sbuffò, poi prese un sorso di caffè.
“Sì, ho visto Buddha con i cembali tra le mani… Bevi, che si fredda”.
Puntò con lo sguardo la tazza e vide sua madre annuire. Quella si voltò e prese la tazza, avvicinandola alla bocca.
“Non riuscirò mai a capire come tu faccia a comprendere quelle cose…” sorrise nuovamente. Spostò poi la sedia e si accomodò al tavolo.
“Ah, non ci capisco nulla neppure io, stai tranquilla. Faccio solo finta”.
“Beh…” fece, guardandosi attorno. “Facendo finta ti sei messo a posto in maniera assai discreta. Complimenti”.
Lui sorrise e stropicciò nuovamente gli occhi. “Tutta fortuna”.
“No. Duro lavoro… E immagino che tu non sia proprio andato a dormire, stanotte...” sospirò.
“Immagini bene… c’era da fare…”.
“Avresti potuto farlo dopo, Xav... Quante ore al giorno dormi?” domandò preoccupata quella, con lo sguardo apprensivo. E Xavier, che quegli occhi li aveva già visti, sospirò.
“Poco. Otto su trentasei, credo”.
La donna sospirò quando il telefono del ragazzo cominciò a vibrare. Lo estrasse dalle tasche e aggrottò la fronte.
“Chi è che ti chiama a quest’ora?” domandò lei.
“Green Oak…” sospirò l’altro, poggiando la tazza mezza piena sul bancone e voltandosi verso la porta.
“A quest’ora?” si stupì lei.
L’altro annuì, sospirò e rispose.
“Dovreste dormire, a quest’ora. O almeno potreste lasciare farlo a me”.
Solomon! Dove ti trovi?!”.
“A casa mia. Posso mostrarti le riprese live”.
Delle tue telecamere di videosorveglianza me ne faccio ben poco!”.
Il biondo quindi sospirò e guardò sua madre. Lasciò che il suo cuore si calmasse prima di passarle il telefono. Quella lo avvicinò cautamente all’orecchio.
“P-pronto? Chi è che chiama mio figlio a quest’ora della notte? Lei è davvero Green Oak?”.
“Con chi sto parlando?”.
“Io sono Neira Solomon. Sono la madre di Xavier”.
“Molto piacere. Dove vi trovate?”.
“A casa di mio figlio, ad Amarantopoli”.
Mi basta” concluse l’interlocutore. “Mi ripassi suo figlio, per cortesia”.
Quella annuì, come se Green avesse mai potuto vederla, e restituì il cellulare a Xavier.
“Allora?”.
“Allora nulla, la tua copia è spuntata nuovamente, e ha portato con sé la copia di Jasmine”.
Xavier spalancò gli occhi, incredulo. “D-di Olivinopoli?! Jasmine di Olivinopoli?!”.
“Non ne conosco altre”.
Portò le mani alla fronte e uscì dalla cucina. Cercava di ragionare, di collegare i punti. “Credo che tutto questo si possa ricollegare a qualche evento in particolare…”.
“Sono morti dei Capipalestra, stasera, Solomon. Cerca di essere più preciso”.
“C-Capipalestra? Sono morti dei Capipalestra?!”.
La voce di Xavier traballò per qualche istante.
“E più conciso, per favore”.
“Non... non…”.
Lascia perdere. Non muoverti di lì per nessuna ragione al mondo”.
E Green attaccò, lasciando Xavier stupefatto e terrorizzato. Lasciò cadere la mano col telefono lungo i fianchi e, dopo aver deglutito un groppone di sabbia, chiuse la bocca ed espirò.
“Cindy…” sussurrò incredulo. Si alzò e corse verso la porta, lasciando sua madre poggiata allo stipite della porta, che lo fissava confusa.


Johto, Rovine D’Alfa, Cortile Esterno

L’erba era bagnata. Le passava attraverso le dita, mentre la pioggia le cadeva sul volto e puliva quell’aria pregna di polvere, di sangue e disperazione. Blue cercava di respirare a pieni polmoni, rimanendo abbracciata a quel sogno così vivido e terribile, così bello e crudo.
Cercava di non dimenticare il volto di sua madre prima del rapimento, né il calore che le dava suo padre in  ogni abbraccio.
E i volti di Green e Red, da bambini.
Chiuse gli occhi, provava a estraniarsi da quel posto, da quella situazione così atipica in cui il cadavere di Raffaello giaceva a pochi metri da lei, accanto al corpo ferito di Chiara. Provava a riempire le orecchie dei suoi respiri e del rumore della pioggia che batteva sui tetti di pietra, isolando e annullando il pianto di Jasmine, le urla di Valerio prono sui feriti, e le parole agitate di Green, al telefono con qualcuno.
Tutto parve rallentare, all’improvviso, in maniera paradossale. Sentiva ancora nelle narici l’odore della stanzetta nel maniero. Percepiva ancora sulla pelle il freddo di quell’inverno.
Non si accorse che le lacrime si stessero mischiando alla pioggia, in quel momento.
Il freddo aggrediva il suo corpo ma ormai non percepiva più nulla, in quella totale atarassia emotiva e percettiva. Rimaneva immobile a fissare il vuoto, mentre il mondo attorno a lei crollava.
L’ennesima esplosione la raccolse e la costrinse a voltarsi verso la Sala 1: un grande Gyarados fronteggiava un MegaSteelix. Guardò poi Jasmine, che come lei stava analizzando la scena.
Aveva abbassato lo sguardo.
Come se avesse avuto realmente una qualsiasi responsabilità, in quella faccenda.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1

Red cercò di calmare i battiti del cuore, stringendo denti e pugni ed espirando il veleno che aveva in corpo. Non doveva lasciarsi prendere dal panico, anche se l’unica cosa a cui riusciva a pensare fosse il fatto che il corpo di Corrado giacesse ormai sotto chissà quale lastrone di marmo.
Il sangue gli ribolliva nelle vene. Non avrebbe fatto la sua stessa fine, ne era convinto. Guardava il suo Gyarados, sentendone il respiro, che assomigliava più a un rantolio sinistro. Esprimeva una ferocia senza pari, capace di instillare paura anche nei più coraggiosi.
Ma non in quella donna. Lo fronteggiava, sorrideva affascinata, abituata a quelle scene e alla rabbia.
“Quel Pokémon è semplice burro tra le mie mani” disse, mentre la pioggia la battezzava. MegaSteelix pareva avere fretta di gettarsi contro l’avversario. “Non è uno scontro pari. E io so che puoi renderlo un po’ più interessante...” punse.
Gyara, forza! Iper Raggio!” urlò Red, tirando indietro i capelli bagnati. Conosceva la difficoltà della partita che stava giocando. Il suo assetto era basso, piegato sulle ginocchia, dato che sapeva d’essere un bersaglio di quello Steelix tanto quanto Gyarados.
Mentre la notte stava per finire, mentre continuava a piovere, dalle fauci del Pokémon Atroce fuoriusciva un forte raggio d’energia e la mente di Red si protese verso Yellow, al suo sorriso e al profumo dei suoi capelli.
Era amore, quello che provava. Tutto rallentò, non poteva morire. Il suo cuore parve fermarsi per un attimo, quando vide la mano di Corrado uscire tra i detriti grandi e piccoli del tetto crollato.
Pensò a Jasmine. Aspettava fuori che il suo uomo uscisse, senza sapere che non lo avrebbe fatto mai più. E Yellow probabilmente era lì, accanto a lei.
Deglutì amaro. Non sarebbe successo lo stesso.
“Forza!” esclamò rabbioso, mentre Gyarados colpiva un MegaSteelix totalmente immobile. Incamerò il colpo indietreggiando poco più di un metro, impassibile. Red spalancò gli occhi mentre l’Allenatrice avversaria rideva divertita.
“Non funzionerà!”.
Alzò poi il dito della mano sinistra verso il Pokémon che stava fronteggiando, mentre la pioggia rimbalzava sull’indice e cadeva più giù, nelle vaste pozze di sangue scuro. Red aspettava fremente la contromossa, con curiosità e paura che gli si rimestavano nel fegato.
“MegaSteelix” fece quella. “Schianto”.
Rapido, il grande Pokémon si gettò con forza contro Gyarados, colpendolo in pieno. L’altro, alto come una villetta a due piani, rovinò duramente lungo le mura di recinzione a nord di ciò che ormai rimaneva della sala più grande. Red spalancò occhi e bocca, impaurito. Il cuore riprese a battere più forte, mentre i brividi di freddo cominciavano a farsi spazio nei muscoli scaldati dall’adrenalina.
“Forza!” urlò, vedendolo mettersi di nuovo in piedi. “Grande, campione…” sussurrò. “Mettiamolo in difficoltà con un attacco Idropompa!”.
Jasmine si tenne pronta, vedendo una tonnellata d’acqua venire sparata dalle fauci del leviatano, compattata in una sola, unica e lunga colonna, che terminò dritta sulla testa del suo Steelix. Questi finì schiacciato sul pavimento, dopo aver emesso un ruggito gutturale e metallico.
L’acqua raccolse le pietre, i detriti, la polvere e il sangue, e turbinò lungo i marmi crollati, portando a galla i corpi senza vita di Corrado e dei Pokémon dei Capipalestra, distruggendo persino la parete alle spalle dell’altare, già indebolita dalle lotte precedenti.
Mentre Red ebbe l’accortezza di saltare sul proprio Pokémon, Jasmine era rimasta immobile, nonostante sapesse che la grande onda l’avrebbe travolta con forza, sbattendola al muro. Quando si rimise in piedi anche il grande MegaSteelix lo fece, come sorgendo dal mare.
Gyara, bravissimo! Ora che è distratto dobbiamo utilizzare Dragospiro!”.
Il leviatano fu rapido, e finì per soffiare sull’avversario una fortissima fiammata blu, costringendolo a indietreggiare ulteriormente.
Jasmine sorrise, poi prese ad applaudire, e catturò lo sguardo dell’Allenatore. La vedeva ferma, bagnata, con la treccia fradicia che le cadeva sulla spalla.
“Il Red di quest’universo è davvero incredibile…” fece, cercando di asciugarsi le mani sulla blusa, ancora più bagnata. “Nessuno era mai riuscito a resistere ai miei colpi per tutto questo tempo… E il tuo Gyarados, poi! Nonostante sia così grande è rapidissimo!”.
“Questo perché il mio Pokémon è un campione”.
“Anche il mio Steelix lo è. E sappiamo anche cambiare strategia. Usa Sganciapesi!”.
Non appena le parole di Jasmine furono recepite, il corpo del Pokémon Ferroserpe perse parecchi pesanti blocchi che gli gravitavano attorno, come alcune parti finali della coda, eliminando dal bilancio complessivo quasi sei quintali.
“Attento, Gyara! Adesso sarà molto più veloce!” urlò il suo Allenatore, saltando giù dal grosso Pokémon d’acqua, e finendo su di un lastrone di marmo.
“Forza! Usa Frana!” ordinò Jasmine, perentoria.
“Un altro Dragospiro!”.
“Schivalo e attacca!”.
Dribblò a sinistra, Steelix, più leggero, e vide Gyarados sparare a vuoto. Veloce come una biscia, si avventò contro il corpo lungo e affusolato dell’avversario.
“Ora!”.
La coda del MegaSteelix si schiantò contro i detriti, che rovinarono addosso al Pokémon di Red. Il colpo fu terribile e potente: Gyarados ricadde sulla sinistra, sfondando anche il muro perimetrale di sinistra.
“No!” urlò Red, impanicato, sentendo la sua voce espandersi tutt’intorno. Vide il suo Pokémon steso inerme, tra la pioggia e la polvere, e il panico s’unì alla rabbia in una danza terribile. Vide Jasmine sorridere, mentre batteva ancora le mani.
“Beh, bastava mettere la seconda, per batterti. Mi hai deluso. Non hai un altro Pokémon da mandare in campo?”.
“Non vincerai!” le urlò lui, di contro. “Le persone come te non possono vincere! Hai ucciso delle persone! Cancellato da queste terre millenni di storia! Quelli come te non dovrebbero mai essere nati!”.
“Oh… Anche i falsi eroi sono piaghe da eliminare…”.
“Io non sono un falso eroe!”.
“Tu non sei neppure un eroe…” rise l’altra.
Red rimase immobile, colpito da quelle parole.
“Io… io ho semplicemente a cuore le sorti della brava gente”.
Jasmine continuò a ridere, e a Red la cosa diede immensamente fastidio. Si abbassò nuovamente sulle gambe, riprese forza e infilò la mano tra il collo e il maglione, tirando fuori un ciondolo iridescente. Sospirò, abbassò lo sguardo e annuì, poi, dopo un ultimo lungo respiro, tornò a guardare gli occhi ambrati dell’avversaria.
“Tu non vincerai mai, Jasmine”.


Johto, Rovine D’Alfa, Cortile Esterno

Green aveva fatto in modo che le operazioni d’intervento fossero effettuate nel modo più rapido possibile, con il recupero della salma di Furio, aiutato da un Angelo ferito ma ancora capace di camminare sulle proprie gambe. A nulla era servito il sacrificio del Capopalestra di Fiorlisopoli: le tessere del mosaico erano state rubate. Oak camminava come fosse posseduto, assicurandosi che tutti fossero in salute, e che chi non lo fosse ricevesse un adeguato trattamento di pronto soccorso. Tuttavia, i medici ancora dovevano arrivare.
Jasmine infatti piangeva. Cercava di mantenere un contatto con le pupille di Chiara, che però stentavano a rimanere scoperte.
“Le palpebre... si chiudono... Jasmine... le palpebre si... chiudono...” ripeteva la donna dai capelli rosati, stringendo tra le mani la grossa ferita sotto la pancia. Il sangue le aveva inzaccherato dita, capelli e vestiti.
L’altra sentiva il cuore esplodere, mentre la paura la divorava da dentro. Stava effettivamente assistendo alla morte della collega, dell’amica. Guardò con ansia le porte del varco che davano sul Percorso 32. Le labbra presero a tremare.
“G-Green. Green! Diavolo, Green!” urlò, disperata. Gli occhi, del colore del miele, avevano pianto tutte le lacrime che la bella aveva in corpo. Fissava Oak con le labbra tremanti. “Green! Dove sono i soccorsi?! Chiara non ce la fa più!”.
“Hanno appena lasciato Violapoli, Jasmine” rispose rapido l’altro, sfatto. Batté le palpebre un paio di volte, mentre la pioggia si affievolì.
“Fa’ qualcosa!” urlò l’altra. “Sta morendo! Aiuto!”.
L’uomo abbassò lo sguardo e cercò di non pensare, per un momento, a quella situazione. Voleva casa sua, il divano, le pantofole, la sera calma e fredda e i noodles per cena. Ma poi incrociò lo sguardo con Valerio, che intanto fasciava il busto di Angelo, malconcio ma ancora vivo. Più in fondo vi erano le salme di Raffaello e Furio.
“Quell’uomo ci ha rubato la speranza…” sussurrò tra i denti, senza che nessuno lo sentisse. Poi Blue si alzò in piedi, dopo un rumore forte e breve. Polvere e detriti si sollevarono dalla Sala 1.
Gyara è caduto!”.
Green strinse i denti. Guardò ancora il volto di Jasmine, poi quello di Chiara, ormai al limite della sopportazione di quel dolore infinito, e pensò a Red.

Non morire…

La sua donna invece pareva molto più reattiva. Guardava il grosso MegaSteelix con la bocca schiusa e gli occhi carichi di terrore. Si voltò impanicata verso Green e con lo sguardo gli pose una domanda.
“Yellow” ribatté lui, che aveva compreso. Catturò l’attenzione della biondina, che intanto stava cercando coi suoi poteri di lenire il dolore dei Pokémon feriti. Quella si voltò verso di lui col capo e gli fece cenno con la testa, come a chiedergli cosa volesse.
“Percepisci ancora Gyara?” domandò il Capo dell’Osservatorio.
Il viso della ragazza s’illuminò di paura, per un lieve istante. Spalancò la bocca, come anche gli occhi paglierini, e si voltò in direzione della Sala 1. Blue la guardava, studiandone ogni movimento.
“I-io… non… non lo so…” sussurrò quella, preoccupata, abbassando le mani che intanto stavano curando il Pidgeot di Valerio e lasciandole cadere lungo i fianchi.
Il cuore batteva, la testa vagava. Nella sua mente turbinavano un miliardo di pensieri, tutti negativi: vedeva Red disteso in una pozza di sangue, vedeva Gyarados dilaniato dalla lotta, e poi sentiva la puzza della morte nelle narici. Pensava al fatto che il suo uomo, l’uomo buono che aveva perdonato e che si stava impegnando per farla sentire speciale, stesse rischiando la propria vita, e che fosse solo.
“Red…” sussurrò ancora, afferrando le sfere e camminando verso quel mattatoio.
“Green! Dobbiamo andare!” urlava Blue, seguendola, iperattiva.
“Dove cazzo credete di andare?!” ribatté l’altro. Scattò verso di loro e le afferrò per i polsi, a pochi metri dalla porta tagliafuoco.
“Red potrebbe morire!” ribatté la castana dagli occhi blu. “Dobbiamo correre in suo aiuto!”.
Yellow cominciò a piangere. Strattonò il braccio e si liberò dalla presa dell’uomo.
“Io non voglio che muoia!” gridò.
“Non morirà” sospirò Green. “Ma non voglio che siate voi a entrare lì. Rimanete qui e aspettate i soccorsi, date una mano… Entrerò io”.
“Non se ne parla!” ribatté Blue, liberandosi a sua volta. La lucidità mentale di Green era poca, non riuscì a farsi valere e rapidamente accettò di farsi accompagnare dalle due donne in quella missione suicida. Proprio in quel momento, però, un ruggito magniloquente bloccò tutti e tre.
Alzarono gli occhi, e tanto gli bastò per vedere un MegaGyarados fronteggiare il MegaSteelix, autore di quella distruzione. Alle loro spalle, gli elicotteri si avvicinavano.


Johto, Rovine D’Alfa, Sala 1

“Ora giochiamo alla pari!” aveva urlato Red. Vedeva l’ira del suo Pokémon trasudare dalle grosse squame. I suoi polmoni non riuscivano a trattenere il respiro per più di un secondo, col freddo che li bruciava dall’interno. Davanti ai suoi occhi, il Pokémon Atroce esprimeva aggressività dal profondo dei suoi occhi rossi. Sulla fronte fuoriuscivano tre grossi corni neri, assieme alle squame, rosse e artigliate, che gli spuntavano su tutto il corpo. I baffi s’erano allungati, aiutandolo a percepire le vibrazioni circostanti.
“Carino” sorrise Jasmine, sistemandosi il bordo della manica. “Ma a poco servirà, se rompiamo la membrana che ha sulla schiena! Vai MegaSteelix! Usa Pietrataglio!”.
“Creiamoci una bella barriera, Gyara! Con la coda alziamo un muro d’acqua e poi congeliamolo!”.
E funzionò. I massi taglienti si schiantarono su di una parete di ghiaccio rosso come il sangue.
“Abbiamo un po’ di tempo, Gyara! Usa Dragodanza!”.
“Abbatti quella lastra di ghiaccio!” ribatteva l’altra. Non poté vedere l’avversario fluttuare in aria e volteggiare elegantemente, temprandosi nello spirito e risvegliando qualcosa d’insito nel suo animo. Quando MegaSteelix riuscì a perforare il muro gelato l’ordine di Red fu perentorio.
Ira!”.
E Jasmine si fermò a ragionare. Era una mossa che non avrebbe dovuto avere tanto effetto sul suo Steelix, Pokémon d’acciaio vivo.
Non aveva molto senso.
“Stai cercando di fare la stessa fine dei tuoi amici?” domandò divertita, vedendo Gyara attraversare la breccia creata dal suo Steelix nel ghiaccio e gettarsi con l’intero corpo sul suo Pokémon. MegaGyarados ruggì dolorante, e dopo qualche secondo urlò di nuovo, con maggiore intensità. Si gettò a capofitto su MegaSteelix, che fu sopraffatto dal suo peso, cadendo alle sue spalle, rompendo ciò che rimaneva del muro sulla destra.
Il sangue sul volto del Pokémon di Red ormai scorreva forte e un altro ruggito riempì l’aria.
“Si sta suicidando?! Sta dando delle testate su qualcosa di indistruttibile!” urlò la donna.
“Non proprio” sorrise l’altro.
Infatti, fu il terzo colpo, quello veramente forte.
Steelix stava provando a sollevarsi di nuovo quando MegaGyarados scaricò un ultimo attacco, più potente, dritto sul volto dell’avversario. Il tonfo fu assordante, il ruggito del Pokémon di Red lo seguì subito, mentre si rialzava col cranio fratturato e il sangue che gli copriva gli occhi.
Gli occhi di Jasmine erano terrorizzati: aveva perso. Il suo Pokémon giaceva accanto a lei, ammaccato e totalmente smembrato. La pioggia s’infittì, rendendole quasi impossibile vedere l’uomo dagli occhi rossi. L’acqua le puliva il viso dalla fuliggine e dalla polvere, assordava le sue orecchie, l’appesantiva e la manteneva lucida.
“Ma… come diamine…”.
“Ora faremo così” fece Red, facendo rientrare il proprio Pokémon nella sfera. “Lui rientra, per la tua incolumità. Tu invece t’inginocchi e stai buona, mentre la polizia entra e ti arresta”.
Quella parole la colpirono come proiettili di una sassaiola, ferendola nell’orgoglio. S’era appena resa conto che lei, il Generale di Ferro che aveva piegato Johto al suo volere, la donna che aveva giustiziato le persone più pericolose del mondo, le più influenti, le più intelligenti, avrebbe passato il resto della propria vita in una gabbia.
“Mai!” esclamò, cominciando a correre. Scattò verso destra, saltando su di un lastrone di marmo e poi sul successivo, con l’uomo che solo un secondo più tardi capì le sue reali intenzioni.
“Non provarci nemmeno!” esclamò, inseguendola. Era diretta verso la porta tagliafuoco che conduceva sul cortile esterno. Nessuno dei due si sarebbe mai aspettato che Green, assieme a Blue e Yellow, apparisse all’improvviso, chiudendole la strada.
“Prendila!” urlò quello dagli occhi rossi, vedendo Blue scattare repentina e colpire la donna al volto con una gomitata. Quella, sbilanciata per la corsa, ricadde nell’acqua sporca di sangue. Si sollevò lentamente, sputando il sangue che le colava dal naso.
“Mangia questo, adesso!”.
“Puttana…” fece l’altra, a carponi.
Yellow la vide Green tirarle un forte calcio nel fianco, che la fece ruzzolare a pochi passi da lei. Si abbassò, poi, sollevandola di peso e ammanettandola con un paio di fascette di plastica dura.
Red li raggiunse poco dopo, col aveva il volto sporco di sangue; ansimava e i suoi occhi erano stanchi. Doveva essere appena finita la scarica d’adrenalina dato che cominciava a sentire il sonno che gli mancava.
“Non lasciartela scappare” disse a Green.
“Corrado?”.
“Corrado è morto”.
L’altro sospirò. Blue guardava la donna che avevano arrestato ed espirò veleno.
“È identica a Jasmine...”.
E non le diede neppure il tempo di finire quella frase, che Green la sbatté contro ciò che rimaneva di una delle quattro pareti, afferrandola per il collo. Mostrava i denti, quello, quasi ringhiava.
“Tu adesso parlerai. Dirai tutto. Per chi lavori?”.
Jasmine guardò negli occhi Green, carezzò la stanchezza che provava e capì che aveva ancora un modo per scampare a quella scena patetica. Guardò, a qualche metro da lei, un tondino di ferro arrugginito che fuoriusciva dal muro.
E allora capì.
Si morse le labbra e sorrise.

“La mia dignità conta più della mia vita”.

Fu un attimo. Scattò verso sinistra, si liberò dalla presa di Green e fece l’impensabile: gli occhi di Yellow si riempirono di terrore quando, subito dopo, la vide gettarsi col volto verso quello spuntone arrugginito. Attraversò l’orbita e le bucò il cervello.
Jasmine morì quasi subito, appesa per la testa a poco più di un metro da terra, con le mani legate dietro la schiena.
Il suo sangue s’aggiunse denso a quello dei caduti di quel giorno.
Red guardò immediatamente Yellow. Urlò come un’ossessa, prima che lui la prendesse tra le sue braccia e la tirasse fuori di lì. Green e Blue rimasero immobili a fissarsi negli occhi, prima che lei lo prendesse per mano e lo tirasse fuori da lì.

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Ciao ragazzi! Finalmente è arrivato il momento di leggere come va a finire l'avventura, ambientata nel recente passato di Zack, in cui sfida la Lega Pokémon di Adamanta. Come semrpe troverete tutte le informazioni sui nostri blog ed altro sulla pagina Facebook Pokémon Adventures ITA , dove DOVETE passare! Troverete di tutto! Martedì prossimo uscirà il nuovo capitolo del manga di Pokémon Back To the Origins! Non mancate! Andy $ Ok. L’ultima porta era stata chiusa. Ora l’unica cosa da fare era calmarsi un attimo e rilassarsi. Quella giornata aveva regalato fin troppe emozioni. Una piccola anticamera buia, poco illuminata, precedeva un lungo corridoio, che si concludeva con un’enorme porta dorata. Zack decise di tirar fuori tutti i suoi Pokémon. Gyarados, Torterra, Lucario, Braviary ed Absol. E Growlithe, naturalmente. Tutti lì, tutti fermi, tutti in   ansia, tutti in attesa che qualcosa fosse accaduto. Aspettavano che le parole uscissero dalla bocca di

Frammenti - Shot 1 - Levyan

Frammenti - Orizzonte Frammenti. Deboli soffi di vita nella violenta tempesta che è l’esistenza. A volte destinati a sparire, a volte pronti a moltiplicare. Come un soffio di vento trasporta il polline che andrà a fecondare un'altra pianta dalla quale nascerà la vita, alcuni momenti, per quanto brevi, danno il via a qualcos’altro, qualcosa di più grande.   L’aria era fredda, il gelido inverno era alle porte e i sempreverdi costellavano i boschi innevati che circondavano la cittadina di Nevepoli. Quell’anno, le grandi nevicate erano arrivate prima e già, il ventesimo giorno di dicembre, i fiocchi di neve scendevano copiosi sui tetti della città. Lo spettacolo che davano quelle minuscole e complesse opere d’arte di cristalli di ghiaccio, passando di notte sotto la luce dei lampioni per poi andare a posarsi a terra sciogliendosi, era qualcosa di meravigliosamente inquietante. Un gelido calore pervadeva le strade, ridotte ormai a soffici torrenti di neve. Nell’attimo

Quindicesimo Capitolo - 15

Salve ragassuoli, mi dispiaccio ogni volta per il ritardo nella pubblicazione, e mi rendo conto che sta diventando un disagio. Ecco perchè, dalla settimana prossima, per problemi di lavoro, la fan fiction sarà pubblicata il MARTEDì. Chiedo ancora scusa, e spero di non aver recato disagio. Ringrazio tutti quelli che hanno messo mi piace alla pagina   Pokémon Adventures ITA . Vedere il seguito crescere ogni giorno di più è una grande soddisfazione. Sei su EFP? Vieni a recensirci anche lì!  Andy Black, autore su EFP Ricordo sempre che il nostro progetto, Pokémon Courage ha bisogno di sostegno da parte vostra...niente soldi, tranquilli, basta solamente un po' di partecipazione. Siamo davvero così pochi a leggere questa bellissima storia? Entrate anche voi a far parte della famiglia di Pokémon Courage . Ho finito con le raccomandazioni. Cominciamo. Stay Ready...Go! Andy $   “Rachel...sei davvero tu?” chiese sgomento Ryan, quasi commosso. Zorua fece un